L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 8 agosto 2020

8 agosto 2020 - News della settimana (1-7 ago. 2020)

L'Argentina convince i creditori a fare nuovi accordi

Vi spiego come l’Argentina ha evitato un nuovo default

6 agosto 2020


Rientra il default per l’Argentina. I creditori accettano l’offerta finale del governo di Buenos Aires. Un accordo senza precedenti. Tutti i dettagli nell’approfondimento di Livio Zanotti

Parliamo di Argentina, ma il caso è paradigmatico del rapporto informazione-politica.

Il governo di Alberto Fernandez ha evitato un nuovo default all’Argentina. Sarebbe stato il secondo negli ultimi vent’anni e avrebbe pregiudicato ulteriormente un’economia in profonda crisi già prima della pandemia del coronavirus, che l’ha resa ancor più assillante.

Dopo 7 mesi in cui — com’era ovvio accadesse — le trattative con i creditori sono saltate su e giù come sulle montagne russe, senza tuttavia mai rischiare il deragliamento, è stato raggiunto l’accordo.

La forza del debitore, questa volta, stava paradossalmente nella sua innegabile insolvibilità e nelle condizioni non meno drammatiche in cui versano molti altri: il rischio (tutt’altro che scongiurato) d’una pandemia di default.

L’Argentina si è impegnata a saldare il debito restituendo a rate prolungate nel tempo il 54,9 per cento dei 69mila milioni di dollari ricevuti da banche e fondi d’investimento privati essenzialmente degli Stati Uniti. Con un risparmio tra capitale e interessi di 34/35 mila milioni.

L’accordo non è stato ancora sottoscritto da alcuni creditori minori. E non sempre in queste vicende ubi maior, minor cessat. Sia pure tra critiche e polemiche tanto interne quanto internazionali, il presidente Macri pagò quasi al valore nominale il limitato residuo del precedente default, quello del 2001, finito nelle mani di speculatori che riuscirono a incontrare un giudice benevolo. Oggi, però, la situazione e ben diversa.

Patrocinato dal Nobel Joseph Stiglitz, suo ex professore ad Harvard, il ministro dell’Economia Martin Guzman ha aumentato lentamente l’offerta iniziale del 40 per cento, cedendo in parte anche sui tempi di grazia. E i fondi Blackrock, Ashmore e Fidelity hanno infine accettato questa transazione senza precedenti. A convincerli sono state le pressioni del Fondo Monetario Internazionale (Fmi) favorevoli alle posizioni argentine e il comune timore che i lockdown provocati dal Covid-19 possano provocare —appunto — fallimenti a catena di debiti sovrani, prima che il sistema finanziario sia in condizioni di riorganizzare le proprie disponibilità. All’Argentina resta da chiudere con il suo maggiore creditore singolo, l’Fmi, a cui deve 44mila milioni. Ma è una trattativa in discesa.

Ben comprensibile è dunque l’improvvisa euforia della grande informazione argentina, giornali e TV, che titolano con inediti ottimismo, complimenti e sorrisi. Fino a ieri accusato di portare irresponsabilmente il paese alla catastrofe finanziaria, come se a indebitarlo fosse stato lui e non il precedente governo Macri, il ministro Guzman viene osannato nelle prime pagine come un salvatore.

Le accuse di negligenza e perfino d’incapacità per l’apparente noncuranza con cui gestiva i tempi della trattativa, vengono adesso rivedute, corrette e apprezzate sub specie di abilità tattica. Come se dalla parte opposta del tavolo fossero stati seduti dei principianti.

Viene di fatto ancora ignorata la gravità della congiuntura economica, la cui causa dirompente è nel fallimentare modello neoliberista del presidente Maurizio Macri.

Ai servizi segreti non gli ne frega niente della sicurezza nazionale

Mattarella inorridisce per i segreti politici dei Servizi spiattellati da Repubblica?

6 agosto 2020


Il denso articolo di Carlo Bonini di Repubblica sulle trame politiche e personalistiche alla base delle nomine ai vertici dei Servizi segreti letto, riletto e commentato da Francesco Damato

La lettura, ieri su Repubblica, di un lungo articolo di Carlo Bonini sulla “vera battaglia dei servizi segreti”, come dal titolo del richiamo in prima pagina, o su “Conte, Di Maio, Zingaretti – La guerra sui Servizi spacca il governo”, come dal titolo a pagina 11, mi ha lasciato senza fiato, pur con tutte le cautele suggeritemi da quel “retroscena”, in rosso, sovrastante il racconto della complessa trama in cui si intrecciano vite e progetti di militari e politici di rango. Che sarebbero protagonisti – ha scritto Bonini, approdato a Repubblica dal manifesto e dal Corriere della Sera – di “una partita avvelenata”, che ha “il sentore fetido della cultura del ricatto” e “non ha nulla a che vedere con la sicurezza nazionale, ma con la convinzione, figlia della fragilità delle biografie dei protagonisti politici” di potersi muovere e muovere gli altri per garantirsi la propria sicurezza, sotto ogni punto di vista, prima o al posto di quella del Paese.

A un articolo pieno di nomi, di gradi, di qualifiche, di circostanze datate, di scadenze e di norme inserite come supposte in decreti legge di tutt’altro argomento e destinazione per evitarle o prorogarle, e di giudizi pesantissimi su un generale che avrebbe persino una vita privata troppo “disinvolta” per collaborare col capo del governo e sussurrargli all’orecchio come al cavallo del celebre film del 1998 tratto dal romanzo di Nicholas Evans e interpretato da Robert Redford, mi aspettavo non una pioggia ma un temporale di reazioni, smentite, precisazioni, minacce di denunce e denunce immediate. Ma tutti, militari e civili, sono rimasti silenziosi ai loro posti: terribilmente silenziosi, direi.

Non sono tanto ingenuo, all’età che ho e col mestiere – continuo a chiamarlo così – che faccio, da pensare che ai vertici, ma anche molto al di sotto dei vertici, dei servizi segreti – o solo dei Servizi, come qualcuno li chiama con un generoso e misterioso maiuscolo – uomini e ora anche donne si avvicendano per caso, o per concorso. Se così fosse, dovrei credere che davvero i bambini nascono sotto i cavoli. La politica ci ha sempre messo lo zampino, anche per mano di autentici statisti: da Alcide De Gasperi ad Aldo Moro, per stare nei confini temporali della Repubblica. Ma erano statisti dietro ai quali c’era appunto lo Stato, nel peggiore dei casi i loro partiti, ma con tutte le fisionomie dovute, i voti, i seggi parlamentari, le maggioranze, le opposizioni incalzanti e quant’altro.

Anche i Servizi – sempre quelli con la maiuscola – hanno finito per essere lottizzati partiticamente. Lo ammetto. Ma qui, a leggere bene Carlo Bonini e il silenzio che ne è seguito, debbo dire che anche la lottizzazione è scesa di livello. E da politica o partitica è diventata personale, intestata persino a uomini dei quali il meno che si possa dire, col nulla di politico davvero che hanno alle spalle, è che sono in cerca d’autore, se mai riusciranno a trovarne uno. E mi chiedo come possa anche l’illustrissimo signor Presidente della Repubblica leggere certe cose senza inorridire, essere soccorso da qualche corazziere nel suo ufficio o per i corridoi del Quirinale e fare poi quello che deve: rifiutare la propria firma a certe nomine, se la sua firma occorre, come spero.


Mattarella Mattarella non potevi non sapere e hai permesso che i diritti venissero eliminati. Puah!

Verbali Cts: i tecnici consigliarono solo chiusura del Nord, non il lockdown nazionale

6 agosto 2020


Le differenze di impostazione sul lockdown fra parere del Comitato tecnico scientifico (Cts) datato 7 marzo e decisione del governo il 9 marzo. Che cosa emerge di rilevante dai verbali del Cts desecretati dal governo

Aggiungono parecchia carne al fuoco i verbali Cts (Comitato tecnico scientifico cui il governo si è affidato per contrastare l’avanzata del virus) appena desecretati dall’esecutivo e pubblicati da Fondazione Einaudi. Alla fine il governo ha deciso di pubblicarli senza aspettare la condanna del Consiglio di Stato, per non aumentare la polemica politica, già corposa specie dopo che anche il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir presieduto dall’opposizione, dal leghista Raffaele Volpi) nelle ultime ore aveva iniziato a chiedere con insistenza di vedere i documenti. Documenti importanti, sebbene manchino dalle carte quelle riguardanti la Valseriana, che potrebbero rivelarsi cruciali per delineare eventuali responsabilità penali per quanto accaduto.


L’aspetto politicamente più rilevante si trova in questo file datato 7 marzo 2020. Si tratta di un documento riservato inviato dai tecnici al ministro della Salute Roberto Speranza. In base all’analisi della situazione epidemiologica, il Comitato tecnico scientifico proponeva al governo di Giuseppe Conte di “adottare due livelli di misure di contenimento: uno nei territori in cui si è osservata maggiore diffusione del virus, l’altro sul territorio nazionale”. Nello specifico: misure più rigorose in Lombardia e nelle province di Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Rimini e Modena, Pesaro Urbino, Venezia, Padova, Treviso, Alessandria e Asti.

