Noterelle sparse sull'umanità malata
Roma, 7 settembre 2020
Accanto a me, al bar, lontani secondo i gradi di separazione sanciti dal Potere, stazionano due neutrini. Esserini che una volta si sarebbero detti maschio e femmina; si somigliano, invece, nei modi smorti, tenui e indecisi tipici della nostra epoca definitiva; potrebbero giudicarsi riguardosi e gentili se non che le movenze tradiscono, invece, in luogo d’un comportamento dettato da un codice, le languidezze di chi si sta lentamente spegnendo: vocine, mossette, minuscoli trasalimenti. Non vantano carica elettrica, per tale motivo amo soprannominarli, anziché snowflakes, neutrini: privi della personalità individuale che regala profondità e massa critica; aerei, insulsi; fungibili e, perciò, sacrificabili. Da tali insignificanti sbuffi d'aria è impossibile aspettarsi alcunché: una reazione, la rabbia, l'odio, volontà, il raziocinio. Un cubicolo e una poltrona bastano già alla loro mansuefazione; sono i tesorucci, ovvero gli umani ridotti a cani per gli alieni padroni, come si legge in Umanità al guinzaglio di Thomas Disch.
Il barista passa uno straccio imbevuto d’alcool sul banco: un breve effluvio offende le nari della coppia. Lui spalanca la boccuccia, portandosi una mano al petto; lei, forse più ricca d’un sottofondo femminile (ottant'anni di pace favoriscono le gonadi), simula una sorta di anacronistico melodramma: arretra di un passo, quindi di due, la mano destra, arrovesciata, recata alla fronte; il braccio sinistro annaspa all’indietro come a cercare un tendaggio dannunziano, le quinte passionali cui aggrapparsi nel deliquio del momento. La bocca, semiaperta, come Lyda Borelli in L’amor mio non muore, pare interrogare il mondo sul perché di tanta sofferenza; in generale; e, in particolare, pare interrogare l’autore del misfatto, il barista, un poveraccio malmesso, spelacchiato e dai piedi gonfi, alle soglie della pensione e, forse, d'una sincope.
La scena si raggela per un attimo, poi qualche parola è farfugliata, a sciogliere l’imbarazzo. Le scuse, una breve risata nervosa; i neutrini le accettano, certo, e poi si guardan muti, ancora increduli, chiedendosi come fosse stato possibile un oltraggio simile: a quelle latitudini poi, latitudini di viale Liegi, in Roma!
Cosa ci faremo con questi neutrini, questi esserini, marionette disarticolate, senza storia, stupidi e ottusi, persi in un gorgo di cui nulla comprendono. Cosa ci faremo, cosa ci facciamo? Niente, cosa vuoi farci, è carne da macello, inservibile, per me possono crepare dal primo all'ultimo.
Amo il trascorrere del tempo che azzera il chiacchiericcio e predispone, chiunque, all'accettazione delle poche grandi verità della vita. Verità già rese in evidenza da menti a noi superiori: "Nulla di troppo", "Conosci te stesso", "Meglio per te, uomo, non essere mai nato!" e rielaborate da menti loro pari, da migliaia d'anni, tra baluginii d'orrore, riflessi corruschi, gioie di illimitate forza.
Quanto chiacchiericcio fra noi. Milioni di analisi, di parole, di invettive. Inutili, poiché quando le direttrici della storia inclinano a formare una irresistibile risultante di forze, nessuno può opporsi.
Solo l'invito alla rivelazione sussiste.
Sul blog di Massimo Mazzucco, Stefano Re pubblica un post di straordinaria forza rivelatrice. Egli si domanda, a proposito dell’indolenza e passività degli Italiani:
“Perché anche di fronte ad evidenze innegabili, molte persone rifiutano di considerare possibile che un governo li abbia ingannati, sfruttati, o persino abbia sacrificato volontariamente migliaia di loro concittadini? Perché anche di fronte ai documenti che lo provano così tante persone rifiutano di accettare che medici e funzionari della sanità siano al soldo delle case farmaceutiche? Perché nemmeno davanti alle evidenze più chiare si rifiuta di accettare che una spiegazione ufficiale sia semplicemente una montagna di bugie?
