L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

venerdì 31 dicembre 2021

La fame non si placa stampando cibo. E la fame porta alla rivolta. Il 2022 sarà probabilmente l’anno della grande crisi alimentare. Anche Zerohedge prevede gli aumenti del prezzo-scarsità del cibo. Nulla è un caso

SPY FINANZA/ Il segnale sulla “crisi del cibo” che arriva dalla Cina
Pubblicazione: 31.12.2021 - Mauro Bottarelli
I livelli delle scorte alimentari cinesi suonano come un campanello d’allarme su quello che potrebbe accadere l’anno prossimo

Pixabay

Se c’è una cosa che non fa difetto alla Cina è la capacità e la propensione alla programmazione. Fin dalla rivoluzione maoista, si pianifica in maniera maniacale. Sovietica. Su tempi lunghi. Proprio per questo, i più attenti fra gli osservatori di cose economiche nell’agosto del 2019 fecero notare come Pechino stesse facendo razzia di generi alimentari, creando scorte di magnitudo tale da far intendere o presagire l’arrivo di una crisi sistemica in grado di mettere a repentaglio gli approvvigionamenti. Globali. Oggi, due anni e mezzo dopo, i dati parlano chiaro.

Interpellato dall’agenzia Nikkei, Qin Yuyun, responsabile per le riserve di cereali presso la National Food and Strategic Reserves Administration cinese, ha confermato come «l’attuale riserva nazionale di grano è tale da garantire approvvigionamento e autonomia per un anno e mezzo. Il livello è tale da averci messo totalmente al riparo da qualsiasi dinamica legata alla catena di fornitura globale».


Il grafico qui sopra mette la questione in prospettiva: stando a dati tracciati da un attento e interessato osservatore delle mosse strategiche cinesi, ovvero lo U.S. Department of Agriculture, scopriamo che la Cina oggi possiede circa il 69% di tutte le riserve mondiali di mai, il 60% di quelle di riso e il 51% di grano. E quest’altro grafico mostra ancora di più.


Se infatti esiste una variabile che un Governo di stampo autoritario come quello di Pechino non può permettersi è un’ondata di malcontento popolare. Detto fatto, nei primi otto mesi dell’anno che si conclude oggi, la Cina ha speso in importazioni di generi alimentari qualcosa come 98,1 miliardi di dollari, 4,6 volte la media della decade precedente e più dell’intero 2016 solo nei primi otto mesi. Qui non ci troviamo di fronte a una politica di programmazione standard, routinaria. Qui siamo di fronte alla preparazione per qualcosa di epocale. E lo mostra questo terzo grafico, dal quale si evince che o Pechino è stata colta dall’abbaglio noto come sindrome Brown (ovvero, il vizio di calcolare male i timing delle operazioni strategiche che vide l’ex ministro delle Finanze e poi premier britannico, Gordon Brown, vendere le riserve di oro al minimo storico delle quotazioni) oppure l’aver continuato ad accumulare, facendo incetta su mercati come Usa e Brasile, in piena dinamica di rialzo record dei prezzi, significa che il calcolo costo/benefici ancora propende a favore della scelta di stoccaggio.


Pessimo segnale. Perché oltre ai cereali (o granaglie), Pechino ha messo mano al portafoglio e acquistato con il badile anche carne di manzo e maiale, frutta e prodotti caseari, i cui volumi di importazioni sono lievitati in un range che va dal raddoppio rispetto alla decade precedente fino alle cinque volte. Dopo essere stata la fabbrica a cielo aperto del mondo, la Cina appare il deposito alimentare del globo. Un enorme supermercato. A uso interno, apparentemente. O, magari, pronto a intervenire sulla catena di fornitura globale di cibo, se questa dovesse incepparsi. Divenendo in questo modo, player di assoluto primo piano. Di più, il dominus della situazione. Perché se gli incidenti finanziari si possono tamponare con l’intervento delle Banche centrali, la fame non si placa stampando cibo. E la fame porta alla rivolta.

E se quanto posto in essere da Pechino negli ultimi due anni e mezzo, in perfetta anticipazione dello tsunami pandemico che ha fatto deragliare tutti i treni del commercio globalizzato, lasciando solo enormi file lungo i binari, non dovesse bastare come elemento di preoccupata riflessione, ci pensa quest’altro grafico.


Attenzione, perché l’attuale crisi energetica non rischia di riverberarsi solo sull’industria manifatturiera e pesante o sulle bollette dei cittadini, bensì anche sulla catena di approvvigionamento e fornitura del cibo. Il prezzo dell’urea, fertilizzante base in agricoltura e sostanzialmente nitrato di ammonio allo stato solido, è alle stelle. Livelli record. Ma guardate dove sono, comparati, i prezzi agricoli tracciati dall’indice della FAO, già loro stessi ai massimi da un decennio: se, come paiono implicitamente temere i cinesi, la dinamica sarà quella di un forzato re-couple al rialzo, il 2022 sarà probabilmente l’anno della grande crisi alimentare. Oltretutto in pieno scenario di mutamento climatico, in grado di alternare alluvioni a periodi prolungati di devastante siccità: potenzialmente, una variabile che può ridurre l’offerta in maniera drastica, facendo strame dei raccolti. Di fatto, l’elemento base dell’urea agricola è totalmente dipendente dal prezzo del gas. Il quale ora sta calando un po’ in Europa grazie ai circa venti tankers in arrivo dagli Usa, ma per quanto durerà il sollievo? Soprattutto, se la Russia deciderà di chiudere il discorso legato a Nord Stream 2, messo in stand-by fino a luglio dal nuovo Governo tedesco e concentrarsi su Power of Siberia 2, secondo ramo della pipeline che porterà ogni anno 50 miliardi di metri cubi di gas della Gazprom dalla Siberia proprio alla Cina centrale via Mongolia.

E quest’ultimo grafico mostra come sottovalutare il trend appena descritto potrebbe tramutarsi in un errore di valutazione esiziale. Presentando i conti del secondo trimestre dell’anno fiscale 2021, Dolph Baker, presidente e Ceo di Cal-Maine Foods, il maggior produttore di uova fresche degli Usa, è stato chiaro: «Siamo rimasti a galla, nonostante l’impatto dei maggiori costi per gli ingredienti dei mangimi, la lavorazione, l’imballaggio, il trasporto e la manodopera». Ma la realtà davanti al mercato è chiara: i costi di produzione agricola per dozzina di uova sono aumentati del 21,6% su base annua, un incremento principalmente legato ai maggiori costi di alimentazione, già cresciuti a loro volta del 29%.


«Prevediamo che i prezzi di mercato dei nostri ingredienti per mangimi primari rimarranno volatili quest’anno fiscale, date le continue interruzioni legate alla pandemia, le fluttuazioni meteorologiche, i problemi geopolitici e di trasporto», ha aggiunto il Ceo. Da un’emergenza all’altra, insomma. L’anno che sta per aprirsi potrebbe portarci in dote la più pericolosa di tutte. Perché se già oggi le nostre coste continuano a registrare arrivi di imbarcazioni dal Nord Africa, un’eventuale crisi alimentare sul larga scala opererebbe da detonatore. Ovunque. Confini terrestri della economicamente tremebonda Turchia in testa. E quella gente, stante l’inferno da cui potrebbe trovarsi a scappare, non si ferma come il sottoscritto di fronte ai divieti del Governo (quattro decreti emergenziali in un mese, complimenti ai Migliori) e all’imposizione del super-green pass. Sfonda la porta. Perché non ha proprio più nulla da perdere.

il Qe deve diventare strutturale, sistemico e permanente. A livello globale. Meglio se sincronizzato. E per farlo, occorre una scansione continua e ciclica di emergenze che rendano possibile - di volta in volta - l’istituzionalizzazione di una distorsione come new normal. Un nuovo paradigma.

La parola dell’anno? Debito. E ascoltare «Atlantic City» di Springsteen lo conferma

31 Dicembre 2021 - 06:30

Altro che inflazione o taper, il 2021 ci lascia un’unica certezza: il mondo è un’enorme Turchia, il cui destino è quello di una selezione darwiniana. Per impossibilità strutturale di nuovo roll-over


Well, I got a job and tried to put my money away. But I got debts that no honest man can pay. Così cantava Bruce Springsteen in Atlantic City, piccolo e misconosciuto capolavoro contenuto in Nebraska. Correva l’anno 1982. E il Boss, uno cresciuto per la strada, metteva tutti in guardia: da certi debiti non si può uscire con il lavoro onesto. E le mani pulite.