COSA ACCADDE INVECE

Nelle prime ore di quelle convulse giornate il governo Conte segue pedissequamente le indicazioni racchiuse nei verbali Cts. Come si ricorderà, nella serata del 7 marzo il Corriere della Sera svela la bozza del decreto con cui viene disposta la chiusura della Lombardia. L’esecutivo resta in silenzio: non conferma e nemmeno smentisce. Sparuti gruppi di persone (per effetto delle sommarie informazioni non ancora ufficiali) corrono in tutta fretta alle stazioni di Milano Centrale e Garibaldi per prendere quelli che potrebbero essere gli ultimi treni che lasceranno la Lombardia. La bella serata primaverile unita al fatto che, a partire dagli ultimi giorni di febbraio, l’intero mondo politico stesse invitando gli italiani a riaprire tutto e a recuperare la propria normalità (Matteo Salvini e Giorgia Meloni facevano video a ripetizione per dire ai turisti stranieri di venire in Italia, Nicola Zingaretti si faceva immortalare sui Navigli affollati, il sindaco di Milano Beppe Sala scalpitava per riaprire i musei e i bar all’ora dell’aperitivo e aveva lanciato la campagna – boomerang #Milanononsiferma), fanno sì che in quel sabato sera fossero ben pochi i milanesi davanti alla tv e molti quelli al pub.


Quella che ex post appare come una comunicazione politica poco lungimirante potrebbe quindi aver salvato il Meridione: se la notizia anticipata dal Corriere e rimbalzata in pochi minuti su tutti i media ben prima che i confini venissero chiusi fosse stata appresa tempestivamente da molte più persone, probabilmente avremmo avuto scene di panico e il rischio che il Covid-19 sfondasse anche nel Centro e al Sud.

IL DPCM CHE CHIUDE IL NORD

Ma questa è un’altra storia. Torniamo invece a ciò che accadde davvero. Il primo DPCM che chiude il Nord Italia lo si ha solo alle 4 antimeridiane dell’8 marzo. È lo stesso Giuseppe Conte ad annunciarlo via Twitter.

#Coronavirus, appena firmato il nuovo decreto: https://t.co/jYbSx7FEpG

— Giuseppe Conte (@GiuseppeConteIT) March 8, 2020

L’agenzia Ansa scrive: “Vincolo di evitare ogni spostamento” nell’intera Lombardia e in quattordici province di Veneto, Emilia Romagna, Piemonte, Marche. Giuseppe Conte firma un decreto del presidente del Consiglio che limita le possibilità di movimento nelle zone più colpite dal contagio Coronavirus”.

ITALIA ZONA ARANCIONE

La situazione, già pasticciata dalle fughe di notizie, si complica nemmeno due giorni dopo, quando il presidente del Consiglio Conte con il Dpcm del 9 marzo si discosta – a questo punto lo sappiamo con certezza proprio dai verbali Cts – dal parere dei tecnici – e chiude l’intero Paese e non solo le province indicate dai tecnici del Comitato. “Da oggi ci sarà l’Italia zona protetta, le misure già previste dal Dpcm dello scorso 8 marzo saranno valide sull’intero territorio nazionale”, dice Giuseppe Conte in una conferenza stampa (qui il video) la sera del 9 marzo. È il nuovo decreto “#iorestoacasa”. Il premier ricorre alla denominazione di zona arancione, che però non viene mai citata ufficialmente nei documenti. Alcuni malignano che lo abbia fatto per evitare di estendere ufficialmente all’intero territorio nazionale i benefici fiscali previsti per i Comuni “zona rossa” oggetto dei primi provvedimenti (pensate ai danni miliardari per le casse dello Stato se l’intero Paese fosse stato esentato dal pagamento delle tasse. E in quei momenti nessuno poteva certo immaginare che di lì a poco da via Venti Settembre avrebbero dovuto allargare il buco del debito di altri 100 miliardi per rimediare ai danni del Covid). Altri ritengono che il cambio di nome sia stato voluto per non danneggiare ulteriormente l’immagine del nostro Paese all’estero. Di fatto in quei giorni eravamo la prima nazione a chiudere per malattia.

E I VERBALI CTS?

Il resto è storia. Ma ciò che i verbali Cts raccontano oggi è che il Comitato tecnico scientifico aveva dato al presidente del Consiglio altri pareri, che il premier ha seguito firmando il Dpdm dell’8 marzo ma ha sconfessato con l’ulteriore atto del 9. Cos’è successo nel frattempo? Tra i due decreti non passano nemmeno 48 ore: nel mezzo ci sono altri atti del Comitato tecnico scientifico che non sono stati pubblicati? Oppure la seconda decisione è stata presa senza chiedere consiglio degli esperti? Perché, se così fosse, nonostante il fiorire di tecnici e task force, il Dpcm del 9 marzo sarebbe un atto squisitamente politico cui l’esecutivo potrebbe essere chiamato – sempre politicamente, e sempre ricordando che si tratta di decisioni mai prese fino ad allora da nessuno, quindi con tutte le scusanti del caso per Conte e i suoi – a risponderne, visti i danni economici del lockdown nazionale…

Gli ebrei sionisti, la Francia e la Turchia i paesi che guadagnano immediatamente nella distruzione del porto di Beirut

Quello di Beirut era molto più di un porto

Il terminale della Mezzaluna Sciita, quel corridoio politico, strategico e trans-confessionale che collega l'Iran al Libano passando per l'Iraq e la Siria, garantendo dunque uno sbocco fondamentale ai cosiddetti "mari caldi" del Mediterraneo, è stato sabotato, o semplicemente messo fuorigioco dal caso.

Come ha scritto Robert Fisk su “Independent” esiste in Libano “una mancanza di responsabilità politica endemica tanto da essere diventata di moda” per cui nel nostro piccolo abbiamo il dovere di portare sul tavolo tutte le ipotesi possibili. Anche se non sarà il tempo, purtroppo, a rendere giustizia alle vittime e allo sradicamento di questi popoli, che nonostante tutto continuano a vivere laddove nascono, crescono, combattono.

Un duro colpo per i libanesi, oltre 100 morti, 5mila feriti, 300mila sfollati, un contraccolpo violentissimo per le dinamiche vicino e mediorientali. Ancora una volta. Le indagini sulle dinamiche dell’esplosione a Beirut vanno avanti e intanto già si intravedono speculazioni di ogni genere sui responsabili. Occorre fare una premessa. Se l’aeroporto della capitale libanese è controllato da Hezbollah, il porto invece viene gestito in maniera mista (pubblico-privato). Inoltre come si scriveva qualche ora fa, quel porto non era un semplice porto ma il terminale della “Mezzaluna Sciita”, quel corridoio politico, strategico e trans-confessionale che collega l’Iran al Libano passando per l’Iraq e la Siria, garantendo dunque uno sbocco fondamentale ai cosiddetti “mari caldi” del Mediterraneo per quest’asse mediorientale in ascesa nella regione, venuto alla ribalta nelle cronache recenti per la sua lotta senza frontiere allo Stato Islamico in “Siraq”.

Fatta questa precisazione, in attesa di conoscere le cause, è necessario interrogarsi sulle conseguenze di questa tragedia in una cornice “geopolitica delle infrastrutture”. Di conseguenza il porto di Beirut fuori gioco indebolisce dunque l’alleanza, strategica e trans-confessionale che collega l’Iran al Libano passando per l’Iraq e la Siria, e rafforza tre attori principali: Israele, Francia e Turchia. Israele in quanto nemico dichiarato di Hezbollah, la Francia perché tramite le sue società private (tra queste c’è già Sogreah) potrebbe lavorare all’allargamento del porto di Tripoli, città a maggioranza sunnita situata nella parte settentrionale del Libano, e infine la Turchia, che potrebbe inserirsi in questo switch, nel solco di una strategia imperiale neo-ottomana, e investire in quello che potrebbe diventare in pochi anni, per via della posizione geografica, un hub insostituibile nella gestione dei flussi finanziari, di beni e servizi, anche nell’ottica di pacificazione, ricostruzione e riavvicinamento con la Siria di Assad.


Con uno scenario simile il Libano diventerebbe irrilevante per gli iraniani, tagliati fuori dall’esplosione del porto di Beirut, costretti ad implementare quello di Latakia (città costiera non lontana da Tartous, dove è Unpresente una base navale russa) in Siria dove l’anno scorso in accordo col governo di Damasco avrebbero già ottenuto la concessione per la gestione. Il problema è che ci vorranno anni, forse un decennio, prima che diventi un vero e proprio snodo strategico pari a quello della capitale libanese. E nel Vicino e Medio Oriente il tempo è una pistola puntata alla tempia.

«Nostra Signora del Libano, veglia sull’intero popolo di questa terra così provata». Giovanni Paolo II

Conte Conte ma che hai fatto? Ci hai imprigionato a casa contro il parere della ... Scienza

Il lockdown? Una decisione politica (troppo) discrezionale

8 agosto 2020


Alla luce dei verbali del Comitato tecnico scientifico (Cts), la decisione di chiudere a notte l’intero Paese per due lunghissimi mesi non è stata, dunque, una decisione politica inevitabile. Il post di Enrico Zanetti

Prendere atto che il lockdown integrale del Paese è stata una decisione politica, che è andata oltre le richieste delle competenti autorità tecniche sanitarie, mi lascia francamente esterrefatto.

Da cittadino con una passata esperienza di governo, ho sempre dato per scontato che fosse semmai vero il contrario; cioè che chi aveva responsabilità politica in quei drammatici frangenti stesse semmai facendo un po’ meno di quanto suggeritogli dalle autorità tecniche sanitarie, per il dovere politico di mediare tra esigenze puramente sanitarie ed esigenze di tenuta economica e sociale del Paese.