- Mostri l’evidenza che la versione ufficiale è una menzogna, ti rispondono: 'e allora come lo spieghi tu?' - come se necessitasse una spiegazione alternativa per accettare che quella ufficiale è falsa.
- Mostri l’evidenza che un professionista blasonato mente, ti rispondono: 'e tu che titoli hai?' - come se necessitasse un qualche titolo accademico per accorgersi che un titolato accademico sta mentendo.
- Mostri l’evidenza che una strategia definita utile è inutile, rispondono: 'mi fido di loro' - come se il punto fosse 'di chi fidarsi' e non semplicemente valutare secondo logica delle evidenze.
- Ma perché? Premesso che non si tratta, il più delle volte, di soggetti con insufficienti funzionalità cerebrali, che cosa limita l’accesso stesso alla logica da parte di queste persone?”.
I pochi che mi seguono avranno forse letto il mio
Morire d’evidenza, del gennaio 2016. Perché gli Italiani, gli Europei, non si aprono all’evidenza? Rispondevo, allora, così:
“Se accettassimo l’evidenza, infatti, ora più che mai in piena luce, tanto che il potere stesso non si premura nemmeno di nasconderla, rinunceremmo a parte delle nostre convinzioni, e, perciò, a noi stessi. E chi osa prendersi un tale fardello?”.
Ma questa è solo la mezza messa. L’altra mezza la raccontai qua e là, sempre eguale, poiché il mio vizio coincide con l’unica virtù: dico, ri-dico, rielaboro gli stessi concetti. E l’altra mezza messa consiste in questo:
gli uomini non vogliono la verità. La verità, infatti, non rende liberi, ma disperati.
Solo alcune persone scelte, i Diecimila, possono farsi carico della verità. Gli altri, quelli da convincere, i reietti, debbono nutrirsi di trasfigurazioni della verità id est d’un simbolismo immane che, in altre epoche, aveva nome utopia. I comunisti, i socialisti, i contadini credevano al bene comune, al collettivismo, a un mondo migliore, al sol dell’avvenire; Lenin alle mazzette delle banche che gli avrebbero consentito la rivoluzione.
Nessuno (e dico: nessuno) muoverà mai un dito se gli ponete sul piatto, palpitante e sanguinosa, la verità; la bella menzogna, invece, quella muove il mondo.
Questa è terra di confusione, dicono le Scritture, e mai parole furono più vere. Perdere la bussola, le coordinate, i riferimenti ci ha recati in un luogo che non esiste in realtà, ma in cui ognuno è costretto a vivere, come sognato da un’Entità inumana. Persino l’incertezza alla base del racconto La farfalla e l’imperatore è dileguato: “Una volta, Zhuang Zhou sognò di essere una farfalla. Era una farfalla che volteggiava liberamente, appagata della propria condizione. Non sapeva di essere Zhou. All’improvviso si svegliò e si accorse di essere Zhou, con la sua forma. Non poteva dire se Zhou avesse sognato di essere una farfalla, o se una farfalla stesse sognando di essere Zhou”. Non vi è incertezza, bensì la certezza, assai netta, di essere il sogno di Altri: relegati a impersonare l’Utopia del vero Potere. E a cosa siamo ridotti? Alla distruzione della personalità, individuale e collettiva. I fasci che tenevano insieme la paziente sbozzatura di migliaia d’anni di educazione, tradizione e consuetudine sono stati slegati o tagliati. Ciò che consentiva a un essere umano di esser tale ora giace sparso e inutilizzabile. Le pulsioni ancestrali, ormai prive di limiti e filtri da sublimazione, irrompono negli animi a impersonare un Carnevale lugubre e depressivo. Le residue forze di civiltà che ognuno ancora possiede si trovano alla mercé di tale risalita dalle fogne: lo spettacolo che ne risulta è di pura follia. A questi Saturnali involontari il Potere dà nomi ingannevoli: libertà, parità, giustizia. Essi consistono, invece, nella stregonesca e falsa libertà propria delle orge più sordide in cui a reclamare l’unico diritto è l’Informe, la dissoluzione. Chiunque oggi, anche in perfetta buonafede, reclami il politicamente corretto, ha stampati, nelle movenze e nei volti, tale resa alla demonica In-differenza: sindromi comportamentali, isterie, ansie di transizione sessuale, lobotomie, psicopatie reggono, infatti, come fili di marionette deformi, tali rivendicatori del Nuovo Ordine. La prudenza, la calma, il raziocinio, la connessione a un patrimonio mitico e storico, la de-finizione: tutto questo è bandito. A tale devastazione si accompagna, inevitabile, la confusione della lingua e, perciò, del ragionamento. Se il principio di non contraddizione più non vale, così come i basilari fondamenti della logica, allora sequitur quodlibet, ogni cosa vale, ed è permessa. I farfugliamenti, le aporie, il conformismo insensato dominano il discorso di Babele che, però, non è più tale, ma vociferazione d’una entità lovecraftiana.