Nel pezzo, la soluzione era ritirare tutti i risparmi dalla banca, comprare il biglietto del pullman e tentare la fortuna nella seconda capitale del gioco d’azzardo dopo Las Vegas. Nel mondo delle Banche centrali, stampare denaro senza preoccuparsi delle conseguenze. L’anno che si chiuderà fra poche ore, almeno a livello economico-finanziario, verrà facilmente ricordato per due parole: tapering e inflazione. In realtà, il 2021 è stato l’anno della conferma: il debito è l’unico motore immobile attorno a cui gravita tutto. Tapering e inflazione compresi.

Il debito globale ha infatti raggiunto i 226 trilioni di dollari di controvalore, pari al 256% del Pil mondiale. Ma queste sono cifre che lasciano il tempo che trovano, buone per fare un titolo acchiappa-likes una volta all’anno, quando l’FMI pubblica le cifre e l’IIF le certifica. Il problema sta altrove. In primis, lo mostrano questi due grafici.

Andamento dello S&P’s 500 dal 1985 a oggi Fonte: StockCharts.com
Controvalore di prestiti ad aziende con rapporto debito/EBITDA superiore a 6x Fonte: Financial Times

La prima immagine esplicita il livello attuale dello Standard&Poor’s 500 e lo compara con i corsi precedenti e i picchi poi classificati ufficialmente come bolla, una volta esplosi ed entrati in correzione. Penso che ogni mio commento risulti totalmente inutile, uno spreco di testo e di tempo.

Più interessante il secondo grafico, dal quale evince come nel mondo fatato del rally di fine anno, la misallocation di capitali sia ovunque. Pericolosamente ovunque. Cosa mostra l’immagine, parlando da profani? Che oggi la percentuale di nuovi prestiti corporate verso aziende con rapporto fra debito e EBITDA superiore a 6x è al massimo storico. Record. Tradotto, tassi reali negativi e virtualmente senza prezzatura di rischio, volatilità pressoché assente per compressione artificiale da Qe perenne e spread creditizi sempre più ristretti stanno spingendo il settore privato a esporsi in maniera sempre più estrema e senza copertura lunga la curva di rischio.

Praticamente, stiamo ballando nel cratere di un vulcano, volendo scomodare Yukio Mishima. Nella certezza che sia ormai inattivo. Il che può anche essere vero ma presuppone una conditio sine qua non, irrinunciabile: il Qe deve diventare strutturale, sistemico e permanente. A livello globale. Meglio se sincronizzato. E per farlo, occorre una scansione continua e ciclica di emergenze che rendano possibile - di volta in volta - l’istituzionalizzazione di una distorsione come new normal. Un nuovo paradigma.

Prendiamo ad esempio una realtà recentissima. E tutt’altro che ipotetica o basata su elucubrazioni dietrologiche. Non più tardi del 18 dicembre scorso, il presidente turco Tayyip Recep Erdogan ha placato la corsa allo schianto della lira, ormai in area 18 nel cambio con il dollaro, annunciando una serie di misure destinate ad alleviare gli oneri derivanti da un crollo valutario e incoraggiare i turchi a conservare risparmi in valuta nazionale, anziché in moneta Usa. E quali sarebbero queste misure? Semplici. E folli, al tempo stesso. Di fatto, ruotano tutte come satelliti attorno al grande azzardo: il Tesoro turco diventerà sottoscrittore dei nuovi depositi in lire, nel caso di una nuova crisi svalutativa della moneta.

Tradotto, uno dei pochi sprazzi di luce ancora presente nell'economia di Ankara, la posizione fiscale, viene sacrificato sull'altare della propaganda a fine politico, in vista del voto del 2023. Perché? Perché ufficializza un trend finora utilizzato in maniera solo ufficiosa o travisata: trasformare i budget pubblici in bancomat per finanziare gli errori politici. Nel caso di Erdogan, la scelta suicida di continui tagli dei tassi a fronte di una valuta in caduta libera e di un’inflazione al 21% di tasso annualizzato. Parliamo di qualcosa come 500 punti base da settembre a oggi, intuizione che ha avuto come unico risultato il dimezzamento del valore della lira e la distruzione di miliardi in riserve nel tentativo di tenerne a galla il cross con il biglietto verde.

Eppure, le parole di Erdogan parevano aver convinto il mercato fino all'altro giorno, visto che il profondo rosso della divisa turca si era come arrestato, di colpo. Ieri, poi, il brusco risveglio sintetizzato da questo grafico:
Andamento del cross fra lira turca e dollaro Usa (dicembre 2021) Fonte: Bloomberg


miliardi bruciati per guadagnare quattro giorni. Come mai? Lo spiega Refet Gurkaynak, professore di economia alla Bilkent University di Ankara: Di fatto, quanto accaduto ha rappresentato un epico aumento dei tassi, senza che venisse chiamato in quel modo e percepito come tale. Si sostanzierà infatti un enorme fardello nel budget governativo, quando dovesse sostanziarsi un netto incremento nel tasso di cambio estero. Questo tipo di carico normalmente viene monetizzato, portando come diretta conseguenza tassi ulteriormente in rialzo sui cross valutari e negli indici dei prezzi.

Insomma, cosa ha fatto Erdogan? Lo mostra questo primo grafico,
Andamento di controvalore degli assets esteri netti della Turchia Fonte: Bloomberg

nel quale si nota come la scorsa settimana, gli assets esteri totali della Turchia siano calati di 6 miliardi di dollari di controvalore. Come mai? Un classico caso di back-door intervention, esattamente simile a quello posto in atto da Ankara nell’ottobre 2018, quando le banche a controllo statale vendettero dollari in massa per sostenere la lira. Il problema è la magnitudo dell’accaduto e il contesto già precario in cui un intervento simile si è sostanziato, come mostra l’immagine: in una settimana, gli assets esteri netti sono passati da 817 milioni di dollari a -5,1 miliardi di dollari, un calo appunto di circa 6 miliardi.

E attenzione, perché in un articolo pubblicato il 22 dicembre sul sito T24, l’ex funzionario della Banca centrale turca, Uğur Gürses, ha sostenuto come le vendite di riserve estere - attraverso il metodo di backdoor che coinvolge le banche commerciali a controllo statale - abbiano toccato i 7 miliardi di dollari di controvalore soltanto nei due giorni precedenti, il 20 e 21 dicembre. Ma ecco che questo secondo grafico
Andamento di controvalore delle riserve nette della Banca centrale turca Fonte: Bloomberg

mette in prospettiva perfettamente la profondità dell’azzardo posto in essere: nella settimana terminata il 16 dicembre, le riserve nette turche sono calate di 9 miliardi di dollari, arrivando a un totale di soli 12,2 miliardi di dollari, l’emorragia a livello settimanale più copiosa dal 2002.

Di più, stando a calcoli di Goldman Sachs, gli sforzi per mantenere in vita la lira turca sono costati alle riserve del Paese qualcosa come oltre 100 miliardi di dollari solo lo scorso anno. Lo stesso Erdogan, in effetti, nel mese di febbraio scorso ammise come la Banca centrale bruciò circa 165 miliardi di dollari di riserve per sostenere la valuta nel 2019 e 2020 e promise ulteriori mosse simili, se questo si rendesse necessario. Così è stato. E come giustificò quella mossa suicida, il Sultano? Contrasto alla pandemia.

Il mercato, infatti, per mesi finse di non vedere. Né le riserve bruciate, né l’inflazione galoppante, né il cross valutario con il dollaro che sfondava una soglia psicologica dopo l’altra. Oggi, poi, l’enorme, terminale calcione elettorale al barattolo. Che il mercato pareva aver apprezzato e applaudito in ossequio alla grande coperta di Linus di Omicron, l’emergenza ciclica di turno. Ma di breve, brevissimo respiro. Il motivo? Lo mostra questo ultimo grafico:

Andamento di rendimento del titolo di Stato decennale turco Fonte: Bloomberg

la Turchia sta operando da laboratorio e contemporaneamente da stress test dell’evoluzione faustiana del Qe globale, il prodromo appunto della sua forzata istituzionalizzazione, della sua nuova natura permanente.