Tanto più resto esterrefatto perché il lockdown integrale, anche per aree del Paese per le quali le autorità sanitarie non lo ritenevano necessario, non è stato solo introdotto per il primo periodo inizialmente ipotizzato fino ai primi di aprile, ma successivamente è stato pure prorogato tal quale per un secondo lunghissimo mese fino ai primi di maggio.

Ripenso alle polemiche di quelle settimane, quando ad esempio Matteo Renzi, di fronte alla proroga, disse che sarebbe stato meglio cominciare a progettare la ripartenza; oppure, più tardi, quando la governatrice della Calabria, Iole Santelli, fu messa in croce da esponenti del Governo per aver accelerato la riapertura di esercizi commerciali in una regione dove, secondo le autorità sanitarie, si scopre ora non sarebbe stato necessario disporre a suo tempo la chiusura.

La decisione di chiudere a notte l’intero Paese per due lunghissimi mesi non è stata, dunque, una decisione politica inevitabile, a fronte di pareri tecnici sanitari talmente perentori da costringere la politica a rinunciare a qualsiasi mediazione tra diverse esigenze altrettanto fondamentali.

No, signori: è stata una decisione politica puramente discrezionale e per di più reiterata per due lunghissimi mesi.

Robe da pazzi.

Macron vorrebbe ma non può

Vi spiego cosa (non) farà la Francia di Macron in Libano

8 agosto 2020


L’attuale sistema in Libano è troppo favorevole ai politici al potere. Non penso che Macron possa pensare a un regime change o di comprare le dimissioni dell’intero ceto dominante. L’analisi del generale Carlo Jean

La visita del presidente francese Macron in Libano ha costituto certamente per lui e per la Francia un grande successo mediatico. Non modificherà però sostanzialmente la situazione in Libano, quali che siano le risorse impiegate da Parigi per aiutare il suo vecchio mandato. Il suo caos politico ed economico deriva dalla frammentazione religiosa e dal fatto che a ciascun gruppo confessionale sono attribuiti illimitati poteri istituzionali e amministrativi. L’obbedienza dei cittadini va al gruppo d’appartenenza non allo Stato.

Il Libano è il caso più eclatante esistente al mondo di democrazia consociativa confessionale. Da tale pasticcio istituzionale dipendono l’inefficienza dello Stato, che ha provocato una paurosa crisi economica (la moneta si è svalutata rispetto al $ dell’80% dall’autunno scorso), la conflittualità fra i gruppi e anche il rilevante livello di corruzione (ma non sono le sanzioni e le guerre alla Siria da parte dei mercenari tagliagola terroristi che hanno privato sbocco economico e milioni di rifugiati siriani da sfamare sistemare, organizzare?). Secondo il Corruption Perception Index il paese è il 137° dei 180 Stati considerati. Le difficoltà economiche (25% di disoccupazione; 30% della popolazione sotto la soglia di povertà) avevano provocato proteste di piazza (rivoluzioni colorate) e le dimissioni del primo ministro (Saad Hariri) lo scorso ottobre. Ad esse, si è aggiunto il disastro dell’esplosione delle 2.750 ton di nitrato d’ammonio, cavalcato dal presidente Macron, per affermare la presenza francese nel Mediterraneo Orientale e, unendo il dilettevole all’utile, per consolidare in Francia e in Europa il suo traballante prestigio.

Il Libano ha alternato nella sua storia periodi di floridezza e di crisi e caos. E’ stato una creazione artificiale del colonialismo francese del primo dopoguerra. Lo dimostra anche il suo nome derivato dal Monte Libano. Fu creato da Parigi con il Trattato di Sèvres del 1920 per dare ai cristiani e ai drusi, fedeli alla Francia, un loro Stato, malgrado la presenza di consistenti minoranze sunnite e sciite. Allora i cristiani, in particolare i maroniti (circa metà dei cristiani, che sono divisi in Libano in 18 gruppi confessionali diversi) costituivano la larga maggioranza della popolazione. Oggi dovrebbero essere una percentuale inferiore, sia per la loro accentuata emigrazione che per la maggiore natalità dei musulmani (e profughi). Anch’essi sono divisi fra sunniti, sciiti, drusi, alawiti e altri nuclei minori. L’ultimo censimento risale al 1932. Nessuno ha il coraggio di indirne uno nuovo. Infatti, modificherebbe la divisione del potere, stabilito all’atto dell’indipendenza dalla Francia nel 1943. Secondo essa, il presidente è un Maronita; il primo ministro un Sunnita; il presidente del Parlamento uno Sciita; il vice-primo ministro e il vice-presidente del parlamento sono greco-ortodossi. I seggi parlamentari sono così suddivisi: sunniti 27; sciiti 27; maroniti 43; greco-ortodossi 20; drusi 8; alawiti 2; evangelici 1. Tale ripartizione è seguita anche per le alte cariche istituzionali e amministrative. Il risultato è il caos. Gli accordi del Taiif del 1991 avevano previsto invano di correggere tale assurdo sistema. L’attuale presidente del Libano, l’ambiguo il generale Michel Aoun, non li aveva sottoscritti e si era recato in esilio per 15 anni a Parigi. Il risultato è stato che il Paese, considerato la “Svizzera del Medio Oriente”, fino allo scoppio della guerra civile del 1975-1990, a cui si sovrapposero gli interventi militari della Siria e di Israele, finiti rispettivamente nel 2005 e nel 2000, è sull’orlo del disastro economico, politico e sociale, anche perché gli sciiti dell’Hezbollah hanno una netta prevalenza militare, ben diversa dalla ripartizione istituzionale del potere. In tale situazione, le baionette contano più delle parole e delle buone intenzioni. I fautori dell’attuale sistema, da cui traggono vantaggio, cercano di attribuire il disastro ad interventi militari d’Israele e dell’Hezbollah.

Il presidente Macron si è rivolto ad una folla inferocita contro le autorità, ottenendone consenso e applausi come se fosse “il salvatore della patria”. Non ha solo promesso generosi aiuti, ma anche che essi non verranno dati all’attuale corrotta classe politica, qualora essa rifiutasse di riformarsi. Non ha precisato né come né quando dovrebbe farlo. Comunque, vere riforme non potrebbero essere che quelle previste a Taiif sulla de-confessionalizzazione del sistema politico e amministrativo, a cui si oppongono forti interessi dell’intera élite dominante. Ha preannunciato che organizzerà una conferenza internazionale per gli aiuti al paese e che ritornerà in Libano a settembre. Per fare cosa, a parte un nuovo show, non riesco ad immaginarlo. L’attuale sistema è troppo favorevole ai politici al potere. Non penso che Macron possa pensare a un regime change o di comprare le dimissioni dell’intero ceto dominante. L’unica misura per vere riforme sarebbe la ri-colonizzazione del paese, necessariamente con la forza militare. Senza di essa, le buone intenzioni sono chiacchiere. Fumo negli occhi senza arrosto. Penso che Macron ne sia ben consapevole, anche se ha dimostrato nel Sahel di inviare i soldati per combattere. Non per fare i samaritani o riempirsi la bocca con invocazioni alla pace. I soli aiuti non saranno sufficienti. Il potere ha una sua logica, ben differente dalla retorica dominante.

E’ una dura realtà di cui prima o poi anche noi italiani ci renderemo conto. Comunque in Italia dovrebbe essere preceduta da qualche corso accelerato di geografia per i nostri politici, se non altro per evitare l’ilarità generale suscitata da un nostro vice-ministro degli esteri che ha espresso il suo cordoglio per il disastro di Beirut ai libici, pensando che la città fosse in Libia e non in Libano! Con questi uomini dobbiamo abbandonare ogni ambizione di far concorrenza alla Francia. Meglio starsene buoni e zitti, ben chiusi a casa, limitandosi alla retorica della pace e a qualche aiuto.

Beirut - Niente illusioni, i sionisti ebrei scoperti con i loro complici internazionali. Macron?!?!

Il presidente del Libano non esclude che l’esplosione sia dovuta a un missile o a una bomba

Secondo il presidente libanese Aoun, non si può escludere che le due esplosioni al porto di Beirut possano essere state causate da un missile, una bomba o qualche altro mezzo.

-8 Agosto 2020

Il presidente libanese Michel Aoun.

A tre giorni dall’esplosione che ha devastato Beirut, il presidente del Libano Michel Aoun ha dichiarato che ci potrebbe essere la possibilità che questa tragedia sia stata causata da un “intervento esterno”. Secondo lui, infatti, a causare le due esplosioni potrebbero essere un missile o una bomba.
Il presidente del Libano: aggressione o negligenza?

Il giorno dopo la visita del presidente francese Macron, il presidente del Libano Aoun ha rilasciato delle dichiarazioni sull’esplosione di Beirut e le sue cause. Aoun ha innanzitutto dichiarato che “le richieste di un’indagine internazionale sulla vicenda portuale hanno lo scopo di soffocare la verità”.

Ha infatti spiegato che l’indagine sull’esplosione si svolge in tre punti: “Primo, come il materiale esplosivo è entrato nel magazzino…Secondo, l’esplosione è risultato di negligenza o incidente…E terzo, la possibilità che vi siano interferenze esterne”.

Nel spiegare il terzo punto, il capo dello Stato ha affermato che vi è la possibilità che questa tragedia sia stata causata da un intervento esterno mediante un missile, una bomba o altri mezzi. Aoun ha inoltre ricordato che ha chiesto al suo omologo francese di fornirgli le immagini satellitari della scena dell’esplosione.

