L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 23 marzo 2019

Salvini vada a scuola da Annegret Kremp-Karrenbauer su quanto riguarda Libero Mercato, sulla libera concorrenza. Il fanfulla italiano e francese sono serviti

Le sberle di Annegret Kremp-Karrenbauer a Macron

23 marzo 2019


L’approfondimento Tino Oldani, firma di Italia Oggi

Ci sono almeno due punti nella ampia risposta di Annegret Kremp-Karrenbauer al manifesto di Emmanuel Macron sul «Rinascimento d’Europa» da tenere a mente: due punti che rendono la signora AKK (così i media riassumono il nome della nuova leader della Cdu tedesca) più incisiva del presidente francese su temi popolari. Il primo: «Dobbiamo mettere in pratica i nostri sforzi comuni per porre fine alla distorsione della concorrenza in Europa attraverso l’elusione fiscale. Per fare questo, abbiamo bisogno di chiudere le scappatoie fiscali in Europa e introdurre una tassazione digitale modellata sul modello dell’Ocse». Ovvero: basta con i paradisi fiscali di Olanda, Irlanda, Lussemburgo e Cipro, che consentono alle multinazionali del web e alle mafie criminali di non pagare le tasse.

Dunque, un tema concreto, fondamentale quando si parla di concorrenza tra Stati, sul quale il manifesto di Macron non aveva speso neppure una parola. Eppure basta ricordare che la sola Olanda, assicurando un rifugio fiscale a 195 miliardi di dollari di profitti l’anno delle multinazionali, riesce a sottrarre agli altri paesi Ue 50 miliardi di dollari imponibile fiscale ogni anno.

Il secondo punto: «Dovremmo prendere decisioni a lungo attese e abolire gli anacronismi. Questi includono la concentrazione del Parlamento europeo su Bruxelles, e la tassazione del reddito dei funzionari Ue». In altre parole: chiusura della seconda sede del Parlamento Ue di Strasburgo, una sede costosa quanto inutile, voluta soltanto dalla Francia per ragioni di prestigio nazionale. E basta con i privilegi fiscali concessi agli strapagati euro-burocrati di Bruxelles.

Certo, nella risposta della signora AKK ci sono molti altri punti sui quali gli analisti si soffermeranno per cogliere la sua differente visione dell’Europa del futuro rispetto a Macron, soprattutto nella duplice chiave politica «no al centralismo europeo» (caro a Macron), e «sì alla difesa dei punti di vista nazionali», con cui la signora AKK, non senza alcune contraddizioni macroscopiche, mira a tagliare l’erba sotto ai piedi dei sovranisti. Scrive l’erede di Angela Merkel: «Centralismo europeo, statalismo europeo, comunitarizzazione dei debiti, europeizzazione dei sistemi sociali e del salario minimo costituirebbero una strada sbagliata». Quella giusta? «Puntare in maniera coerente a un sistema di sussidiarietà, auto-responsabilizzazione e responsabilità civile a questa connessa». Ovvero: meno Stato e più privato.

Un indirizzo bello in teoria, ma sempre più smentito dai fatti (Deutsche Bank matrimonio con Commerzbank), visto che in molti Paesi Ue si assiste a un ritorno in grande stile dello Stato imprenditore: vale non solo per la Francia, statalista da sempre, ma anche per l’Olanda (caso Klm-Air France), per il nostro paese (vedi il Tesoro che entra in Alitalia) e per la stessa Germania, dove il ministro dell’Industria, Peter Altmaier, ha appena lanciato un «Piano industriale 2030» che fa perno proprio su un ruolo più forte dello Stato, senza dimenticare che il governo Merkel pensa di salvare Deutsche Bank pilotandone la fusione con Commerzbank. E qui, della sussidiarietà cara alla signora AKK, se ne vede ben poca.

Insieme a tanti «no», AKK dice anche alcuni «sì» alle proposte di Macron: sulla riforma di Schengen e di alcuni trattati, sulla riforma della politica per i migranti e per la tutela delle frontiere Ue (sia pure in modo generico), sulla green economy e sul clima, sulla difesa militare comune, compresa la costruzione di un aereo da combattimento Ue e una porta-aerei europea, più altre riforme centrate sulla politica estera europea, da rendere più autorevole con un seggio Ue nel Consiglio di sicurezza Onu. Il che tira una riga anche sul recente trattato di Aquisgrana, in cui la Francia si impegnava a condividere il proprio seggio Onu non con la Ue, bensì con la Germania: nero su bianco, in un trattato ufficiale, che è cosa diversa da un manifesto elettorale. Ma così vanno oggi le cose in Europa.

Per questo non stupisce che, alla fine, «per non farci fermare, scoraggiandoci, dalla costante, ansiosa domanda sui populisti», la signora AKK assesti a Macron una sberla che nessun populista aveva finora osato sferrare: chiudere la seconda sede del Parlamento europeo di Strasburgo, voluto e difeso dalla Francia per ragioni di prestigio, ma diventata con il tempo una fonte di sprechi a dir poco scandalosi. L’idea della chiusura non è nuova. Il primo dossier che ne raccontava minuziosamente gli sperperi è stato stilato dai radicali italiani venti anni fa, nel 1999, poi altri si sono aggiunti, ma senza alcun risultato. Che si tratti di una sede inutile lo dimostrano i dati: il Parlamento di Strasburgo, un edificio costato 500 milioni di euro, viene aperto soltanto quattro giorni al mese. In totale, 48 giorni l’anno. Per i restanti 317 giorni è inutile, anche se i costi continuano a scorrere: il personale è presente, gli uffici vanno riscaldati, controllati, vigilati, tenuti in ordine.

Il costo di tutti questi servizi, secondo i calcoli di Mario Giordano, pubblicati nel libro «Non vale una lira», sono pari a 35,7 milioni l’anno, a cui vanno aggiunti altri 18 milioni di euro per trasportare ogni volta da Bruxelles a Strasburgo (409 Km), e ritorno, i documenti necessari per le rare sedute. In totale: 53,7 milioni di euro, più di un milione a seduta, a carico dei contribuenti europei. Il tutto senza contare le «indennità di missione» per i parlamentari e i funzionari che si devono spostare da una sede all’altra, circa 3.300 euro al mese. Soldi che vanno ad aggiungersi a stipendi da favola: 6 mila euro netti al mese per un usciere, 9 mila per un archivista, 10 mila per gli assistenti e 16 mila per i funzionari. Ovviamente con una tassazione agevolata dell’8 per cento, ampiamente compensata dai benefit, tanto che in molti casi lo stipendio netto dei dipendenti Ue è superiore al lordo. Ecco, se voleva battere Macron e centrare il bersaglio con una mossa populista, la signora AKK ci è riuscita.

(articolo pubblicato su Italia Oggi)

Stati Uniti e Giappone usano una propria moneta, l'Italia l'Euro una moneta straniera

Vi raccontiamo il bizzarro caso dello spread

23 marzo 2019



Lo spread misurerebbe la credibilità. Tanto più questa è bassa tanti più sarebbero gli interessi pagati sui titoli di stato. Il debito cresce e servirebbe nuova austerità per abbattere il debito, recuperare la perduta credibilità e far diminuire il rendimento dei BTP. Ma è veramente così? Uno sguardo ai titoli di stato decennali di altri paesi, come USA o Giappone, ci aiuta a capire meglio. L’analisi di Fabio Dragoni e Antonio Maria Rinaldi

Sono mesi che il circo mediatico di TV, giornali e social network assortiti mantiene ossessivamente viva l’attenzione dell’opinione pubblica sul rendimento dei nostri BTP decennali e sulla sua differenza rispetto agli omologhi Bund tedeschi; il famigerato spread. Quanto più questo è alto tanto più “sarebbe” critica la nostra situazione.

Lo spread misurerebbe la credibilità. Tanto più questa è bassa tanti più sarebbero gli interessi pagati sui titoli di stato. Il debito cresce e servirebbe nuova austerità per abbattere il debito, recuperare la perduta credibilità e far diminuire il rendimento dei BTP.

Ma è veramente così? Uno sguardo ai titoli di stato decennali di altri paesi, come USA o Giappone, ci aiuta a capire meglio.

USA: il rendimento dei Treasury americani a dieci anni si attesta attorno al 2,6%. Addirittura superiore al 2,5% pagato dai nostri BTP. Ma come è mai possibile se Washington ha un rating AA+ contro la nostro BBB? Secondo Standard and Poors gli USA meritano cioè un bel 9 e 1/2 contro il nostro striminzito 6. E quindi perché pagano un tasso addirittura superiore rispetto al nostro? Oltretutto hanno un rapporto debito/PIL del 105% circa e quindi inferiore al nostro vituperato 130%. Sono inoltre 101 mesi consecutivi che negli USA i posti di lavoro crescono. La più lunga serie storica nell’economia americana visto che supera di oltre il doppio il quadriennio 1986-1990 quando la serie ininterrotta di mesi con crescita degli occupati si era fermata a 48. Infine ancora 5 mesi di crescita del PIL e l’economia statunitense compirà il record storico 121 mesi di sviluppo economico ininterrotto. Non siamo quindi di fronte ad un Paese in crisi economica e di credibilità ma rimane da spiegare perché Washington paghi a dieci anni un tasso superiore a quello italiano.