Il rendimento del decennale di Ankara al 23,3%, infatti, è il reagente che palesa l’impossibilità di una nazione di operare roll-over sul debito. Un’Argentina decisamente più instabile. Ma anche più strategica. La cavia perfetta, in realtà. Perché costringe tutti a ragionare su un piano nuovo. Sull’emergenza di larga scala. Sul debito fuori controllo che diventa contemporaneamente variabile e denominatore. Inflazione e tapering sono solo sintomi. Perché come cantava il Boss, ci sono debiti che un uomo onesto non può ripagare. Per tutto il resto, c’è il Qe.

30 dicembre 2021 - TgSole24 - Passaporto per l’Inferno

Aspettarsi che i prezzi dei prodotti alimentari rimangano stabili quando gli ingredienti per produrlo sono tutti alle stelle ci impressiona come comicamente stupidi

Ecco come la crisi energetica si trasforma in fame e poi... Guerra?

Tyler Durden's Photo
DI TYLER DURDEN
MERCOLEDÌ, DIC 29, 2021 - 07:00 AM

Scritto da Chris Macintosh via InternationalMan.com,

In precedenza abbiamo avvertito di un'enorme crisi alimentare e di problemi di approvvigionamento nel mercato dei fertilizzanti. Bene, ora è peggio perché era PRIMA che avessimo la crisi del gas naturale. Perché è importante?

Il gas naturale è l'input critico nella produzione di fertilizzanti. L'urea è essenzialmente ammoniaca allo stato solido, il cui processo comporta la reazione dell'ammoniaca con la CO2. E ora sappiamo tutti – grazie ai nazisti del clima – che la CO2 è attualmente il diavolo. Il problema ovviamente è che senza gas naturale non c'è urea, e senza urea non c'è fertilizzante. E senza fertilizzante... beh, ci mangeremo l'un l'altro.

Ecco i prezzi spot dell'urea.

Qualcos'altro che avevamo notato qualche tempo fa (in Corea) ma che ora sembra un problema più grande.

Ecco un articolo su un agricoltore australiano che avverte che la crisi di approvvigionamento di urea potrebbe fermare la vita normale in poche settimane.

Ecco cosa dice:

"Non solo non saremo in grado di coltivare bestiame e non saremo in grado di coltivare cibo e non saremo in grado di coltivare grano o qualcosa del genere, ma anche se potessimo, non possiamo spostarlo, perché non possiamo girare una ruota in un camion perché non abbiamo Adblue", [AdBlue è necessario per i veicoli diesel – la metà di tutti i camion sulle strade australiane funziona con diesel

A partire da febbraio potremmo non avere un camion sulla strada in Australia, potremmo non avere un treno sui binari.

"Quindi letteralmente l'intero paese si ferma a febbraio".

L'agricoltore poi, prosegue dicendo:

"Vai a dare un'occhiata nel tuo armadio e vai a dare un'occhiata nel tuo frigo e ti garantisco che quasi ogni singolo oggetto lì, ad un certo punto, l'urea è stata usata per produrre quell'oggetto, che si tratti di una bistecca o di un'insalata o di una lattina di fagioli al forno.

Spostandoci in Europa, abbiamo una crisi energetica in piena regola che si sta svolgendo lì, aggravata da politiche sempre più distruttive dalle scarpe a punta (produciamo più solare ed eolico quando si dimostra essere sia inadeguato che massicciamente costoso) e una crisi della catena di approvvigionamento.

Date un'occhiata ai prezzi europei dell'energia.

Quindi qui stiamo assistendo all'inizio di quella che promette di essere una tempesta. Pensa freddo e affamato e hai l'immagine giusta.

Che l'elettricità proviene in gran parte dal gas naturale e che il gas naturale proviene da quei Russkies di picco.

I prezzi europei del gas salgono sopra i 100 euro con gli occhi puntati sulla Russia.

Il prezzo di riferimento del gas naturale europeo è salito sopra i 100 euro, o $ 190 al barile di petrolio equivalente, in vista di una serie di aste per la capacità degli oleodotti che sono viste come un test della volontà della Russia di alleviare una crisi dell'offerta.

Le aste del giorno prima per lo spazio sui gasdotti ucraini e la capacità della stazione di compressione tedesca di Mallnow forniranno un segnale forte di quanto sia seria la Russia nell'aumentare i flussi verso ovest. Mentre il più grande fornitore della regione ha dichiarato che mira a continuare a riempire i siti di stoccaggio europei fino alla fine di dicembre, non ha utilizzato aste a breve termine per spedire più carburante.

Quindi in questo momento abbiamo questa situazione che ti farà girare la testa. L'Europa è senza gas. Hanno trascorso la maggior parte dell'ultimo decennio a liberarsi della propria energia domestica, sostituendola con palline e giocattoli, che, pur segnando alla grande sulla scorecard sveglia, si sono dimostrati abissali nel produrre ... beh, l'elettricità.

Con gli europei ormai freddi e tra poco affamati, siamo destinati a una guerra. Ricorda che storicamente, la spirale dei prezzi alimentari ha causato disordini civili, rivoluzioni e guerre. Tra i lati positivi, è noto per curare anche l'obesità, quindi c'è quello.

Torniamo all'urea e al cibo. Non puoi fare fertilizzanti senza urea e gas naturale. Poiché il prezzo di uno di questi va più in alto (entrambi lo sono), influisce in modo significativo sul prezzo del fertilizzante. Il prezzo del fertilizzante influisce a sua volta sul prezzo del cibo. Questo perché il fert è la seconda più grande componente di costo della maggior parte della produzione agricola. Il primo è... hai indovinato, diesel.

Ora abbiamo un mercato rialzista non solo nell'urea, ma nel gas naturale, e per finire anche nel diesel.

Aspettarsi che i prezzi dei prodotti alimentari rimangano stabili quando gli ingredienti per produrlo sono tutti alle stelle ci impressiona come comicamente stupidi.

https://www.zerohedge.com/geopolitical/heres-how-energy-crisis-turns-hunger-and-then-war?utm_source=&utm_medium=email&utm_campaign=380

Ammissione che il tampone è farlocco

 

In bombshell admission, CDC drops post-isolation PCR test perché possono "rimanere positivi fino a 12 settimane"

Tyler Durden's Photo
DI TYLER DURDEN
MERCOLEDÌ, DIC 29, 2021 - 12:11 PM

Proprio quando pensavi che le cose non potessero diventare più assurde, l'amministrazione Biden sta ora abbandonando i test PCR dalle sue linee guida di fine isolamento Covid perché possono rimanere positivi fino a 12 settimane.

"Quindi avremmo persone in isolamento per un tempo molto lungo se ci affidassimo alle PCR", ha detto il direttore del CDC Rochelle Walensky in un'apparizione di mercoledì su "Good Morning America".

Alcuni avevano ipotizzato che la mancanza di requisiti di test fosse dovuta a una scarsa quantità di test - tuttavia Walensky ha detto mercoledì che non è così.

"Questo non aveva davvero nulla a che fare con l'offerta. Aveva tutto a che fare con il sapere cosa avremmo fatto con le informazioni quando le avremmo ricevute", ha detto a "CBS Mornings".

Secondo le nuove linee guida del CDC, le persone che risultano positive al Covid-19, ma non hanno sintomi, possono lasciare l'isolamento dopo cinque giorni invece di dieci, senza testare di nuovo, e dovrebbero indossare una maschera per i prossimi cinque giorni.

"Quello che sappiamo è che circa l'85-90% della trasmissione virale avviene in quei primi cinque giorni, motivo per cui vogliamo davvero che le persone rimangano a casa durante quel periodo di tempo", ha detto Walensky. "E poi maschera per il resto del tempo per catturare quell'ultimo 10% al 15%."

"Sappiamo che si comporta molto bene durante quel periodo in cui sei inizialmente infetto, ma la FDA non ha affatto esaminato se ... il tuo antigene positivo è davvero correlato al fatto che tu sia trasmissibile o meno. "

Quindi, anche se qualcuno risulta negativo con un test dell'antigene dopo cinque giorni di isolamento, il CDC li esorterebbe comunque a indossare una maschera per prevenire una possibile diffusione.

"Dal momento che non avrebbe fatto la differenza nelle nostre raccomandazioni, non abbiamo raccomandato un antigene in quel periodo di tempo", ha detto Walensky.

Tuttavia, ha detto che i test dell'antigene sono "assolutamente" raccomandati per le persone che sono esposte a qualcuno che ha COVID-19. Dovrebbero testare cinque giorni dopo l'esposizione o se hanno sintomi, consiglia il CDC. -CBS Notizie

La dottoressa Celine Gounder, specialista in malattie infettive della NYU, ha criticato la FDA per non aver fatto più due diligence sui test antigenici.