In questi tempi ci si imbatte spesso in situazioni a cui nessuno vuole prestar fede. Certi resoconti li si accolgono con uno sbuffo di incredulità. Ma non è possibile, dai! E, invece, è possibile, il nulla è tra noi, ansioso di nuovi ordini da distruggere, di nuova bellezza da corrompere, sfregiare, umiliare.
Esempio: l’assessore alla Cultura d’un capoluogo di provincia italiano non sa leggere. L’ho visto, ascoltato, soppesato: non sa leggere. La dizione impastata, gli impuntamenti, la frantumazione del filo logico del discorso, la compitazione stenta d’alcuni vocaboli appena più ricercati, la preclare estraneità dell’alone concettuale e addirittura sonoro d’alcune parole alla propria miserabile cerchia di luce, tutto questo rivela l’analfabeta; il peggior analfabeta, poiché privo dell’innocenza che gli ignoranti come Bertoldo possedevano.
Lo so, lo so: sembra impossibile eppure l’impossibile è fra noi. Come un ladro di notte l’anomia e l’insensatezza ci hanno colti indifesi. Le più grandi civiltà, in declino, aspettarono, con inconscia voglia di liberazione, l’arrivo dei barbari:
“Je suis l'Empire à la fin de la décadence,
Qui regarde passer les grands Barbares blancs
En composant des acrostiches indolents
D'un style d'or où la langueur du soleil danse”.
Così sancisce Paul Verlaine. E Kavafis, in altro luogo notissimo, rincara:
“Perché rapidamente e strade e piazze
si svuotano, e ritornano tutti a casa perplessi?
S’è fatta notte, e i barbari non sono più venuti.
Taluni sono giunti dai confini,
han detto che di barbari non ce ne sono più.
E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi?
Era una soluzione, quella gente”.
Ma Verlaine e Kavafis arretrerebbero di fronte a questi barbari che barbari non sono, ma araldi del Nulla. I barbari, la linfa vitale dei conquistatori soggiogati dalle architetture e dalle candide filosofie dei vinti, più non vivificheranno il sangue morente. E ciò accade perché i barbari più non esistono. Oggi, 2020, siamo fuori della storia, definitivamente. Non verremo invasi, quindi, da Eruli e Goti; ci risparmieranno, altresì, i Mongoli. Permarranno solo i parassiti, la voglia nichilista di sconcezza. Ciò che ancora appare vitale è solo l’ingannevole frutto di una dissacrazione. Chi dissacra il passato, lo dileggia, lo scimmiotta, lo imita pateticamente - solo tali individui ancora danno l’impressione di essere qualcosa. La maggior parte di noi, invece, è morta, o impazzita, o rassegnata a una prossima morte. Lo strepito di Azathoth riempe l’universo.
Titolo d’un giornale provinciale: “Allarme Covid19. Oggi 0 contagiati, 0 guariti, 0 morti”.
A parte l’eterno virus, che non è un virus bensì la chiave di decifrazione del nostro immediato avvenire, in estate solo Lukashenko e Beirut hanno occupato per qualche momento le menti dei controinformatori. Lukashenko e Beirut costituiscono, invece, solo notiziole. La Bielorussia, Beirut e l’intero Medio Oriente si preparano a smottare nel Nuovo Mondo.
Minsk, tale amena località, vanta, infatti, un McDonald’s. Da tale semplice constatazione l’uomo accorto dedurrà la probabile fine del "dittatore". Da questa foto, invece, la probabilità si trasformerà in certezza.
