L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 14 settembre 2019

14 settembre 2019 - DIEGO FUSARO: Il globalismo pensato altrimenti. Dialogo sul sovranismo s...

13 settembre 2019 - DIEGO FUSARO: Interventi a "Coffeebreak" (La7)

Il corrotto euroimbecille Pd e il falso ideologico M5S concorreranno insieme per affossare il fanfulla rintronato della Lega che ha come obbiettivo solo acchiappare le poltrone delle regioni nessuna strategia per l'Interesse Nazionale

LA PROVA DEL FUOCO13 settembre 2019
Elezioni regionali, perché l’alleanza Pd-Cinque Stelle si farà. E sarà la tomba di Salvini

Il leader leghista punta a conquistare le due regioni storicamente rosse per dimostrare l’assenza di consenso verso il governo. Ma se il Pd apre all’ipotesi di un’alleanza anche a livello regionale, i Cinque stelle sembrano contrari. Le liste civiche però potrebbero risolvere il problema

Filippo MONTEFORTE / AFP

Ci sono due date segnate di fosforescente nell’agenda politica italiana: sono il 27 ottobre - quando si voterà per il rinnovo del consiglio regionale umbro – e il 24 novembre (o un giorno di inizio gennaio) quando si voterà per le amministrative dell’Emilia Romagna. Dall’esito delle elezioni in queste regioni - storicamente rosse, ma negli ultimi mesi date ad alto rischio di sconfitta per la sinistra - dipenderà la sorte del governo giallorosso e il futuro politico di Matteo Salvini.

Non a caso il leader leghista già in questi giorni si è trasferito in Umbria per cominciare una campagna elettorale che, dicono i suoi, verrà combattuta “città per città, paese per paese, casa per casa”. E che la partita dell’Umbria sia per la Lega una partita decisiva lo dimostrano i toni veementi di Salvini che da Orvieto tira in ballo anche Mattarella chiedendogli, di fronte alla trattativa sul risiko di viceministeri e sottosegreterie, “se gli italiani meritavano questo schifo”. Poi Salvini sfida Pd e Cinquestelle: “Facciano pure l’alleanza anche in Umbria, li sfido. Tanto qui si vince. In Umbria si cambia, la sinistra ne ha combinate troppe”.

Il riferimento del numero uno di via Bellerio è agli scandali nella sanità che hanno travolto i vertici della politica regionale. La vittoria in Umbria - e a seguire in Emilia Romagna - dovrebbero costituire nell’idea di Salvini i primi atti della remuntada dopo l’esito della crisi agostana che ha spinto la Lega e il suo capitano all’opposizione. La conquista di due regioni tradizionalmente rosse, lo sfondamento leghista su territori dove la discesa del Carroccio si è sempre arrestata, avrebbe oggettivamente un effetto conturbante sugli equilibri politici nazionali e Salvini la userebbe come argomentazione ulteriore sull’assenza di consenso delle forze di governo. In caso di sconfitta invece per Salvini si aprirebbe un futuro oscuro, anche all’interno della sua Lega, perché la capitolazione alle regionali segnerebbe la bocciatura di un’intera linea politica.

Nei due partiti alleati a Roma è per logica politica evidente che se Salvini sfonda in Umbria poi sarà più facile per lui sfondare in Emilia Romagna e a seguire nelle altre regioni

Per questo è possibile che questo non accada e che alla fine l’intesa fra movimento Cinquestelle e Pd nelle regioni si trovi. Non solo perché i trend dei sondaggi dopo l’accordo di governo registrano il Pd stabile nei consensi o lievemente in salita e in crescita il movimento Cinquestelle ma perché nei due partiti alleati a Roma è per logica politica evidente che se Salvini sfonda in Umbria poi sarà più facile per lui sfondare in Emilia Romagna e a seguire nelle altre regioni. E non a caso è su questi fronti regionali, come si diceva che Salvini, ha rilanciato la sua azione confidando proprio nella difficoltà di Pd e Cinquestelle a saldare un asse di centrosinistra nei territori.

Difficoltà innegabili, come si vede in queste ore, dove il fuoco di sbarramento che proviene dai Cinquestelle, soprattutto da ambienti vicini a Luigi Di Maio, sembra chiudere a ogni ipotesi di alleanza. Con l’argomentazione che le alleanze nei territori legano poi i contraenti per almeno cinque anni. Tuttavia sembra pensarla diversamente Grillo che invece dopo aver patrocinato l’intesa giallorossa a livello nazionale potrebbe spingere anche su un’alleanza in chiave regionale, prefigurando quel polo progressista e riformista che in fondo l’ex comico genovese ha sempre avuto in mente. E che oggi rimedita anche alla luce della considerazione che il movimento non è riuscito a sfondare come forza antisistema e deve dunque consolidarsi come forza riformista di sistema. Subendo per ora la maggiore esperienza Pd, che si registra anche nella partita di queste ore su viceministeri e ruoli di sottogoverno, ma preparandosi a una maggiore capacità di presenza nei ruoli di comando.

È ancora prematuro capire cosa succederà ma le dichiarazioni di queste ore non devono essere prese come definitive o immutabili

Forse la chiave di come il movimento uscirà da questo dilemma – alleanza con il Pd sì o no - la fornisce Andrea Bertani, capogruppo regionale del Movimento 5 Stelle che dice “non c’è nessun ponte aperto con il Pd in vista delle prossime elezioni regionali. Le uniche alleanze elettorali possibili sono e restano quelle che riguardano vere e autentiche liste civiche”.

Ecco quale potrebbe essere, anche in Umbria il caveat per costruire un’intesa tra Pd e Cinquestslle che non sia esplicita ma che alla fine risulti sostanziale: il far avanzare scelte civiche sostenute da un’area vasta di centrosinistra. Logica che sta avanzando anche in Umbria.

È ancora prematuro capire cosa succederà ma le dichiarazioni di queste ore – i rotondi no dei Cinquestelle per intendersi all’intesa coi dem – non devono essere prese come definitive o immutabili. Si è già visto che di definitivo e immutabile nella politica italiana non c’è niente.

Lo si è visto lo scorso anno quando, dopo essersi insultati per mesi, Salvini e Di Maio siglarono insieme il governo gialloverde; lo si è visto questa estate con l’alleanza M5s-dem successiva ad anni di polemiche violentissime. “Bisogna rispettare le realtà locali – dice il segretario dem Zingaretti - ma se governiamo su un programma chiaro l’Italia, perché non provare anche nelle Regioni ad aprire un processo per rinnovare e cambiare?”. Una riflessione a cui Zingaretti starebbe pensando di far seguire un gesto concreto: l’allargamento della sua maggioranza in Regione ad alcuni tecnici d’area Cinquestelle.

Il fanfulla ha rincorso lo zombi Berlusconi per acchiappare le poltroni regionali. Continua l'ubriacatura estiva

AIUTATELO
13 settembre 2019

Salvini, bisbetico e frustrato. Ormai è come l’ex che torna a bussarti alla porta (ma tu non lo vuoi più)

Dopo il magistrale auto-sabotaggio di quest’estate, Matteo Salvini non riesce a capacitarsi di aver perso il potere. E ora sta veramente toccando il fondo: in campagna elettorale 24/7 stile Papeete, è arrivato a scomodare anche dei turisti giapponesi. La sindrome ha un nome: coazione a ripetere

Andreas SOLARO / AFP

Forse pensava che il governo funzionasse come il cibo, che dopo averlo fatto cadere bastasse riacciuffarlo entro cinque secondi e soffiarci sopra per mangiarlo senza incorrere in batteri, chissà. Fatto sta che dall’oggi al domani l’Italia s’è desta libera dalla psicosi collettiva per Matteo Salvini, una cosa da non credersi, e infatti lui non ci crede ancora. Sui social sforna sempre le due o tre dozzine di post d’ordinanza, ma tira un’altra aria, tira l'aria tipica dei film americani, quelli dove uno scienziato prevede la catastrofe naturale ma nessuno gli crede perché non si cura ed è sempre spettinato, e alla fine un meteorite distrugge la Terra. Solo che in questo film Salvini fa contemporaneamente la parte dello scienziato, del meteorite e della Terra.

Un auto-sabotaggio da manuale, sugellato dall’impresa di avere rimesso al Governo il Pd in meno di diciassette mesi, impresa tanto eroica quanto legittima, dal momento che viviamo in una democrazia parlamentare con autonomia di coscienza degli eletti e non in una democrazia demoscopica (nemmeno elettorale, con buona pace di coloro che al grido di ‘illegittimità’ puntano il dito sull’attuale governo giallo-rosso). Ma se è vero che è il linguaggio a coprire e scoprire la pulsione di ogni essere umano, le parole per descrivere l’immagine pubblica di Salvini degli ultimi giorni sono solo due: ex fidanzato.

Le parole per descrivere l’immagine pubblica di Salvini degli ultimi giorni sono solo due: ex fidanzato. L’uomo che dopo la ‘fuitina’ estiva si appresenta alla porta come se nulla fosse

L’ex vice premier e ministro dell’interno incarna in pieno il tipo di uomo in cui ogni giovinetta sia pure di solido intelletto ha la sventura di imbattersi almeno una volta nella vita, l’uomo che dopo la ‘fuitina’ estiva si appresenta alla porta come se nulla fosse, forte dell’ascendente che crede di potere esercitare all’infinito sulla mite Clarabella. Finché un bel giorno la sempre mite Clarabella gli apre la porta vagamente déshabillée con al fianco José, un meticcio di due metri a petto nudo che fa il banconista presso la ditta Ursula von der Leyen. E allora pur di rientrare nella bella casetta messa in piedi con Clarabella (e con il mutuo ancora da pagare) l’uomo forte, l’uomo che non deve chiedere mai, l’uomo solo al potere si prostra, promette la carica di premier, ma niente, è tutto inutile. La mite Clarabella, in un afflato di esterofilia, o forse su consiglio dei genitori, preferisce José. Panico. Stupore, poi di nuovo panico. Fino a quando lento, strisciante, si insinua prima il serpente della gelosia, poi della rivendicazione, infine del rancore.