"Francamente, la FDA ha avuto due anni per fare queste valutazioni a cui il Dr. Walensky si riferisce: se sono buoni per fare quella diagnosi iniziale per dire che sei contagioso come lo sono per dire che non sei più contagioso", ha detto Gounder mercoledì su "CBS Mornings". "Hanno avuto due anni e hanno trascinato i loro piedi per due anni".

https://www.zerohedge.com/covid-19/bombshell-admission-cdc-drops-post-isolation-pcr-test-because-they-can-remain-positive-12?utm_source=&utm_medium=email&utm_campaign=380

I mille euro più che una lotta all'evasione è un controllo capillare per porre dei limiti alla libertà a spendere i tuoi risparmi. Le normali persone devono continuamente tenere presente che hanno il fiato sul collo del potere che tutto vede e sorveglia

SOGLIA CONTANTI 1000 EURO/ Un altro passo indietro nella lotta all’evasione fiscale
Pubblicazione: 30.12.2021 - Sergio Luciano
L’idea di abolire o limitare il contato per contrastare l’evasione fiscale sembra davvero antiquata in un’epoca in cui ci sono le criptovalute

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Abolire il contante nell’era delle criptovalute è un po’ come abolire le barche a vela nell’era del motore. Tardivo, e ingeneroso. Ma è quel che l’Italia continua a fare, sull’abbrivio di una vecchia idea – probabilmente giusta quando venne concepita ma oggi pleistocenica – secondo la quale proibendo l’uso del denaro contante si sarebbe costretta l’evasione fiscale a venire allo scoperto. Per cui dal primo gennaio prossimo, in ottemperanza di una vecchia norma che finalmente scatta, si potranno spostare denari contanti entro il limite massimo di 1.000 euro e non più di 2.000. Norma che Mario Draghi, attuale presidente del Consiglio, caldamente sostiene.

Tanto per cambiare, su questa linea di guerra al contante sono i banchieri centrali tedeschi a dissociarsi. Carl-Ludwig Thiele, membro del Consiglio di amministrazione della Bundesbank incaricato di seguire il tema, ha sentenziato di recente: “Non sono sicuro che introdurre un limite all’uso del contante o eliminare i tagli più grandi delle banconote possa realmente prevenire le attività illecite di terroristi e criminali”. Ha anche aggiunto: “Dovremmo chiederci soprattutto: quale concezione di governo è alla base di queste proposte? I cittadini non dovrebbero essere oggetto di sospetti generici e generalizzati”. E del resto lo stesso stesso presidente della Bundesbank aveva sollevato l’attenzione sul fatto che l’eliminazione delle banconote dal taglio più grosso, una politica sostenuta fortemente da Mario Draghi, quando era presidente della Banca centrale europea, potrebbe avere un effetto debilitante sulla fiducia generale e se il pubblico fosse indotto a credere che il contante sarà abolito gli effetti sarebbero “disastrosi”.

Ma perché questa regola che quando venne ventilata dall’allora (2008) ministro delle Finanze Vincenzo Visco sembrava logica oggi non vale più niente? Bensvegliati, eh! Risposta facile-facile: perché oggi ci sono le criptovalute. E la malavita organizzata, grande regista dell’economia sommersa, le usa a manetta. Proibiamo il contante adesso che serve davvero solo alle vecchiette? Benissimo, accomodatevi. Ma che senso ha?

E del resto: tra le tante lacune del Governo emergenziale guidato da Mario Draghi nella generale carenza di visione sul futuro – riconosciuta anche dal Premier – c’è la mancata progettualità sulla lotta all’evasione fiscale. Quasi fosse diventato un esercizio inutile, come lavare la testa all’asino. E invece no: se esistesse uno Stato minimamente degno di questo nome, dalla ripresa dell’umile quotidiano stradale lavoro di controllo porta a porta si potrebbe recuperare tanto gettito. Ma chi lo vuol più fare quel lavoro, nell’era digitale?

Non a caso, la marcia trionfale del denaro elettronico non è accompagnata dall’ovvio corteo delle sanzioni per chi rifiutasse le carte di credito: scatteranno solo dal 2023 – grazie a un emendamento di Stefano Fassina (Leu) e Rebecca Frassini (Lega) al Recovery – le multe da 30 euro più il 4% del valore della transazione per negozianti e professionisti che rifiutano di accettare il bancomat o le carte di credito come forme di pagamento. E pensare che in teoria il Pos sarebbe già obbligatorio dal 2014 (decreto 179/2012). L’unico recupero di gettito che abbia funzionato è stato quello dell’Iva, proveniente dall’obbligo di fattura elettronica: perché al momento nessuno si fida a fatturare in criptovalute…

L’area euro è un’unione monetaria anomala in cui è possibile lucrare su squilibri di mercato che sarebbero impossibili in altre aree. I titoli di stato in possesso delle banche centrali possono essere tranquillamente congelati, anche per sempre, non li si vuol fare perché si devono affamare i popoli e tenerli costantemente sotto ricatto

SPY FINANZA/ Il vero campanello d’allarme degli ultimi rialzi dello spread
Pubblicazione: 30.12.2021 - Paolo Annoni
Lo spread negli ultimi giorni è salito ai massimi da inizio anno. Si tratta di un campanello d’allarme che va oltre la contingenza

Lapresse

Negli ultimi giorni lo spread tra titoli di stato italiani e tedeschi è salito ai massimi del 2021 e il rendimento del decennale italiano è tornato in linea con i massimi di luglio 2020. Il rialzo delle ultime settimane riflette in buona parte la bassa liquidità sul mercato e una presenza meno attiva della Banca centrale europea; è una circostanza “normale” in una fase di mercato condizionata sia dalle festività che dalla riluttanza degli investitori a muovere i portafogli. È del tutto possibile che il fenomeno rientri appena i mercati torneranno alla “normalità”; se questo scenario si avverasse rimarrebbero comunque due dati da incorporare.

Il primo è che la data del 31 dicembre, quando le banche e le società finanziarie chiudono l’anno contabile e fiscale, riveste un significato particolare perché “ferma” le valutazioni dei portafogli nei bilanci. Lo scivolone delle ultime settimane, in altre parole, fa danni anche se venisse completamente recuperato nei primi giorni del 2022. Sarebbe un’ulteriore conferma che l’area euro è un’unione monetaria anomala in cui è possibile lucrare su squilibri di mercato che sarebbero impossibili in altre aree. Nella mente degli investitori si consolida, se mai ce ne fosse ancora bisogno, che sui mercati europei del debito si può lavorare di fantasia ed esplorare scenari che sarebbero inimmaginabili in qualsiasi altra parte del globo.

Il secondo dato è che i problemi sui debiti sovrani europei sono stati solo momentaneamente coperti dalla pandemia e dall’intervento della Banca centrale europea che ha coperto le emissioni di debiti dei Paesi membri, e in particolare quelle dell’Italia, con solerzia e senza discutere deficit che in altri fasi avrebbero provocato fasi di volatilità finanziaria e politica. Il debito pubblico italiano è, ovviamente e in buona compagnia, molto più alto di quello di febbraio 2020. La crescita dell’economia italiana, è il segreto di pulcinella, è avvenuta anche grazie a bonus a pioggia, ristori, aumenti di stipendio dei dipendenti pubblici mentre interi settori industriali e privati chiudono o per le restrizioni che impediscono di lavorare o, è il caso delle ultime settimane, per i costi insostenibili della bolletta energetica. Il sistema economico-finanziario italiano è molto più fragile sia perché il debito è alto, sia perché il settore privato che lo sostiene si è molto indebolito.

La riforma delle regole fiscali dell’Unione europea, anche nella migliore delle ipotesi, difficilmente potrà permettere la prosecuzione all’infinito dell’attuale trend delle finanze pubbliche italiane. Prima o poi il sistema chiederà un rientro in cui i Paesi politicamente più forti imporranno condizioni ai Paesi politicamente e finanziariamente più deboli. Il protagonismo della Bce sul mercato del debito italiano, complice la pandemia, non è una garanzia di oblio, ma anzi rafforza il potere negoziale delle istituzioni sovranazionali nel senso che abbiamo imparato a conoscere dalla crisi dei debiti sovrani europei del 2011/2012: è una crisi arrivata dopo l’esplosione dei debiti in seguito a un’altra crisi economica e più precisamente a quella iniziata con il fallimento di Lehman Brothers a settembre del 2008.