Ha infatti dichiarato: “Se la Francia non invia queste immagini, le chiederemo agli altri Stati, per sapere se si tratta di un’aggressione esterna o delle conseguenze di una negligenza”.

Nel suo discorso, il Presidente ha assicurato che porterà i responsabili davanti alla giustizia. Inoltre, Aoun ha informato che già 20 persone sono sotto indagine per l’esplosione al porto della capitale libanese. I 20 sarebbero già tutti sotto interrogatorio.

Infine, il presidente Aoun ha precisato di avere ricevuto il 20 luglio delle informazioni sullo stock del nitrato di ammonio, e di avere immediatamente contattato il Segretario Generale del Consiglio Supremo della Difesa e i funzionari interessati per prendere le misure necessarie.

Cosa dice Hezbollah

Il Segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha negato categoricamente che il partito sciita possedesse un magazzino di armi nel porto di Beirut. Dopo le accuse lanciate contro il partito sciita di Hezbollah, il leader ha dichiarato: “Voglio dire alla gente di Beirut che nego totalmente, categoricamente che ci sia qualcosa di nostro nel porto. Nessun magazzino di armi, deposito missilistico, niente esplosivi, nessuna bomba, nessun proiettile o nitrato di ammonio. Non siamo stati noi a distruggere le vostre case e ad uccidere i vostri figli”.

Inoltre, Nasrallah ha sottolineato: “Alcuni hanno detto che Hezbollah ha una responsabilità perché controlla il porto. Anche questa è una bugia. Non controlliamo il porto di Beirut. Non sappiamo cosa ci sia. Il porto di Beirut non è di nostra responsabilità”.

Hassan Nasrallah, nel suo discorso, ha anche denunciato tutte le bugie e le falsificazioni degli oppositori e dei media nei confronti di Hezbollah. Ha infatti asserito: “Questa campagna mira a rendere Hezbollah responsabile di questa esplosione. E’ ingiusto. Contiamo vittime anche tra i nostri simpatizzanti”.

Infine, il leader ha invitato i leader politici a mettere da parte le differenze e superarle.

La crisi economica morde Erdogan

Lira turca al collasso, tassi overnight sopra 1.000%. Iniziata la nuova crisi finanziaria?

Cambio contro il dollaro risalito sopra quota 7, livello psicologico di riferimento negli ultimi mesi. Gli interventi delle banche non bastano più, forse siamo entrati in una nuova tempesta finanziaria.

di Giuseppe Timpone , pubblicato il 06 Agosto 2020 alle ore 15:22


Ieri, la lira turca ha perso più del 2% contro il dollaro, salendo a un tasso di cambio superiore alla soglia psicologica di 7, attestandosi a metà seduta odierna al nuovo minimo storico di 7,27. Le perdite di quest’anno si allungano al 18%. E martedì, i tassi d’interesse overnight sul mercato off-shore sono esplosi al 1.050%, ai massimi dal marzo-aprile dello scorso anno, quando schizzarono al 1.200%, spingendo le autorità di Ankara a imporre alle banche domestiche restrizioni al trading sul mercato di Londra. Sebbene le vendite di assets in valuta estera da parte delle banche statali abbiano fortemente ridotto i costi al 6,8%, ancora ieri serviva pagare il 100% per farsi prestare denaro per due notti. E’ il segno che vi sarebbe una forte carenza di liquidità nel sistema, a causa degli interventi degli istituti per drenare assets in lire e sostenere i tassi di cambio.

Per un paio di mesi, la lira si era mantenuta stabile contro il dollaro sotto 7, ma con ogni probabilità grazie agli interventi della banca centrale, le cui riserve valutarie effettivamente si sono prosciugate negli ultimi mesi, con quelle nette ad essere scese sottozero, mentre quelle lorde risultavano attestatesi a 49,2 miliardi al 17 luglio scorso.

E’ probabile che sull’impennata dei tassi abbia inciso l’improvviso aumento della domanda dopo quattro giorni di festività, così come che l’istituto si stia gradualmente arrendendo alla realtà, cessando di difendere il cambio ad oltranza, operazione impossibile da portare avanti a lungo, date le disponibilità di riserve sempre più basse. Come vi avevamo anticipato, saremmo alla vigilia di una nuova tempesta finanziaria, a due anni di distanza dalla precedente.

I rendimenti sovrani lungo la curva sono risaliti ai massimi da aprile, con il decennale al 14,24% e il biennale al 12,46%, segnalando aspettative d’inflazione in surriscaldamento sui mercati.
In effetti, la politica monetaria di Ankara si sta rivelando profondamente inefficiente e incongrua, con il tasso d’inflazione a luglio al 12,62%, a fronte dei tassi d’interesse fissati all’8,25%. In altre parole, la banca centrale si è trovata costretta dal potere politico a tagliare il costo del denaro a livelli troppo bassi e profondamente negativi in termini reali, provocando il deflusso dei capitali e l’indebolimento della lira, che a sua volta impatta al rialzo sui prezzi al consumo, accrescendo la pressione sull’istituto per un ripensamento della sua politica monetaria.

Con una congiuntura internazionale così negativa, il pil turco sta arretrando e l’eventuale necessario aumento dei tassi non potrebbe che arrivare in un momento peggiore. Ma non vi sarebbero alternative, data l’insufficienza delle riserve con cui difendere il cambio, anche perché il presidente Recep Tayyip Erdogan non avrebbe alcuna intenzione di chiedere assistenza al Fondo Monetario Internazionale, i cui aiuti arriverebbero dietro presentazione di un piano di riforme. E il capo dello stato non ha alcuna voglia di vincolarsi a misure impopolari.

Le misure del covid-19 violano le libertà dei cittadini e fanno più male che bene

Il Lockdown “ha ucciso due persone ogni tre che sono morte di coronavirus” al culmine dell’epidemia

Maurizio Blondet 8 Agosto 2020 

uno studio inglese riportato dal Telegraph:


“Le stime mostrano che 16.000 persone sono morte per mancata assistenza medica entro il 1 ° maggio, mentre il coronavirus ha ucciso 25.000 nello stesso periodo.

Le cifre includono 6.000 persone che non si sono presentate al pronto soccorso al culmine della chiusura a causa del timore di contrarre il virus e della sensazione di dover rimanere a casa a causa del messaggio “Stay Home, Protect the NHS, Save Lives” .

Allo stesso modo, si pensa che 10.000 persone siano morte in case di cura a causa della dimissione anticipata dall’ospedale e dell’impossibilità di accedere alle cure critiche.

[…]

I nuovi dati – presentati a metà luglio allo Scientific Advisory Group for Emergencies (Sage) del governo – sono stati calcolati dal Department of Health, dall’Office for National Statistics (ONS), dal Government Actuary’s Department e dall’Home Office.

Il documento stima inoltre che altre 26.000 persone potrebbero morire entro il prossimo mese a causa delle restrizioni sanitarie. In totale, i ricercatori prevedono che 81.500 persone potrebbero perdere la vita nei prossimi 50 anni aspettando più a lungo per cure elettive non urgenti e l’impatto della recessione causata dalla crisi del virus.

Nei prossimi cinque anni, si prevede che moriranno anche 1.400 persone perché è stato diagnosticato un cancro troppo tardi .

[….]

Il professor Neil Mortensen, presidente del Royal College of Surgeons of England, ha avvertito che il servizio sanitario “non deve mai più essere un servizio esclusivamente per il coronavirus”.

“Dobbiamo trattare prima con i pazienti clinicamente più urgenti, e poi il prima possibile con quelli che aspettano da più tempo”, ha detto. “Il periodo fino ad agosto e settembre è di vitale importanza per compiere progressi prima che emergano le normali pressioni invernali”.

Il resto qui:


da DWN:
Corona-crisi: centinaia di belgi fanno causa a Bill Gates e al governo

Quasi inosservati dal grande pubblico, 240 membri del gruppo belga “Viruswaanzin” (“follia virale”) hanno intentato una causa contro Bill Gates, il governo del Belgio e l’epidemiologo britannico Neil Ferguson, secondo il quotidiano olandese JD Report . I belgi chiedono che tutte le restrizioni sulla corona siano revocate.

Il loro avvocato Michael Verstraeten ha detto al quotidiano “Brussels Times” che le misure della corona violano le libertà dei cittadini e farebbero più male che bene.

“Senza un divieto, ci sarebbero stati meno morti. Non hai idea di quante persone muoiano a causa dei lockdown. Crediamo che siano necessarie altre misure. Misure che non danneggiano l’economia e non limitano i diritti e le libertà delle persone “, ha affermato Verstraeten.

Viruswaazin crede che i governi abbiano preso decisioni politiche sulla base di modelli difettosi e abbiano agito in preda al panico. Il gruppo addebita 10.000 euro a denunciante per ogni giorno in cui le misure rimangono in vigore. Gates non è né un medico né un climatologo. Tuttavia, essere la principale autorità mondiale in entrambi i campi…


A Torino:


E s’intensifica l’allarme Covid:

Tgcom24
@ MediasetTgcom24
Coronavirus, nelle ultime 24 ore in Italia 552 nuovi casi e tre morti

Mentre è ancora troppo basso l’allarme-monopattini:

Milano, aumentano gli incidenti su biciclette e monopattini. L’assessore: “533 feriti in 2 mesi, servono targhe e caschi obbligatori”


I governanti svedesi si sono rifiutati di partecipare al governo attraverso la Strategia della Paura, ci ha provato anche Trump ma negli Stati Uniti c'è stata una forte opposizione

Cosa è successo all’economia svedese con il Coronavirus? Report Ft

8 agosto 2020


L’economia svedese si è ridotta meno di quella della zona euro al culmine della pandemia, secondo il Financial Times

L’economia svedese si è comportata meglio della maggior parte dell’Europa al culmine della pandemia, anche se la sua economia si è ridotta nella maniera più significativa dalla seconda guerra mondiale, in quanto il paese scandinavo sembra aver tratto vantaggio dal suo approccio più leggero al coronavirus – scrive il FT.

