L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

domenica 22 novembre 2020

Non ci stancheremo mai di dirlo, l'inflazione dipende dalla massa monetaria in circolazione e dalla carenza dell'OFFERTA. Punto. In un mondo di SOVRAPPRODUZIONE in cui l'Offerta è esorbitante l'inflazione è obbligatoriamente piatta


di Maurizio Sgroi Pubblicato: 20 Nov 2020 Stampa Email
Categoria: Il Foglietto


Parlare ancora della curva di Phillips, concepita alla fine degli anni ’50 del XX secolo, agli albori del secondo decennio del XXI secolo parrebbe un passatempo vagamente feticista se non fosse che, come riporta all’inizio un bel paper pubblicato dalla Bank for International Settlements (Bis) di Basilea, “la relazione fra inflazione ed attività economica, la cosiddetta curva di Phillips, è uno dei capisaldi della macroeconomia”. Il motivo lo sappiamo già, ed è inutile tornarci sopra. Così come non serve ricordare quanto il nostro attuale pensiero economico sia infestato da svariate mitologie.

Assai più interessante, invece, leggere il paper, costruito sulla base di dati relativi al ventennio 1970-90 e al periodo fra il 1991 e il 2016 nella zona euro, perché ci comunica una informazione molto interessante che ci dice molto non solo di come certe mitologie prendano corpo, fino a diventare teorie, ma anche come, nei fenomeni sociali, spesso i rapporti di causazione si originino molto diversamente da come i costruttori di teorie immaginano.

Per dirla diversamente, la famosa curva misurava la relazione inversa fra il tasso di inflazione e quello di disoccupazione, nel senso che una disoccupazione più bassa tende a spingere all’insù i prezzi. Conclusione ragionevolissima, pure se fondata su un’analisi statistica estremamente circostanziata, perché non faceva altro che trasferire sul mercato del lavoro il principio elementare che vuole a fianco dello scarseggiare di una risorsa – il lavoro in questo caso – un aumento del suo prezzo relativo.

Senonché questa meravigliosa rappresentazione, che funzionava perfettamente negli anni in cui la si misurava, e diede il meglio di sé negli anni Settanta, improvvisamente ha smesso di funzionare. Ai giorni nostri, la curva di Phillips sembra piatta: la disoccupazione si riduce, eppure i prezzi non si scaldano, anzi: tendono a deprimersi.

Ovviamente gli economisti non hanno risparmiato sulle spiegazioni. Da quelle suggestive, come la stagnazione secolare, si è passati a quelle maggiormente esplicative come la globalizzazione e il progresso tecnologico, che insieme hanno aumentato l’offerta globale di lavoro diminuendo i costi.

Il lavoro pubblicato dalla Bis prende un’altra strada, che risulta perfino più suggestiva. Proviamo a semplificare il concetto (gli autori mi scuseranno): non è la quantità di lavoro in sé, a determinare il funzionamento della curva di Phillips, ma la capacità contrattuale della classe dei lavoratori a determinare la causazione. Detta diversamente, non è tanto la quantità di lavoratori a disposizione che determina l’inflazione, ma la qualità dei lavoratori, intesa come capacità di avere voce in capitolo nei contratti.


Quindi, l’appiattimento della curva di Phillips è direttamente proporzionale all’appiattimento della capacità dei lavoratori di farsi valere, potremmo dire semplificando ancora. Col che concludendosi che i fenomeni istituzionali, legati come sono a fatti storici, determinano le situazioni che la statistica poi trasforma in teorie economiche, che pretendono di essere a-temporali, quando in realtà sono profondamente figlie del loro tempo.

L’argomento teorico alla base del paper è intrigante. “Una certa variazione nell’output gap – spiega il paper – può dar luogo a comportamenti dell’inflazione molto diversi a seconda del contributo relativo del numero dei lavoratori (margine estensivo) e delle ore per impiegato (margine intensivo) nell’aggiustamento ciclico dell’input di lavoro”. In sostanza, la risposta inflazionistica varia a seconda se si agisca sull’aumento estensivo dell’input di lavoro o su quello intensivo.

Gli autori sostengono che “l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori ha indotto le imprese a reagire agli shock ricorrendo più a cambiamenti estensivi piuttosto che intensivi”. E questo è stato “il fattore chiave alla base dell’attenuazione osservata nella curva di Phillips”.

Quando i lavoratori avevano capacità di contratto, potremmo dire, esisteva una relazione inversa fra disoccupazione e inflazione. Quando questi lavoratori si sono ritirati dal mercato, perché magari sono andati in pensione, è andata in pensione anche la curva di Phillips. Che guardiamo con nostalgia, sperando magari che ritorni. Ma il passato si sa, non lo fa mai.

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