In un mondo normale, in un’unione politica e fiscale “perfetta”, quello che abbiamo visto nelle ultime settimane sullo spread sarebbe impossibile. Questo è un campanello di allarme che rompe la magia di una narrazione che continua dalla fine della primavera del 2020 e cioè che i deficit a due cifre non sono un problema perché la Bce copre e che le istituzioni europee si sono trasformate in qualcosa di diverso e più “buono”. Più la pandemia si normalizza, si istituzionalizza il sistema dei “pass”, più si avvicina la fine dello stato di eccezione finanziaria e si scoprirà cosa è veramente cambiato “in Europa”.

Le zampate sempre più veloci e ripetute dell'orso russo intontiscono e mettono sempre più all'angolo gli Stati Uniti, incapaci di reagire in quanto consapevoli di essere in cattiva fede, incapaci di pensare. Putin vince non solo a livello strategico ma anche tattico

Biden-Putin, guerra di messaggi prima del colloquio
Di Emanuele Rossi | 30/12/2021 -


In attesa della telefonata tra Biden e Putin, Russia e Usa si scontrano sul piano informativo. Messaggi e segnali inviati per mettere pressione da entrambi i campi, che toccano sicurezza europea, Ucraina, Nord Stream 2

Una funzionaria dell’amministrazione di Joe Biden ha detto ai media americani che a Washington non hanno chiara la ragione per cui Vladimir Putin abbia chiesto un nuovo colloquio telefonico al presidente statunitense — colloquio che ci sarà oggi, 30 dicembre, alle 21:30 italiane.

Questa e altre uscite pubbliche anonime che si susseguono in queste ore hanno valore di comunicazione strategica: nel caso, serve per dire al Cremlino che con Putin non c’è un filone di dialogo bilaterale e preferenziale in corso; allo stesso tempo questo serve a rassicurare gli alleati che Biden non parla a titolo personale, ma come frontman di un blocco comune composto da Nato e Ue.

Putin vuole l’opposto: ossia che la Russia, che lui interpreta nella narrazione interna ed esterna come super-potenza, si avvalga solo dell’altra super-potenza come interlocutore, scavalcando così l’Europa per indurre quest’ultima a un complesso di inferiorità. Biden accetta il dialogo con il russo consapevole del contesto, però lui e i suoi funzionari sottolineano continuamente che mentre parla con Putin, l’americano tiene aggiornatissimi gli alleati.

La componente narrativa è cruciale in questa fase, perché molto del confronto in corso — adesso, in passato e ancora più in futuro — si basa sulla narrazione e sulla dimensione ibrida che fa dell’infowar e delle operazioni psicologiche i propri cardini.

Per esempio, nel giorno di Natale la Interfax, media statale russo, faceva sapere che alcuni dei militari ammassati da Mosca al confine ucraino stavano tornando dalle proprie famiglie e nelle proprie caserme perché le esercitazioni per cui erano lì sono finite.

In realtà non ci sono stati spostamenti significativi, come nota chi osserva le immagini satellitari e come segnalano (o non segnalano) le intelligence americane ed europee. L’annuncio della conclusione delle manovre è stato interpretato da alcuni come un possibile punto di svolta per l’accumulo militare vicino all’Ucraina, era stato ripreso da diversi media internazionali, e si deduceva che Putin sembrava pronto ad allentare le tensioni e permettere alla diplomazia di sostituire le contingenze militari. Era questo l’obiettivo del Cremlino.

Peraltro, l’esercitazione citata dalla Interfax includeva truppe diverse da quelle schierate nei distretti di Yelniya e Pogonovo (vicino a Voronezh), ed è invece proprio lì che si è verificata la maggior parte del potenziamento militare della Russia. Questo significa che comunque ancora ci sono circa 100.000 soldati sul confine dell’Ucraina. Tant’è che secondo un’analisi interna che il Wall Street Journal ha potuto guardare, l’intelligence statunitense ritiene che l’azione militare russa appaia più probabile di quanto non lo fosse diverse settimane fa. Nuove informazioni parlano addirittura di un potenziamento nella base aerea di Klimovo, che si trova nell’angolo in cui Russia e Bielorussia incrociano i propri confini con l’Ucraina (sul territorio di Minsk, Mosca ha già schierato armamenti).

“C’è il rischio che la gente non abbia la gravitas e non abbia esperienza” su ciò che sta accadendo, ha detto in un’intervista Orysia Lutsevych, direttrice del programma di studi sull’Ucraina alla Chatham House di Londra: “Non vorrei essere nella stanza quando ci sono solo un paio di ragazzi che sanno come produrre video. Questo non è un momento di pace. Questo è un tempo di guerra”. Lutsevych sollevava questo genere di critica perché il presidente ucraino Volodymir Zelensky si è circondato di collaboratori tratti dal suo programma televisivo, uno show comico che lo ha reso famoso, “Kvartal 95”. Di questi pochi hanno esperienza di diplomazia o di guerra, a differenza di ciò che accade al Cremlino.

Anche per questo Kiev è mantenuta a stretto contatto con Washington, come dimostra la telefonata di mercoledì del segretario di Stato, Antony Blinken, la presidente Zelensky. Il nodo ucraino è il grande tema del dialogo tra Biden e Putin di oggi: da lì parte tutto il resto della trattazione. E d’altronde Mosca ha ammassato forze militari lungo il confine con Kiev anche con l’intento di alzare l’attenzione sul dossier e arrivare al dialogo a due con Washington – come era già successo ad aprile. Funzionari russi e statunitensi si dovrebbero incontrare a gennaio secondo una road map condivisa, con gli americani che dicono che vorrebbero vedere “progressi concreti” sul terreno per poter rendere i negoziati di successo. La vicesegretaria di Stato, Wendy Sherman, e il suo omologo russo Sergei Ryabkov, guideranno le rispettive delegazioni,

Mercoledì, mentre uscivano le notizie sulla telefonata odierna, Josep Borrell, il capo della politica estera dell’Ue, ha detto che il blocco “deve essere incluso” nei negoziati. In quello stesso giorno, Putin ha spostato l’attenzione su un filone apparentemente laterale, ma parte integrante del momento e dei riposarti Usa-Russia-Ue: il Nord Stream 2 è stato riempito di gas e pronto per il funzionamento, ha detto il presidente russo e “ora, naturalmente, tutto dipende dai nostri partner (wording da evidenziare, ndr) in Europa e in Germania. Non appena decideranno l’inizio dei lavori, l’Europa otterrà immediatamente grandi volumi aggiuntivi di gas russo. Questo influenzerà certamente il prezzo sul [mercato] spot. E tutti i consumatori che comprano gas russo lo vedranno immediatamente”.

La narrazione, si diceva: Putin porta la questione sul piano energetico e sul rincaro del prezzo del gas che gli europei sentiranno in bolletta. “Non ci sono più molti dubbi che Vladimir Putin sia impegnato in un ricatto ad alta posta. Dopo aver ammassato le forze vicino all’Ucraina, il Cremlino ha lanciato un ultimatum: che i Paesi occidentali acconsentano a ciò che equivale a riscrivere l’ordine di sicurezza post guerra fredda in Europa, alle sue condizioni. Il presidente russo sta in effetti negoziando con una pistola alla testa dei suoi vicini”, ha scritto l’Editorial Board del Financial Times.

Il nodo del gas non è un fattore secondario, che fa da spalla alle richieste russe avanzate un paio di settimane fa dal ministro degli Esteri, Sergei Lavrov e più volte riprese da Putin. Il rischio geopolitico dietro al Nord Stream 2, oltre all’aumento della commissione Germania-Russia che non piace (per dottrina decennale) agli Stati Uniti, è sempre stato quello che con la nuova pipeline dal nord, Mosca andasse via via a scaricare i flussi che portano il gas in Europa tramite l’Ucraina.

Questo renderebbe Kiev più debole dal punto di vista geostrategico, perché meno necessaria per la Russia, e dunque più facile da aggredire militarmente e politicamente, o meglio dire in forma ibrida. “Penso che alla fine sarà certificato [il gasdotto], ma ci potrebbero essere delle condizioni legate al continuo accesso al transito attraverso l’Ucraina”, ha detto al New York Times Katja Yafimava, un ricercatore senior dell’Oxford Institute for Energy Studies, parlando dell’avvio dei flussi nel Nord Stream 2.