Oggi Salvini appare vecchio, bisbetico. Mentre gli altri leghisti, quelli seri, continuano ad amministrare dietro scrivanie dove troneggia la foto degli stivali con cui gli antenati dissodavano la Pianura padana, il nostro alterna scenate di gelosia in Parlamento a farneticazioni lungo il Paese, in preda a una campagna elettorale h 24/24 in stile Papeete, come se nulla fosse successo. Coazione a ripetere, la chiamano gli psicologi, può insorgere all’indomani di un trauma che non si riesce a superare.

L’altro giorno, a Orvieto, Matteo Salvini ha importunato persino dei turisti giapponesi. «Mi metto nei panni dei turisti giapponesi (tutto pur di dimettere i propri ndr.) che stanno passando. E vedono un tizio con la camicia, col microfono in mano e si diranno: ma che sta facendo il giovedì su una panchina a Orvieto?». Giusto, che sta facendo? «Amici giapponesi stiamo liberando una terra stupenda», dice «questi sono i turisti che ci piacciono, quelli che pagano, non come quelli che sbarcano e vengono pagati per fare i turisti». Dice la Treccani: «Coazione a ripetere - tendenza incoercibile, del tutto inconscia, a porsi in situazioni penose o dolorose, senza rendersi conto di averle attivamente determinate, né del fatto che si tratta della ripetizione di vecchie esperienze».

Per gli invasori ebrei con le mani lorde di sangue è facile sparare ai palestinesi inermi con i loro sicari nella prigione a cielo aperto di Gaza l'Auschwitz del Medio oriente ma il coraggio viene meno quando si tratta di combattere con chi può difendersi


L’eroico Tsahal scappa da Hezbollah abbandonando corazzati e munizioni 

Maurizio Blondet 11 Settembre 2019 

Una equipe di RT araba è entrata in una base militare israeliana al confine con il Libano. Per trovare che l’avamposto è stato abbandonato in fretta dopo una recente resa dei conti con Hezbollah – e l’IDF ha persino lasciato veicoli e munizioni.

Il complesso militare di Avivim è stato teatro di una scaramuccia domenica tra Hezbollah e Israel Defense Forces (IDF). Hezbollah è riuscita a colpire un veicolo militare israeliano con un missile guidato anticarro; Tsahal ha fatto rappresaglia con bombardamenti di artiglieria e uso di elicotteri d’attacco.

(La base israeliana di Avivim, al confine ol Libano.. Abbandonata)

RT ha visitato la base martedì per filmare ciò che stava accadendo intorno al complesso, solo per trovarlo evacuato e senza sorveglianti visibili.


Alla fine, l’equipaggio ha ceduto alla tentazione e ha dato un’occhiata all’interno.


Gli israeliani dovevano avere una gran fretta di andar via, poiché molte cose importanti furono lasciate indietro: caricatori pieni e un paio di blindati lasciati coi boccaporti aperti. La corrispondente araba di RT, Daliya Namari, ha dichiarato di “non aver mai visto nulla del genere prima” – un complesso militare israeliano semplicemente abbandonato senza alcun tentativo visibile di proteggerlo dalle infiltrazioni.

“Gli israeliani hanno lasciato la base con le porte spalancate. Chiunque può entrare, non ci sono posti di blocco in giro “, ha detto Namari.

Due cingolati lasciati lì, boccaporti aperti .

Comunicati israeliani confusi e reticenti hanno mirato soprattutto ad affermare che non ci sono state vittime fra i suoi soldati. Cosa è davvero successo?

Caricatori dimenticati

Risponde Richard Labévière, giornalista specializzato nel conflitto, con contatti diretti in Libano.

“Il confine meridionale del Libano con la Palestina occupata da Israele è stato teatro di un’escalation militare che è durata diversi giorni. Il 1 ° settembre, Hezbollah ha sparato due missili anticarro contro un veicolo corazzato israeliano adiacente ad un edificio nella base militare israeliana a Avivim (estremo nord della Palestina).

Questa operazione è stata una rappresaglia per la morte di due esperti nei droni di Hezbollah, uccisi in un raid israeliano in Siria il 24 agosto e due giorni dopo il sorvolo e l’esplosione di due droni israeliani nella periferia sud di Hezbollah.

“L’esercito israeliano ha risposto bombardando bombe al fosforo in una zona di confine disabitata.

“Per un attimo, Hezbollah ha temuto un’escalation simile a quella del luglio 2006, che ha scatenato la “Guerra dei trenta giorni”. Ma la paura è rapidamente, in quanto l’esercito israeliano ha evacuato l’intera regione per una profondità di diverse decine di chilometri. Secondo diverse fonti di intelligence militari europee e arabe, “l’esercito israeliano non è assolutamente pronto a ripetere un’operazione convenzionale contro il Libano, in un contesto regionale e operativo che è cambiato molto nel suo sfavore …”.

L’attacco è stato ripreso da operatori di Al-Manar (televisione Hezbollah); nel video si vedono chiaramente i due missili, che partono simultaneamente da due diverse fasi di tiro prima di schiantarsi sullo stesso bersaglio a distanza di pochi secondi. La distanza percorsa può essere stimata tra 1,5 e 2 chilometri.

Kornet

Secondo il generale libanese Amin Htaite – uno dei migliori esperti militari della regione, uno specialista in armi balistiche – “L’operazione ha preso di mira blindato israeliano che può portare fino ad otto uomini e normalmente non si muove con meno di tre soldati a bordo. Questa scelta segna la volontà della Resistenza di infliggere vittime tra le fila del nemico almeno equivalente a quelle subite dalla Resistenza con i suoi due martiri caduti nel territorio siriano.

L’armamento usato: “i famosi missili anticarro russi Kornet, che hanno lasciato un ricordo sanguinoso nella coscienza collettiva israeliana, perché distrutto i carri armati Merkava a Wadi Alhojair e nella pianura di Khiyam nel 2006, e hanno impedito ad Israele al Litani e compiere operazione militare anche simbolica. Questo missile, di alta precisione, ha una portata efficiente di 5,5 km.

Per di più, “L’azione si è svolta durante il più alto livello di allarme di Israele, sia in termini operativi che d’intelligence, nel Nord della Palestina occupata, e dopo una settimana in cui la Resistenza esercitava un forte la pressione psicologica che ha costretto il nemico a mettere in allerta cinque brigate al Nord, la mobilitazione di aerei da caccia e droni necessari per sostenerle, nonché un terzo della marina militare israeliana”.

E’ appunto il giorno dopo l’operazione Hezbollah che la corrispondente di Russia-Today (una palestinese della regione) è andato a curiosare alla caserma di Avivim. Ed è stata in grado di constatare che l’area era stata completamente evacuata per una profondità di diverse decine di chilometri.

Per quanto riguarda la storia diffusa dall’esercito israeliano che l’attacco di Hezbollah aveva raggiunto solo dei manichini di una messa in scena abilmente orchestrata, diverse fonti militari europee hanno negato questa affermazione: una dozzina di soldati erano stati trasferiti in emergenza in uno degli ospedali militari della regione.

Secondo Labévière, questa fortunata operazione di Hezbollah “cambia completamente la situazione strategica e tattica finora osservata tra Israele e il Libano. Innanzitutto, l’attacco non è una sorpresa: da una settimana, il leader di Hezbollah ha per due volte minacciato Israele di rappresaglie. I sionisti hanno avuto la conferma che Hassan Nasrallah, quello che promette, lo mantiene. In altri due precedenti discorsi dell’inizio dell’anno scorso, aveva chiaramente avvertito che l’arsenale della Resistenza – missili balistici a medio e lungo raggio – ora permetteva di raggiungere “qualsiasi territorio di Israele, compresa la centrale nucleare di Dimona “.

Il generale Amin Htaite aggiunge: “Per la prima volta, il nord della Palestina occupata è nel mirino di missili anticarro azionati da operatori in grado di prendere di mira un obiettivo a occhio nudo. Questo è un salto di qualità raggiunto dalla Resistenza, perché anche nel 2006 nessuna operazione simile è stata condotta in modo così preciso. L’uso di queste armi era limitato alla sola difesa del territorio libanese. Gli israeliani ricorderanno perfettamente l’affermazione di Sayyed Nasrallah secondo cui avrebbe potuto ingaggiare combattenti in Galilea per combattere direttamente sulla terra palestinese. In tal modo, e una volta per tutte, la dottrina militare israeliana secondo cui la guerra si svolge solo sul territorio nemico si è definitivamente infranta “.

Certo, la disparità di forze resta enorme. Però, ammette un addetto militare europeo (anonimo) di stanza a Beirut, “il potenziale missilistico-balistico di Hezbollah sta riequilibrando il gioco a favore di una vera parità tattica”. “L’ultimo attacco di Hezbollah ci riporta alla situazione operativa del 1948, vale a dire una difesa di Israele totalmente dipendente dal suo supporto esterno, soprattutto tra i quali i trasferimenti ad alta tecnologia americani. Ma qualunque sia il progresso tecnico dei suoi mezzi offensivi e difensivi, l’esercito israeliano non è più sicuro di quella asimmetria a suo favore che ha caratterizzato la maggior parte delle guerre arabo-israeliane (tranne quella dell’ottobre 1973) appunto dal 1948 in poi”.


Di qui la strizza e la fuga precipitosa degli Eletti, abbandonando mezzi ed armi. Certo è più facile fare gli aguzzini contro bambini di 12 anni, ma poi si perde la mano di fronte a un nemico audace e sicuro.

Fino alla prossima escalation. Netanyahu deve vincere le elezioni.

Nella sanità pubblica di tutta l'Italia c'è il mercimonio della corruzione politica, ma solo in Calabria la si combatte

Scioglimento Asp Catanzaro, Gratteri: «Stiamo portando serenità alla gente»

È quanto dichiarato dal procuratore di Catanzaro al margine della conferenza stampa sul blitz anti-‘ndrangheta di questa mattina a Lamezia: «L'indagine partita dalla nostra operazione Quinta bolgia»

di Redazione 
venerdì 13 settembre 2019 13:14

Il procuratore Gratteri

«Lo studio e la valutazione per lo scioglimento dell’Asp di Catanzaro partono dalla nostra indagine ‘Quinta Bolgia’». Lo ha detto il procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, a margine di una conferenza stampa su un blitz anti-‘ndrangheta, commentando con i giornalisti lo scioglimento dell’Azienda sanitaria provinciale di Catanzaro per condizionamenti mafiosi disposto ieri dal Governo.

