L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

lunedì 6 gennaio 2020

Diritto Internazionale fottiti - ebrei-palestinesi un cancro da estirpare, capaci solo di crimini di guerra

Un popolo oppresso e solo e l'incendio nel Medio Oriente

di Giorgio Pagano


- Martedì 7 gennaio, alla Mediateca “Sergio Fregoso”, un artista ebreo, Moni Ovadia, terrà un incontro sul tema “Palestina: un popolo oppresso e solo”.

I palestinesi sono un popolo veramente oppresso e solo, forse più di ogni altro. Anno dopo anno le politiche di annessione coloniale di Israele -incoraggiate e coordinate dagli sforzi dell’Amministrazione Trump per legittimare ogni violazione del diritto internazionale da parte del Governo di Benjamin Netanyahu- stabiliscono nuovi precedenti che dissolvono il concetto stesso di costruzione della pace. Si pensi al riconoscimento da parte di Trump della sovranità israeliana su Gerusalemme e sulle alture del Golan siriano, che ha stabilito un precedente molto pericoloso di acquisizione di territori attraverso l’uso della forza, e ha calpestato ogni pilastro del sistema del diritto internazionale.

C’è un nesso tra l’oppressione e la solitudine del popolo palestinese e ciò che sta accadendo in queste ore: l’uccisione, per volontà di Trump, del generale iraniano Qassem Soleimani e del suo braccio destro iracheno Abu Mahdi al Muhandisi è infatti un tassello della strategia americana in Medio Oriente, il cui obiettivo è polverizzare gli Stati arabi e musulmani che possono opporsi a Israele, il guardiano degli Usa nella regione, e all’Arabia Saudita, il suo più fedele alleato ed il maggiore acquirente di armamenti Usa.

Ma torniamo alla questione palestinese: l’aspetto più sconvolgente è che oggi non esiste più. La questione palestinese è stata cancellata, insieme ai suoi morti. Esiste soltanto come un affare di sicurezza israeliana e per qualche timida uscita europea. L’ingiustizia del destino dei palestinesi è così macroscopica che per non vederla la comunità internazionale si è come bendata. Fa eccezione il fatto che la Corte Penale Internazionale de L’Aia abbia aperto, nei giorni scorsi, un’inchiesta per “crimini di guerra” di Israele nei territori palestinesi.

Bisogna che la comunità internazionale, e in primo luogo l’Europa, faccia sentire la sua voce. Anche l’Italia, che oggi è scomparsa sulla scena del Medio Oriente. Nella Prima Repubblica il nostro Paese seppe tessere, grazie alle principali forze politiche, di governo e di opposizione, una politica estera intelligente in Medio Oriente ed in generale con il mondo arabo: una grande tradizione che, insieme a molte altre, è andata perduta. Lo dimostra il nostro errore più grande di questi anni: non aver fatto nulla per impedire il conflitto in corso e la dissoluzione della Libia.

Serve, inoltre, che l’altro Israele esca dal suo coma. Sono tornato in Israele lo scorso anno, a distanza di pochi anni: l’arretramento civile è enorme. Si succedono elezioni su elezioni, ma il Paese non riesce ancora a liberarsi di Netanyahu, che non è solo un guerrafondaio e un colonizzatore ma anche un uomo politico accusato di corruzione e di frode. Nessuno, in Israele, parla più della Palestina come futura nazione: sempre più oggetto di annessione coloniale, la Palestina come nazione è diventata un’ombra.

Il problema è che anche dentro ai palestinesi sembrano che non ci siano alternative alla disgregazione: vige la sofferenza, ma non emerge una visione condivisa, una meta, una speranza. Anche in Palestina, a distanza di pochi anni, mi ha colpito l’avvitamento di una classe dirigente sempre più inadeguata. Ricostruire la casa palestinese per potere meglio fronteggiare Israele è un’altra grande priorità.

Ma torniamo all’incendio in Iraq voluto da Trump: lo scopo è eliminare, prima o poi, il regime della repubblica islamica dell’Iran, l’unico Paese che può tener testa a Israele nella regione; e intanto fare dell’Iraq una base operativa anti-iraniana.

In Iraq ci sono anche i militari italiani. Sarebbe meglio ritirarsi, e pensare invece a quel che succede in Libia, senza delegare tutto a Trump, a Putin e ad Erdogan. Gli americani in questi anni hanno portato le loro guerre in casa nostra, dall’Iraq, alla Siria, alla Libia. E’ arrivato il momento di non starci più. E anche di non consentire che le basi Usa in Italia siano usate contro la pace e contro l’interesse del nostro Paese.

Domenica 5 gennaio 2020 alle 10:02:09
lucidellacitta2011@gmail.com

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