Uno dei tanti funzionari dell’amministrazione statunitense che stanno parlando anonimamente (secondo le regole dettate dalla Casa Bianca per creare un hype informativo attorno al colloquio) ha detto ad Axios: “Il presidente Biden chiarirà che c’è un percorso diplomatico per ridurre le tensioni nella regione, sempre se il presidente Putin è interessato a farne parte”. Quello stesso funzionario ha aggiunto che gli Stati Uniti hanno in mano la propria lista dettagliata di preoccupazioni per il comportamento della Russia e la situazione della sicurezza in Europa, ma che hanno intenzione di discuterne con i russi a porte chiuse, piuttosto che in pubblico.

Rafforzare ulteriormente il green pass per punire i non vaccinati è solo un segno di impotenza. Con Omicron il virus si è trasformato in una banale influenza. Draghi, lo stregone maledetto/vile affarista naviga a vista

POLITICA
Giovedì, 30 dicembre 2021
Covid, Draghi uomo dei decreti-legge matrioska: Governo e Cts navigano a vista
Un decreto al giorno toglie il virus di torno?L’opinione di Paolo Becchi e Giuseppe Palma

Mario Draghi

Draghi con l'ultimo dl ha introdotto l’obbligo vaccinale indiretto, senza tuttavia che lo Stato se ne assuma la relativa responsabilità con una legge ad hoc

A distanza di appena 6 giorni dall’ultimo decreto-legge, quello emanato in vista delle vacanze natalizie, eccone un altro, l’ennesimo, approvato dal Consiglio dei ministri nella serata del 29 dicembre e in attesa di pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale.


Il green pass rafforzato, cioè quello rilasciato a seguito di completamento del ciclo vaccinale primario (due dosi ove previste, ovvero dopo la terza dose), sarà obbligatorio a partire dal 10 gennaio 2022 anche per alberghi, fiere, sagre, feste conseguenti a cerimonie civili e religiose, centri congressi, ristorazione all’aperto, piscine, centri benessere, centri culturali, impianti di risalita, sport di squadra e per l’utilizzo dei mezzi di trasporto a lunga percorrenza oltre che per i mezzi di trasporto pubblico locale e regionale.

Estendere l’obbligo anche alla ristorazione all’aperto lascia basiti, anche perché per quasi due anni ci hanno sempre detto che all’aperto il virus non circola.

Insomma, è stato introdotto l’obbligo vaccinale indiretto, senza tuttavia che lo Stato se ne assuma la relativa responsabilità con l’approvazione di una legge ad hoc. In questo modo, nel caso di eventi avversi o morte da vaccinazione, la Presidenza del Consiglio non potrà fare la chiamata in causa delle case farmaceutiche, né chiedere a queste la manleva.

Piuttosto pagherà lo Stato, ma le multinazionali farmaceutiche – che tanto bene hanno fatto e fanno all’umanità – non si toccano.

Quarantena, le nuove norme

Come che sia, una cosa buona questa volta il governo l’ha fatta e riguarda la nuova disciplina della quarantena per chi entra in contatto stretto con un positivo (sempre che in fase di pubblicazione del decreto, Speranza non ci metta lo zampino). La variante Omicron è una vera e propria patata bollente per l’esecutivo, che si è visto in appena cinque giorni mezza nazione di sani chiusi in casa, per lo più vaccinati, a causa dei cosiddetti contatti stretti. Paese paralizzato, economia bloccata. Ed ecco che la nuova disciplina muta per l’ennesima volta le carte in tavola.

Oggi la persona vaccinata o guarita dalla Covid, se entra in contatto stretto con un soggetto positivo, deve stare 7 giorni a casa in quarantena precauzionale (altrimenti detta fiduciaria). In realtà non sono 7 giorni perché le Asl sono intasate e non vengono a controllarti neppure dopo 10 giorni. Un delirio, altro che “modello Italia”. Per i lavoratori dipendenti nessun problema, per quelli autonomi sono dolori.

Dopo l’entrata in vigore del decreto di ieri sera, la quarantena precauzionale – in caso di contatto stretto con soggetto risultato positivo - non si applicherà più ai vaccinati con due dosi e ai guariti dalla Covid nei 120 giorni (4 mesi) successivi al completamento del ciclo vaccinale o dalla guarigione. Medesimo discorso ovviamente anche per chi ha fatto la terza dose.

Unico obbligo sarà indossare la mascherina ffp2 nei 10 giorni successivi al contatto stretto e sottoporsi a tampone antigienico rapido o molecolare solo se si avvertono i sintomi della malattia. Una misura oggi addirittura controproducente. Il Ministero della Salute ha infatti emanato pochi giorni fa un’ordinanza che ha ridotto la tempistica da 5 a 4 mesi per poter fare la terza dose.

Viste le nuove norme sulla quarantena, chi si trova oggi al quinto o sesto mese dalla seconda dose è corso – gioco forza – a prenotare il booster, con un intasamento che sta creando appuntamenti molto in là col tempo. Ciò determina, per decine di milioni di persone, la mancata copertura per diverse settimane dallo scudo offerto dalla nuova disciplina sulle quarantene. Ma vi è di più i ritardi nella somministrazione della terza dose stanno causando molti morti anche tra i vaccinati.

Governo e comitato tecnico-scientifico navigano a vista e sono costretti ad assumere e modificare decisioni ogni settimana, e questo è un segno di incompetenza. Rafforzare ulteriormente il green pass per punire i non vaccinati è solo un segno di impotenza. Con Omicron il virus si è trasformato in una banale influenza. No, non sarà merito di queste assurde misure se l’”ospite indesiderato” se ne andrà, se ne andrà perché anche le pandemie naturalmente finiscono.

Energia Pulita - Il caro bolletta si può combattere con la diffusione degli impianti fotovoltaici con accumuli su tetti di case e aziende, ma anche sui terreni privi di vincoli paesaggistici e ambientali. Draghi, lo stregone maledetto/vile affarista è stato messo a conoscenza ma lui non risponde alle comunità italiane ma solo agli avvoltoi della finanza internazionale. Certamente non può essere il garante della Costituzione

30 Dicembre 2021 
Come combattere ora e in futuro il caro energia? Le proposte di Italia Solare
L'associazione apre anche le porte a un limite per il prezzo di vendita delle energie rinnovabili. Sintesi della lettera inviata al premier Mario Draghi.


Italia Solare entra nel dibattito sul caro energia che sta colpendo il nostro Paese, con una lettera inviata al premier, Mario Draghi.

L’associazione spiega come e perché bisogna ridimensionare il ruolo del gas per investire sempre di più su eolico e fotovoltaico, e dove apre le porte alla possibilità di introdurre (a determinate condizioni) un limite al prezzo di vendita delle energie rinnovabili.

La lettera, infatti, si aggancia alle recenti dichiarazioni di Draghi sui “profitti fantastici” dei grandi produttori e venditori di energia, chiamati ad aiutare il resto delle famiglie e delle imprese (si veda: Draghi vuole tassare i “profitti fantastici” delle rinnovabili?).

Il riferimento del premier è alla parte di elettricità prodotta dagli impianti idroelettrici e dalle altre fonti rinnovabili (eolico, fotovoltaico), venduta al prezzo del gas grazie al meccanismo del prezzo marginale. Questo meccanismo prevede che siano gli impianti fossili, con costi di generazione più alti, a fissare le quotazioni finali di vendita sul mercato spot giornaliero.

Secondo Italia Solare (neretti nostri nelle citazioni), “servono interventi anche forti per calmierare i prezzi nel breve termine, ma non ci si può sottrarre dalla necessità di attuare anche interventi strutturali, volti a evitare in futuro nuove crisi di prezzi come quella che stiamo vivendo”.

Si raccomanda, innanzitutto, di non commettere lo stesso errore fatto dal governo Renzi, “che nel 2014 intervenne tagliando gli incentivi del Conto Energia con effetti spesso molto pesanti sui piani economici di molti proprietari di impianti e sulla credibilità italiana verso gli investitori nazionali e internazionali”.

I produttori di energia rinnovabile che non hanno bloccato il prezzo di cessione stanno ricevendo prezzi molto superiori al passato, evidenzia la lettera, ma va anche ricordato che lo scorso anno, i prezzi di vendita per diversi mesi sono scesi a 25-35 euro/MWh. Non si deve quindi pensare che gli alti valori di queste ultime settimane, “pure invernali e quindi con produzioni solari più limitate, rappresentino un riferimento significativo”.