«Quello – ha aggiunto Gratteri - è uno spaccato molto importante, molto delicato, che dimostra la permeabilità della pubblica amministrazione, in un settore delicato qual è la sanità, da parte della criminalità organizzata. Sono lavori che non nascono per caso: diciamo che stiamo pian piano avanzando, portando un po’ di serenità alla gente». Gratteri ha quindi osservato: «Proprio per i risultati che stiamo ottenendo, invito la gente a continuare a venire a denunciare, a fidarsi di noi. Abbiamo riscontrato che molte persone stanno venendo a denunciare: ogni settimana dedico un pomeriggio a ricevere persone, usurati, estorti, c’è tanta gente disperata ed esasperata che si fida di noi, delle forze dell’ordine, della Procura distrettuale. Questo ci rincuora, per noi è la benzina nel moto che ci aiuta a fare di più e meglio, se possibile».

“Delinquere non conviene perché chi entra nella ‘ndrangheta pensando di diventare ricco e potente é solo uno stolto. Solo i capi mafia sono ricchi, gli altri, invece, sono quelli che statisticamente vanno più facilmente in carcere perché essendo gli esecutori materiali dei reati lasciano tracce, al contrario del mandante”.

Blitz all’alba, colpo alla cosca Cerra-Torcasio-Gualtieri nella Piana di Lamezia: 28 arresti

NOMI-VIDEO | Scatta l'operazione Crisalide 3. Il gruppo criminale, secondo gli inquirenti, operava nel traffico di droga ed estorsioni a imprenditori e commercianti

venerdì 13 settembre 2019 06:44

Blitz nella Piana di Lamezia

Controllava capillarmente il territorio di Lamezia Terme, teneva sotto scacco commercianti e imprenditori a colpi di danneggiamenti realizzati con ordigni esplosivi, per il cui confezionamento utilizzava anche minorenni, e gestiva un vasto traffico di sostanze stupefacenti. Erano questi i “modus operandi” della cosca Cerra-Torcasio-Giampà di Lamezia Terme (Catanzaro), che i Carabinieri, coordinati dalla Dda catanzarese guidata dal procuratore Nicola Gratteri, hanno disarticolato all’alba di oggi con l’operazione “Crisalide 3”, culminata nell’esecuzione di 28 misure cautelari.

Si tratta di Francesco Gigliotti, Davide Belville alias Trachino, Salvatore D'Agostino alias Cirillo e Cirino, Antonio Gullo, Luigi Vincenzini alias Cosimo e Cosimino, Piero De Sarro, Flavio Bevilacqua, Salvatore Fiorino alias Turuzzu, Antonio Grande, Gianluca Adone alias Blob, Antonio La Polla, Carlo Sacco, Filippo Sacco, Alessandro Trovato, Pasquale Mercuri (U Lupu), Pasquale Butera, Nicholas Izzo, Ottorino Raineri, Francesca Falvo, Pasquale Gullo, Cristian Greco, Giovanni Torcasio alias "U' Craparu", "Pallone" e "padre di Vincenzo", Nicola Gualtieri (U Craparu), Pasquale Cerra alias Ciancimino, Nino Cerra, Antonio Paradiso (alias zu Toto'), Giuseppe Gullo (alias Pino e Pinuzzo), Giuseppe Galluzzi. 

Il provvedimento cautelare é stato emesso su richiesta della Procura del capoluogo calabrese, diretta dal procuratore Nicola Gratteri, che ha coordinato le indagini dei carabinieri. I dettagli dell'operazione saranno illustrati nel corso della conferenza stampa che si terrà alla Procura di Catanzaro.

Ponte Morandi ci dice che i Benetton non hanno investito sulla manutenzione al di la dei cavilli legali e dell'immobilismo del porto delle nebbie della procura genovese in cui ogni tanto si accende qualche luce

Autostrade, ecco perché Atlantia ruzzola in Borsa

13 settembre 2019


Nove misure cautelari nell’ambito dell’inchiesta bis riguardante i report “ammorbiditi” sulle condizioni dei viadotti gestiti da Autostrade per l’Italia. E il titolo di Atlantia sbandano a Piazza Affari. Tutti i dettagli

Atlantia a picco a Piazza Affari dopo che è emerso che la Guardia di Finanza ha emesso nove misure cautelari nell’ambito dell’inchiesta bis riguardante i report “ammorbiditi” sulle condizioni dei viadotti gestiti da Autostrade. Il titolo, che è anche stato brevemente sospeso dalle contrattazioni, al termine della seduta ha perso il 7%. Ecco tutti i dettagli.

GLI ARRESTI

Nove misure cautelari nell’ambito dell’inchiesta bis riguardante i report “ammorbiditi” sulle condizioni dei viadotti gestiti da Autostrade. La Guardia di finanza di Genova sta eseguendo le misure firmate dal Gip Angela Nutini, chieste dal pubblico ministero Walter Cotugno. Eseguite anche misure interdittive.

L’INCHIESTA

L’inchiesta bis era partita dopo il crollo del ponte Morandi, avvenuto il 14 agosto 2018, e aveva portato all’iscrizione nel registro degli indagati di 15 persone tra dirigenti e tecnici di Aspi e Spea. I tre arresti domiciliari e le sei misure interdittive riguardano presunti falsi report sui viadotti Pecetti della A26 (Liguria) e Paolillo della A16 (Puglia).

I DETTAGLI

I militari del I gruppo della Guardia di finanza di Genova, coordinati dalla procura del capoluogo ligure, hanno eseguito una ordinanza che comprende nove misure cautelari nei confronti di dirigenti e tecnici di Autostrade per l’Italia e Spea Engineering.

LA NOTA

Si tratta, si legge in una nota delle fiamme gialle, di tre arresti domiciliari e sei misure interdittive dal pubblico servizio e dal divieto temporaneo di esercitare attività professionali a favore di soggetti pubblici o privati, con contestuali perquisizioni negli uffici dei soggetti colpiti. L’attività scaturisce dall’inchiesta sul crollo del Ponte Morandi del 14 agosto 2018, nell’ambito della quale sono emersi “numerosi elementi indiziari in ordine ad una presunta attività di falso, relativa alle relazioni concernenti le condizioni e le criticità di ulteriori viadotti autostradali, per le quali la procura di Genova ha aperto un nuovo procedimento penale, nei confronti di dirigenti e tecnici appartenenti ad Autostrade per l’Italia e Spea Engineering”.

I GRAVI INDIZI

I successivi approfondimenti effettuati hanno fatto emergere “gravi indizi di colpevolezza in ordine ad atti pubblici redatti da pubblici ufficiali ed afferenti alle attività di controllo sui viadotti Pecetti (A26) e Paolillo (A16), reiterati anche successivamente al crollo del Ponte Morandi, per i quali sono state emesse le odierne ordinanze”.

LE FALSIFICAZIONI

In alcuni casi, sono emerse “falsificazioni e/od omissioni concordate, finalizzate ad occultare agli ispettori del ministero delle Infrastrutture e dei trasporti elementi rilevanti sulla condizione dei manufatti ed il loro stato di conservazione – in occasioni di attività ispettive e nell’ambito della vigilanza ministeriale – che avrebbero comportato una verifica globale dell’opera ed altre misure precauzionali”.

LA NOTA DI AUTOSTRADE PER L’ITALIA (GRUPPO ATLANTIA)

I viadotti Pecetti e Paolilo sono sicuri. Lo afferma in una nota Autostrade per l’Italia in merito alle notizie che riguardano i provvedimenti adottati dalla magistratura genovese. La società “conferma nuovamente la sicurezza di tali opere, dove gli interventi di manutenzione sono stati conclusi diversi mesi fa”. A scopo cautelativo – viene inoltre ricordato – era stata cambiata la sede dei due dipendenti oggi interessati. Inoltre “si riserva di attivare ulteriori azioni a propria tutela”

“Sulla scorta delle informazioni fornite dalle direzioni di Tronco competenti, la società ha inviato lo scorso 4 dicembre 2018 al Ministero delle Infrastrutture e Trasporti un report contenente il dettaglio degli interventi manutentivi realizzati e delle verifiche effettuate sui viadotti della rete, tra cui il Pecetti e il Paolillo – afferma la società – In nessun caso è stato riscontrato alcun problema riguardante la sicurezza di questi e altri viadotti oggetto di indagine, che sono stati verificati anche da società esterne specializzate in tale tipo di monitoraggi, oltre che dai competenti uffici ispettivi del Ministero”. Autostrade per l’Italia ricorda “che il viadotto Paolillo è un ponticello di 11 metri, completamente ristrutturato, rispetto al quale, per quanto a conoscenza della Società, l’indagine riguarderebbe una presunta marginale discrepanza tra le analisi progettuali e la costruzione finale. Per quanto riguarda il Pecetti, si conferma che l’opera è totalmente ristrutturata ed è stata oggetto di ripetute verifiche”. Aspi segnala che, “a scopo meramente cautelativo, aveva già provveduto a cambiare la sede operativa dei due dipendenti oggi interessati dai provvedimenti della magistratura”. “Anche sulla scorta delle informazioni che potrà assumere e approfondire nel corso delle prossime ore – conclude la nota – Autostrade per l’Italia si riserva di attivare ulteriori azioni a propria tutela, restando a disposizione degli organi inquirenti.

La faccenda più irritante è che non si voglia ammettere che esiste il Progetto Criminale dell'Euro e che finchè non lo si sconfigge non si va da nessuna parte. L'Italia con le proposte Savona aveva grandi possibilità di rovesciare i rapporti di forza ma aveva bisogno di un sostegno politico preciso che il magma del M5S avrebbe potuto fornirgli se il fanfulla non avesse deciso di percorrere la strada di aumentare i voti e solo quella fin dalla nascita del governo in cui ha accettato la liquidazione dell'indicato ministro dell'Economia e Finanza da parte del Quirinale poco accorto e miope degli Interessi Nazionali

Perché conviene a tutti in Europa che Bruxelles rottami l’immobilismo. L’analisi di Polillo

13 settembre 2019


L’analisi di Gianfranco Polillo

Nella vita è impossibile rinascere. Lo è per tutti, salvo una qualche eccezione, com’è capitato a Giuseppe Conte. Morto come presidente del consiglio della maggioranza giallo-verde, è rinato alla testa di un governo giallo-rosso. E, rinascendo, non ha potuto fare a meno di cambiare pelle. Non più il mediatore tra due contrapposti capi politici, ma colui che è chiamato, come recita l’articolo 95 della Costituzione, a dirigere la politica nazionale, assumendomene la responsabilità. Mutamento non di poco conto, che costringerà i due azionisti di maggioranza a tenerne conto.