All'inizio della farsa ero rimasto deluso. L'oppositrice al bieco dittatore consisteva nella brunetta al centro: un po' andante, per così dire. La recita appariva di basso conio, spenta. Poi i pupari si son rianimati (non mancano le manze da quelle parti) e hanno aureolato la signora di due solide e piacenti bionde (piacenti, ma non gnocche, quindi perfette: in questi casi eccedere non porta mai bene). Lukashenko contro la cotichella al centro avrebbe anche potuto farcela, ma contro le sorelle della libertà (di cui converrà studiare il simbolismo: vittoria, pugno chiuso e cuore; forse il carta sasso forbice dell'Illuminismo nichilista?) ... Caro Aljaksandr, adieu ...
Gli Hezbollah, dal canto loro, non si son accorti che nel proprio tinello, a Tehran, ha aperto i battenti un Mash Donald’s, ovvero una smaccata imitazione della catena ideologica americana. I Guardiani della Rivoluzione si son lagnati un pochino dell’accaduto, poi si sono rimessi a dormire; fra qualche anno si abbufferanno di patatine fritte, come tutti. Si sa come vanno queste cose.
Noto come le donne si stiano finalmente avvicinando all’altare. Ora, di fatto, servono messa, al posto degli abatini o abatelli come li chiamano ancora nella Tuscia. Leggono le scritture, preparano ampolline e straccetti per la Consustanziazione e così via. La tecnica pare la solita: consumare le resistenze. Lo schianto finale avverrà quindi con fare naturale, inevitabile.
Anche per l’incesto ci si dà parecchio da fare. Fratellastri e sorellastre, matrigne e patrigni furono i timidi protagonisti dei primi video pornografici che dissacravano la famiglia, qualche anno fa. Ora il patrigno o la matrigna si svelano, sempre più, come madri e padri, fratellastri e sorellastre come fratelli e sorelle. Lo schianto finale avverrà quindi con fare naturale, inevitabile. Amor omnia vincit.
Qualche tempo fa, 26 novembre 2019, in
Pausa caffé si esaminarono le cause dell’accidia italiana. Gli Italiani, insomma, più non lavorano. Si intrattengono negli uffici più che altro. La minoranza che contribuisce al PIL, quello vero, la forza residuale che crea, ex novo, oggetti e bellezza e occasioni, invece, decade. Le sue aziende, un tempo floride, rivelano crepe, polveri, disattenzioni. Certo, qualcuno si ostina, ancora; la sua attenzione, però, non risiede più nel fare bensì nel difendersi: da imposte, tasse, cartelle inventate di sana pianta. Ogni suo movimento è ostacolato dalla burocrazia che taglieggia e diluisce nel tempo ogni iniziativa con richieste ottuse, contraddittorie, esasperanti. L’ex inventivo italiano è, perciò, costretto a sperare nell'elemosina di Comuni, Regioni e Stato; a vivacchiare, da operatore economico ricattabile. La rassegnazione entra tra le fibre della volontà, la smorza progressivamente. Abbandonare tutto, spogliarsi di tutto, anche di quelle ricchezze immateriali come la tradizione e l’ingegno di famiglia, diviene, perciò, una liberazione. “Basta! Vadano al diavolo tutti!”, egli esclama, non sapendo che l’imbuto in cui l’hanno cacciato prevedeva solo tale uscita. Anche per i professionisti vale la medesima cosa. Avvocati, commercialisti, periti sono vieppiù insidiati non solo dal malaffare amministrativo, ma anche dalla macchina: un modesto programma di duecento euro permette di svolgere mansioni una volta riservate al lavoro occhiuto e indefesso del travet, geometra o ragioniere; il digitale elimina pericolosi calcoli di contabilità e bypassa la sapienza tecnica e giuridica. Il professionista si riduce, quindi, a passacarte tenuto in vita da vecchie amicizie, granaglie di parenti, conoscenze occasionali.