Il prodotto interno lordo nel secondo trimestre è sceso dell’8,6% rispetto ai tre mesi precedenti, secondo una stima flash di Statistics Sweden pubblicata mercoledì. Ma questo è stato significativamente migliore della contrazione del 12% registrata nello stesso periodo in tutta l’area dell’euro.

La maggiore economia europea più colpita è stata la Spagna, che ha registrato una contrazione del 18 percento; l’economia tedesca si è ridotta di circa un decimo.

La Svezia è stata al centro di un acceso dibattito internazionale sui vantaggi di un blocco come mezzo per affrontare la diffusione del virus. Si è rifiutata di seguire il resto dell’Europa in una chiusura totale, mantenendo aperte le scuole, i ristoranti e le frontiere, mentre esortava le persone a lavorare da casa e a mantenere una certa distanza l’una dall’altra.

Dopo essere stato uno dei pochissimi paesi europei a registrare una crescita positiva nel primo trimestre, la Svezia ha continuato ad essere un outlier nei mesi di aprile, maggio e giugno – il picco della pandemia finora raggiunto in Europa. Secondo le stime flash della scorsa settimana, solo la Lettonia e la Lituania hanno ottenuto risultati migliori, con un calo del PIL nel secondo trimestre del 7,5 per cento e del 5,1 per cento rispettivamente.

David Oxley, economista europeo senior di Capital Economics, ha detto che la contrazione ha mostrato che la Svezia non è “immune da Covid”. Ha aggiunto: “Ciononostante, la crisi economica del primo semestre dell’anno è completamente diversa da quella degli scenari da brivido in altre parti d’Europa”.

Per diverse settimane questa primavera, la Svezia ha avuto il tasso di mortalità pro capite più alto d’Europa e 20 volte superiore a quello della vicina Norvegia. Ma il suo tasso di mortalità pro capite complessivo è ora migliore rispetto a diversi paesi che hanno chiuso i battenti, come il Belgio, la Spagna e il Regno Unito.

Gli economisti prevedono che quest’anno l’economia svedese si ridurrà di circa il 4-5 per cento – meglio delle previsioni per l’eurozona e le sue principali economie, ma in linea con le stime per le vicine Danimarca e la Norvegia, entrambe bloccate.

Mercoledì scorso gli economisti del SEB hanno aggiornato le loro previsioni per il PIL svedese di quest’anno ad un calo del 4 per cento, dal 5 per cento di prima.

“E’ troppo presto per valutare come le diverse strategie per affrontare Covid-19 abbiano influenzato le economie”, ha detto Torbjorn Isaksson, capo analista della Nordea.

La banca centrale svedese ha mantenuto il tasso di interesse principale a zero dopo averlo alzato alla fine dello scorso anno, sostenendo che la politica monetaria non è la migliore risposta per affrontare le ricadute del coronavirus.

(Estratto dalla rassegna estera a cura di Eprcomunicazione)

Dopo Soleimani arriva la deflagrazione di Beirut, il terrorismo, gli attentati di stato continua per distruggere e raggiungere nuovi equilibri

Alberto Negri - Il Ground Zero del Mediterraneo (la nostra casa)


di Alberto Negri, il Manifesto
6 agosto 2020

Nulla qui esplode per caso anche quando sembra o è davvero un incidente. L’anno era cominciato il 3 gennaio con l’assassinio da parte di Trump del generale iraniano Qassem Soleiman, ucciso a Baghdad dopo una tappa in Libano e Siria. E continua adesso, nell’era del Covid-19, con la deflagrazione di un’intera città, Beirut. Questo è il Ground Zero del Libano, già in ginocchio per la pandemia, in default per la crisi economica, sociale e politica, soffocato dal conflitto in Siria, dai profughi, dalle tensioni con Israele, Paese con cui è ancora tecnicamente in guerra. Attentato, sabotaggio, incidente? Una cosa è certa: se la casa del tuo vicino brucia, prima o poi le fiamme arriveranno nella tua casa.

La nostra casa, il Mediterraneo, brucia da un pezzo e non per un presunto incidente ma per una precisa volontà. L’incendio lo hanno appiccato gli Stati uniti con la guerra dell’Iraq nel 2003, da allora – passando per le primavere arabe e i cambi di regime, voluti o falliti – si è incatenata una guerra all’altra, assistendo all’ascesa e al crollo del Califfato, agli interventi militari di americani, russi, turchi, iraniani, che hanno accompagnato il massacro delle popolazioni civili, la fuga di milioni di profughi, il collasso di intere economie.

Il Libano, fino all’altro ieri, era ancora per molti un lume di speranza: ora deve essere salvato dal baratro. Invece che per la stabilità di questo Paese, sopravvissuto alla guerra civile dal 1975 al ’90, al crollo dei palestinesi (qui ce ne sono 500mila), alle invasioni israeliane, alla guerra del 2006 tra Hezbollah e Tel Aviv, si è lavorato per la sua fine, che ora pare essere arrivata all’improvviso, come per un collasso.

Non è così. Hanno contribuito le forze interne, con le divisioni tra cristiani, sciiti e sunniti, i clan corrotti e predatori di famiglie al potere da decenni, dove la banche erano sempre più ricche in uno stato sempre più indebitato e ora sono evaporate anche loro perché il sistema da un pezzo si è inceppato. E come se questo non bastasse le sanzioni Usa all’Iran e alla Siria hanno affondato ancora di più le economie regionali come quella libanese.

In tutto questo il maggiore alleato americano, Israele, si è annesso ufficialmente parti di questi Paesi, come il Golan siriano e Gerusalemme, sfoderando i piani di annessione della Cisgiordania palestinese. Un esempio imitato dal Sultano atlantico Erdogan a spese di curdi nel Nord della Siria e nella Tripolitania libica: un’annessione ne nasconde spesso un’altra. Ogni giorno Israele bombarda la Siria, il vicino del Libano, dove ha colpito Hezbollah e pasdaran iraniani: c’è da meravigliarsi se sulla linea del cessate il fuoco, dove è di stanza l’Unifil con 1500 soldati italiani, la tensione sia perenne?

In realtà sembra quasi impossibile che il Libano non sia crollato prima, travolto dal tracollo di un sistema basato all’interno su un castello di carte – altro che Svizzera del Medio Oriente – e vampirizzato all’esterno dai suoi vicini di casa come il siriano Assad e l’israeliano Netanyahu. Un Paese tenuto in ostaggio dal braccio di ferro regionale tra Iran e Arabia saudita.

In una versione riduttiva della storia libanese recente l’imputato più citato è il partito e movimento militare Hezbollah, forza di governo e militante degli sciiti sostenuta dall’Iran. Secondo questa versione gli Hezbollah, “stato nello stato”, forza di governo e milizia armata, capace di decidere della pace e della guerra, sono i maggiori responsabili del disastro libanese, dimenticando che si sono fatti stato nel momento in cui il Libano era in macerie e lo stato non c’era più. Vero che sono quattro gli Hezbollah per cui si attendeva per domani il verdetto dell’Aja per l’assassinio del premier Rafic Hariri nel 2005 – rinviato con «tempismo» al 18 agosto. E che sono stati gli Hezbollah a ingaggiare lo scontro con Israele nel 2006 e a tenere in piedi Bashar Assad, liberando tra l’altro i villaggi cristiani del Qalamoun.

Ma il movimento è anche diventato un comodo paravento per quelli che l’accusano di tutti i mali del Paese che loro stessi hanno creato, dalla corruzione dilagante agli affari sporchi. Qualcuno si ricorderà che l’allora premier Saad Hariri nel 2017 fu costretto dal principe saudita Mohammed bin Salman, l’assassino del giornalista Jamal Khashoggi, a dare le dimissioni da Riad e tenuto come un fantoccio in ostaggio durante le purghe reali. A questo principe e alle monarchie del Golfo gli Usa e parte dell’Occidente avrebbero voluto affidare anche il Libano per farne la base delle battaglie contro l’Iran, la Mezzaluna sciita e i Fratelli Musulmani sunniti, con un corollario di interessi economici, bellici ed energetici.

Questo in Libano, come in Siria e in Libia, è il campo di battaglia del Mediterraneo. Questa, probabilmente, è la ragione delle misteriose esplosioni in corso da settimane in Iran. Ma non c’è un vero mistero: è piuttosto chiaro il piano americano e di Israele, con la nostra complicità, di disgregare intere nazioni per presentare poi una mappa del Mediterraneo e del Medio Oriente come un collage di coriandoli di stati ormai soltanto virtuali. È questa la vera deflagrazione che avviene tutti i giorni, il Ground Zero della nostra politica mediterranea.