Le prime conseguenze di questa metamorfosi si sono viste in Europa. I sospetti del Conte-uno sono stati spazzati via. Il Conte-due si è visto circondato da un’attenzione, che non era scontata. Anche se, in parte, figlia del senso di sollievo che deriva dallo scampato pericolo. In una fase così complessa della situazione internazionale, lo stesso asse “franco tedesco”, isolato nel mare montante di un’opposizione che lambiva le principali forze in campo (popolari, socialdemocratici e verdi), rischiava solo di accentuare tutte le fragilità del vecchio Continente.

Aver allargato lo schieramento è stato quindi un atto di saggezza. Anche se si tratterà di vedere se ai buoni propositi corrisponderanno poi altrettante lodevoli azioni. Per il momento, non resta che accontentarsi, sperando che le ulteriori sollecitazioni di Mario Draghi (che i governi con spazio nel proprio bilancio agiscano “in modo efficace e tempestivo,) non rimangano nuovamente lettera morta. Soffocate da uno spirito, al tempo stesso, mercantilistico ed inutilmente conservativo sul piano della finanza pubblica. Berlino, ma non solo, dovrebbe dare un segno di vita.

In genere le cose non accadono a caso. Certe soluzioni sono anche il frutto di precedenti errate impostazioni. Di sottovalutazioni circa la reale natura dei rapporti di forza. Attualmente il peso dell’Italia sugli equilibri mondiali, secondo le valutazioni del Fondo monetario, è pari all’1,5 per cento. Dal 2003 ad oggi, il suo peso specifico si è dimezzato. Colpa soprattutto di un tasso di sviluppo che non ha retto rispetto ai propri concorrenti. Nello stesso periodo, l’Unione europea è scesa dal 22 al 16 per cento. Una perdita minore (un quarto), ma comunque significativa.

Facendo le debite proporzioni, oggi il peso dell’Italia negli equilibri mondiali è paragonabile a quello della Serbia nei confronti della stessa Unione Europea. Sarebbe quindi singolare se questo piccolo Paese decidesse di abbandonare il sogno del suo possibile ingresso, dopo aver ottenuto la qualifica di candidato ufficiale. Ma altrettanto bizzarro darebbe pensare ad un’Italia che rompe tutti i legami con il resto del Continente, per combattere da sola nel grande mare magnum della globalizzazione.

La verità è che la solitudine non paga e non può pagare. Sarebbe come andare in guerra, puntando, ancora una volta, su “otto milioni di baionette”. Il tutto senza scomodare Von Clausewitz e la reversibilità del suo pensiero. Sono questi i legami sotterranei, che pesano molto di più della retorica dei comuni ideali, a legarci al carro europeo. Il problema, come sta insegnando la Brexit, non è il dilemma: starci o non starci. Ma come starci. In modo acritico: come suggeriscono taluni? Oppure scegliere il disincanto? Capire, cioè, che questa è una realtà contraddittoria. E che quindi la partita va giocando con intelligenza. Facendo anche il viso duro, quando serve, ma senza assumere l’atteggiamento dell’amante tradito, pronto a sciogliere ogni vincolo affettivo.

Ci sono i margini? Questo è il tema di fondo. L’Italia, in tutti questi anni, ha subito politiche inadeguate e controproducenti per la stessa Europa. Una politica più espansiva, data la dimensione del suo mercato interno, avrebbe contribuito ad accrescere non solo il suo tasso di crescita, ma quello dell’intera Eurozona. Poteva essere una piccola “locomotiva”, seppure a scartamento ridotto. Invece di una palla al piede. Ma, in questo caso, le responsabilità non sono solo di Berlino. C’è stata un’incapacità complessiva nel portare avanti quel processo riformatore ch’era indispensabile. Per far aumentare il prodotto interno lordo e, quindi, contribuire alla stessa riduzione del rapporto debito – Pil.

Oggi questi concetti, una volta considerati eretici, hanno più diritto di cittadinanza. Resta tuttavia il rammarico per il tempo perduto. A partire dal 2012, quando un confronto più serrato con i “burocrati di Bruxelles” poteva portare a risultati migliori. Si possono recuperare quei ritardi? Difficile, dirlo. Si può, tuttavia, evitare di allungarli. Ma per far questo è necessario che maggioranza ed opposizione si attrezzino. Un confronto più serrato con l’Europa passa innanzitutto per Roma. Dove mettere fine ad una sorta di “lotta continua” tutta concentrata sul passato. Come condizione per guardare avanti. E, se necessario, continuare a scontrarsi.

La liquidità c'è ma è parcheggiata chi ne deve usufruire deve dare tante di quelle garanzie che impedisce loro di usarla. I redditi bassi e precari impediscono di ripartire. Anche questa manovra incide sull'offerta ma non sulla domanda che è di competenza degli stati ma che hanno le mani legate per via del Fiscal Compact del pareggio di bilancio. Un cane che si morde la coda. La mossa dello stregone bianco, peraltro molto contrastata, è di mettere gli stati davanti alle proprie responsabilità, ma gli euroimbecilli tireranno dritto è scritto nel Progetto Criminale dell'Euro

Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Bpm, Ubi Banca e Bper. Ecco i benefici che arriveranno dalla manovra della Bce sui tassi

13 settembre 2019


Da un’analisi Equita Sim sull’ammontare della liquidità depositata dai principali istituti emergono i primi effetti della mossa Bce per Intesa Sanpaolo, Unicredit, Banco Bpm, Ubi, Bper e Montepaschi

Prime analisi sugli effetti che avranno le banche dalle mosse decise ieri dalla Banca centrale europea.

CHE COSA CAMBIA PER LE BANCHE

Fino a ieri i depositi in eccesso di ciascuna banca erano remunerati a un tasso negativo dello 0,40%: se un istituto depositava 100 dopo un anno avrebbe recuperato 99,60, cioè lo 0,40 in meno.

LA PORTATA DELLE NUOVE MISURE PER INTESA SANPAOLO, MPS, UNICREDIT, BANCO BPM E UBI

Con la nuova misura che prevede un abbassamento allo 0,50% della remunerazione, si accompagna un’applicazione con due scaglioni: un primo scaglione che è pari fino a 6 volte l’ammontare della riserva obbligatoria dovuta, differente da banca a banca, a cui non si applica una riduzione ma un tasso pari a zero; su un secondo scaglione che è superiore a tale soglia, si applica un tasso negativo dello 0,50%.

ECCO IL REPORT DI EQUITA SU INTESA SANPAOLO, MPS, UNICREDIT, BANCO BPM E UBI

Per ogni banca gli effetti sono differenti in rapporto alla liquidità giornalmente parcheggiata presso la Bce. Da una prima analisi curata da Giovanni Razzoli di Equita Sim sull’ammontare della liquidità depositata dai principali istituti, emerge che, grazie ai nuovi scaglioni, Intesa Sanpaolo risparmia circa 100 milioni, Unicredit 19 milioni, Banco Bpm 1 milione, Ubi 11 milioni, Bper 3 milioni, Montepaschi 17 milioni, ha sottolineato Rosario Dimito del Messaggero.

IL COMMENTO DI DE ROMANIS ALL’AGI

“Le banche – ha sottolineato l’economista Veronica De Romanis in una conversazione con Agi – avendo più liquidità, possono prestare più facilmente denaro alle imprese e alle famiglie. Questo sarà un vantaggio soprattutto per l’Italia perché è un paese che stava attraversando una stretta creditizia, come ha più volte ricordato Mario Draghi. Così sicuramente si allenterà questa stretta e renderà più facile prendere a prestito”.

I VANTAGGI PER LO STATO

C’è un vantaggio, però, anche per lo Stato, sottolinea l’economista, “perché significa che si abbassano i rendimenti dei titoli di Stato, quindi il costo di emettere debito”.

CHE COSA SUCCEDERA’ ALLE IMPRESE

Infine, a trarne beneficio saranno “le imprese che esportano perché l’euro si indebolisce. Un euro più debole significa che chi compra i prodotti in questa valuta paga meno”.

LA PALLA AI GOVERNI

Ma ora la palla passa ai governi nazionali. “La politica monetaria – evidenzia – ha un obiettivo che è l’inflazione. Per quanto riguarda invece l’aumento della domanda lì ci devono pensare i governi che hanno la competenza sulla politica fiscale”.

LE PAROLE DI DRAGHI

Secondo Draghi, inoltre, c’è una distinzione tra i Paesi che hanno spazio fiscale come la Germania, e altri che non ce l’hanno. Chi è in “surplus di bilancio”, conclude De Romanis, “dovrebbe spendere di più sia attraverso maggiori investimenti sia con la riduzione delle tasse che fa aumentare la domanda interna. Gli altri paesi devono continuare con una politica fiscale volta a mettere in ordine i conti pero’ cercando di stimolare la crescita, con quella che Draghi chiama ‘una politica fiscale attenta alla crescita’ e cioè attraverso più investimenti e meno spesa corrente”.

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ESTRATTO DELL’ARTICOLO DEL MESSAGGERO

Per ogni banca gli effetti sono differenti in rapporto alla liquidità giornalmente parcheggiata presso la Bce. Da una prima analisi curata da Giovanni Razzoli di Equita Sim sull’ammontare della liquidità depositata dai principali istituti, emerge che, grazie ai nuovi scaglioni, Intesa Sanpaolo risparmia circa 100 milioni, Unicredit 19 milioni, Banco Bpm 1 milione, Ubi 11 milioni, Bper 3 milioni, Montepaschi 17 milioni.

Fino a ieri infatti, i depositi, in eccesso di ciascuna banca erano remunerati a un tasso negativo dello 0,40%: se un istituto depositava 100 dopo un anno avrebbe recuperato 99,60, cioè lo 0,40 in meno. Con la nuova misura che prevede un abbassamento allo 0,50% della remunerazione, si accompagna un’applicazione con due scaglioni: un primo scaglione che è pari fino a 6 volte l’ammontare della riserva obbligatoria dovuta, differente da banca a banca, a cui non si applica una riduzione ma un tasso pari a zero; su un secondo scaglione che è superiore a tale soglia, si applica un tasso negativo dello 0,50%.