Giappone: cosa dovremmo aspettarci da un Paese il cui rapporto debito pubblico / PIL supera il 250%? Cavallette e peste bubbonica verrebbe da dire visto che quasi doppia il nostro 130%. Così non la pensano ad esempio gli analisti di S&P che danno al Giappone addirittura la tripla A. Vabbè direte voi: i mercati esigeranno comunque rendimenti elevato visto il debito pubblico così alto. Ma nemmeno questo è vero dal momento che i rendimenti dei titoli di stato giapponesi a 10 anni sono addirittura di pochissimo inferiore allo zero. Del resto il Giappone è un Paese con quasi 130 milioni di abitanti (più del doppio dell’Italia) ed un numero disoccupati pari a circa 1,7 milioni contro in nostri 2,7 milioni.

La retorica del debito pubblico e dello spread fa acqua da tutte le parti. Giappone e Stati Uniti sono due paesi aventi sovranità monetaria che non sono minimamente preoccupati –il primo- dell’entità del proprio debito ed il secondo del relativo costo.

Del resto i primi a riconoscere che la mancanza di sovranità monetaria possa recare un pregiudizio sono le stesse agenzie di rating, come del resto afferma testualmente Standard and Poors nella descrizione della metodologia adottata per esprimere il giudizio di affidabilità sui debiti sovrani: “I rating dei debiti sovrani emessi in valuta locale tendono ad essere più alti dei debiti in valuta estera perché nel primo caso la solvibilità del debito emesso in valuta locale può essere supportata da una serie di poteri unici di cui dispongono gli Stati all’interno dei loro confini, compreso il potere di emissione della valuta locale”.

Trascurando la circostanza che molti politici di opposizione ritengono i confini un retaggio del passato e quindi sopprimibile, la criticità evidenziata da S&P finisce per motivare la sua stessa più recente conferma del rating all’Italia: “Il rating è condizionato dalla limitata flessibilità monetaria italiana. In detto contesto ravvisiamo una minore flessibilità fiscale rispetto a paesi più ricchi e dinamici dl G7 quali Canada, Giappone, Regno Unito e US”. Guarda caso i quattro Paesi che a differenza di Italia, Germania e Francia hanno conservato il potere di coniare moneta senza privarsene per concederlo ad una banca centrale straniera senza stato. La BCE appunto.

E’ la conferma di una criticità che ritorna ciclicamente a galla. I Paesi che emettono la loro valuta sono sostanzialmente diversi dalle imprese, famiglie ed enti locali presenti dentro i loro confini. Questi ultimi devono guadagnarsi la valuta che a loro serve o prenderla a prestito prima di spenderla. Lo Stato sovrano no.

Potendo creare moneta dal nulla, se decide di indebitarsi lo fa esclusivamente per governare ed indirizzare l’intera struttura dei tassi di interesse cui dovranno uniformarsi tutti gli altri operatori: banche, famiglie ed imprese appunto. Ecco perché a 10 anno gli Stati Uniti pagano il 2,6% ed il Giappone il -0,04%.

Due politiche monetarie di segno opposto: più restrittiva la prima ed espansiva la seconda. Non è il caso dei paesi dell’eurozona -come ad esempio il nostro- che decidono di indebitarsi in euro (che altro non è che un marco tedesco travestito tanto che Berlino in questo momento a 10 anni paga lo 0%) così riducendosi al rango di tutti gli altri soggetti utilizzatori di moneta (famiglie ed imprese) ed anzi in concorrenza con questi pur di accaparrarsi la valuta che non possono più coniare.

Nicola Gratteri nella ragnatela della procura di Cosenza. Nei meandri deve decidere se fa parte della magistratura o del Partito dei Giudici

Cosenza corrotta, il dilemma di zio Nicola (Gratteri): “Mi vendo o non mi vendo?”

Da Iacchite
-22 Marzo 2019



Era inevitabile che “zio” Nicola Gratteri finisse sulla graticola dopo la pronuncia della Corte di Cassazione, che ha completamente smontato – pezzo per pezzo – la sua tragicomica inchiesta “Lande desolate”, studiata a tavolino o addirittura commissionata sotto il profilo politico per “azzoppare” Oliverio a vantaggio di Occhiuto. Ormai non solo l’hanno capito tutti, ma la circostanza si presta anche a facilissime battute e barzellette, che pongono il magistrato reggino alla stregua di un pincopalla qualsiasi della schiera – sempre più numerosa – dei giudici che si vendono per un piatto di lenticchie. Una fine decisamente ingloriosa per un soggetto del suo calibro.

Facciamo il punto della situazione: dopo l’operazione della Dda di Catanzaro denominata “Lande desolate”, nella quale è coinvolto per abuso d’ufficio e corruzione il presidente della regione Calabria Oliverio, Gratteri annuncia: non finisce qui.

Gratteri, com’è suo costume, tra una vanteria e l’altra, ai microfoni dei cronisti che lo circondano dice: la lotta contro la borghesia mafiosa che spadroneggia in Calabria, continua. E a breve ci saranno grosse sorprese. Un annuncio in perfetto stile Gratteri che da anni parla di primavera calabra, ma di fatti concreti neanche l’ombra. Parole tante, fatti zero. Era il 17 dicembre del 2018.

Dopo un mese esatto, il 17 gennaio del 2019, il Fatto Quotidiano apre con un titolo shock: 15 magistrati calabresi (tra Cosenza, Crotone e Catanzaro) risultano indagati dalla procura di Salerno per reati gravi: favoreggiamento mafioso, corruzione in atti giudiziari e corruzione. Nell’articolo si fanno i nomi di alcuni degli indagati: Spagnuolo, Luberto, Facciolla. C’è da dire che la notizia dell’inchiesta sul procuratore capo di Cosenza Spagnuolo l’aveva già data Iacchite’, dopo che il direttore fu interrogato dai carabinieri del Ros di Salerno come persona informata sui fatti, in merito proprio agli intrallazzi di Spagnuolo.

Vista la portata, la notizia fa subito il giro del web, e finisce su quasi tutti i Tg nazionali, ma di reazioni, prese di posizione, richieste di chiarimenti, da parte della politica, dei partiti, della società civile, dei magistrati onesti, niente di niente. Quasi come se non fosse successo nulla di importante. In fondo la magistratura corrotta in Calabria e soprattutto a Cosenza non è certo una novità. Qualcuno, al contrario, tenta invece di sminuire i dati e le inchieste in corso presso la procura di Salerno asserendo che è vero che Salerno indaga su alcuni magistrati calabresi per reati gravi, ma non sono 15, e poi i nomi fatti dalla giornalista del Fatto nulla hanno a che fare con storie di mafia. Specie quell’onesto galantuomo di Luberto che mai in vita sua ha barattato la Giustizia per interessi privati e politici, o per favorire gli amici degli amici… (il caso dell’ex calciatore Francesco Modesto – addirittura arrestato! – grida ancora vendetta, per esempio, dopo la sua clamorosa assoluzione). Un tentativo che risulterà vano, visto che dalla procura di Salerno non arriva nessuna smentita, o precisazione, sul numero dei magistrati indagati. Smentita che la procura ha il dovere di fare se le notizie di stampa risultano false. Qui ne va del buon nome della magistratura. Non si può lasciare sospesa una situazione di questo tipo che potrebbe creare allarme nell’opinione pubblica.

Non solo, la giornalista del Fatto racconta anche di un forte “scambio di vedute” tra il procuratore generale della corte di Appello di Catanzaro Lupacchini, e il procuratore capo della Dda Gratteri, avvenuta durante “la loro audizione” davanti al CSM. Il dottor Lupacchini rimprovera Gratteri di non essersi attenuto alle disposizioni che regolano le competenze e i rapporti tra magistrati. Ovvero Lupacchini accusa Gratteri di non aver trasmesso gli atti riguardanti un magistrato pizzicato con le mani nella marmellata alla procura di Salerno, competente per i reati commessi dai magistrati calabresi, trattenendo tali atti presso il suo ufficio. Quasi a volerli nascondere. Dal canto suo Gratteri riferisce di aver fatto tutto nei modi e nei tempi previsti dalla legge, e che gli atti sono stati regolarmente spediti alla procura di Salerno. E tanto basta al CSM per dichiarare il caso chiuso, non ravvisando incompatibilità ambientale tra i due. Mentre le inchieste della procura di Salerno sui magistrati calabresi vanno avanti, anche se non si capisce bene da che cosa sono state originate.

Gli atti che Gratteri, secondo Lupacchini, non ha trasmesso per tempo a Salerno erano quelli relativi a Facciolla. Per Lupacchini, Gratteri, teneva nascosti gli atti di Facciolla per sventolarli alla bisogna, a mo’ di ricatto. Come a dire: se voi avete carte contro Luberto, io ho carte contro Facciolla. A questo punto Lupacchini potrebbe aver detto a Gratteri: visto che sventoli ‘ste carte pensando di fermare la mia azione, con la speranza di fare leva sulla mia amicizia con Facciolla, ti dico che l’unica cosa che mi importa è il raggiungimento della Giustizia, perciò adesso o le trasmetti a Salerno oppure ti denuncio, così come ha fatto, al CSM. Se Facciolla ha sbagliato pagherà, al pari di tutti gli altri.