Covid-19 - La prova che il falso ideologico M5S, il corrotto euroimbecille Pd, il governo Conte ci hanno preso in giro e ci hanno imprigionato in casa inutilmente, le televisioni complici consapevoli e responsabili della dose enorme quotidiana di terrore inoculata alla massa degli italiani

8 Agosto 2020
ContrordineI tecnici non servivano a decidere al posto di Conte, ma a prendersi la responsabilità delle decisioni prese da lui


Secondo i consiglieri del presidente del Consiglio molte misure non erano necessarie, mentre il governo aveva sempre detto di basarsi sulle relazioni del comitato tecnico scientifico. Il problema è che se il parere degli scienziati lo si segue ogni tanto sì e ogni tanto no - com’è doveroso da parte di un governo democratico - allora bisogna accettare di dare conto pubblicamente delle scelte compiute


A quanto risulta dai verbali appena resi pubblici, in questi mesi il Comitato tecnico scientifico non è stato chiamato a prendere decisioni che Giuseppe Conte non voleva assumere in prima persona, ma ad assumersi la responsabilità delle decisioni prese da Conte. O quanto meno a fargli da schermo, permettendo al presidente del Consiglio di dare a intendere agli italiani, nelle sue non rare conferenze stampa, tra una citazione del professor Brusaferro e l’altra, che c’era poco da scegliere, che a indicare la strada era direttamente la stessa voce della scienza. E che gli vuoi replicare, a un vocione simile?

Tralasciamo l’ironia del destino che ha portato il capo del governo espresso dal primo partito no-vax italiano a divenire il più fermo sostenitore del primato della scienza. Di più, proprio della scienza ufficiale, del fior fiore dell’élite medico-accademica. Meglio tardi che mai.

Il problema è che il parere dei tecnici o lo si segue sempre, oppure, se ogni tanto sì e ogni tanto no – com’è non solo legittimo, ma persino doveroso da parte di un governo democratico – ebbene, bisogna allora accettare di dare conto democraticamente e pubblicamente delle scelte compiute, soprattutto quando da tali scelte sono discese conseguenze di così ampia e tragica portata.

Non si può dire che le spiegazioni date finora siano state particolarmente approfondite né convincenti, sia per quanto riguarda la scelta di non chiudere subito Alzano e Nembro (nonostante, come ora sappiamo, fosse stato proprio il comitato tecnico-scientifico a suggerirlo immediatamente) sia per quanto riguarda la scelta di chiudere poco dopo l’intero paese (nonostante, come ora sappiamo, i tecnici proponessero una risposta differenziata secondo la diffusione dell’epidemia nelle diverse zone).

È possibile ipotizzare che di fronte alla necessità di chiudere le regioni da cui proviene l’80 per cento del Pil, il governo abbia ritenuto politicamente più semplice applicare la stessa misura all’intero paese, forse anche per non prestare il fianco all’accusa di prendersela con le Regioni amministrate dall’opposizione, o perché convinto di dover trasmettere un segnale più forte all’intera popolazione, o per mille altri motivi.

Comunque la si pensi sul merito di quelle scelte, e quali che siano le conseguenze giudiziarie, è però molto difficile immaginare che tutto questo non abbia un immediato effetto politico. A torto o a ragione, molti di coloro che hanno perso il lavoro, la propria azienda, il proprio giro d’affari a causa del lockdown, in zone dove al momento del lockdown si registravano zero contagi (cioè in buona parte d’Italia), non saranno felici di sapere che gli stessi esperti non ritenevano necessario un simile sacrificio.

Fino a oggi il modo in cui il governo ha affrontato l’epidemia è stato il suo principale punto di forza, nei sondaggi e non solo, come dimostrano i riconoscimenti venuti anche dalla stampa internazionale. Certo, è possibile che si tratti sempre di quel curioso fenomeno di asincronia globale che ha visto variare più volte i giudizi su primi e ultimi della classe, di fronte alla terribile prova della pandemia. Noi stessi siamo stati a lungo la pecora nera, prima di diventare un modello, e i segnali di ripartenza dei contagi minacciano seriamente di riaprire la corsa.

In ogni caso, le notizie di questi giorni pongono almeno due problemi. Il primo riguarda il governo Conte: perché, obiettivamente, se il giudizio dell’opinione pubblica sul modo in cui ha affrontato l’epidemia fino ad ora dovesse cambiare, e volgere al brutto, che cosa gli resterebbe?

Il secondo problema riguarda tutti noi: perché, ci piaccia o no, con i suoi modi, i suoi tempi e i suoi errori, il governo Conte è riuscito a frenare la curva dei contagi e a gestire la situazione in modo piuttosto ordinato. Se il suo capitale di credibilità e legittimazione dovesse improvvisamente esaurirsi, e giusto nel momento in cui la curva dei contagi mostra segni di ripresa, quando cioè occorrerà verosimilmente maggiore disciplina, autocontrollo e disponibilità al sacrificio, come faremo?

Il terrorismo, gli attentati di stato servono per spostare gli equilibrio tra le forze in campo, viene usato tranquillamente, dagli Stati Uniti e dagli ebrei sionisti. Soleimani docet. E come sempre c'è il tentativo di far passare la vittima come il colpevole, la strategia è sofisticata ripetuta e diventata arte della dissimulazione. Come sempre sono i giornalisti professionisti a creare le fake news.

Libano. Il presidente Aoun ed Hezbollah: l'inchiesta sull'esplosione sia nazionale

Redazione Internet venerdì 7 agosto 2020

Il movimento sciita nega ogni responsabilità: non avevamo depositi di armi al porto. Intanto la Cnn afferma che fu dato più volte l'allarme per il nitrato di ammonio stoccato, ma rimase inascoltato


La chiesa francescana di San Giuseppe, andata distrutta dalle esplosioni che hanno devastato Beirut, il 5 agosto 2020. "Sembrava l'Apocalisse", ha dichiarato padre Firas Lufti, Guardiano di Beirut, ministro francescano della Regione San Paolo (Libano, Giordania, Siria) - Ansa

Il leader degli Hezbollah libanesi, Hassan Nasrallah, ha tenuto oggi un discorso televisivo in diretta, sulla tv al Manar del movimento sciita libanese, per parlare dell'esplosione che ha devastato Beirut, la capitale del Libano. La decisione è stata presa dopo che da più parti si sono levate voci che accusavano il movimento sciita filo iraniano di essere corresponsabile del disastro, in quanto avrebbe tenuto depositi d'armi nella zona del porto. Armi che avrebbero aggravato l'esito della prima esplosione, provocata da un'ingente e pericolosa quantità di nitrato d'ammonio stoccata dal 2013 nel porto. Nel complesso i morti sono stati oltre centocinquanta e i feriti oltre 4.000.

Il leader sciita ha per prima cosa espresso le condoglianze alle famiglie delle vittime, da lui definite "martiri", dell'esplosione che ha devastato Beirut martedì scorso. "È un evento che ha colpito tutti i libanesi, Beirut è di tutti i libanesi, al di là delle diverse appartenenze comunitarie", ha sottolineato, ricordando che Il movimento sciita libanese Hezbollah è intervenuto subito dopo l'esplosione di martedì in soccorso delle vittime, lanciando appelli per donare sangue, per inviare volontari e soccorritori.

Poi il leader degli Hezbollah libanesi ha smentito con forza che l'esplosione di martedì scorso che ha devastato Beirut sia stata causata dalla deflagrazione di armi depositate dal Partito di Dio nel porto di Beirut. "Sono tutte bugie e menzogne", ha detto.

Sì all'inchiesta ma non a quella internazionale​

In quanto a un'inchiesta su quanto accaduto Nasrallah ha escluso che ci debba essere una inchiesta internazionale, ma ha chiesto che ci sia "una inchiesta trasparente, giusta, indipendente" condotta dall'esercito nazionale e non da altre forze e istituzioni libanesi. Parlando del fatto che da più parti si è sollevato il tema della scarsa fiducia nelle istituzioni libanesi, Nasrallah ha detto: "Tutte le parti politiche dicono che l'esercito libanese è l'unica istituzione del paese su cui c'è piena fiducia... bene, che sia allora l'esercito a condurre l'inchiesta".

Su questo la posizione va a concordare con quella del presidente libanese Michel Aoun, che ha respinto oggi le richieste di un'inchiesta internazionale sulle esplosioni di martedì a Beirut, avanzate ieri da varie parti, compreso il presidente francese Emmanuel Macron durante una visita in Libano.

Il presidente libanese Michel Aoun, inoltre, ha detto che non si può escludere che le due esplosioni che martedì hanno devastato Beirut possano essere state il risultato di "un'aggressione esterna, con l'ausilio di un missile, di una bomba o di un altro mezzo". Per questo secondo il presidente l'inchiesta dovrà appurare se si sia trattato appunto di "un'aggressione esterna o delle conseguenze di negligenza". Aoun ha affermato che a tal fine ha chiesto al presidente francese Emmanuel Macron, di fornire le immagini satellitari dei momenti delle esplosioni.

Il nitrato d'ammonio «dimenticato»​ (stronzate)

Intanto alcuni documenti dimostrano che diverse autorità libanesi, tra le quali il ministero della Giustizia e almeno un magistrato, erano stati informati della presenza nel porto di Beirut delle 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio, all'origine delle esplosioni che martedì hanno devastato interi quartieri di Beirut. Lo scrive il sito della Cnn, precisando di avere avuto visione di tali incartamenti.

"Responsabili delle dogane - scrive l'emittente - inviarono ripetuti allarmi ad un giudice in merito al carico pericoloso. Ma il giudice, che non può essere identificato per ragioni legali, rispose a più riprese che la nave e il suo carico avrebbero potuto trovarsi al di fuori della giurisdizione della Corte".