Va sottolineato che il doppio binario penalizza quegli istituti che sono a corto di liquidità (sicuramente non è il caso delle grandi e medie banche italiane) in quanto non possono trarre beneficio sulle risorse in eccesso.

E comunque il vantaggio dei tassi zero sulla quota superiore a 6 volte la riserva obbligatoria compensa il brusco calo del margine di interessi provocato dal taglio dei tassi.

Qualche banchiere faceva qualche annotazione non cantabile. Il nuovo stimolo monetario può dare una riaccelerazione al Pil di cui l’Italia ha tanto bisogno e una spinta alla crescita produce effetti positivi sulle banche: più domanda di credito e minore probabilità di sofferenze in quanto si contrasta la recessione. La Bce ha rimesso in pista i prestiti agevolati TLTRO la cui durata, però, è stata alzata da 2 a 3 anni. Le grandi banche italiane dovrebbero disertare il primo giro: la 1° asta del 3° programma si aprirà mercoledì 18 a condizioni interessanti. C’è l’aspettativa di una richiesta lorda da parte delle banche europee di 754 miliardi, somma che include la quota per sostituite i due precedenti prestiti ottenuti a condizioni agevolate.

Il progetto Criminale dell'Euro non prevede una politica estera e di sicurezza comune in quanto serve solo al predominio della finanza per strangolare-sottomettere i popoli e l'Unione europea, suo braccio armato, ne è ben consapevole. Il passo in avanti dei francesi è motivato dalla voglia di sottomettere gli stati ai suoi interessi e basta ma la cosa non è sfuggita ai tedeschi

Ursula von der Leyen distrugge i sogni di Macron sull’esercito europeo. L’analisi di Jean

13 settembre 2019


L’analisi del generale Carlo Jean 

Il presidente francese Macron ha rilanciato il suo progetto di creazione di un esercito europeo veramente integrato e dell’attenuazione, se non della fine, della dipendenza della difesa collettiva dell’Europa dagli Usa. Ha approfittato del relativo disimpegno di Trump dall’Europa, della Brexit e delle tensioni strategiche fra gli Usa e la Russia, derivanti anche dal crescere della potenza militare cinese.

La nuova presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen gli ha subito risposto “di brutto”, dichiarando che l’Ue non sarà mai un’alleanza militare, anche se deve stimolare una maggiore integrazione nell’industria della difesa e nelle attività spaziali, settori assegnati alla competenza del nuovo commissario all’industria, la francese Sylvie Goulard.

Le limitazioni all’autonomia della difesa collettiva europea sono state sottolineate anche in una lettera della von der Leyen al nuovo rappresentante per la politica estera e di difesa della Commissione, lo spagnolo Josep Borrell, affermando che l’alleanza con gli Usa e la Nato restano essenziale per la sicurezza europea.

Con tali affermazioni la presidente della Commissione ha attenuato l’entusiasmo che aveva dimostrato dopo la firma del Trattato di Aquisgrana fra la Germania e la Francia quando, da ministro tedesco della difesa, aveva affermato che “l’idea di un esercito europeo stava assumendo forza”. I federalisti saranno rimasti delusi. I realisti e gli atlantisti no.

L’idea di una politica estera e di sicurezza comune – quest’ultima divenuta di difesa comune europea – e di autonomia strategica dell’Ue dalla Nato (cioè dagli Usa) – è stata dai Trattati di Maastricht e di Lisbona l’espressione delle ambizioni europee di procedere verso gli Stati Uniti d’Europa. La retorica di tali ambizioni ha finora prodotto bei discorsi e molta carta, ma modeste realizzazioni.

Beninteso l’Ue ha organizzato l’operazione antipirateria Atlanta e quella Althea nei Balcani, nonché varie missioni addestrative in Medio Oriente e in Africa. Ha costituito Battle Groups, peraltro mai impiegati.

Ha promosso collaborazioni rafforzate (Pesco) con ben 34 progetti di difesa, progettato un fondo europeo per la ricerca e sviluppo e per l’industria della difesa, e costituito l’Eda (European Defense Agency). Inoltre, il presidente Macron ha lanciato la E2I (European Interverntion Initiative), alla quale hanno aderito 10 paesi, ma non l’Italia, la quale apertamente ha temuto che l’iniziativa mascherasse l’intento della Francia di coinvolgere altri paesi europei nelle sue avventure africane. Tale timore era condiviso anche dalla Germania, che ha però aderito all’iniziativa per evitare di essere accusata di voler indebolire l’asse franco tedesco. L’intervento in Libia del 2011 ha dimostrato i limiti delle capacità materiali e della volontà politica europee. Senza l’appoggio sia operativo che logistico Usa si sarebbe tradotta in un disastro.

L’integrazione militare europea non solo non è in grado di consentire all’Ue di compensare un peraltro improbabile disimpegno americano dalla difesa collettiva dell’Europa orientale, baltica e scandinava, ma neppure di consentire un intervento europeo significativo militarmente nelle periferie dell’Europa. Uno studio fatto dai maggiori think tank strategici britannici e tedeschi ha concluso che, per essere in grado di proteggere le SLOC (Sea Lines of Communications) senza la USNAVY, sarebbe all’Ue necessario spendere quasi 180 mld. di euro, mentre una difesa terrestre europea dell’Europa richiederebbe spese aggiuntive agli attuali bilanci della difesa di 300-350 mld. di euro e una ventina di anni di tempo.

Tali previsioni trascurano due aspetti peraltro fondamentali: la completa integrazione politica e l’esistenza di una forza nucleare europea, in grado di garantire una credibile dissuasione. Della costituzione di Stati Uniti d’Europa è meglio non parlare. Delle armi nucleari la sicurezza europea non può fare a meno. Tra l’altro, non è da escludere una nuova corsa alle armi nucleari fra Usa e Russia.

Lo dimostrano l’entrata in servizio del cruise nucleare russo 9M729 e l’uscita degli Usa (senza preavvertire gli europei!) dal Trattato INF sugli euromissili, considerato dal 1987 pietra miliare della sicurezza europea. La Force de Frappe francese non può sostituire l’ombrello americano, a parte il fatto che la storia insegna agli Stati dell’Europa Orientale di non fidarsi delle garanzie strategiche delle democrazie occidentali.

In caso di disimpegno degli Usa la sicurezza dell’Europa non potrebbe essere garantita. Non solo la Nato cesserebbe di esistere, ma anche l’Ue si disgregherebbe. I singoli Stati europei cercherebbero di basare la loro sicurezza con accordi con Mosca. Tutt’al più stipulerebbero accordi bilaterali, come quello fra Polonia e Romania ipotizzato nel quadro dell’Eastern Dimension della Ue. Di conseguenza, “Trump o no Trump”, teniamoci ben stretta la Nato finché dura e accettiamo i suoi rimbrotti sull’insufficienza del contributo europeo alla difesa collettiva euro-atlantica.

Forse nella prossima visita a Roma del presidente Macron, l’Italia, anche per attenuare l’imbarazzante ricordo del “gioioso” incontro dell’ineffabile ministro Di Maio con i gilets jaunes, potrebbe aderire alla E2I tanto cara a Parigi, mentre a Bruxelles occorrerà vigilare che la disinvolta commissaria europea Goulard non si metta in testa di penalizzare le industrie della difesa Usa nei programmi di ricerca e sviluppo e di approvvigionamento europei controllati dall’Eda.

venerdì 13 settembre 2019

Ponte Morandi - Nel porto delle nebbie della procura genovese ogni tanto compare qualche luce


Ponte Morandi: arresti in Autostrade e Spea
© REUTERS / Massimo Pinca
10:37 13.09.2019URL abbreviato

La Guardia di Finanza ha notificato provvedimenti di custodia cautelare a nove rappresentanti di Autostrade e Spea. Secondo il pm, dopo il crollo continuavano a falsificare i controlli

Nove misure di custodia cautelare nei confronti di rappresentanti di Autostrade e della Spea: la Guardia di Finanza da questa mattina sta eseguendo le ordinanze firmate dal gip Angela Nutini notificate nelle sedi delle società a Genova, Roma e Milano.

Gli arresti e le misure interdittive riguardano due uomini di Autostrade, sei della Spea, la società che si occupa di monitoraggio e controlli per conto della stessa Autostrade mentre una notifica della procura è giunta anche a un consulente esterno di Atlantia.

Dopo la tragedia del ponte Morandi continuavano i controlli "ammorbiditi"

L'inchiesta si configura come indagine parallela a quella sul crollo del ponte Morandi a Genova, avvenuto il 14 agosto 2018 in cui morirono 43 persone che stavano transitando in quel momento sul tratto stradale sopraelevato.

Secondo questo ultimo filone d'indagine, condotto dal pubblico ministero Walter Cotugno che rappresenta l'accusa, dopo la tragedia di Genova i tecnici di Autostrade e Spea avrebbero infatti continuato ad “ammorbidire” i risultati delle misurazioni sullo stato di salute di alcuni tratti.

Gualtieri l'euroimbecille neoliberista propugnatore del Fiscal Compact che ha impoverito i popoli e tolto diritti sociali, il diritto alla salute

L’uomo del Fiscal Compact all’Economia. Ecco chi è il neoministro Gualtieri

di Domenico Moro
11 settembre 2019

Il nuovo governo Conte offre garanzie alle istituzioni europee e ai mercati tramite una serie di personalità, tra queste spicca il titolare al Mef con una storia politica emblematica della mutazione della sinistra, in particolare del passaggio della parte maggioritaria dell’ultimissimo Pci a partito neoliberista che, mascheratosi di una patina di sinistra, ha finito per adottare politiche sempre più di destra sui più decisivi temi economici e sociali.

Ogni epoca ha i suoi uomini, che ne esprimono il carattere e le forze sociali prevalenti. Questo vale anche per il governo Conte bis e i ministri che ne fanno parte. In particolare, vale, a causa della centralità del ruolo e della sua storia personale, per il neoministro dell’economia Roberto Gualtieri.