Anche qui c’è da dire che Iacchite’ è da tempo che dà conto ai propri lettori di due fazioni di magistrati in lotta tra di loro. Lo abbiamo scritto: da un lato Lupacchini, Facciolla, Bruni, dall’altro Gratteri, Spagnuolo, Luberto, Tridico. I motivi dello scontro sono da ricercarsi nella volontà dei primi (Lupacchini, Bruni Facciolla) di operare su Cosenza contro la cupola masso/mafiosa a cui, come oramai sanno tutti, hanno aderito diversi magistrati e servitori dello stato infedeli, oltre ai soliti politici mafiosi. Mentre Luberto e compari, in aperto conflitto con Bruni (oggi procuratore capo di Paola), spingono per insabbiare tutto, per difendere, non tanto i politici coinvolti, ma i colleghi magistrati mafiosi, e se stesso. E per un po’ ci riesce. Infatti Luberto riesce a fermare l’operazione “Sistema Cosenza”, proprio quando sta per scattare il blitz nella primavera del 2016.

È questa la situazione che trova Gratteri appena si insedia alla Dda. Il trasferimento di Bruni porta un po’ di serenità, ma non cancella il problema dell’inchiesta su Cosenza. Che farne? Gratteri, su pressione di Luberto, decide per il momento di tenerla da parte. E per non dire che il tutto è imboscato in un cassetto, fa circolare la voce che il “fascicolo” istruito da Bruni presenta gravi carenze in materia di riscontri e acquisizione della prova. Insomma Gratteri dice che quello di Bruni è un lavoro mal fatto e che va rivisto da cima a fondo. E affida il fascicolo al dottor Camillo Falvo. Luberto esulta: è riuscito a fermare, ancora una volta, l’inchiesta su Cosenza.

Gratteri è costretto, per non destare sospetti, a tessere pubblicamente le lodi di Luberto per arginare anche i tanti articoli che noi, sul magistrato Luberto, non abbiamo mai smesso di scrivere. Ma quello di Gratteri è il segreto di Pulcinella, che lo pone in una situazione imbarazzante. Tant’è che la sua fama di incorruttibile inizia a vacillare. Il perché Gratteri abbia voluto, nonostante tutto ciò che ha combinato Luberto, prendere le difese, o meglio schierarsi al fianco di Luberto, resta per tutti un mistero. Sta di fatto che così è stato.

Se da un lato l’articolo del Fatto non suscita reazioni nella politica, dall’altro crea allarme proprio nelle stanze della procura di Catanzaro e di Cosenza. Ad essere preoccupati per questa nuova situazione, Gratteri, Luberto e Spagnuolo. Ora che la notizia dei magistrati corrotti e mafiosi che operano a Cosenza e a Catanzaro è di dominio pubblico, insieme alla lite Lupacchini/Gratteri, il rischio è quello della perdita di credibilità della procura guidata proprio da Gratteri. La gente ha capito che c’è qualcosa che non va nell’operato della magistratura a Cosenza e non solo, e se anche Gratteri gioca a nascondere i fatti, la situazione, allora, è veramente grave.

Gratteri, nonostante i vani tentativi di far passare la fuga di notizie come il lavorio sotterraneo di una talpa al CSM il cui scopo è quello di inficiare il duro lavoro portato avanti con sacrifico e abnegazione da due magistrati illustri come Gratteri e Luberto che da tempo indagano sulla borghesia mafiosa a Cosenza e a Catanzaro, è messo con le spalle al muro. O meglio di fronte ad una scelta: o con Luberto, o con la Giustizia e la legalità. La “talpa”, più che inficiare, ci pare abbia voluto spronare Gratteri a determinarsi su una scelta che è diventata ineludibile. Non si può più giocare a nascondino. La fiducia nella Giustizia è l’architrave della democrazia, e la situazione a Cosenza ha raggiunto limiti non più tollerabili. La pulizia va fatta. E chini ci ‘ncappa ci ‘ncappa.

E così dopo qualche giorno dall’uscita dell’articolo del Fatto, Gratteri decide di rivedere la sua posizione. Ha capito che non può più permettersi di dire e poi non fare. E Luberto dovrà adeguarsi a questa nuova situazione. Ed iniziano una serie di incontri tra i magistrati delle due fazioni per raggiungere un accordo.

La Manzini giorno 21 gennaio viene sentita dai magistrati di Salerno per deporre sui tanti insabbiamenti messi in atto da Spagnuolo per coprire le malefatte del sindaco Occhiuto. E per rendere conto anche dell’inchiesta Cirò. Nel mentre, Gratteri, Spagnuolo e Luberto continuano a parlare per capire come uscire da questa situazione. O fanno il loro dovere, oppure sono guai. Da qui non si scappa. E Gratteri incarica il dottor Camillo Falvo di confrontarsi con la procura di Cosenza per capire come agire. Infatti lunedì 28 gennaio Spagnuolo, Manzini e Falvo si incontrano al quarto piano della procura di Cosenza. L’argomento, oltre ad alcuni fatti di malavita legati ad un vecchio omicidio, è l’inchiesta piazza Fera/Bilotti. Che in reati si traduce: voto di scambio e corruzione a Cosenza. Da allora non sono passati ancora due mesi ma la situazione è precipitata.

L’annullamento della misura cautelare nei confronti di Mario Oliverio da parte della Cassazione rappresenta tuttavia un macigno per Gratteri.
È chiaramente un depotenziamento – per usare un eufemismo – per la sua inchiesta fatta con i piedi, un vero e proprio ridimensionamento che lo pone davanti ad un bivio.
“Zio” Nicola adesso dovrà necessariamente decidere se procedere a tutto spiano, scavalcando veti e protezioni, così da dare nuova forza vitale a tutto l’impianto accusatorio e, perciò, andando ad indagare e ad arrestare personaggi come Occhiuto (e di conseguenza anche i suoi protettori nel porto delle nebbie di Cosenza) tenuti fino ad oggi al riparo, protetti da una sorta di immunità di stato deviato, oppure arrendersi definitivamente e gettare al vento tutto il lavoro fatto finora. Che cosa deciderà? Per sdrammatizzare, come sempre. diciamo che Gratteri deve decidere se “vendersi” o non “vendersi”. E l’ironia richiamando Renato Zero è davvero il minimo che possa capitare oggi ad un magistrato in caduta libera come Gratteri.

http://www.iacchite.org/cosenza-corrotta-il-dilemma-di-zio-nicola-gratteri-mi-vendo-o-non-mi-vendo/

La dichiarazione di appartenenza alla massoneria per gli addetti alla pubblica amministrazione è legge ma i comuni la disattendono

Massoneria e politica, Fava chiede rispetto legge
«Dai Comuni dichiarino l'appartenenza a logge»

«Chiediamo che l’assessorato regionale enti locali avvii immediatamente una ricognizione nei comuni per verificare il rispetto della legge». La norma impone l'obbligo anche agli amministratori locali di dichiarare l'eventuale iscrizione alla massoneria


REDAZIONE 22 MARZO 2019

«Che fine ha fatto la dichiarazione di consiglieri e assessori comunali sulla loro appartenenza o meno a logge massoniche?». Lo chiede il deputato regionale Claudio Fava, promotore sulla legge che impone ai deputati regionali e agli amministratori locali di dichiarare eventuale appartenenza a logge massoniche. Se infatti i parlamentari regionali hanno consegnato le loro dichiarazioni, con due eccezioni Eleonora Lo Curto e Antonio Catalfamo, nessun documento è arrivato dai territori. Ieri l'inchiesta di Trapani che fa emergere una loggia segreta in provincia di Trapani con base a Castelvetrano.

«A quattro mesi dalla scadenza dei termini previsti dalla legge non se ne ha alcuna notizia - continua Fava - Chiediamo che l’assessorato regionale enti locali avvii immediatamente una ricognizione nei comuni per verificare il rispetto della legge. La vicenda che vede coinvolto l’ex deputato regionale Lo Sciuto, che aveva costruito una loggia massonica allo scopo di fare mercato di prebende, licenze e consulenze di varia natura, ci conferma l'utilità di questa norma e l'urgenza di una sua piena applicazione».

Banca Etruria - quando si esce fuori dalla giurisdizione aretina anche il Boschi paga le sue responsabilità ad Arezzo ottiene sempre l'archiviazione per qualsiasi tipo di reato per cui è indagato

Banca Etruria, Cassazione conferma le multe a Boschi, Nataloni e Orlandi


Sono stati sanzionati da Bankitalia per "quattro distinti tipi di violazione": quelle inerenti le regole della governance, carenze nell’organizzazione e nei controlli interni, carenze nella gestione e nel controllo del credito, omesse e inesatte segnalazioni all’autorità di vigilanza

di F. Q. | 22 Marzo 2019

La Cassazione ha confermato le multe inflitte da Bankitalia a Luciano Nataloni (156mila euro), Pier Luigi Boschi (144mila euro) e Andrea Orlandi (144mila euro), ex componenti del consiglio di amministrazione di Banca Etruria fallita e commissariata nel febbraio 2015. Per i supremi giudici è ben motivato il decreto della Corte di Appello di Roma che nel 2016 aveva contestato ai tre consiglieri, tra cui il padre della ex ministraMaria Elena Boschi, “quattro distinti tipi di violazione”: quelle inerenti le regole della governance, carenze nell’organizzazione e nei controlli interni, carenze nella gestione e nel controllo del credito, omesse e inesatte segnalazioni all’autorità di vigilanza.

