Debito record e rischio rating. Compagnie globali sul filo del rasoio
OCSE: il debito sul mercato delle imprese vale 13,5 trilioni di dollari. I bond spazzatura crescono: sono il 25% del totale. Una nuova crisi può creare instabilità
Alla fine dello scorso anno il debito delle società non finanziarie scambiato sul mercato ha raggiunto la quota record di 13.500 miliardi di dollari, oltre un settimo del Pil globale. Lo segnala
l’ultimo rapporto pubblicato dall’OCSE che sottolinea la ripresa del mercato obbligazionario dopo la contrazione registrata nel 2018. La qualità dei bond in esame, tuttavia, solleva più di un dubbio evidenziando implicitamente i rischi crescenti per le maggiori imprese del Pianeta di fronte all’ipotesi di una congiuntura negativa per l’economia. Nell’attesa di conoscere nel dettaglio
la portata del rallentamento cinese con le sue inevitabili ricadute per il resto del mondo, insomma, c’è davvero poco da scherzare.
Nel 2019 le società non finanziarie hanno emesso debito sul mercato per 2,1 trilioni di dollari, 300 miliardi in più rispetto all’anno precedente. Fonte: OCSE, “Corporate Bond Market Trends, Emerging Risks and Monetary Policy”, febbraio 2020.
2.100 miliardi di nuove emissioni
Cominciamo dalla fine: nel 2019 le nuove emissioni obbligazionarie da parte delle imprese che producono beni e servizi sono state pari a 2,1 trilioni di dollari (2.100 miliardi). Il dato segna una crescita di 300 miliardi rispetto ai collocamenti 2018 e il trend non è certo casuale. Due anni fa il clima percepito dagli investitori sembrava suggerire una probabile normalizzazione della politica monetaria. Dopo anni di politiche ultra espansive, insomma, le banche centrali parevano pronte ad alzare i tassi per riportarli a livelli storicamente meno anomali. Ma nel 2019, sottoposte alla pressione crescente tanto dei governi quanto degli stessi mercati, i regolatori centrali hanno mostrato al contrario una rinnovata propensione per le politiche accomodanti.
Doppia pressione per le banche centrali
È l’ormai noto fenomeno del «
bullismo monetarista»: per quanto formalmente indipendenti, i regolatori sono costretti a fare i conti con le richieste degli esecutivi – chiamati a gestire la prospettiva di una crescita sempre più debole – e con la pressione dei mercati e delle loro aspettative. In questo contesto, va da sé, i bond possono proliferare perché indebitarsi diventa sempre più conveniente. I prezzi delle obbligazioni salgono, i rendimenti – ovvero i costi di finanziamento – calano e il ciclo continua. Ma i rischi, nonostante tutto, sono sempre dietro l’angolo.
«Oltre alla crescita dimensionale (del debito sul mercato, ndr) regolatori e governi devono tenere in considerazione i cambiamenti relative alla qualità e alle dinamiche dei bond delle imprese» scrive l’OCSE. Il primo problema è che la maturity media, ovvero la scadenza temporale delle emissioni, si è allungata: 13 anni contro i 9,4 di inizio secolo. Insomma: si accumula debito e si pagano interessi più a lungo. Inoltre, ed è questo l’aspetto più importante, le obbligazioni sono diventate complessivamente più rischiose. Queste due caratteristiche – durata e qualità – rendono i titoli più sensibili a un cambiamento generale delle condizioni monetarie ed economiche.
Un cambiamento di scenario, una crisi o un ridimensionamento della crescita globale ad esempio potrebbero produrre effetti negativi ancor più pronunciati. E l’attenzione, ovviamente, è tutta per il rating.
L’irresistibile ascesa dei bond spazzatura (et similia)
Nel corso del decennio, la quota di bond spazzatura – ovvero i titoli junk o speculative grade che dir si voglia (semplificando: i più rischiosi) – è stata pari a circa un quinto del totale. Nel 2019 il peso di queste obbligazioni di qualità inferiore è salito al 25%. Ma a proliferare è stata anche la presenza dei titoli a rating BBB, l’ultimo scalino del cosiddetto investment grade. Come dire: i peggiori dei migliori, la zona retrocessione della Serie A del debito. Tra l’inizio del secolo e gli albori della crisi, i bond a tripla B rappresentavano il 39% delle emissioni investment; oggi siamo al 51%.
Cosa significa? In pratica che la metà circa delle imprese non finanziarie che partecipano al principale «campionato» delle emissioni di debito non possono permettersi nemmeno un singolo declassamento da parte delle agenzie di rating perché in quel caso la qualità delle loro emissioni retrocederebbe in territorio junk. E non sarebbe certo una discesa indolore.
approfondimento
I fondi si sbarazzano del debito?
In pratica funziona così: i fondi di investimento hanno l’obbligo di mantenere un certo livello di rischio, ovvero di detenere una quota limitata – o talvolta addirittura nulla – di titoli spazzatura; quando un insieme di titoli investment grade viene declassato a junk, di conseguenza, il fondo stesso può trovarsi costretto a vendere. E l’aumento delle vendite, vale a dire dell’offerta, finisce per deprimere il prezzo dei titoli stessi sul mercato facendo salire di riflesso i loro rendimenti. Il che, alla fine dei conti, significa che le imprese che li hanno emessi saranno costrette, con ogni probabilità, a sostenere costi maggiori in occasione dei collocamenti successivi.
I bond delle società non finanziarie in mano ai fondi ETF sono aumentati di 13 volte nello spazio di un decennio, passando dai 32 miliardi di dollari del 2008 ai 420 del 2018. Le stesse imprese non finanziarie, inoltre, sono esposte sui titoli del comparto perché hanno in pancia un ammontare crescente di obbligazioni emesse da altre imprese. Le 25 maggiori aziende americane possiedono corporate bond per 356 miliardi di dollari, contro i 119 di dieci anni fa. «Diffusi declassamenti delle obbligazioni con rating BBB – scrive l’OCSE – possono portare a massicce vendite capaci di mettere sotto pressione il mercato dei corporate bond creando così motivi di preoccupazione per la stabilità finanziaria».
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