Il governo Conte bis nasce con l’endorsement, all’incontro di Biarritz del G7, di Trump, Macron e Merkel. La sua nascita è salutata, come titola il Sole 24ore, dall’applauso dei mercati: la borsa di Milano cresce dell’1,58%, precedendo Parigi, Francoforte e Madrid, mentre lo spread cala a 148 punti, ritornando ai livelli precedenti la nascita del governo Lega-M5s.

Grazie soprattutto alle garanzie offerte agli investitori internazionali da Roberto Gualtieri, per le ragioni che vedremo, anche le maggiori agenzie di rating internazionali danno un giudizio positivo.

Secondo Standard & Poor: “la nuova coalizione di governo può spianare la strada a importanti adeguamenti politici compreso il nodo critico della Legge di Bilancio 2020”. Fitch rileva che l’uscita della Lega dalla compagine di governo “riduce il rischio che le autorità italiane si svincolino dalle regole e dai processi europei, cosa che avrebbe potuto causare instabilità sui mercati finanziari”. Più di recente anche le maggiori imprese italiane, riunite per il loro incontro annuale a Cernobbio, hanno espresso la loro soddisfazione per il nuovo governo.

Tutti questi giudizi positivi dipendono dal fatto che la collocazione di questo nuovo governo all’interno della Nato e all’alleanza con gli Usa e soprattutto all’interno della Ue e dell’area euro è chiara e senza dubbi. Tale collocazione è garantita non solo dal M5s che sembra aver fatto una inversione di 180° rispetto al proprio precedente anti-europeismo, impegnandosi nei suoi punti programmatici a “perseguire una politica economica espansiva senza compromettere l’equilibrio di finanza pubblica”. La collocazione euroatlantica è garantita soprattutto dalla sostituzione della Lega col nuovo partner di governo, il Pd, che controlla le caselle più importanti per interfacciarsi con l’Europa e i mercati e che rappresenta storicamente il garante degli impegni internazionali italiani con la Nato e la Ue. Del resto, il Pd fa parte del Partito socialista europeo (Pse), che è stato, insieme e forse anche più del Partito popolare europeo, la gamba su cui sono state portate avanti l’integrazione europea e l’austerity.

Il Pd offre garanzie alle istituzioni europee e ai mercati tramite una serie di uomini collocati fuori e all’interno del governo. All’esterno del governo troviamo David Sassoli, presidente dell’Europarlamento, e soprattutto Paolo Gentiloni che è stato nominato da Conte come rappresentante italiano nella Commissione europea sotto Ursula von der Leyen. All’interno del governo troviamo Vincenzo Amendola, ministro degli Affari europei, e soprattutto Roberto Gualtieri, ministro dell’economia e delle finanze, che, al momento in cui ancora non ne era sicura la nomina, ha incassato l’endorsement addirittura di Christine Lagarde, la neonominata presidente della Banca centrale europea: “La nomina di Roberto Gualtieri a ministro dell’economia sarebbe un bene per l’Europa e per l’Italia”.

Gualtieri presenta una storia politica che è emblematica della trasformazione interna della sinistra, in particolare del passaggio della parte maggioritaria dell’ultimissimo Pci a partito neoliberista, che mascheratosi di una patina di sinistra, ha finito per adottare sui temi più decisivi, a livello economico e sociale, politiche sempre più di destra.

Gualtieri, professore di storia alla Sapienza, dopo “molti tecnici” è il primo politico e il primo non economista da molto tempo ad occupare la poltrona di ministro dell’economia. Ha iniziato come iscritto alla Federazione dei giovani comunisti a metà anni ‘80. Tra 2001 e 2006 è stato membro dalemiano della segreteria romana dei Ds e dal 2008 è nella direzione nazionale del Pd. Inoltre, tra 2001 e 2016 è stato vicedirettore del più prestigioso istituto culturale della sinistra, l’Istituto Gramsci, di cui dal 2016 continua a essere membro del comitato dei garanti. Significativo è il ruolo rivestito da Gualtieri nella nascita del Pd. È stato uno dei tre relatori del convegno di Orvieto che ha dato vita alla costruzione del nuovo partito e in seguito ha fatto parte della commissione di saggi nominati da Romano Prodi che ha redatto il “manifesto” per il partito democratico.

Ma è a livello europeo che Gualtieri ha spiccato il volo, entrando nel 2009 nel Parlamento europeo. In particolare, Gualtieri tra 2014 e 2019 ha occupato l’importante poltrona di Presidente della Commissione per i Problemi Economici e Monetari del Parlamento europeo. Nello stesso periodo, però, è stato anche Presidente del Banking Union Working Group e del Financial Assistance Working Group del Parlamento europeo. Più di recente è entrato a far parte del gruppo negoziale con il Regno Unito per la Brexit. Questi ruoli lo hanno condotto a interessarsi, come uomo di punta del Pse, di tutti i dossier più importanti, cosa che oggi evidentemente i mercati giudicano positivamente.

A questo proposito è da rimarcare che Gualtieri ha legato il suo nome al trattato più famigerato mai varato dalla Ue. Infatti, nel 2011 è stato negoziatore per conto del Parlamento europeo del Fiscal compact, che ha obbligato l’Italia a inserire in Costituzione l’obbligo di pareggio di bilancio. La riforma del Trattato di stabilità del 2011, ricordiamolo, ha inasprito i vincoli previsti in precedenza, introducendo misure più rigide e penalizzazioni automatiche per chi violi i parametri del 3% al deficit e di riduzione progressiva del debito al 60%. È il Fiscal compact che, in concomitanza con la crisi peggiore dell’Europa dal 1929, ha impedito qualsiasi politica espansiva anticiclica. In questo modo il Fiscal compact ha trascinato a picco le economie di molti Paesi europei, e ha contratto pesantemente il welfare e l’assistenza sanitaria con risultati devastanti per le persone, specie in Grecia ma non solo lì.

Oggi, è proprio grazie alla sua esperienza con il Fiscal compact e ai buoni rapporti con le istituzioni e il personale (politico e burocratico) europeo che Gualtieri tranquillizza i mercati, che poi non sono altro che il grande capitale internazionalizzato. Questo settore dell’economia, come appare dalle dichiarazioni di Standard & Poor e Fitch, ha un’unica preoccupazione: durerà il governo? La risposta dipende in parte dal M5s. Più precisamente dipende dal fatto se cederà sulle questioni più decisive rispetto a quella che, con tutta evidenza, appare essere una posizione di egemonia del Pd. Per ora sulle nomine ad alcune caselle più importanti, come quella del rappresentante alla Commissione europea e su quella del ministro dell’economia e delle finanze ha già ceduto. Vedremo quello che accadrà sui temi più caldi, a partire dalle concessioni autostradali.

Tuttavia, come abbiamo detto, la risposta sulla durata del governo dipende solo in parte dal M5s. In buona parte dipende dal rallentamento dell’economia, in particolare di quella italiana. Questo rallentamento dipende dal riemergere della crisi economica strutturale, acuita dall’austerity europea e dalle varie guerre commerciali in atto. In mancanza di decise politiche espansive in deficit e in presenza di politiche di contenimento del debito, è probabile che la crisi economica si aggravi, determinando una crisi politica che potrebbe pregiudicare la durata della coalizione di governo. Nel contesto appena descritto, il nuovo ministro dell’economia non potrà esimersi dal fare quello che, secondo Monti, sarebbe il compito inerente al suo ruolo, “scontentare la gente”. Se così sarà, come è probabile, in mancanza di un tecnico cui addossare le colpe, sarà il Pd e il governo tutto a doverne pagare le conseguenze.

La risposta del capitale è stata duplice: da un lato indebolire il lavoro con l’immissione di donne e immigrati e trasferire le attività in aree a basso costo; dall’altro astenersi dagli investimenti. Una modello operativo che viviamo ogni giorno, la tratta degli schiavi per depotenziare il potere di contrattazione dei lavoratori. Decolonizzazione, per il costo della mano d'opera più basso. Investimenti dei privati nulli

Giovanni Arrighi prima di Il lungo XX secolo

estratto da
di Giordano Sivini
12 settembre 2019

Le crisi si manifestano in modo diverso a seconda del livello dello sfruttamento del lavoro. Quando è alto vengono stimolati gli investimenti, ma la realizzazione del plusvalore diventa problematica a causa della base di consumo troppo ristretta, che riguarda innanzi tutto i beni di sussistenza e i mezzi di produzione di tali beni, così che i capitali tendono a migrare verso altri settori dove il tasso di profitto è più alto Se invece lo sfruttamento è basso, per aumentare la massa di plusvalore i singoli capitali dovrebbero produrre di più, ma sono ostacolati dal fatto che all’aumento dell’investimento per unità di prodotto il tasso di profitto diminuisce, così che si blocca la domanda di mezzi di produzione. In ambedue i casi la crisi si manifesterà con caduta del tasso di profitto e sovraproduzione, ma “l’analisi dei fattori che determinano il tasso di sfruttamento è importante per comprendere non perché avvengono le crisi ma chi tenderà a pagarle” [10].

Sono i rapporti di forza tra capitale e lavoro a determinare il tasso di sfruttamento. La classe che detiene i mezzi di produzione è limitata dalla concorrenza tra i capitalisti che la compongono e che dipende dal grado della loro concentrazione. “La crisi è proprio il momento in cui la tendenza del capitale a concentrarsi sempre di più acquista maggiore forza e questa ‘concentrazione forzosa’ (la cosiddetta centralizzazione del capitale) è il mezzo di superamento delle crisi” [11].

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Il movimento operaio si è affermato come potere sociale in tempi diversi negli Stati Uniti e in Europa, risultato di lotte spontanee auto organizzate, contro il capitale che scaricava le pressioni competitive sulla forza lavoro. La risposta del capitale è stata duplice: da un lato indebolire il lavoro con l’immissione di donne e immigrati e trasferire le attività in aree a basso costo; dall’altro astenersi dagli investimenti. “La speculazione finanziaria e la riduzione dei costi sono stati così i riflessi dell’incapacità delle grandi imprese di adattarsi al crescente potere sociale del lavoro” [23].