Senza successo, la difesa di Nataloni, Boschi e Orlandi ha cercato di scaricare tutte le responsabilità sull’ex presidente della bancaGiuseppe Fornasari dicendo che “non si adoperava efficacemente per favorire la dialettica interna e l’adeguata circolazione di informazioni”. Per la Cassazione toccava a loro pretendere tutte le informazioni nel rispetto del dovere di “agire informati”.

Boschi è stato indagato per vari reati in oltre 10 fascicoli. Ha visto archiviare la propria posizione per il falso in prospetto l’e accesso abusivo al credito. Fornasari è stato assolto dall’accusa di ostacolo alla Vigilanza “perché il fatto non sussiste”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/03/22/banca-etruria-cassazione-conferma-le-multe-a-boschi-nataloni-e-orlandi/5056400/

Monte dei Paschi di Siena - Sull'omicidio di David Rossi si è indagato in maniera superficiale in quanto l'obiettivo era chiudere il più presto l'inchiesta che poteva far conoscere i festini, il Sistema senese che ha ramificazioni nelle istituzioni, potrebbero essere coinvolto anche un ex ministro di quell'area radical chic che magari ci ha tartassato con tasse indegne

News | 22 marzo 2019
David Rossi: le rivelazioni clamorose sul Vaticano. Speciale Iene/6 | VIDEO



Rivelazioni clamorose dell'ex presidente dello Ior Gotti Tedeschi: in Vaticano possono arrivare persino a uccidere. Sesta e ultima parte dello speciale Iene "David Rossi: suicidio o omicidio?"

Dopo la prima di presentazione, la seconda dedicata ai dubbi sulla caduta mortale, la terza a quelli sulle indagini, la quarta a una testimonianza fondamentale e la quinta al “caso escort”, siamo arrivati alla sesta e ultima parte dello Speciale Iene: “David Rossi: suicidio o omicidio?” che nel finale contiene rivelazioni veramente clamorose.

Continuiamo intanto con la testimonianza dell’escort Stefano, iniziata nella quinta parte, che parla in particolare del suo dubbio che quei festini a base di sesso e droga fossero videoregistrati. Il che aumenterebbe il rischio di ricatto per gli esponenti di primo piano del mondo senese e nazionale che avrebbero partecipato.

Stefano accetta di incontrare anche Carolina Orlandi e gli dice di non aver mai visto il padre David Rossi ai festini. Antonino Monteleone va poi alla ricerca anche di una villa teatro di quelle feste.

Antonino Monteleone intervista anche la moglie di un uomo importante nelle istituzioni che sarebbe stato coinvolto nei festini e forse anche nelle indagini sulla morte di David Rossi.

Torniamo poi a inquadrare il caso nella crisi finanziaria in cui era coinvolta Mps quando è volato giù da una finestra della sede centrale della banca. Torniamo allora al biglietto con il nome di Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior, e il suo numero di cellulare trovati sulla sua scrivania quel giorno. 

Di viaggi frequenti a Roma per andare allo Ior di David Rossi avrebbe parlato anche un testimone misterioso a Luca Goracci, che ha seguito il caso per la famiglia. L’ex presidente di Mps Giuseppe Mussari cosa pensa del “caso Ior”? “È una bufala”.

Antonino Monteleone incontra a questo punto, in un lungo colloquio, Ettore Gotti Tedeschi, già presidente dello Ior e artefice dell'acquisto per conto del Banco Santander della Banca Antonveneta, che rivendette successivamente a Monte dei Paschi innescando ripercussioni negative a catena sulla banca senese.

E proprio sull'acquisto di Banca Antonveneta da parte di Mps, che costò alla banca senese nove miliardi di euro (cui però vanno sommati i miliardi di debiti che la banca aveva in pancia), Gotti Tedeschi dice: "Mussari non voleva comprare l'Antonveneta. Della vendita se ne occupò Rothschild (la banca d'affari che curava per conto di Santander la vendita di Antonveneta, ndr). Mussari era entusiasta della fusione. Non dell'acquisto. Chi volle l'acquisto era la Fondazione". "Quindi Mussari ha subito la l'acquisto?", gli chiede Monteleone. "Questa è sempre stata la mia opinione", risponde il banchiere.

E la Iena gli chiede anche dei quattro conti correnti presso lo Ior che sarebbero stati aperti da uomini riconducibili alla Fondazione. Gotti Tedeschi risponde: "Credo che fosse vero. Chi si occupava di questi conti all'interno dello Ior era direttamente ***** della Fondazione. E naturalmente col presidente, ma mi tagliavano completamente fuori visto il mio ruolo con Santander nella vicenda Montepaschi. Quindi non sapevo assolutamente niente. E non ho mai visto Mussari venire in Vaticano. In realtà operava per conto di altri, diciamo per il sistema senese".

E perché la fondazione Mps potrebbe avere quattro conti correnti accesi presso lo Ior?", chiede Monteleone. "Sono tangenti, mi pare evidente", risponde il banchiere. "Se dice tangenti penso alla politica", lo incalza la Iena. "È evidente! Ma nessuno le confermerà l'esistenza di quei conti, perché lì c'era di tutto! Qua si tratta della Curia vaticana. Lì dentro c'era tutto quello che lei non può immaginare. C'erano delle persone che in un secondo cambiavano le intestazioni di tutti i conti. Un sistema che non permetteva a nessuno, se non alla Cupola, di risalire ai conti. È molto probabile quindi che quei conti ci fossero. Stavo per perdere la fede".

"Quando dice che la Curia vaticana le stava facendo perdere la fede...", gli fa eco Monteleone. "Anche La vita!", lo interrompe Gotti Tedeschi. "La Curia vaticana può commissionare un delitto secondo lei?". "Ci sono persone all'interno che non mi meraviglierebbe per niente se lo facessero. Dove c'è il bene c'è sempre il male. Nella Chiesa si perpetrano cose che non si dovrebbero neanche immaginare".

Da Rutelli in poi il Sistema massonico politico mafioso ha fatto scempio di Roma, distrutta moralmente ed economicamente senza scrupoli hanno lasciato un bilancio in negativo di almeno 13 miliardi se ne sono pappati 1 ogni anno, miserabili sanguisughe, MAI più in Campidoglio

Arresto De Vito: Raggi,passato non torna

"'Sistema' prova ad infiltrarsi ma reazione M5S immediata"


© ANSA

Redazione ANSAROMA
22 marzo 201916:54NEWS

(ANSA) - ROMA, 22 MAR - "Non si torna al passato. Il giorno in cui sono stata eletta" in Campidoglio "sapevo che il vecchio sistema che insieme al M5S sto scardinando con ogni mia forza, avrebbe opposto ogni tipo di resistenza". Così Virginia Raggi su Fb. "Io ho detto 'no' a quel sistema che però prova a ribellarsi in ogni modo. Prova ad infiltrarsi come succedeva in passato. Ma c'è una differenza: la mia reazione e quella del M5S è immediata e senza esitazioni", aggiunge.