Anche il suo fenotipo risente di tale derubricazione sociale. L’avvocato, a esempio, questa figura un tempo possente e temibile, s’è ridotto o a disillusa comparsa di mezza età o a un ragazzotto di belle speranze che popola, regolare, le metropolitane urbane: smartphone sempre acceso, magra cartellina, jeans, scarpe da ginnastica, la camicia o il tailleur da poco, catene, collanine e pendagli (da forca) negligentemente sovrapposti - così mi pare di intravedere - all’ammicco d’un tatuaggio.
Un artigiano, che ha conosciuto il Buzzi di Mafia Capitale, m’illumina sulle nuove elezioni romane: “Ma lo sai chi ha reclutato Salvini a Roma? I peggiori .... ahò, certe facce da galera ... lo scalino l’hanno salito tutti ... ah ah ma qui coi voti è così da sempre, dai ...”
“Essere brutti è un diritto, ma tu ne abusi”: tale la scritta sulle mura dei cessi della Sapienza rivolta contro una coetanea irrimediabilmente brutta, incontestabilmente brutta. Lei, che conviveva con tale verità irrefragabile, esacerbava persino lo stato delle cose: capelli scomposti, sciatteria nel vestire, eloquio borbottato. Essere brutti faceva parte della vita; come essere bassi, grassi, poco intelligenti, poveri. La vita è questa qua, la si accetta; si china la testa, c’è posto per tutti. Si giudicava, è vero, ognuno di noi, adolescente o adulto in erba, lo è stato; chi non ha subito una sferzata, una delusione? Eppure tutto questo scivolava sulla pelle, prima o poi, perché il mondo era costruito per pensare in nostra vece. Si entrava nella vita sapendo che non potevamo certo cambiarne gli snodi principali. Il matrimonio, i figli, il lavoro, la casa passavano per alcune strozzature obbligate; ognuno le conosceva, ci si sottostava, l’ansia era un mostro sconosciuto. Si era brutte? Non soccorreva, forse, l’adagio “Belle o brutte si sposan tutte”? Quante donne brutte o bruttissime hanno condotto una via felice, piena, priva di paturnie sol perché la tradizione soccorreva in luogo della scelta individuale? Ora, invece, la bruttezza è da schifare, un problema, porta al suicidio; il corpo si deve mutare in qualcosa d’altro poiché si è soli, tristemente soli, di fronte al giudizio: le impalcature del sentire comune, infatti, sono crollate. Quanti ragazzi non resistono, oggi, al giudizio? Disperati, inermi, contro un immaginario posticcio e implacabile.
Nell’arte la bruttezza promanava dalla bellezza, sempre. Il brutto, l’orrido, il demoniaco condividevano le medesime stimmate del bello. Bronzino e Velàzquez dipingono nani, Massys una donna deforme, il Ghirlandaio un nonno col naso deturpato dall’acne, Bosch una nave di pazzi: eppure le tavole, le tele, la lenta macinazione dei colori, le velature, la preparazione dei fondi fanno capo a una liturgia che ha per fine l’appressamento verso quel bello che, alla fine, ghermisce il suo apparente avversario e lo ridona in forme immortali.
Ora domina l’inversione. Il bello è sempre meno riconoscibile. Dichiariamolo una volta per tutte: non è solo la forma a determinare la bellezza bensì proprio la nobiltà della materia. Essa è decisiva. Una Naiade, di identica foggia, espressione, plasticità resa in marmo o in oro o effigiata con olii e tempere preparati dall’artigiano risulterà inevitabilmente superiore a una escogitata con materiali vili o di seconda scelta. Proprio qui, peraltro, opera l’usura. Un’opera d’arte o di alto artigianato oppure di quella fattura paziente e media cui si era abituati sin al dopoguerra (cornici, posate, orologi) necessita di tempo, studio assiduo, di bottega, e scelte onerose. Con l’usura, anche questo è inevitabile, il tempo si dilegua, lo studio è soppiantato dalla tecnica utilitaristica, le scelte si fanno al risparmio dominando l'imperio della statistica. Decade il materiale, si fa frettolosa la lavorazione. Non è solo una questione di serialità. È l’usura a imporre la mediocrità, in nome di un efficientismo che nutre e divora sé stesso, in una foia dissolutoria inarrestabile. “Ripeto: un perito, guardando un quadro (di Memmi [Memling], di Goya, di chiunque) saprà dire il grado di tolleranza dell’usura presente nella società dove fu dipinto il quadro”, ammonisce Ezra Pound.