Il riferimento è alla nave MV Rhosus, battente bandiera moldava ma di proprietà di un armatore russo, che nel 2013 si fermò per problemi legali nel porto di Beirut con il suo carico di nitrato di ammonio, apparentemente destinato al Mozambico. Da allora il carico è rimasto immagazzinato appunto nello scalo, fino all'esplosione di martedì.

Gli ebrei sionisti hanno messo una fortissima ipoteca sullo sfruttamento del gas e petrolio off shore del Libano piegato in due dalla deflagrazione, niente è un caso. La velocità di francesi, di Macron è sospetta, avevano/ha il compito di indirizzare la soluzione al dramma aiutata dalla rivoluzione colorata favorendo gli interessi stranieri, da qui la richiesta dell'inchiesta internazionale

SERVIZIOLA TRAGEDIA DI BEIRUT
Il leader di Hezbollah: «Sia l’esercito libanese a guidare l’inchiesta»

di Roberto Bongiorni
6 agosto 2020

(AFP)

«Sono tutte bugie e menzogne. Non abbiamo nulla al porto: né un deposito di armi, né un deposito di missili, né fucili, né bombe, né proiettili né nitrato d’ammonio». Hassan Nasrallah, il leader del potente movimento sciita Hezbollah, esce di rado allo scoperto. Questa volta, però, ha ritenuto necessario ricorrere a un discorso in tv alla nazione, concentrandosi sulla potente deflagrazione che martedì ha raso al suolo il porto di Beirut, ferendo oltre 5mila persone e facendo oltre 160 morti. Nasrallah ha invocato l’avvio di un’inchiesta, «giusta e indipendente», che deve però essere portata avanti dall’esercito.

La pista più seguita è che lo scoppio delle 2.700 tonnellate di nitrato di ammonio sia stato provocato da un incidente. Ma, considerando il contesto interno e regionale di forte tensione, non si esclude più nulla. Lo stesso presidente libanese, il cristiano maronita Michel Aoun, ha voluto intervenire per fare il punto. Ribadendo la necessità di un’inchiesta accurata che dovrà fare chiarezza sull’accaduto, il presidente libanese ha respinto la proposta del francese Emmanuel Macron per un’indagine internazionale. Aoun ha piuttosto sottolineato che le autorità libanesi sono «determinate» a comprendere cosa abbia causato le terribili esplosioni e ha assicurato «punizioni severe» per chi verrà riconosciuto colpevole. Il presidente libanese non ha voluto escludere nemmeno l’ipotesi dell’attentato: «C’è la possibilità di una azione esterna, con una bomba, un missile o altro».

La mobilitazione per gli aiuti

Mentre si prosegue a cercare tra le macerie i corpi di possibili sopravvissuti (secondo la Croce Rossa libanese mancano all’appello un centinaio di persone), mercoledì sono state arrestate 16 persone, tra cui il direttore generale del porto di Beirut, Hassan Koraytem.

Stati Uniti e Francia intanto stanno organizzando l’invio di ulteriori aiuti, con la massima urgenza. Già molti Paesi stanno inviando apparecchiature mediche e beni di prima necessità. Ma il pericolo è che, senza il porto, attraverso cui arrivava l’80% delle merci consumate nel Paese, possa scoppiare un’emergenza alimentare e sanitaria in un periodo giù molto difficile, in cui la pandemia di coronavirus ha ripreso forza e con il Paese in profonda crisi economica. A cui si devono ora aggiungere i danni dell’esplosione (le autorità libanesi parlano di cifre dai 5 ai 15 miliardi di dollari).

Dal dolore alla rabbia il passo è stato davvero breve. Molti libanesi sono tornati ieri in piazza a protestare. Giovedì notte al grido di “rivoluzione” , e sfidando i gas lacrimogeni lanciati dalle forze di sicurezza, i manifestanti si sono diretti verso il Parlamento percorrendo le vie precipitate nell’oscurità a causa dei continui black-out. Vi sono stati tra i dimostranti 20 feriti. Altre manifestazioni sono proseguite ieri in Piazza dei Martiri.

La rabbia è quasi sempre diretta all’élite al potere e al governo. Ma i dimostranti hanno attaccato spesso il movimento sciita Hezbollah, messo nel mirino e sospettato dalle forze politiche rivali di aver nascosto anche esplosivi e missili nella zona del porto colpita dall’esplosione (accusa che finora non ha però trovato riscontri).

L’intervento in tv di Hassan Nasrallah, leader del partito islamico sciita Hezbollah

Politici nell’ombra

Dinanzi al dinamismo di Macron, in visita di solidarietà a Beirut giovedì, non poteva passare inosservato il silenzio di molti leader politici e membri del governo, quasi tutti rimasti nell’ombra. Quelli che si sono mostrati in pubblico, come l’ex priemier Saad Hariri, e il ministro della Giustizia Marie-Caude Najm hanno assaggiato la rabbia dei dimostranti.

La polvere dell’esplosione si sta depositando sulle macerie del porto. Ma la cappa di tensione che grava su Beirut non si allenta. Ieri sera doveva essere reso noto il verdetto del Tribunale Speciale per il Libano sull’assassinio del premier Rafik Hariri, nel febbraio 2005, di cui la procura considera responsabili cinque militanti di Hezbollah (uno è morto nel 2016). L’annuncio è stato rimandato al 18 agosto. Ma in questo periodo in 10 giorni può accadere di tutto.

Libano - Niente è un caso. Sono gli ebrei sionisti che devono utilizzare le risorse dei ricchi giacimenti del Mediterraneo est e allora il paese deve essere portato sull'orlo dell'abisso e arriva la deflagrazione con Macron rampante già pronto a prendere le redini di quel che resta della piccola Svizzera

LIBANO TRA POLITICA ED INTERESSI ECONOMICI


06/08/20 

Le immagini della terribile esplosione in Libano hanno richiamato l'attenzione su quel travagliato paese. Sebbene da fonti britanniche, sembrerebbe che l’esplosione sia stata dovuta alla negligenza di un operaio saldatore, l’incidente ha scosso il Paese con milioni di dollari di danni e oltre il 90% degli hotel danneggiati.

Il Libano subisce da anni una situazione di profonda crisi economica e politica che potrebbe essere facilmente risolta grazie allo sfruttamento dei giacimenti offshore di petrolio e gas che si trovano in una zona di frontiera marittima contesa con Israele. I bacini offshore del Mediterraneo orientale sono diventati un ulteriore punto del conflitto israelo-libanese, visto che entrambe le parti insistono risolutamente nella contesa sui confini marittimi. Di fatto i due Paesi sono ancora in guerra dal 2006 e solo un contingente di baschi blu si interpone lungo la frontiera.

La situazione libanese

Il Libano, la Svizzera del Medio Oriente, come era chiamata negli anni ’60, a seguito della proclamazione di indipendenza di Israele e della guerra seguente con la Lega araba subì la migrazione di oltre 100.000 profughi palestinesi in fuga. Questo, insieme a rigurgiti nazionalisti panarabi, portò alla prima guerra civile libanese del 1958. Altri profughi si aggiunsero negli anni seguenti portando ad uno sbilanciamento etnico in cui la precedente maggioranza cristiana fu sostituita da quella araba musulmana con circa due milioni di profughi palestinesi. Inevitabile fu la lunga guerra civile tra il 1975 ed il 1990, che vide contrapposte le milizie composte da cristiani maroniti ed una coalizione composta da palestinesi, libanesi musulmani sunniti, sciiti (Amal) e drusi.


Nel 1976 la Lega Araba, a seguito dell’accordo di Riyāḍ del 21 ottobre 1976, autorizzò l’intervento di una Forza Araba di Dissuasione (FAD) a maggioranza siriana, che riuscì a riportare con la forza una provvisoria e fragile pace nel Libano. Il 14 marzo 1978 Israele lanciò l’Operazione Litani, occupando l’area a sud del paese con più di 25.000 soldati per creare una fascia cuscinetto che tenesse i gruppi militanti palestinesi, in particolare l’OLP, lontani dal confine con Israele. L’ONU decise allora di creare una Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite (UNIFIL) per rafforzare il suo mandato e riportare pace e sovranità nel Paese.

Israele, nel 1982, con il sostegno dei cristiano-maroniti lanciò l’operazione militare “Pace in Galilea” al fine di sradicare dal Libano la presenza armata palestinese, spingendosi oltre il sud del Libano, fino a Beirut, dove aveva sede l’OLP. Il neo eletto presidente della Repubblica Bashir Gemayel il 14 settembre 1982, nove giorni prima dell’investitura ufficiale, cadde vittima di un attentato (attribuito al Partito Nazionalista Sociale Siriano) perdendo la vita, nella parte orientale di Beirut. Vi fu a questo punto un intervento internazionale americano, francese e italiano che causò la fuga della dirigenza OLP nei paesi confinanti.

Atrocità contro la popolazione civile furono perpetuate da entrambe le parti: dalla strage di Damur (1976) [La causa principale era quella di ritorsione a seguito del massacro perpetrato dalle Falangi Libanesi cristiano-maronite al campo profughi di Qarantina (Beirut) che causò la morte di oltre 1.000 persone, in prevalenza civili] al massacro nei campi-profughi di Sabra e Shatila (1982), operati il primo da miliziani palestinesi del campo di Tell al-Za’tar e il secondo da unità cristiane guidate da Elie Hobeika, che non vennero opportunamente contrastate dall’esercito israeliano.