Il debito degli Stati Uniti è rosso fisso

USA. NON TUTTO È ORO CHE LUCCICA


di Mario Lettieri e Paolo Raimondi * –
22 marzo 2019

Il resoconto dell’ultima riunione del Federal Reserve Open Market Committee (FOMC), il comitato di gestione della politica monetaria americana, rivela che si sta discutendo di interrompere il rientro dal quantitative easing e di riprendere, quindi, la politica monetaria “accomodante” entro l’anno. Si dice di voler restare “pazienti” riguardo a nuovi aggiustamenti e “flessibili” rispetto alla riduzione dei titoli in precedenza comprati per sostenere il sistema bancario.
Anche la Bce e Draghi hanno confermato l’intenzione di continuare con la politica monetaria espansiva.
Questi sviluppi ci pongono due domande. Quali sono le vere ragioni economiche per le quali, a più di dieci anni dalla crisi finanziaria globale si ripropongono le stesse politiche che, allora, furono concepite come soluzione temporanea per portare i vari paesi fuori dalle paludi della recessione? Le maggiori istituzioni monetarie internazionali temono forse il presentarsi di qualche nuova crisi finanziaria?
Ci sono vari parametri per valutare se l’economia mondiale, a cominciare da quella americana, possa rischiare di entrare in una situazione di turbolenza: anzitutto gli andamenti degli investimenti, del commercio e dei bilanci.
In un altro rapporto sulle banche, la Fed ammette che la domanda di credito si è globalmente ridotta. La maggioranza delle banche americane scrutinate intenderebbe rallentare il flusso di crediti alle imprese e aumentare il premio di rischio per numerose categorie di prestiti. Negli Stati Uniti gli investimenti sono scesi negli ultimi sei mesi e sono a -2,1% rispetto a un anno fa. Tale rallentamento si manifesta anche nel settore immobiliare che è sempre stato un importante termometro dell’economia americana, e non solo. Le vendite di abitazioni negli Usa sono scese dell’8% in gennaio rispetto al gennaio precedente, marcando una tendenza semestrale.
Anche l’ex presidente della Fed, Janet Yellen, ha recentemente ammonito che i 4.000 miliardi di dollari di debiti e corporate bond, quasi “junk”, potrebbero portare a una nuova crisi stile 2008. Particolarmente preoccupante è che, sulla base di questi debiti, sono stati emessi oltre 700 miliardi di nuovi derivati, i cosiddetti clo, collateralized loan obligations, che sono stati comprati da banche e fondi.
Ovviamente, i succitati clo raccolgono crediti accesi da imprese sempre meno in grado di ripagarli, proprio così come nella passata crisi accadde per i cdo, collateralized debt obligations, che raccoglievano ipoteche immobiliari impagabili.
Inoltre, da ottobre 2018 a gennaio 2019, cioè nel primo quadrimestre dell’anno fiscale in corso, il deficit di bilancio Usa è stato di 310 miliardi, con un aumento del 77% rispetto allo stesso periodo dell’anno fiscale precedente. Come, noto, in America l’anno fiscale si calcola da settembre al settembre dell’anno seguente. Il Congress Budget Office prevede che il deficit annuale 2019 sarà di almeno 900 miliardi. In verità, da tempo è in corso una crescita vertiginosa del deficit di bilancio che evidenzia un’economia tutt’altro che sana: 587 miliardi nel 2016, 665 nel 2017, 782 nel 2018.
Lo stesso è avvenuto con la bilancia commerciale americana che nel 2018 ha registrato un deficit di 891 miliardi di dollari nel settore dei beni. Un aumento forte rispetto all’anno precedente. In particolare il deficit nel commercio di beni con la Cina è stato di ben 419 miliardi. Nel 2017 era stato di 375 miliardi.
Sono cifre che bocciano in pieno la politica di Trump, il modo in cui ha voluto coniugare il taglio delle tasse con l’aumento dei dazi. Di fatto, buona parte delle tasse non raccolte hanno fatto crescere i consumi che, a loro volta, hanno inciso sull’andamento delle importazioni. Tali scelte possono momentaneamente sembrare misure a favore dei cittadini, ma nel medio termine esse aggravano i conti pubblici, creando forti rischi d’instabilità. Perciò è molto probabile che nel prossimo futuro la parola “volatilità” venga usata con molta frequenza.
In questa incerta situazione non dovremmo stupirci se Washington sempre più spesso, di fronte a eventuali difficoltà nell’economia americana, scaricasse le proprie responsabilità su presunte crisi in Cina e in Europa. Del resto, questa è da tempo la versione di Trump, che, purtroppo, è stata ripetuta recentemente anche da Jerome Powell, il presidente della Fed, che era ritenuto indipendente rispetto al presidente americano. Evidentemente ciò non è.

* Mario Lettieri, già deputato e sottosegretario all’Economia; Paolo Raimondi, economista e docente universitario.

Vogliono solo spolpare l'Italia, non sopportano che faccia una politica estera che rilancia gli Interessi Nazionali. Questa è la grande risposta italiana al patto di Aquisgrana


Macron e Merkel vogliono sabotare l’Italia anche sulla Cina

MAR 22, 2019

Non contente di isolare l’Italia all’interno dell’Unione europea, Francia e Germania hanno deciso di colpire gli interessi italiani anche sulla rotta della Nuova Via della Seta. La mossa di Angela Merkel e di Emmanuel Macron di incontrare Xi Jinping a Parigi insieme a Jean-Claude Juncker è l’ennesimo segnale di quanto siano incrinati i rapporti fra le cancelliere di Parigi e Berlino e quella di Roma. E anche sul fronte cinese, si nota un particolare distacco fra i desideri dell’asse franco-tedesco e quelli dell’Italia, che a questo punto sembra proprio essere diventata l’obiettivo numero uno della strategia della premiata coppia Macron-Merkel

L’Unione europea non ha mai visto di buon occhio il memorandum d’intesa nato dagli accordi fra Italia e Cina. Bruxelles ha fatto filtrare più la propria irritazione per l’iniziativa italiana di firmare singolarmente con Pechino un accordo nell’ambito della Nuova Via della Seta. L’Ue vorrebbe parlare con la Cina con una voce sola, o almeno questo è il mantra che ripetono costantemente in sede europea. E per questo motivo sono rimasti decisamente poco felici della scelta di Palazzo Chigi di proseguir sulla rotta dell’accordo bilaterale.

Ma l’idea è che a Bruxelles, più che la volontà di parlare a una sola voce con la Cina, interessi frenare l’Italia dalla sua attività diplomatica da “battitore libero”. Il governo giallo-verde, tra legami con Washington, sponde a Mosca e affari con Pechino, rappresenta una vera e propria spina nel fianco per l’Europa a trazione franco-tedesca. Ed è soprattutto per questo motivo che Macron, Merkel e Juncker hanno cercato prima di tagliare i rapporti fra governo italiano e amministrazione Trump, e adesso ci riprovano colpendo il possibile asse Italia-Cina.

Ma questa volta, la mossa di Francia e Germania è più subdola. Perché con Donald Trump è in atto una vera e propria guerra politica e commerciale. Mentre con Xi Jinping e il gigante asiatico il discorso è diverso. Le sfaccettature sono innumerevoli e gli affari di Berlino e Parigi con Pechino sono enormi, addirittura superiori rispetto a quelli consolidati nell’asse Italia-Cina.

E proprio per questo motivo, in concomitanza con la visita del leader cinese a Roma, da Parigi arriva la notizia che cambia il quadro dei rapporti interni all’Europa. Macron ha invitato la Cancelliera tedesca a Parigi (e con lei sarà presente anche il presidente della Commissione europea) per incontrare tutti insieme il presidente cinese. Xi è atteso a Parigi per martedì, ma oggi è arrivata la notizia che il suo viaggio non riguarderà solo i rapporti Cina-Francia, ma anche Cina-Unione europea. Ed è proprio per questo motivo che la mossa dei due leader dell’asse franco-tedesco appare molto scaltra ma anche un vero e proprio sgarbo diplomatico contro l’Italia.

Di fatto, con questa decisione, Macron, Merkel e Juncker certificano tre cose. La prima, che l’asse franco-tedesco funziona a tal punto da poter condurre incontri a tre con il gigante cinese. La seconda, che l’asse franco-tedesco rimane il vero fulcro della politica dell’Unione europea e che i due leader si sono ormai consacrati quali rappresentanti non più solo di Francia e Germania ma anche dell’Europa. Ma certifica anche un terzo fatto: che questa Unione europea vuole mostrare la propria diffidenza (se non ostilità) nei confronti della decisione dell’Italia di agire unilateralmente con la Cina. Ed è rilevante che i due leader abbiano anche voluto anticipare l’incontro prima del summit Ue-Cina che si terrà il 9 aprile. Ed è probabile che anche di questo parlerà il premier Giuseppe Conte nel faccia a faccia che avrà con Macron al Consiglio europeo.

In tutto questo, è chiaro l’intento franco-tedesco anche di lanciare un segnale negativo nei confronti dei rapporti fra Italia e Cina. L’immagine che passa con questa mossa di Macron e Merkel, è quella di un’Italia isolata nel suo contesto continentale e priva della forza necessaria per frenare le ambizioni di Francia e Germania. Problemi forse non fondamentali per una superpotenza come la Cina. Ma nell’ottica generale degli equilibri di forza all’interno dell’Ue è chiaro che per l’Italia si tratti dell’ennesimo campanello d’allarme: il sabotaggio della nostra politica estera è sempre dietro l’angolo.

venerdì 22 marzo 2019

NoTav - Non riescono a saturare il Frejus e vogliono fare un'altro buco nella montagna, lo chiamano sviluppo e non prebende e fonte di clientelismo, maestri nel raggiro


Movimento No Tav | 21 Marzo 2019 |

Ricorderemo a lungo il grido straordinario emerso dal basso in queste marzo: quello delle donne in tutto il mondo, il grido dei ragazzi e delle ragazze con Greta, infine, quello di sabato 23 marzo, proveniente dalla marcia per il clima e contro le grandi opere inutili. “Vedremo prima la fine del mondo che la fine del Tav.”, scrivono i No Tav in una bella lettera al movimento del 15 marzo, richiamando le denunce degli scienziati sul poco tempo rimasto per ridurre la temperatura del pianeta prima di effetti disastrosi e irreversibili. Abbiamo bisogno ora di ribaltare l’economia sviluppista e di prenderci tutti e tutte cura dei territori. “Qualsiasi politico che dica di combattere il cambiamento climatico dovrebbe immediatamente esprimersi non a favore ma contro quei progetti che aumenteranno le emissioni di CO2 nei prossimi cruciali 12 anni… “. “Siamo una delle valli più cementificate d’Europa… – aggiungono dalla Val di Susa – Siamo stanchi e molto arrabbiati… Nessuno più di voi può capire meglio questo slogan: la terra non si abusa, per noi non esiste una valle B…”. Insomma, non si tratta più di pregare i leader di occuparsi del clima, come ha detto Greta, ma solo di fargli sapere tre ultime cose: il cambiamento del clima sta arrivando, “il vero potere appartiene alle persone…”, siamo molto arrabbiati

In questa pagina alcune immagini della grande manifestazione No Tav del 8 dicembre 2018 a Torino. Le foto sono di Luca Perino

di Movimento No Tav

Il 15 marzo ci è stato il primo sciopero globale per il clima. Siete state decine di migliaia a scendere in piazza in tutta Italia e nel mondo. Anche dalla Val Susa, abbiamo ammirato il coraggio di Greta nel mettersi in gioco in prima persona e rompere il silenzio. Ai più vecchi di noi ha ricordato le prime ricerche che abbiamo iniziato a fare su un progetto che vogliono realizzare da trent’anni nella nostra valle. Proprio come Greta, non ci siamo accontentati di una politica che diceva “è tutto apposto qui, non c’è nulla da vedere”: ci siamo informati e abbiamo scoperto che dietro le lettere TAV si nascondeva una grande opera che avrebbe avuto un impatto terribile sulle nostre vite, ingiustificabile sul piano economico ed ecologico, emblema di un sistema che vive per far andare più veloci le merci invece di far vivere meglio le persone. Anche noi all’inizio eravamo una manciata, poi siamo diventati centinaia, poi migliaia, poi decine di migliaia, dando vita a quello che è forse il più longevo movimento “ambientale” del nostro paese.