BlackRock, Vanguard, State Steet, Global Advisors gestiscono 14.000 miliardi di dollari, una potenza incontenibile

Incredibile e pericoloso. Tre fondi indicizzati controllano tutte le US corporation

di Mario Lettieri* e Paolo Raimondi**
12 settembre 2019

Le grandi istituzioni economiche, come il Financial Stability Board e il Fmi, alla fine hanno dovuto ammettere che il sistema finanziario non bancario, ufficialmente chiamato “shadow banking”, ha surclassato il tradizionale sistema bancario nella gestione del risparmio e degli investimenti finanziari.

Un recente paper “The specter of giant three”, preparato da due professori americani, Lucian Bebchulk e Scott Hirst, e pubblicato dalla rinomata Harvard Law School University di Cambridge, Massachusetts, analizza in dettaglio il ruolo dominante degli exchange trade funds (etf) nel variegato e sempre meno controllato mondo della finanza.

“Lo spettro dei tre giganti” non è soltanto un titolo provocatorio. Esso mostra una precisa fotografia del crescente potere di tre etf americani, i fondi BlackRock, Vanguard e State Street Global Advisors (SSGA).

Il primo è di gran lunga il più conosciuto in quanto a suo tempo venne utilizzato dal Dipartimento del Tesoro per “fare pulizia” di titoli tossici presenti in varie istituzioni finanziarie americane.

I fondi indicizzati etf sono fondi d’investimento che raccolgono capitali e risparmio da diversi soggetti e li investono in un “portafoglio di titoli” di corporation comprese in alcuni indici borsistici di Wall Street.

Il caso emblematico è quello di Standard&Poor’s 500., Detti fondi comprano un ventaglio di partecipazioni azionarie, replicando così fedelmente la composizione dell’indice di riferimento. Com’è noto, gli etf sono anche quotati in borsa.

I Tre Giganti complessivamente gestiscono ben 14.000 miliardi di dollari di attivi (assets under management).

La loro crescita è stata vertiginosa, anche per le non irrilevanti agevolazioni fiscali. In dieci anni, di tutti i capitali confluiti nei vari fondi d’investimento, l’80% è finito nei tre colossi. In venti anni la loro partecipazione azionaria nelle grandi corporation americane, che fanno parte dello S&P 500, è quadruplicata, passando dal 5,2% al 20,7%.

BlackRock e Vanguard, di fatto, detengono ognuna più del 5% delle azioni di tutte le corporation comprese nell’indice menzionato. Ilpapersuccitato stima che i Three Giants rappresentino il 25% dei voti nelle assemblee direttive delle imprese in questione.

Questo, ci sembra, l’aspetto più preoccupante. I manager delle Tre Big sarebbero nella posizione di essere azionisti dominanti in tutte le più importanti company americane, soprattutto in quelle ad azionariato diffuso e senza un azionista di controllo. Non è un caso, quindi, che molte istituzioni pubbliche, a cominciare dal Dipartimento di Giustizia Usa e dalla Commissione federale del commercio, che vigila sulla concorrenza, siano attenti al rispetto delle leggi anti trust, al conflitto d’interesse e in generale alle eventuali manipolazioni dei mercati e delle borse.

Dopo la Grande Crisi del 2008 giustamente si era molto parlato della concentrazione di potere delle banche cosiddette “too big to fail” per tentare di introdurre nuove regole per contenerne lo strapotere. Oggi, invece, i giganti dello “shadow banking” hanno bypassato il sistema bancario, creando un nuovo e più potente oligopolio finanziario.

Nessuno può essere indifferente. Con un’attività sempre più agguerrita i Tre Giganti puntano verso i mercati asiatici e verso quelli europei. Si spera che la Commissione Antitrust dell’Ue vigili con puntualità.

E’ molto preoccupante assistere alla faticosa e spesso poco produttiva rincorsa delle varie agenzie di controllo dietro questi attori della grande finanza, che naturalmente corrono più veloci rispetto ai controllori. I numeri in questione e i tanti rischi per l’economia reale di molti paesi sono troppo grandi perché siano sottovalutati da parte dei decisori globali.
*già sottosegretario all’Economia
**economista

PD e Lega, per esempio, avendo un’unica base programmatica ed ideologica (quella del capitale) vanno già d’accordo o per lo meno hanno già i medesimi obiettivi sulla TAV, sugli incentivi ai padroni, sulle privatizzazioni, contro la chiusura domenicale dei grandi magazzini, contro misure come il reddito di cittadinanza e il decreto dignità; anche sulla politica estera, hanno appoggiato il tentativo di golpe e aggressione al Venezuela, si oppongono alla proposta cinese di liberi scambi commerciali, ecc.

Giorni che rischiarano decenni III
L'anomalia italiana

di Norberto Natali
12 settembre 2019

Riceviamo e volentieri pubblichiamo [Qui la parte I, qui la parte II]


Dalla capitana coraggiosa alle "richieste" di Trump. I giorni che il PD ha iniziato con l’esaltazione della “capitana Carola” e la pretesa di essere il più affidabile garante della NATO nel nostro paese, non potevano che proseguire con la comunicazione di Trump di quale governo (addirittura con quale presidente del Consiglio) egli desideri per l’Italia: manco a farlo apposta quello con il PD!

Questo comunicato è un’umiliazione della nostra repubblica e del popolo italiano, con ben pochi precedenti nella storia recente. Viene per forza alla mente la lettera che il presidente della Commissione Europea e il capo della BCE, giusto otto anni fa, inviarono alle istituzioni italiane per ordinare un programma di governo nel quale si dettagliavano perfino le procedure: per esempio, si indicava il decreto legge (anziché la discussione in commissione) per certe misure antipopolari.

Anche allora, dopo pochi mesi, cambiò il governo in carica con l’ingresso del PD (proprio come oggi). Iniziò così il periodo delle “larghe intese” -con tutto il seguito di Fornero, jobs act, calpestamento delle masse popolari e smantellamento della Costituzione- durato fino all’anno scorso. Poco tempo fa, si è finalmente saputo che si trattò di ordini impartiti dai capi di governo francese e tedesco con l’avallo del presidente USA.

Come se tutti si fossero messi d’accordo per darmi ragione, il 29 agosto scorso il commissario (cioè ministro) tedesco della UE Oettinger, alludendo al nuovo governo che si dovrebbe formare in Italia, ha detto letteralmente che esso merita una “ricompensa”!

Ecco perché, sia pure con un certo margine di “azzardo”, proprio alla fine della seconda parte (la precedente) di questo testo, scrivevo che “l’Italia è diventata una specie di colonia di tipo nuovo, di potenze di natura diversa da quelle coloniali tradizionali: per esempio, per l’appunto, la UE e la NATO (o gli USA…”.

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Il PD è di destra. Vuole essere il garante della suddetta situazione o, comunque, contende tenacemente questo ruolo ad alcune altre forze. Dunque ha assunto posizioni che sarebbero state combattute anche da Nenni e che obiettivamente si collocano a destra perfino di De Gasperi.

Questo ruolo in politica estera ha un inevitabile riflesso in altri campi, in primo luogo quello economico-sociale (come dice la citazione di Paolo Alatri nel brano conclusivo della parte precedente, la seconda, di questo testo). Perchè garantire la subalternità del paese alla UE e alla NATO (pur considerando le tensioni e alcune contraddizioni tra USA e certi paesi europei) significa garantire la circolazione, l’impiego e la migliore remunerazione dei capitali europei e nordamericani o, se vogliamo, dei monopoli finanziari internazionali riconducibili al G7 e alle aree strettamente controllate da questo.

Di conseguenza, la fedeltà alla NATO (e alla UE) è asservimento ai “mercati”, dunque alla valorizzazione dei capitali. Questa è la politica economico-sociale del PD (ma anche della Lega e di altri, o no?). La stabilità (o la limitazione dei peggioramenti) delle condizioni di vita delle larghe masse popolari -spesso contrabbandata per miglioramento- viene subordinata ai profitti del capitale. Questi, quindi, vengono presentati (come avrebbe fatto Vanna Marchi) come salvaguardia degli interessi nazionali e perfino tutela dei lavoratori.

Si tratta di una politica classicamente di destra che mantiene lo stesso connotato anche sul piano sociale. La concezione che ha ripetutamente espresso il PD sul ruolo dello stato e della vita politica è la seguente: occorre garantire lo status quo (spesso significa il fatto compiuto) ed evitare -riconoscendone così la legittimità- le ritorsioni dei prepotenti sui più deboli.

Si prenda come esempio, uno solo fra tanti, la sostanza della reazione di questo partito ad alcune timide modifiche del jobs act, introdotte l’anno scorso col cosiddetto decreto dignità: siamo contrari perché tale legge procurerà più licenziamenti. Non si prende assolutamente in considerazione la precarietà, la dignità dei giovani assunti, il rapporto tra salario e profitti e altro ancora: se i padroni si arrabbiano licenziano, quindi vanno fatti solo provvedimenti graditi a loro.

Il ruolo del PD è stato esattamente quello di chi propugnasse di pagare il pizzo per il semplice motivo che altrimenti la camorra metterebbe una bomba. Non importa assolutamente discutere della legalità, del livello di civiltà di una società ed altro: bisogna pagare per evitare gli attentati. Alla fine -ecco la posizione di destra anche sul piano culturale o morale- il colpevole di eventuali violenze diviene chi non vuole pagare il pizzo anziché la camorra: perché il pizzo è meno costoso delle conseguenze di un attentato ovvero più conveniente.

In definitiva, sono i “mercati” che dettano la politica economica che i partiti borghesi (come il PD) vanno ad amministrare: una determinata proposta genera un aumento dello spread? Si ritira subito, si fa il contrario finché lo spread non cala. Con tale concezione, ovviamente, si incoraggiano le manovre estorsive dei grandi monopoli finanziari, come la paura di non pagare il pizzo incentiva gli attentati camorristici, poiché ne garantisce l’efficacia.

In questo modo, sparisce ogni contenuto o prospettiva di giustizia sociale, di espansione della democrazia, di avanzamento civile e morale: anziché la promozione dell’uguaglianza tra i cittadini, la limitazione dello strapotere delle oligarchie finanziarie e l’accesso dei lavoratori al governo della repubblica (tutte finalità della Costituzione) si ottiene il contrario. Su tutti i campi essenziali della vita italiana, il PD ha assunto un ruolo che è sempre stato tipicamente di destra e ciò anche sul terreno delle libertà politiche e sindacali: in un quadro come quello descritto, per assecondare nell’amministrazione (o nel nuovo “governatorato coloniale”) i “mercati”, non serve -anzi!- la partecipazione sempre più estesa e consapevole delle masse alla vita politica.