Solo fra gli strati più bassi della romanità intuisco, pur blandamente, slanci di un’umanità sincera. Cascami di un antico codice d’onore, di un rispetto atavico per i genitori; e, soprattutto, per i bambini. Qui madri e padri degeneri sono giudicati per quello che sono, gentaglia; nonostante le privazioni, la costante corruzione recata dal postcapitalismo, i figli son al centro della famiglia, figurine venerate e innocenti; venerate, forse, perché innocenti, di quell’innocenza, nei rapporti e nei valori, che è rimpianta anche da chi non l’ha conosciuta direttamente. Adorare per due millenni una Diade, la Madre e il Figlio, ha instillato un amore e una deferenza naturali nel cuore degli Italiani, oggi ridottisi a tale riserve antropologiche. Nonostante i segnali della decadenza, il timor dei permane: nella provincia profonda, al limitare di crocicchi desolati, agli angoli delle suburre. Il Figlio, qui, ancora è guardato con ossequio indefinibile; persino la bestemmia diviene rarefatta, sin quasi a scomparire, al Suo cospetto. Si oltraggia il nome di Dio o della Madonna (cioé di una donna qualunque), poiché entità astratte, rarefatte; quando ci si avvicina al cuore dell'autentico cuore evangelico, alla Madre e al Bambino, si raggelano persino gli istinti più dissacratori. La Madre, il Grembo, la Nascita, l’umiltà della Nascita: tutto questo forma ancora una costellazione che dona senso ai residui d’Italia.
Il Bene partecipa del Male, il Bello del Brutto. Solo a Lucifero, che non è Satana, pare repellere tale dialettica. Egli non è niente, si appaga di niente, diffonde il niente sotto spoglie meschine.
La bruttezza, intesa come provocazione, inversione, ghiribizzo psicopatico, catatonia decorativa, fu un'invenzione al servizio dei distruttori. Gli Ebrei, favoriti da una religione aniconica e dal loro genio all'inversione antinaturale, furono i trombettieri di tale offensiva (lo stesso Federico Zeri osservava che dietro parecchi artisti contemporanei si nasconde una musa ispiratrice ebrea). Musei, gallerie, legioni di critici e teppisti seppellirono l'euritmia, la tradizione e il buon senso; la modernità, come bruttezza, all'inizio ingannò molti poiché, in fondo, si sostanziava, pur nella parodia, delle antiche forme. Solo nel dopoguerra ebbe via libera nella propria voluttà di distruzione fino a dominare esclusiva e allagare i settori commerciali, accademici e dell'immaginario comune. Assolti i compiti precipui della dissacrazione e della devastazione, la bruttezza, insomma, vincitrice solitaria, ormai slegata dalle forme del bello, proditoriamente dissolte, degenerò gradatamente in Qualcosa d'Altro ovvero nell'informe e nell'insensato: dalla materia bruta allo scherzo insulso, dall'apologo polcor all'architettura d'inesplicabile assurdità sin al design più meschino, la bruttezza divenne emblema icastico del nulla, epifania del vacuo. La chiesa folignate di Fuksas o l'ammasso di pongo di Jeff Koons non possono giudicarsi "brutti": essi stazionano, invece, in pieno territorio nichilista, al di là d'ogni categoria estetica, oltre il bene e il male. A tali apparizioni luciferine nulla é possibile opporre dal punto di vista morale, umano e logico mancando il terreno comune (morale, umano, logico) su cui inscenare una pur pallida discussione.
Uno fra i tanti appressamenti al Nulla: Cézanne, Picasso, Pollock, Burri, Abramović, Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo, chiesa di Foligno, cappella Rothko.
Sino a pochi decenni fa ci si scannava per pochi decimi di PIL. Ora il suddetto crolla a due cifre nella più completa indifferenza. Ci si avvia alla non-produzione, infatti, al non-lavoro, alla stasi. Qualche economista crede ancora di predire il futuro analizzando costi, gestioni, tonnellaggi, frequenze di trasporti merci quando, invece, si va ventre a terra in direzione opposta: in nome della libertà, della giustizia universale e dell'impatto zero. Oggi, 2020, la stessa Italia, decima potenza industriale, sopravvive sulle spalle di un terzo della popolazione: basta, quindi, un piccolo sforzo. Verso dove? Basta leggere i post di Beppe Grillo per scoprirlo.