Da quei primi giorni siamo riusciti a fermare diverse varianti dell’opera, progetti che persino i proponenti hanno poi riconosciuto essere sovradimensionati e troppo impattanti. Questo però lo hanno sempre detto dopo, prima non facevano altro che assicurarci che ogni progetto era il migliore, ognuno era indispensabile per la valle e per il paese. Se non ci fossimo messi in mezzo tutti quanti, bambini, ragazzi, adulti e anziani li avrebbero già realizzati.

Negli anni per far ingoiare alla Val Susa la pillola del TAV le hanno provato tutte. Ci hanno detto che eravamo dei montagnari ignoranti, che il TAV serviva per lo sviluppo, per il progresso, per l’export. Ora subdolamente sostengono che opporsi all’alta velocità vuol dire essere a favore del trasporto su gomma, come se già non esistesse un treno che attraversa la Val Susa e che è decisamente sotto utilizzato. L’ultimo disperato tentativo è far passare quel mega-cantiere che ha iniziato a devastare la Val Clarea, una zona bellissima dove passeggiavamo fino a poco tempo fa e dove si trova una rarissima farfalla alpina, la Zerinizia, come un progetto “ecologico”.

Un’eventuale seconda linea tra Torino e Lione avrà in realtà effetti devastanti non solo sulla nostra valle ma su tutto l’ecosistema. Basta dare un’occhiata all’impronta ecologica del TAV. Secondo la ditta che vorrebbe costruire il tunnel, i lavori dovrebbero durare almeno quindici anni. Per tutto il suo periodo di attività il cantiere emetterà 1 milione di tonnellate di CO2 l’anno (e lasciamo da parte gli effetti sulle falde acquifere e sulla presenza di uranio nel massiccio dell’Ambin). Per “recuperare” un tale aumento delle emissioni il super-treno dovrebbe viaggiare a pieno regime per altri dodici anni. Sappiamo che sono stati mesi di propaganda incessante sul TAV che ha nauseato anche noi e sappiamo quanto siete attenti a verificare sempre in maniera scientifica ciò che viene detto, quindi potete controllare voi stessi questi dati, si trovano in uno dei documenti pubblicati dai promotori del TAV, il Quaderno n. 8 dell’Osservatorio per l’asse ferroviario Torino-Lione. Attenzione! Viaggiare a pieno regime non significherebbe solo spostare su ferro i 2.154 mezzi pesanti che passano oggi dal Frejus (lo 0,1% delle emissioni inquinanti in Italia, un’inezia di fronte agli 80.000 TIR che sfrecciano in tangenziale e di cui nessuno vuole occuparsi) e che potrebbero facilmente essere portati sulle ferrovie grazie agli incentivi fiscali. Significa che per essere ecologicamente conveniente il traffico sulla tratta tra Torino e Lione dovrebbe aumentare di venti volte rispetto ad oggi. Una cosa non solo impossibile ma anche non auspicabile. Una cosa sbagliata, grave e dannosa. Il tutto mentre c’è un altro tunnel, quello del Frejus, che scorre parallelo a poche decine di chilometri.

Insomma, il TAV, facendo aumentare il traffico di venti volte, avrà un ipotetico impatto positivo sulle emissioni nel 2047. Pensiamo che sapete meglio di noi ciò che dicono gli scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC): abbiamo solo dodici anni per impedire che la temperatura del pianeta superi i +1,5 °C, arrivando fino a +2 °C, con effetti disastrosi e irreversibili per la vita sulla Terra. Vedremo prima la fine del mondo che la fine del Tav.

Le emissioni non vanno diminuite tra trent’anni costruendo nuovi tunnel e facendo viaggiare ancora più merci su lunghe distanze, vanno diminuite ora investendo nell’economia circolare, sul riassetto idrogeologico, la cura e la manutenzione del territorio cambiando un modello di sviluppo che ci sta portando dritti all’estinzione.

Il cambiamento climatico sembra un tema vasto e molto lontano, su cui possiamo fare poco fatta eccezione per piccoli comportamenti quotidiani. Ciò che bisogna capire è che il climate change deriva da scelte ben precise che hanno effetti molto concreti sulla vita delle popolazioni, dal delta del Niger all’Amazzonia, dalla Terra dei fuochi alla Val di Susa. Non è vero che i politici non stanno facendo nulla per l’ambiente, ve lo possiamo assicurare: stanno facendo anche troppo.

Come noi, come Greta, come tutti i movimenti dal basso anche voi condividete un dilemma. Come assicurarci che le dichiarazioni dei politici non siano solo belle parole ma si traducono in fatti? Se ci pensate, la risposta è in fondo abbastanza semplice. Qualsiasi politico che dica di combattere il cambiamento climatico dovrebbe immediatamente esprimersi non a favore ma contro quei progetti che aumenteranno le emissioni di CO2 nei prossimi cruciali dodici anni. È il solo modo per capire se fanno sul serio.


La Val di Susa ha già pagato un tributo pesantissimo all’ideologia dello sviluppo a ogni costo, tenacemente portata avanti di chi vede il nostro territorio come un semplice corridoio di transito e non un ecosistema dove vivono persone, animali e piante. Siamo una delle valli più cementificate d’Europa, le nostre montagne sono solcate da due strada statali, un’autostrada, una linea ferroviaria passeggeri e merci a doppio binario.

Per questo siamo stanchi e arrabbiati.

Nessuno più di voi può capire meglio questo slogan. La terra non si abusa, per noi non esiste una valle B.

Un in bocca al lupo per la vostra lotta. È anche la nostra.

Qui il comitato No Tav racconta il mito del Treno ad Alta Velocità e le lotte di difesa dei territori: una storia lunga decenni, con un epicentro in Val di Susa.

Qua invece l’appello per la manifestazione del 23 marzo.

Diritto internazionale calpestato - Nessuna fiducia ai due lestofanti che rapinano a mano armata

USA, Israele e il furto del Golan

Scritto da Michele Paris Pubblicato: 20 Marzo 2019


Con una nuova iniziativa in totale violazione del diritto internazionale, l’amministrazione Trump potrebbe essere vicina a riconoscere ufficialmente la sovranità di Israele sulle alture del Golan. Svariati segnali negli ultimi mesi sembrano indicare una possibile mossa in questo senso da parte della Casa Bianca, nonostante l’occupazione illegale di Israele su un territorio appartenente a tutti gli effetti alla Siria sia condannata dall’intera comunità internazione, da una risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU e dagli stessi Stati Uniti.

L’ultimo segnale di allarme è arrivato qualche giorno fa, quando un documento del dipartimento di Stato americano ha fatto riferimento alle alture del Golan come un territorio “controllato” da Israele, lasciando cioè cadere per la prima volta la tradizionale e legalmente corretta definizione di territorio “occupato”. Questa sfumatura apparentemente solo semantica ha in realtà delle implicazioni esplosive, visto che potrebbe aprire la strada a un riconoscimento del territorio al confine tra Siria e Israele come parte integrante di quest’ultimo paese.

Le alture del Golan hanno un’importanza strategica assoluta grazie a una posizione che consente di controllare tutta la valle settentrionale del Giordano. Inoltre, l’occupazione ha sempre avuto a che fare con la consolidata inclinazione israeliana a impossessarsi in maniera illegale delle risorse dei territori arabi. Il Golan dispone infatti di terreni fertili adatti alla coltivazione e garantisce il controllo di significative sorgenti idriche. In quest’area si trovano infine considerevoli giacimenti petroliferi ancora da sfruttare e che, come si vedrà in seguito, hanno un peso determinante sulle decisioni che potrebbero essere prese a Washington.

Le alture del Golan, situate nella Siria meridionale, furono occupate da Israele al termine della guerra dei Sei Giorni del 1967 e in seguito annesse unilateralmente nel 1981. In questo stesso anno, la risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite numero 497, appoggiata anche da Washington, rese nullo questo provvedimento di Tel Aviv, così che il territorio viene universalmente considerato come “occupato”. In quest’area, Israele ha favorito l’insediamento di oltre 20 mila coloni, in modo da modificarne la composizione demografica e creare, come nel caso dei territori palestinesi, un fatto compiuto, mentre la popolazione nativa, composta in gran parte da drusi, viene regolarmente discriminata.