Per Italia Solare è corretto pensare a un provvedimento di partecipazione alle difficoltà del Paese, “se legato solo ed esclusivamente a un limite al prezzo di vendita dell’energia rinnovabile (di sicuro non inferiore a 100 €/MWh), per poter utilizzare le somme eccedenti per calmierare le bollette, esentando da tale provvedimento gli operatori che hanno contrattato a prezzo fisso la propria energia. Correttezza vorrebbe che si tenga conto dei ricavi perduti, per restituirli magari tramite una proroga del periodo di incentivazione del Conto Energia”.

Tale limite ai prezzi di vendita potrebbe valere per il primo semestre del 2022, con un impegno a ridiscutere la situazione, per un’eventuale proroga del provvedimento, tra aprile e maggio 2022.

Un intervento così forte, però, per Italia Solare sarebbe accettabile solo se abbinato ad altre due azioni: la prima è richiedere uno sforzo a tutti gli attori della filiera energetica, da chi produce, distribuisce e vende i combustibili fossili a chi produce, distribuisce e trasmette energia elettrica.

Chi estrae e commercializza i combustibili fossili, a cominciare da Eni, sottolinea la lettera, “sta facendo extra profitti molto significativi che andrebbero limitati alla pari o anche più di chi produce energia da fonti rinnovabili. Trattandosi pure di una partecipata dallo Stato ci aspettiamo che il governo richieda un atto di responsabilità anche a Eni”.

La seconda condizione è una “accelerazione straordinaria” nello sviluppo delle rinnovabili. In che modo?

Il modo “più rapido, efficace ed economico, per ridurre in modo strutturale le bollette di famiglie e imprese, è spingere al massimo la diffusione degli impianti fotovoltaici con accumuli su tetti di case e aziende, ma anche sui terreni privi di vincoli paesaggistici e ambientali”.

Si suggerisce, in particolare, di attuare al più presto un credito di imposta (con valori più alti in presenza di amianto da bonificare), per gli impianti su tetti commerciali e industriali, che non si stanno diffondendo come servirebbe. Mentre per gli impianti a terra occorre sbloccare urgentemente gli iter autorizzativi.

Un altro provvedimento, che consentirebbe agli italiani di ridurre considerevolmente le bollette, è il ricorso ai prezzi dinamici, che consentono di pagare un prezzo dell’energia variabile nelle ore della giornata, in funzione dei costi di produzione, costo che nelle ore diurne è molto basso, grazie alle rinnovabili e in particolare al fotovoltaico.

È il meccanismo di demand-response, già in vigore in altri paesi europei: in questo modo gli italiani sposterebbero i loro consumi nelle ore in cui l’energia costa meno. Per una fabbrica, “visti i costi energetici ora raggiunti, una simile opportunità farebbe la differenza tra rimanere aperti o chiudere“.

Fondamentale anche “promuovere con urgenza e senza rallentamenti burocratici la possibilità per i cittadini di aggregarsi per fare, almeno con riferimento alle ore di maggior produzione rinnovabile della giornata, acquisti pluriennali a prezzo fisso di energia rinnovabile, con meccanismi che garantiscano gli aggregatori e i traders rispetto al rischio di recesso dei cittadini”.

In definitiva, afferma Italia Solare, “l’aumento della potenza fotovoltaica ed eolica installata, in gran parte abbinata agli accumuli, è l’unica modalità, immediatamente disponibile e veloce, per tamponare e attutire il disastro ambientale, economico e sociale collegato alla crisi energetica che stiamo vivendo”.


L'impareggiabile duo Macron-Draghi, lo stregone maledetto/vile affarista ci stanno preparando con il Mes un piattino avvelenato a tutti noi italiani. Auguri di fine anno e (in)felice anno nuovo. Attenti ai risparmi attenti ai risparmi attenti ai risparmi

Toh, chi si rivede… Il Mes, in piena pandemia


Un sistema sociale subordinato al “mercato” e agli interessi privati è un sistema inchiodato. Sterile, senza visione, incapace di progettare. Ma cerca di apparire l’opposto (decisionista, autorevole, lungimirante).

La riprova – l’ennesima – l’abbiamo in questi giorni, quando ad un aumento vertiginoso dei contagi (e sostanzioso anche nelle morti, nonostante i vaccini) si cerca di rispondere con la riduzione dei tempi di quarantena (una sostanziale abolizione) per contagiati, guariti, “venuti a contatto con contagiati”.

Una resa all’incapacità di contenere la pandemia, in nome della “necessità di non bloccare l’economia”.

In altre parole: accada quel che deve accadere, muoia chi deve morire, ma qui bisogna continuare a produrre. Inutile far notare che questo significa far dilagare il virus, favorire l’insorgere di “varianti”, bloccare comunque massicciamente la produzione nel momento in cui milioni di febbricitanti comunque dovranno restare a casa.

Inutile far notare che per molte attività – turismo, ristorazione, spettacolo, cultura, alberghiero, ecc – comunque è già venuta a mancare “la clientela” (perché malata o terrorizzata). E che, quindi, più si va avanti così più si blocca quell’economia che si vorrebbe salvare.

Un sistema asservito agli interessi privati ragiona sui tempi brevissimi, più spesso sul passato, mai su prospettive e conseguenze. Don’t look up!

La stessa cosa accade con il debito pubblico di tutti gli Stati, cresciuto enormemente – e giustamente – proprio a causa della pandemia. Logica vorrebbe che questa massa di debito “eccezionale”, dovuta a ragioni extra-economiche e non a “colpe” di tizio o caio, venisse gestita con criteri altrettanto eccezionali; una tantum, se non altro.

Manco per idea.

A livello dell’Unione Europea – il vero “governo” con cui dobbiamo fare i conti – si sta pensando invece di gestirlo con le regole già esistenti, appena modificate con quel tanto di “pragmatismo” che l’eccezionalità richiede.

L’analisi puntuale di questa intenzione, che si va già già traducendo in disposizioni operative, viene fatta da Guido Salerno Aletta su TeleBorsa. E parte proprio dall’inusuale lettera a quattro mani di Draghi e Macron al Financiale Times (invece che in una sede istituzionale).

Il problema da affrontare è effettivamente enorme: la massa di debito, vecchio e nuovo, che grava sugli Stati. Va ricordato che la crescita abnorme del debito è diretta conseguenza della decisione (presa nel 1981, per quanto riguarda l’Italia) di impedire alle banche centrali nazionali (e poi anche alla Bce) di comprare titoli di stato del proprio paese già all’atto dell’emissione.

In questo modo, anziché realizzare la “virtuosa” riduzione della propensione statale a far debiti e dunque “costringerli” a ridurre la spesa pubblica, si sono resi gli Stati dipendenti dai finanziamenti privati da reperire sul mercato finanziario, concorrendo tra loro con tassi di interesse più alti.

Non stranamente, questo “divieto” è stato in parte aggirato con l’esplosione della crisi del 2007-2008, da cui l’Occidente non si è mai effettivamente ripreso. Il quantitative easing della Bce (e della Federal Reserve Usa), al di là delle chiacchiere, si è concretizzato esattamente nell’acquisto di titoli di stato, oltre che di titoli privati “deteriorati”, ossia pressoché privi di valore.

In questo modo, però, la Bce – per la parte europea – si è riempita di titoli che ora deve in qualche modo smaltire, aumentati peraltro dal “debito pandemico”. Un repulisti che si può fare in molti modi, decisamente diversi tra loro. Sia nello stabilire chi ci rimette e chi ci guadagna, sia nel peso che possono avere sullo sviluppo stesso dell’economia.

Il modo più malsano è quello di passare questa massa di debito dalla Bce al Mes, il cosiddetto “fondo salva-stati” cui nessun paese vuol far ricorso perché implica “condizionalità” tali da legargli le mani per sempre.

E quindi è proprio questa la “soluzione” per cui propendono i soliti e molto presunti paesi “virtuosi” d’Europa (Germania, Olanda, ecc).

Questo ritorno in grande stile del Mes – era scomparso dagli schermi un anno fa, quando Renzi e altri pretendevano che vi facesse ricorso il governo Conte II, ma non se ne parlò più non appena Mario Draghi entrò a Palazzo Chigi – è il ritorno feroce della peggiore austerità.