Beppe Grillo é la bocca della verità.
Un mondo statico, privo di conflitti e violenze, di etica e precetti morali. Snervato, indifferente, apatico, narcolettico. Il PIL! Il nuovo mondo, testé strutturato, l'abbiamo gustato in anteprima - causa Covid - e ben presto diverrà normalità. Il reddito di cittadinanza ha sollevato le più vuote polemiche per circa un annetto; passati i bollenti spiriti di qualche critico prezzolato, onde inscenare il teatrino finto delle polemiche, il reddito si prepara a divenire strutturale quale reddito di sudditanza: col consenso di tutti, novelli apologeti ed ex denigratori. A gennaio, scaduta la moratoria degli sfratti e dei licenziamenti, ci si ingegnerà a creare il Lumpenproletariat digitale a mille euro: sveglia alle 10, lavoro socialmente utile di tre ore, qualche videochiamata, e poi ore e ore di tempo libero, magari da passare ancora davanti allo schermo o al tecnobar, presso i tavoli del tecnobar, a sprizzare con altri fannulloni del ventunesimo secolo.
Ma non era questa l'utopia, la liberazione dal giogo del profitto e del lavoro salariato, del lavoro tout court, non è questo il paradiso, the parad-ice? Purtroppo no, la spoliazione del lavoro dall'uomo è solo il prodromo alla schiavizzazione definitiva dell'individuo e alla soppressione della residua civiltà. Un piano ingegnoso, ottenuto senza lo spargimento d'una goccia di sangue. Toccherà a tutti, prima o poi. L'Africa, liberiamo l'Africa, uccidiamo il colonialismo occidentale in Africa, l'Africa, l'Africa! I bambini denutriti, il terribile Islam, le escissioni clitoridee, le caste africane! Si è capito a cosa si mira? Nient'altro che al mondo nuovo, all'Africa nuova cioè all'Africa sterilizzata, anonima, come anonime e anomiche sono le nuove capitali del Nuovo Mondo. In nome della libertà, della giustizia e dell'autodeterminazione (grazie agli utili idioti delle ONG) si sopprimono le civiltà, le consuetudini, gli usi che permettevano la vita; una vita spesso miserabile, ma peculiare, piena. E ora? E ora gli abitanti del Gabon avranno i nostri stessi diritti: di friggere scarti alimentari al Burger, a cento dollari la settimana, o farsi inculare liberamente, proprio come gli esserini occidentali, una volta schiavisti e oggi fratelli!
Liberare il mondo per darlo in mano a una decina di multinazionali al servizio della Monarchia universale, questo il piano, quasi del tutto riuscito. Davvero si pensa che l'Occidente non abbia avuto la forza di mantenere i propri privilegi? Ma no, era tutto prestabilito; da chi ha tempo, un Ideale e la degenerazione storica a suo favore: guerre civili, ecumenismo fanatico, Dien Bien Phu, Algeri. Il nerbo dell'Occidente doveva essere reciso onde permettere la Grande Opera.
La spinta di maestri e professori per la chiusura delle scuole sarebbe sorprendente se non fosse altamente prevedibile. Lo smartworking piace a chi non ama il lavoro, agli s-passionati, ai cultori della videochiamata da poltrona. D'altra parte come dargli torto? Abolire l'istituzione sarà la prossima moda. Via la scuola, via le carceri, via i tribunali, via i divieti. Vietato vietare. In attesa di sostituire maestri e professori con una manciata di AI appena più efficienti di tali poltroni, gustiamoci l'autunno dello spritz. Ma cosa vorrà fare tutto il giorno l'esserino del futuro? Dormire, morire?
Già me lo vedo, assente, senza bocca, privo di orecchie, atrofizzate le gambe e il sesso, amorfo. Come impiegherà quel tempo che dovrà sembrargli eterno? Ventiquattro ore, ogni giorno, sono tante.
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