Visti gli sviluppi di questi ultimi otto anni, è evidente che il governo israeliano intende sfruttare il conflitto in Siria per ottenere il riconoscimento del possesso del Golan da parte del suo principale alleato. Nell’amministrazione Trump, il primo ministro Netanyahu ha trovato un interlocutore disposto ad ascoltare le proprie ragioni, principalmente per via dell’influenza della lobby israeliana sulla Casa Bianca e della sensibilità di un argomento che, indirettamente, potrebbe tradursi in uno schiaffo all’Iran.

Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche, già all’inizio del 2017 Netanyahu aveva sollevato la questione del Golan con il presidente Trump, al quale aveva sollecitato il riconoscimento ufficiale del territorio siriano. In un’intervista alla Reuters, l’anno scorso il ministro dell’intelligence israeliano, Israel Katz, aveva a sua volta espresso una certa fiducia sul fatto che l’amministrazione repubblicana si sarebbe mossa in questo senso nei mesi successivi.

Solo qualche settimana fa, poi, il senatore repubblicano molto vicino al presidente, Lindsey Graham, aveva visitato di persona le alture del Golan e poco dopo aveva assicurato alla stampa che avrebbe fatto pressioni sulla Casa Bianca per ottenere un riconoscimento ufficiale della sovranità di Israele su questo territorio. Al Senato di Washington sta anche circolando una proposta di legge bipartisan che, allo stesso modo, ratificherebbe da parte americana l’annessione illegale israeliana delle alture del Golan.

Mercoledì, dopo un faccia a faccia con il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, il premier israeliano Netanyahu ha fatto appello al governo americano e alla comunità internazionale a riconoscere la sovranità del suo paese sul Golan. A suo dire, il riconoscimento sarebbe giustificato anche dalla recente presunta scoperta da parte delle forze armate israeliane di una “nascente cellula militare” di Hezbollah in un villaggio di confine sulle alture del Golan.


La questione rischia di infiammare ancora di più la regione, come ha confermato la reazione comprensibilmente molto dura del governo di Damasco. In risposta alle voci di un riconoscimento della sovranità israeliana, il vice-ministro degli Esteri siriano, Faisal Mikdad, settimana scorsa aveva minacciato una risposta militare. Alla responsabile dell’agenzia ONU che monitora la tregua nelle alture del Golan, il diplomatico siriano aveva comunicato le intenzioni di Damasco di arrivare al confronto con Israele anche se questo paese continuerà ad attaccare la Siria o se non restituirà le alture del Golan.

Per quanto riprovevole e illegale, un’eventuale decisione americana sul Golan non apparirebbe tutto sommato particolarmente sorprendente, poiché l’amministrazione Trump continua a distinguersi per il completo disinteresse nei confronti del diritto internazionale. In merito alle vicende mediorientali, ha già adottato almeno due misure clamorose, illegali e in piena contraddizione con le posizioni di praticamente tutti i paesi del mondo, come il ritiro degli USA dall’accordo sul nucleare iraniano e, sul finire del 2017, il riconoscimento di Gerusalemme come capitale dello stato di Israele, con conseguente spostamento dell’ambasciata americana da Tel Aviv.

Oltre all’importanza strategica per Israele e ai fini della competizione per il controllo del Medio Oriente, la sovranità sulle alture del Golan è da collegare anche alle potenzialità di questo territorio in ambito energetico. Come già anticipato, da qualche anno sono state individuate in quest’area ingenti riserve di petrolio, per accedere alle quali Israele e le compagnie americane del settore non hanno però incentivi, vista la natura contesa del territorio.

Già nel 2013, il governo Netanyahu concesse i diritti di esplorazione petrolifera nel Golan alla società Afek Oil and Gas, filiale israeliana dell’americana Genie Energy. Tra le proteste di residenti e ambientalisti, le prime trivellazioni esplorative erano iniziate nel 2015, ma le attività, già di per sé illegali, sono bloccate dalla prospettiva di non potere esportare il greggio estratto da un’area che è soggetta all’occupazione di Israele. In ballo ci sono decine di miliardi di dollari che potrebbero essere sbloccati se gli Stati Uniti dovessero riconoscere la sovranità israeliana. In questo modo, quanto meno, le compagnie impegnate nell’estrazione potrebbero vendere negli USA il petrolio sottratto al popolo e allo stato siriano.

A pesare sulle decisioni della Casa Bianca non sono soltanto generici interessi energetici, bensì legami molto stretti tra l’amministrazione Trump, il governo Netanyahu e Genie Energy. Come ha spiegato il commentatore britannico Finian Cunningham sul sito del network russo RT, l’ex presidente di questa compagnia con sede nel New Jersey, Ira Greenstein, condivide legami d’affari con il genero e consigliere di Trump, Jared Kushner, e proprio tramite quest’ultimo è diventato un consulente della Casa Bianca. Il numero uno di Afek Oil and Gas è poi l’ex deputato ed ex ministro israeliano Efraim Eitam, amico intimo di Netanyahu e da sempre fautore dell’espulsione della popolazione araba da Israele.

Tra i principali investitori di Genie Energy figurano l’ex consigliere di Trump per gli affari riguardanti Israele, Jason Greenblatt, nonché il colosso bancario Goldman Sachs, tra i cui top manager c’era l’ex consigliere economico del presidente, Gary Cohn. Nel consiglio di amministrazione di questa stessa compagnia siedono oppure detengono azioni anche altre personalità super-influenti del mondo politico, mediatico e finanziario, come Rupert Murdoch, l’ex vice-presidente americano Dick Cheney, l’ex segretario al Tesoro Larry Summers e l’ex direttore della CIA James Woolsey.

Il riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan sarebbe dunque niente meno che un’impresa criminale, frutto di giganteschi conflitti di interesse e dell’indifferenza americana per il diritto internazionale. Non solo, anche la sola ipotesi di una mossa in questo senso da parte di Washington rappresenta una colossale ipocrisia, visto che demolisce del tutto le pretese di condanna dell’annessione russa della Crimea.


Proprio questo effetto indesiderato della questione del Golan ha già spinto alcuni commentatori “mainstream” a mettere in guardia l’amministrazione Trump dall’assecondare le richieste israeliane su questo argomento. Ratificare l’appropriazione illegale di un territorio di un paese sovrano da parte di Israele annienterebbe d’altra parte qualsiasi credibilità degli Stati Uniti nel sostenere che Mosca deve restituire la Crimea all’Ucraina.

Mentre sembrano essere sul punto di riconoscere il controllo di Israele sulle alture del Golan in violazione del diritto internazionale, gli Stati Uniti continuano infatti a condannare il Cremlino per la questione della Crimea, nonostante il ritorno di essa alla Russia non sia impedito da nessun mandato internazionale, ma è anzi legittimato dai precedenti storici, da un retaggio culturale comune e dal referendum popolare tenuto nel marzo del 2014.

http://www.altrenotizie.org/spalla/8387-usa-israele-e-il-furto-del-golan.html

i sionisti ebrei hanno creato a Gaza la prigione a cielo aperto l'Auschwitz palestinese, hanno usato cecchini e maledetti sono amareggiati

Israele, amarezza per astensione Italia

'Consiglio diritti umani cede ancora a manipolazioni Hamas'

Redazione ANSAROMA

22 marzo 201913:57NEWS

(ANSA) - ROMA, 22 MAR - "Oggi abbiamo assistito all'ennesima occasione in cui il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite ha tradito il suo mandato, cedendo alla manipolazione di Hamas": lo dichiara l'Ambasciatore d'Israele in Italia, Ofer Sachs, commentando la risoluzione di condanna per le violenze al confine tra Gaza e Israele. Nella nota, l'Ambasciatore esprime "amarezza rispetto all'astensione italiana", accanto a quella di altri stati membri, nel voto del Consiglio.

22 marzo 2019 - Accordo con la Cina? Difendiamo le nostre tradizioni

21 marzo 2019 - Virginia Raggi a Porta a Porta (INTEGRALE)

Alberto Negri - La Sharia si la cultura millenaria cinese no, ragionare con i piedi degli euroimbecilli

Alberto Negri - L'Europa preoccupata per gli accordi tra Italia e Cina, perché non dice mai nulla sul suo alleato Erdogan



L’Europa è assai preoccupata per gli accordi tra Italia e Cina, percepita - per altro dopo anni di affari a rotta di collo condotti da tedeschi, inglesi e francesi - come un pericolo strategico, una superpotenza in contrasto con i valori occidentali. Essere prudenti con il dragone cinese forse è giusto. E’ assai curioso invece come l’Europa non abbia mai nulla da dire sul suo alleato Erdogan, un Paese membro storico della Nato, che ogni giorno i valori occidentali li calpesta sistematicamente. Questo lassismo è dovuto al fatto che con la Ue paghiamo Erdogan miliardi di euro (sei) per tenersi tre milioni di profughi siriani e che quindi ci ricatta con la possibile riapertura della rotta balcanica verso la Germania e l’Europa centrale. Il presidente turco compra i missili S-400 da Putin, irridendo la Nato e gli Stati Uniti, e dopo il fallito golpe del 2016 tiene migliaia di persone in carcere, senza accuse provate, tra cui centinaia di giornalisti e la dirigenza curda del partito Hdp. Non solo: ha alimentato la guerra in Siria facendo affluire migliaia di jihadisti, per altro con il consenso americano, europeo e i soldi delle monarchie del Golfo, e intende far fuori i curdi del Rojava siriano che a lungo, da soli, si sono opposti al Califfato nero di Al Baghdadi, di cui la Turchia è stata complice.

