21 MAGGIO 2021
Il corno d’Africa è una delle regioni più geostrategiche del continente, trattandosi di una naturale testa di ponte in grado di proiettare chi vi risieda verso una moltitudine di direzioni, quali Aden, Africa centro-meridionale, Arabia, Egitto, Mar Rosso, oceano Indiano e Suez. Il possesso di un avamposto nel Corno, terra conflittuale ma nodale, è una garanzia di ritorno economico, anche immediato; questo è il motivo alla base della centralità da esso rivestita nell’ambito delle tre corse all’Africa: quella ottocentesca, quella guerrafreddesca e quella attuale.
Oggi, rispetto al passato, il Corno ha cessato di essere un protettorato informale italiano, e a latere europeo, assumendo la forma di una trincea nella quale si incontrano e scontrano le principali potenze eurasiatiche, in primis
Turchia,
Cina,
Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, e che nei tempi recenti è stata allargata con il ritorno in loco di un vecchio giocatore: la Russia.
I russi in Etiopia
La presenza russa nel Corno d’Africa è di gran lunga antecedente all’intromissione guerrafreddesca dell’Unione Sovietica nel continente nero in chiave antioccidentale. I primi contatti tra la Russia e l’Etiopia, ad esempio, che si debbono alla vena ecumenica dei chierici e dei mercanti-navigatori, risalgono al quindicesimo secolo. E nell’attuale Gibuti – casa di basi militari di Cina, Francia, Germania, Giappone, Italia e Stati Uniti e prossimamente anche dell’Arabia Saudita –, i russi tentarono senza successo di costruire la “Nuova Mosca” nel 1889, dando vita alla breve epopea coloniale di Sagallo.
Russa l’artiglieria da montagna che avrebbe aiutato gli etiopi a sconfiggere l’esercito italiano ad Adua nel 1896 e sovietiche le armi che avrebbero aiutato la giunta militare socialisteggiante del Derg a sorreggersi fra il 1974 e il 1987; quello fra Mosca e Addis Adeba è un rapporto cordiale e fondato su basi tanto storiche quanto identitarie – il fattore ortodossia – che negli anni recenti è stato rinverdito grazie all’apporto di nuova linfa vitale.
Oggi come in passato, commercio e fede contribuiscono in maniera determinante al mantenimento in salute del sodalizio fra Mosca e Addis Adeba, come dimostrano i periodici incontri fra chierici russi ed etiopi, nella stessa maniera in cui le vendite di armamenti vengono giustificate nell’ottica della difesa dalle aggressioni, sia di origine interna (civile) sia di origine esterna (imperialismo).
Tra Sudan e Kenya
Il lancio del vertice Russia-Africa e il protagonismo diplomatico non hanno impedito alla Russia di sperimentare direttamente le implicazioni dell’entrata in ritardo nel paragrafo africano della competizione tra grandi potenze. Il Gibuti, ad esempio, il “posto al Sole di tutti”, dove persino il Giappone ha una presenza militare, si è lasciato vincere dalle pressioni provenienti dal Cremlino soltanto a metà:
sì allo Sputnik V, no ad una base. Idem l’Eritrea: sì ad armi e mezzi militari, no ad un avamposto fisso. E il Kenya, nonostante l’anelito di entrare nel club delle potenze del nucleare civile, non ha ancora avviato le pratiche per traslare il memorandum con la Rosatom dalla carta alla realtà.
La situazione non è meno complicata in Sudan, dove lo scorso novembre, al termine di tre anni di negoziati,
la Russia aveva ottenuto l’apertura di un centro logistico nell’area di Port Sudan. Un sito operativo ad uso e consumo esclusivi di Mosca, oggetto di una concessione venticinquennale (e rinnovabile), in cambio di armamenti, strumentazione militare e un sistema di difesa aerea. Un affare ampiamente (e giustamente) pubblicizzato, che, se realizzato, consentirebbe alla Russia di avere una presenza in una delle aree-chiave del globo,
dove transita il 13% del commercio mondiale. Un affare che, però, a fine aprile è stato sospeso dalla parte sudanese e sul cui fato, oggi, aleggia lo spettro dei precedenti eritreo e gibutiano.
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