Ecco quindi la strategia di cancellare il tessuto democratico, la mobilitazione sociale, l’impegno politico, riducendo drasticamente anche la percentuale di votanti. Grazie al sistema bipolare e alle leggi elettorali volute dal PD, alle limitazioni dei movimenti e dell’iniziativa sociale e di massa, delle libertà sindacali, grazie a tutta la politica seguita fin qui, si è realizzato il vero obiettivo alla base dello scioglimento del PCI: l’esclusione, in sostanza, del proletariato dalla vita sociale, politica e perfino elettorale.

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Cosa è successo. Un tempo, si può dire, c’era un “bipolarismo” informale, scaturito dalla lotta partigiana e sedimentato nella Costituzione.

Molto in breve, era quello del movimento operaio, il quale su tutti i piani (elettorale, politico, ideale, ecc.) sosteneva gli interessi materiali dei lavoratori e degli strati oppressi della società, coniugandoli con la lotta per la democrazia, la pace ed il disarmo internazionale, la modernizzazione civile e culturale; saldando il tutto, sulla base della coscienza di classe, con la prospettiva di cambiamento generale della società: tutto ciò (con alti e bassi e non senza errori) si confrontava -per lo più con successo- con le forze della borghesia che, allo stesso modo, difendevano i propri interessi e la propria ideologia. Insomma, era il riflesso dell’antagonismo tra le classi principali.

Grazie allo scioglimento del PCI, si è realizzato un regime “bipolare” formale ma fondato sulla sostituzione (nella vita politica e dello stato) dell’antagonismo tra le classi con il totalitarismo (liberale? Forse è una definizione un po’ generosa) espresso in una “alternanza” fasulla tra partiti e gruppi di politicanti accomunati dalle medesime basi ideologiche e programmatiche. Quanto scritto in precedenza a proposito del PD, sia pure con qualche variante di sfumature e gradazioni, vale per tutte le componenti passate o future di questo bipolarismo.

In quest’epoca storica, il capitalismo è un groviglio ingovernabile di contraddizioni interimperialistiche, di concorrenza sfrenata, perfino di anarchia; di continue convulsioni e riposizionamenti tra diversi cartelli o coalizioni che si frantumano, si ricompongono e si susseguono nella guida internazionale dell’imperialismo. In questo quadro, assumono maggior risalto tanti particolarismi ed inoltre singoli gruppi di politicanti di una nazione, in funzione di specifiche caratteristiche locali, possono combattersi tra loro anche per contendersi il ruolo di fiduciario dei vari istituti dell’ordine imperialistico internazionale (come NATO, UE, FMI oppure gli USA). Quindi non c’è affatto contraddizione tra rivalità vere che possono intercorrere tra PD e Lega (prima era tra PD e Forza Italia) ed il fatto che queste forze hanno finalità simili ed un unico orizzonte. Non è vera la tesi qualunquistica che i contrasti sono finti perchè i partiti sarebbero tutti uguali: oltretutto essa favorisce la tesi opposta, ossia se i partiti “litigano”, occorre schierarsi con uno per paura dell’altro.

Lenin, parlando del liberismo (pag. 177 del II° vol. delle Opere Complete) scrive: “(…) Il problema… si riduce al problema di quale sia nel particolare momento storico il particolare gruppo di imprenditori che esprima meglio gli interessi generali dello sviluppo capitalistico...”.

Questo spiega perché, di volta in volta, prende il predominio una frazione o l’altra dell’imperialismo (sul piano generale) ma lo stesso vale anche per le forze politiche, le quali -sia pure in un groviglio di rivalità, lotte intestine, contraddizioni- devono amministrare i suddetti interessi generali del capitale. Ce n’è sempre una che è più adatta, secondo il particolare momento: in Italia, in questi anni, tale “merito” è toccato al PD più che ad altri.

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Come difendere e rafforzare il capitalismo. Benchè utopistico e fallimentare, è questo l’obiettivo di fondo di tutti i partiti del regime bipolare, tanto che la linea del PD, ribadita in una riunione della sua direzione nazionale di metà luglio 2019 (gli stessi giorni in cui quel partito si ergeva come geloso difensore della NATO e inviava alcuni tra i suoi principali dirigenti sulla nave della “capitana Carola”) è che la “difesa della UE” -cioè l’asservimento del nostro paese agli interessi dei monopoli finanziari internazionali, di cui la medesima Unione è il comitato d’affari- passa necessariamente per il bipolarismo (e richiede lo sfruttamento selvaggio dell’immigrazione) per cui la strategia del PD è il suo pieno ripristino. Il dominio e gli interessi NATO (in un certo senso USA) e UE hanno bisogno del bipolarismo e viceversa.

Chi scrive non poteva immaginarlo, in quel momento, tuttavia il segretario del PD tracciò esattamente l’agenda di questo agosto 2019, ovvero preconizzò il governo che si vuole formare in questi giorni. Definito europeista dallo stesso e confermato addirittura da promesse UE di “ricompensa” prima ancora che esso sia formato.

Dunque, la lotta per la difesa della repubblica e della Costituzione, per la pace e la distensione internazionale ma anche la lotta di classe ed il vero internazionalismo (non la sporadica benchè lodevole carità cristiana nella quale si è ormai annullata quasi tutta la sinistra) richiedono prioritariamente, sul piano politico, la lotta contro il regime bipolare.

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Il teatrino bipolare. I suddetti valori non possono essere perseguiti subordinandosi alle logiche di questo bipolarismo e rassegnandosi a parteggiare per qualche sua componente.

Per riprendere una metafora già usata, tra le cosche mafiose possono esserci sempre delle accese rivalità, delle differenze sui traffici criminali preferiti, sui metodi usati e quant’altro. Tali differenze non lasciano insensibili tante persone oneste e può essere comprensibile che, di volta in volta, esse auspichino che prevalga una cosca anziché l’altra: ma quale fatale errore sarebbe confondere ciò con la lotta alla mafia! Si finirebbe inevitabilmente, pur ridimensionando qualche cosca (magari la “peggiore”) per rafforzare la mafia come sistema complessivo, favorendo così il successivo avvento di cosche ancora “peggiori” di quelle precedenti.

Chi scrive, molti anni fa, ebbe modo di valorizzare una citazione del compagno Ingrao. Egli diceva che i comunisti dell’epoca vedevano in Hitler l’espressione di un potere collettivo, relativo ad una precisa struttura sociale. In questo senso, non pensarono mai ad un attentato contro di lui, ovvero ad accontentarsi della lotta solo contro il capo criminale, bensì a condurla contro un intero regime, nel quadro dell’antagonismo con quella struttura sociale; al fine di sostituirlo con un altro tipo di potere collettivo (anziché un singolo “capo” con un altro).

Oggi, al contrario, non a caso -per non combattere il potere borghese e la sua struttura sociale- il regime bipolare cerca orwellianamente di dividere il popolo oppure indirizzare il malcontento di tanta parte delle masse, magari delle persone più generose e sensibili ai richiami ideali, contro una singola persona o in ragione di un solo argomento. Forse un nuovo gattopardismo, non più fondato sull’illusorio cambiamento di tutto bensì sul “combattimento” contro qualcuno o qualcosa per rafforzare, alla fine, tutto il sistema.

Un esempio. Prima, per il PD, era Berlusconi il “nuovo duce” mentre la Lega era la “costola della sinistra”; poi con Forza Italia ci hanno governato insieme e il demonio è diventato Salvini. Per questo prima il cavallo di battaglia era la legalità e poi è diventato il razzismo, mentre Salvini pretende di essere il difensore di un’idea tutta sua di legalità.

Per Berlusconi, invece, prima il PD era “il comunismo”, il pericolo di una dittatura staliniana nel nostro paese; poi, appunto, ci ha governato insieme ed ha continuato ad andarci d’accordo anche nell’ultimo anno di opposizione comune: lo scettro di Stalin italiano è passato a Grillo!

Così il paese si divide e si mobilita, su fronti opposti, su singoli argomenti. Per lo più sul “razzismo” e in misura più ridotta su alcuni diritti civili o l’omofobia ed altro.

In confronto a questi temi, per esempio, 4-5 morti al giorno sui posti di lavoro, il crollo dei salari e delle pensioni, la disoccupazione e la precarietà, l’abbandono del mezzogiorno e la nuova emigrazione di tante nostre ragazze e ragazzi non hanno quasi alcuna importanza.

Per i motivi accennati nei paragrafetti precedenti, PD e Lega, per esempio, avendo un’unica base programmatica ed ideologica (quella del capitale) vanno già d’accordo o per lo meno hanno già i medesimi obiettivi sulla TAV, sugli incentivi ai padroni, sulle privatizzazioni, contro la chiusura domenicale dei grandi magazzini, contro misure come il reddito di cittadinanza e il decreto dignità; anche sulla politica estera, hanno appoggiato il tentativo di golpe e aggressione al Venezuela, si oppongono alla proposta cinese di liberi scambi commerciali, ecc.

Meglio, allora, che la gente semplice si occupi (e litighi) solo delle ONG che sbarcano a Lampedusa, dell’incivile omofobia o di altre idiozie oscurantiste e medioevali.

Come nella normale concorrenza tra gruppi di capitalisti ciascuno cerca di sostenere i propri profitti lucrando in settori diversi dei mercati ovvero dei consumatori, così fanno i partiti borghesi del “totalitarismo bipolare”. Perciò si contendono l’elettorato (sempre più ridotto, come è nei loro programmi) anche con tecniche di marketing come qualsiasi impresa commerciale; per cui alcuni -più di altri- si avvicinano alle masse lavoratrici tentando di convincerle di essere dalla loro parte, ovvero di sinistra.


Non è detto che si debba respingere sempre e per forza qualsiasi eventuale compromesso con questi ultimi, tuttavia credere veramente che siano di sinistra (ovvero dalla parte di chi è sfruttato o oppresso) è come credere che i proprietari dei discount siano dei rivoluzionari antagonisti della borghesia mentre invece sono solo concorrenti dei proprietari delle imprese commerciali che vendono articoli di lusso. Spesso, invece, tutti loro possiedono pacchetti azionari incrociati.