Erdogan è più pericoloso dei cinesi

Gli Usa e gli stati europei, ben sapendo di avergli colpevolmente concesso libertà d’azione, sono i primi a permettere che Erdogan sbeffeggi ogni principio di libertà e democrazia. Negli ultimi giorni però il leader turco ha passato i limiti e anche stavolta la reazione occidentale e dell’Unione europea è stata nulla. Le sue dichiarazioni dopo il massacro di 50 musulmani nelle moschee di Christchurch in Nuova Zelanda sono demenziali anche se la stampa europea le ha riportate solo parzialmente. Ecco cosa ha detto a Gallipoli, in occasione delle celebrazione delle battaglia del 1915, quando inglesi e francesi furono sconfitti nel tentativo di costringere l’impero Ottomano a riaprire lo stretto dei Dardanelli. A quella lunga battaglia durata mesi parteciparono sul fronte britannico anche soldati australiani e neozelandesi.

“I vostri nonni vennero qui e li abbiamo rimandati indietro nelle bare. Non abbiamo dubbi: rimanderemo a casa nelle bare anche voi nipoti”.

Il fatto che Erdogan la settimana prossima debba affrontare contrastate elezioni amministrative non giustifica un discorso del genere, pronunciato tra l’altro di fronte a numerose delegazioni straniere, neppure a fini di propaganda. Non solo presta il fianco a ogni critica possibile ma infiamma ulteriormente un confronto tra Occidente e Islam che vuole lui, insieme al radicalismo islamico e ai seguaci del suprematismo bianco e razzista. Non si è limitato a questo il presidente turco: ha mostrato in diversi comizi immagini della strage delle moschee in Nuova Zelanda - seppur sgranate - per denunciare “l’islamofobia”.

L'Europa sempre in silenzio

Il governo di Wellington ha chiesto che le immagini non vengano riproposte pubblicamente e ha protestato insieme a quello australiano. Ma dall’Europa non è venuta una parola di condanna e si continua a tollerare per ragioni geopolitiche e di bottega che Erdogan dica che quel che vuole pur essendo un possibile candidato all’ingresso nell’Unione. Insomma lasciamo che Erdogan si presenti come il campione dell’Islam sunnita anche quando ci prende a schiaffi. Ovviamente lui si fa portavoce di quel “doppio standard” con cui l’Occidente ha trattato in questi decenni il mondo musulmano. L’Europa non ha proferito verbo quando gli Usa hanno spostato l’ambasciata a Gerusalemme riconoscendola capitale esclusiva di Israele, contro ogni risoluzione dell’Onu. Non fa nulla quando lo stato ebraico occupa i territori palestinesi e moltiplica gli insediamenti, non ha fatto niente per rimediare la disastro della guerra in Iraq nel 2003 e ha contribuito in maniera criminale alla distruzione della Siria e della Libia. C’è poco da lamentarsi se poi la Turchia, ribadiamo Paese della Nato, stringe accordi con Putin e con l’Iran.

Ma che adesso Erdogan minacci di mettere sotto terra i nipoti di coloro che combatterono a Gallipoli va oltre ogni limite. Tra un po’ passerà alla battaglia di Lepanto del 1571 in cui venne sconfitta la flotta ottomana, alla quale inneggiava il terrorista massacratore di Christchurch. Informiamo Erdogan che comunque l’unico ammiraglio ottomano non sconfitto in quello scontro navale storico fu proprio Occhiali, nato a Capo Rizzuto dove oggi c’è il suo busto: era un calabrese convertito all’Islam, che tra l’altro fece prigioniero Cervantes, al quale sul Bosforo è pure dedicata una bella moschea. Ne tenga conto, se alla prossima occasione ci vuole proprio sotterrare di stupidaggini.

Notizia del: 21/03/2019

L'Occidente ignorante che non sa niente della Cina

Pino Arlacchi - Cina, è via della seta o via dell'ignoranza?


di Pino Arlacchi - Fatto Quotidiano

La visita del presidente cinese per la firma dell’accordo sulla “nuova via della seta” ha dato luogo a un dibattito politico-mediatico inconcludente e povero di contenuti. Anche chi difende le ragioni dell’accordo dimostra una conoscenza a dir poco incerta delle sue premesse e delle sue implicazioni. Ciò si deve a un fondamentale vuoto di conoscenza sulla Cina che viene sostituito da uno schema mentale tanto facile quanto sbagliato: Cina eguale a Stati Uniti. Il Paese di Xi Jinping è – per la quasi totalità dei commentatori italiani di politica estera e per gli sprovveduti leader dell’opposizione e del governo – nient’altro che una replica autoritaria della superpotenza americana.

Pochi di loro, in verità, dubitano che la Cina diventerà entro un decennio la maggiore economia del pianeta, con l’America al secondo posto. Ma ciò avverrebbe grazie al fatto di aver perseguito gli stessi obiettivi, seguito la stessa strategia e usato gli stessi strumenti adoperati dall’Europa negli ultimi secoli, e dagli Usa negli ultimi decenni, per impadronirsi del pianeta. Con la sola differenza della natura antidemocratica del regime di Pechino, guidato dal Partito comunista. Ma una lettura anche sbadata di qualche buon libro di storia della Cina dovrebbe essere sufficiente a smentire questo stereotipo. In materia di pace e di guerra, negli ultimi 2500 anni si è consolidata in Cina una vocazione diametralmente opposta a quella occidentale. Il disprezzo e l’avversione alla guerra sono un filo che corre lungo l’intera storia e cultura del Paese. Mentre nei sette secoli e mezzo che vanno dal 1200 al 1945 l’Europa è stata dilaniata da un massacro ogni pochi anni, la Cina ha goduto nello stesso arco di tempo di periodi di pace lunghi fino a 500 anni. Ed è su questa base non violenta – senza costruire imperi oltremare e senza corsa agli armamenti – che essa ha edificato una supremazia economica globale durata fino al 1820. E terminata a opera delle armi, della droga e dell’espansionismo spoliatorio dell’Occidente.

Tra tutti i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu, la Cina è l’unico a non aver sparato un solo colpo di cannone ai suoi confini negli ultimi 31 anni, dopo un breve scontro armato con il Vietnam nel 1988. L’idea della conquista imperiale, formale o tramite il libero scambio, è estranea alla cultura politica cinese altrettanto di quanto essa sia familiare all’Europa dall’Impero Romano in poi, e agli Stati Uniti dalla loro nascita, 250 anni fa, fino adesso. Consiglio a tutti di riflettere sulla vicenda delle spedizioni oltremare dell’ammiraglio cinese Cheng Ho intraprese 80 anni prima di Cristoforo Colombo.

Spedizioni colossali, richiamate in patria perché non animate dall’auri sacra fames, e che ci aiutano a capire perché oggi non parliamo cinese mentre nel continente americano si parla spagnolo e portoghese. La Cina è una potenza non-espansionista, non-militarista e pacifica sin dalle sue origini, e non c’è alcuna ragione di pensare che lo diventerà solo per imitare gli Stati Uniti. Essa non ha alcuna propensione a trasformare la sua potenza economica in potenza militare.

Prove recenti? Il suo budget militare, modesto e in costante diminuzione come percentuale del Pil, e il suo approccio al sistema internazionale creato dopo il 1945 dall’Occidente “pentito” delle sue ultime carneficine. L’approccio cinese si è basato sull’accettazione delle regole multilaterali e non sul loro sovvertimento. Dalle Nazioni Unite fino al Wto, dalle missioni di pace Onu (delle quali è il maggior contributore in termini di personale) ai grandi accordi su clima, ambiente, energia, mercati e nucleare, la Cina si comporta come uno Stato membro responsabile e pragmatico e non come una potenza aggressiva e minacciosa. Assomiglia a un’Europa priva della subordinazione agli Stati Uniti. Dal punto di vista politico, la principale differenza tra Cina e Stati Uniti consiste nell’adesione da parte della prima al concetto-guida delle Nazioni Unite, divenuto ormai una realtà di fatto delle relazioni internazionali: la multipolarità di un ordine mondiale basato su norme universalmente condivise e sul rispetto delle sovranità nazionali.

Una potenza in ascesa che fosse simile agli Usa avrebbe avuto tutto l’interesse a sposare una concezione unipolare del mondo, dove un singolo Paese giunto ai vertici del potere globale si assume il compito di dispensare a tutti il bene supremo della sicurezza. Le “dimissioni” di Trump dal ruolo degli Usa come governo mondiale sono di sicuro un passo importante verso la multipolarità, e aprono uno spazio verso la coesistenza con una Cina interessata al “vivi e lascia vivere” invece che all’imperium globale. Come l’ Unione europea. Ma è altrettanto certo che non siamo di fronte all’accettazione di un mondo post-americano. Esso comporta uno choc politico e un colpo al cuore militare-industriale di una potenza che è abituata a non avere rivali nel pianeta. E ciò può sconvolgere tutto.


Notizia del: 21/03/2019