Un episodio eclatante fu il duplice attentato da parte degli Hezbollah alla base della forza multinazionale del 23 ottobre 1983 che causò la morte di 241 marines statunitensi e 56 soldati francesi. Questa azione causò il ritiro delle truppe di pace, lasciando il Libano in una strisciante guerra civile.

In seguito agli Accordi di Ta’if del 1989 terminò la guerra e nacque la II Repubblica libanese presieduta dal generale Michel Aoun, che nel 1990 fu deposto dai siriani. La presenza siriana divenne quindi sempre più preponderante. Nel 1994 fu vietato il movimento Forze Libanesi, che rappresentava i cristiani più radicaleggianti. A seguito dell’assassinio dell’ex Primo ministro sunnita Rafīq al-Ḥarīrī nel 2005, ci fu la cosiddetta “Rivoluzione del Cedro” anti siriana, che avviò il ritiro delle truppe siriane della FAD (Forza Araba di Dissuasione). Nel luglio 2006, gli Hezbollah attaccarono una pattuglia dell’esercito israeliano nei pressi del villaggio di Zar’it, uccidendo 8 soldati. Per tutta risposta iniziarono bombardamenti aerei israeliani contro molte infrastrutture sensibili come l’aeroporto di Beirut, i porti, le centrali elettriche e le principali vie di collegamento terrestre con la Siria, i quartieri della periferia meridionale di Beirut e diversi villaggi nel Libano meridionale, con migliaia di vittime civili.

Durante gli scontri gli Hezbollah lanciarono migliaia di razzi con bombe a grappolo di tipo cinese sul territorio israeliano, causando panico e vittime fra la popolazione civile. L’11 agosto 2006, dopo settimane di tentativi per ottenere una tregua tra le parti per consentire l’apertura di corridoi umanitari in favore della popolazione civile libanese, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite votò all’unanimità la Risoluzione 1701. Il testo della risoluzione chiese l’immediata cessazione delle ostilità tra Israele e Hezbollah, il ritiro delle truppe israeliane dal Libano meridionale, in concomitanza con lo schierarsi nella zona delle truppe regolari libanesi e dell’UNIFIL con la creazione di una zona cuscinetto “libera da ogni personale armato che non sia quello delle Nazioni Unite e delle forze armate regolari libanesi” per 12 miglia tra la frontiera israelo-libanese e il fiume Litani.


La seconda missione UNIFIL (UNIFIL 2)

Il 25 agosto 2006, l’Unione Europea stabilì l’invio di circa settemila militari europei per costituire il nucleo centrale della forza multinazionale di interposizione nel Libano meridionale (seconda missione UNIFIL). Il comando della missione, inizialmente guidata dalla Francia, passò all’Italia nel febbraio 2007 (Operazione Leonte), frapponendosi fra le due parti con un profilo passivo per assicurarsi che tale area non fosse utilizzata per attività offensive di ogni genere. Il compito di disarmare i gruppi armati restò alle forze regolari libanesi, responsabili anche di controllare il confine siriano, fonte di approvvigionamento delle armi per gli Hezbollah.

Dopo nuovi scontri tra sciiti e sunniti, avvenuti agli inizi di maggio 2008, una mediazione internazionale guidata dal Qatar permise alle fazioni politiche locali di accordarsi per l’elezione del generale Michel Suleiman alla presidenza della repubblica e per la formazione di un governo di unità nazionale, in vista delle elezioni parlamentari previste per la primavera del 2009.

Nel 2011, nel corso della guerra civile siriana, si ebbe un riacutizzarsi dello scontro tra le fazioni sunnite e quelle sciite. Lo sconfinamento della guerra civile siriana in Libano non solo coinvolse i villaggi al confine siriano, ma anche i grandi centri urbani, tra cui Beirut, Sidone e Tripoli dove si verificarono scontri armati, rapimenti e attentati.

Ma quale fu l’impatto della crisi siriana in Libano?

Nell’agosto 2012, il primo ministro Najib Miqati affermò che esistevano spinte interne per trascinare il Libano sempre più nel conflitto siriano. La situazione diventò sempre più critica e richiese ai leader di tutte le fazioni di cooperare per proteggere il Libano, chiedendo aiuto alla comunità internazionale per evitare di essere un altro teatro nella guerra civile siriana.


Di fatto la guerra civile siriana e il suo impatto interno favorirono la polarizzazione della politica libanese. Da un lato l’Alleanza del 14 marzo, dominata da partiti cristiani e sunniti, largamente solidale con l’opposizione siriana a Bashar Al-Assad, dall’altro i partiti pro Assad.

Dal febbraio 2013, il numero dei rifugiati siriani in Libano è salito ad oltre 180000, creando non pochi problemi interni. Un fattore non trascurabile nella stabilità interna libanese è il rapporto tra Hezbollah ed il regime siriano, che ha giocato un ruolo sempre più destabilizzante dopo il 2011; inizialmente i primi ebbero un coinvolgimento di basso livello ma, da aprile a giugno 2013, 1.700 combattenti di Hezbollah operarono in maniera sempre più incisiva a fianco del regime e in altri Paesi della regione, come lo Yemen (a fianco degli Houtis) e l’Iraq alimentando la frizione tra le fazioni sunnite-sciite. Questo schieramento non nasconde interessi iraniani nella regione medio orientale, osteggiati dai Paesi arabi del GCC che vedono negli Hezbollah un fastidioso sasso nella scarpa. Da parte sua la EU ne ha percepito l’invadenza e ha adottato politiche atte a rinforzare il governo e l’esercito libanese ufficiale.

In Libano esistono altri conflitti interni tra alawiti filo-siriani e fazioni sunnito islamiche che spesso degenerano in conflitti armati. A seguito di attentati jihadisti in Siria, come quelli del Jabhat al-Nusra contro le forze degli Hezbollah, in Libano si sono moltiplicati gli attacchi sia contro le strutture degli Hezbollah che contro l’esercito libanese. Oltre agli aspetti politici questa situazione di instabilità ha avuto importanti ricadute economiche rese ancora più drammatiche dai costi sociali e politici per gestire i rifugiati. Il mercato del lavoro è crollato come l’afflusso turistico verso le città storiche, già minacciato dal terrorismo interno, crollato del 40% tra il 2010 ed il 2013. Nel 2016 l’aumento del debito pubblico ha raggiunto il 148% del PIL. Similarmente il numero di rifugiati siriani è aumentato in maniera significativa. L’UNHCR ha valutato che nel novembre 2011, 8875 rifugiati furono registrati dall’UNHCR; quasi tutti iracheni, e solo l’1% erano provenienti dalla Siria.


Negli anni seguenti la situazione è mutata radicalmente passando a oltre 33000 siriani nel luglio 2012, 180000 nel 2013 fino ad un picco di oltre 1,1 milioni nel 2014 (dati UNHCR, 2018). La maggior parte di loro ha trovato impiego nell’agricoltura (28%), nei servizi domestici (36%) e nelle costruzioni edili. L’impiego nell’agricoltura trova ragione nel fatto che i Siriani provenivano in gran parte dalla valle del Bekaa, zona agricola di eccellenza siriana. La domanda che ci si pone è se questo squilibrio modificherà la politica locale inasprendo ancora di più le fragili tensioni interne.

Un mare di petrolio e gas

Gli Hezbollah sembrano continuare una politica aggressiva attaccando le piattaforme israeliane. L’area rivendicata si estende su una distesa triangolare di circa 800 km², ricca di gas e petrolio. Nulla sono valse azioni da parte degli Stati Uniti e delle Nazioni Unite di mediare una soluzione pacifica sulla controversia marittime della zona. Sia il Libano che Israele hanno reclamato questo territorio per decenni, ma la disputa è stata esacerbata a seguito di accordi marittimi separati e siglati con Cipro, firmato dal Libano nel 2007 e da Israele nel 2010, che hanno causato una lite diplomatica che ha finito per portarli ad accusarsi l’un l’altro di furto territoriale. Il diritto internazionale prevede che, nei casi in cui due Stati condividano una zona marittima o un confine, si sia soliti dividere equamente il territorio tra gli Stati, ma non sembra questo il caso.

Il Mediterraneo orientale possiede nei suoi fondali vasti ed ancora inutilizzati giacimenti di combustibile fossile. In gioco nel Bacino del Levante tra Egitto e Siria vi sarebbe una disponibilità di combustibile fossile pari a 122 trilioni di metri cubi di gas naturale e una quantità di petrolio equivalente a 1,7 miliardi di barili.

Nel 2017 il Libano ha dato il suo assenso all’esplorazione dei fondali marini, concedendo a Eni (Italia), Novatek (Russia) e Total (Francia) i primi blocchi in cui è stata suddivisa l’area sotto la giurisdizione libanese. Questo non è piaciuto a Israele che ritiene sue quelle acque territoriali. Il Libano ha inviato una lettera all’Onu che respinge con forza la mappa con i nuovi confini marittimi approvata da Tel Aviv. Israele con il sostegno degli Stati Uniti, alza i toni, giustificandosi con gli attacchi degli Hezbollah e la situazione sta rapidamente degenerandosi con un aumento costante dell’instabilità nell’area e conseguenti migrazioni verso l’Europa. In gioco ci sono oltre 600 miliardi di dollari e probabilmente nessuno dei due vorrà cedere dalle sue posizioni.

Intanto nell’area si affaccia la Turchia che potrebbe rivendicare la sua parte.

Andrea Mucedola (http://www.ocean4future.org)