Aggravata, in questo caso, perché le condizionalità proprie del Mes si andrebbero a sommare con quelle del Pnrr – 528, tra “riforme”, “impegni”, ecc – e con le rigidità insostenibili previste dal Fiscal Compact (tagliare il debito pubblico del 5% annuo per 20 anni, in modo da portarlo al 60%; che è poi, curiosamente, il livello del debito italiano quando, nel 1981, si decise di separare la Banca d’Italia dal ministero del Tesoro per… ridurre il debito!).

Per la parte analitica vi lasciamo al testo di Salerno Aletta. Il giudizio politico più generale è quello da cui siamo partiti: un sistema sociale subordinato al “mercato” e agli interessi privati è un sistema inchiodato. Sterile, senza visione, incapace di progettare.

Che si scava la fossa mentre dichiara di voler decollare…

Buona lettura.


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La Nuova Troika: MES, PNRR, Fiscal Compact
Guido Salerno Aletta – Agenzia Teleborsa

Tutto è cominciato con la lettera a doppia firma al Financial Times del Presidente francese Emmanuel Macron e del Presidente del Consiglio italiano Mario Draghi, in cui si auspicava una profonda revisione delle regole europee in materia di disciplina fiscale, visto che quelle contenute nel Fiscal Compact si sono dimostrate per un verso oscure e complesse e per l’altro inefficaci a sostenere la crescita economica.

Inutile dire che queste critiche alla eccezionale severità imposta ai bilanci europei sin dai tempi del Trattato di Maastricht che risale al 1992, cioè a trent’anni fa, arrivano tardi, solo dopo l’ennesima crisi economica sistemica determinata dalla epidemia di COVID-19, dopo quella globale che si era già scatenata a partire dal 2008 a seguito del fallimento della Lehman Brothers.

Ora non è il momento di recriminare: bisogna guardare avanti, e considerare congiuntamente i seguenti dati:

I debiti pubblici europei sono aumentati a dismisura, di circa il 20% in rapporto al PIL, in modo pressoché omogeneo in tutti i Paesi, per via delle spese adottate per sostenere le famiglie e le imprese durante le fasi più dure della pandemia. L’Italia è arrivata nel 2021 ad un rapporto debito/PIL pari al 159,8%, la Francia ad oltre il 120%: l’obiettivo di ridurre questa percentuale al 60% in 20 anni, al ritmo del 5% l’anno come è prescritto dal Fiscal Compact è irraggiungibile. L’Italia dovrebbe ridurlo quindi del 5% l’anno, una percentuale quasi tripla rispetto a quella della crescita economica: per raggiungere questo obiettivo si dovrebbe imporre ogni anno una imposta patrimoniale, saccheggiando i risparmi.

La BCE, già sul finire del 2019, aveva ripreso gli acquisti di titoli pubblici (PSPP) sulla base del Quantitative Easing che era stato sospeso a fine dicembre 2018. Alla fine di novembre scorso, le detenzioni di titoli pubblici sono ammontate complessivamente a 2.618 miliardi di euro. Per i principali Stati dell’Eurozona, le detenzioni sono le seguenti: Germania 632 miliardi, Francia 512 miliardi, Italia 430 miliardi, Spagna 304 miliardi, Belgio 91 miliardi.

In totale, a fine novembre, la BCE ha detenzioni di titoli pubblici dell’Eurozona per 4.116 miliardi di euro. Ipotizzando un PIL nominale nel 2021 pari a 12 mila miliardi di euro, si tratta dunque del 34%.

Per quanto riguarda l’Italia, la BCE ha in portafoglio titoli pubblici per 651 miliardi: considerando che il PIL nominale del 2021 dovrebbe essere di 1.779 miliardi, si tratta di una percentuale pari al 36%. Se si tiene conto che ad ottobre scorso il debito pubblico complessivo dell’Italia è stato pari a 2.710 miliardi, ne deriva che la BCE ne detiene il 24%.

Dagli esperti di Palazzo Chigi e dell’Eliseo viene ora lanciata una proposta, volta a dare una sistemazione a queste enormi detenzioni da parte della BCE di debiti pubblici “pandemici”: in un periodo pluriennale, tra il 2022 ed il 2026, dovrebbero essere ceduti al MES, il Fondo Europeo Salva Stati.

Per l’Italia, al ritmo di 68 miliardi di euro l’anno, si tratta di un totale di 340 miliardi. E’ una somma pari al 19,2% del PIL, in pratica al maggior debito pubblico contratto per contrastare gli effetti della pandemia naturalmente, la cessione riguarderà, con modalità pressoché analoghe, i debiti pubblici “pandemici” di tutti gli altri Stati dell’Eurozona.

Questa proposta mira a sgravare la BCE, e dunque la politica monetaria, dalla gestione di questa immensa mole di debiti pubblici che deve invece rispondere alla politica fiscale (potrebbe anche essere annullati con una detenzione all'infinito, nessuno lo proibisce e in questo modo non si impoveriscono le popolazioni, è solo una scelta politica che non deve dar conto a nessuno se non agli avvoltoi della finanza che girano volteggiando in cielo in attesa che i vivi muoiono e diventano carogne da mangiare).

In pratica, il MES comprerebbe dalla BCE i titoli di Stato “pandemici” che ha in portafoglio emettendone sul mercato di nuovi, per un importo corrispondente, avendo la caratteristica di debito comune europeo, e dunque di safe asset, il risparmio nell’onere degli interessi sarebbe consistente, soprattutto per Paesi come l’Italia.

L’Idea è pericolosa per tre motivi:

Si pianifica un tapering micidiale, (una riduzione della liquidità dei mercati) senza tener conto delle tensioni inflazionistiche in atto e dell’andamento dello spread che già sta penalizzando i titoli italiani sin dallo scorso inverno. Infatti, mentre nel progetto si dichiara di voler sgravare la politica monetaria di una incongrua incombenza, al contrario si interferisce con la politica monetaria della BCE.

Infatti, visto che la BCE cederà al MES i titoli che ha in portafoglio, dovrà ottenere in cambio la liquidità corrispondente al loro valore, liquidità che a sua volta il MES deve ricevere dal mercato: questa è una stretta monetaria in piena regola.

Per evitare la stretta monetaria, la BCE dovrebbe a sua volta “prestare liquidità” al MES: e potrebbe farlo solo comprando i nuovi titoli emessi dal MES che hanno come sottostante i titoli di Stato nazionali che la BCE gli ha appena venduto. Un inutile pasticcio.

L’Italia non ci guadagnerebbe affatto dalla emissione di titoli da parte del MES, su cui si dice che pagherebbe un tasso inferiore rispetto a quello che grava sulle proprie emissioni, anzi ci perderebbe assai.

Bisogna precisare infatti che, per evitare che un default del debito di uno Stato gravi sulla BCE e quindi su tutti gli Stati dell’Eurozona, i titoli acquistati per ragioni di politica monetaria dalla BCE sono iscritti come attività nel conto del patrimonio dalla Banca d’Italia, che opera in nome e per conto della BCE.

E’ la Banca d’Italia ad essere creditrice del Tesoro, e dunque a sopportare le perdite per un eventuale default; ed è sempre la Banca d’Italia che retrocede annualmente al Tesoro l’ammontare degli interessi incassati sui titoli che ha in bilancio, al netto delle spese di gestione e negoziazione.

Invece, il MES restituirebbe agli Stati solo la differenza tra gli interessi pagati dagli Stati al MES sui titoli pubblici che il MES ha comprato e gli interessi pagati al mercato dal MES sui titoli di propria emissione.

Ben diversa era la proposta formulata tempo fa da Paolo Savona, secondo cui l’accordo multilaterale per la stabilizzazione dei debiti pubblici eccessivi doveva essere fatto direttamente tra gli Stati interessati ed il MES: in questo caso, a fronte di idonee garanzie, i singoli Stati avrebbero potuto cedere al MES la propria posizione debitoria sui titoli già emessi, ed il MES ne avrebbe emessi di propri ritirando dal mercato quelli già emessi dagli Stati.

Essendo di migliore qualità e di minor rischio in considerazione dell’emittente, i nuovi titoli avrebbero pagato interessi inferiori a quelli dei singoli Stati. Questa proposta, flessibile e modulare, era stata elaborata prima di dar vita al PNRR e non andava ad incidere sulla liquidità e dunque sulla politica monetaria: era sostanzialmente uno swap tra titoli con diverso grado di rischio.

Se passa questa proposta, oltre ai vincoli alla politica fiscale del futuro Fiscal Compact ed agli impegni già assunti per ottenere i prestiti del PNRR, l’Italia dovrà fornire altre garanzie al MES.