L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 9 gennaio 2021

Prendiamoci in giro!

L’America anticipa ciò che potrebbe accedere in Italia

ANGELO SANTORO DEL 7 GENNAIO 2021IL FONDO

In America si stanno consumando anni di rancore e di rabbia contro la classe dirigente che ha speculato sul ceto medio dopo la caduta della Lehman Brothers; un po’ quello che anni dopo è successo in Italia con lo scandalo di Banca Etruria, seguito successivamente dalle banche venete, il Monte Paschi, CARIGE e altre. Una mattanza di risparmiatori, famiglie, commercianti e piccole imprese senza precedenti nella storia recente.
Donald Trump arriva e riscatta l’orgoglio americano piegato e mortificato dai Paesi d’Oriente, la disoccupazione si placa e il riscatto economico è compiuto.
Potrei dire che in mezzo alla rabbia si è inserita la violenza, ma evito di incendiare gli animi di quanti si sentono penalizzati da una democrazia ingiusta in tutto il mondo; fateci caso, le persone che insorgono e gridano ‘fermate i rivoluzionari’ sono i garantiti, non c’è il ceto medio che urla scalmanato allo scandalo, ma quegli odiosi radical chic, primi della classe, veri promotori della protesta americana. Una protesta americana che, come è spesso successo, presto potrebbe arrivare anche in Italia, anche se per ragioni diverse.
Il mondo ha sempre avuto necessità di un capro espiatorio per giustificare ogni nefandezza, in questo caso si voleva la testa di Donald Trump sin dal giorno della suo insediamento alla Casa Bianca. Poi, i successi economici hanno raffreddato le bollenti pulsioni di impeachment ciclostilate sulla testa del Presidente americano che, diciamo la verità, ci ha politicamente giocato per preparare il suo secondo mandato presidenziale; una campagna elettorale, però, che ha trovato sulla strada il Coronavirus e soprattutto l’incapacità dello stesso Presidente, non solo di contrastarlo, ma di deriderne il pericolo con battute da “bullo”.
Ma ormai il povero Biden aveva già vinto quelle primarie DEM che, in quel momento, lo immolavano come perdente nello scontro elettorale contro un Presidente in carica che stava cercando di modellare una democrazia tutta sua.
D’altronde che le democrazie d’Occidente siano in difficoltà non è un segreto, così come non è un segreto che gli osservatori più acuti guardano con interesse, o stanno studiando, quelle di Erdogan o di Putin.
Ora, come successe dopo il drammatico episodio delle Torri Gemelle, utilizzato per frenare la libertà di movimento nel mondo in nome della sicurezza, per gli stessi motivi, quello che è successo nel Campidoglio di Washington , tempio sacro e simbolo della democrazia mondiale, sarà utilizzato perché le classi dirigenti del pianeta un po’ oligarchiche, si chiudano con i loro servi nei Palazzi, e dai palazzi imporranno regole ancora più restrittive per vivere in Occidente, magari guardando sul serio a Putin e a Erdogan. Grillo e Di Maio li escluderei, anche se volevano aprire il Parlamento italiano come una scatoletta di tonno…ma non si può mai dire!

li hanno lasciati fare, era il dito necessario per non guardare il possibile, probabile aumento dei tassi, la Luna. L'influenza covid pervenuta (montata) come il cacio sui maccheroni ha salvato, momentaneamente, stati e aziende zombi. Il terrore di pensare a monetizzare il debito li rende immobili ed inerti. L'alternativa e il sopraggiungere della violenza, quella vera

SPY FINANZA/ La bomba del debito che il sistema continua a costruire

Pubblicazione: 08.01.2021 - Mauro Bottarelli

Con l’emergenza Covid è stato evitato un duro confronto con il rifinanziamento del debito per molti Paesi. Un rischio più forte di quello corso a Capitol Hill

(Pixabay)

Mi scuserete, ma oggi quel minino sindacale di diplomazia e buone maniere che ancora tendo utilizzare nel mio lavoro, lo metto da parte. Sì, perché di fronte alla sceneggiata di quattro red neck con un bourbon di troppo in corpo, gridare al golpe significa farci il bagno nella malafede. Sguazzarci allegramente, alternando lo stile libero al dorso. Le armi? Signori, in alcuni Stati degli Usa portare una pistola equivale a mettere in tasca smartphone e portafoglio. Non è l’Italia, non l’Europa. E non è nemmeno quel concentrato di politically correct che risponde al nome di New York. È l’America, la terra della frontiera e della proprietà. Da difendere. Dove nessun Presidente democratico, nemmeno il più a sinistra, si è mai permesso di andare oltre a un blando rafforzamento dei NICS (National Instant Criminal Background Check System), i controlli federali sulla vendita delle armi: il Secondo Emendamento è l’unica legge che molti americani riconoscono. Piaccia o meno, trattasi della realtà.

I quattro morti? Una tragedia. Ma, mediamente, quel numero è il computo giornaliero – all’ora dell’aperitivo e infrasettimanale, si intende – in alcuni quartieri di Chicago o Cleveland o Detroit. Smettiamola con le indignazioni acchiappalike: se quel centinaio di scalmanati, talmente pericolosi nel loro intento golpistico da entrare al Campidoglio vestiti come i Village People o Napo Orso Capo (tanto per non dare nell’occhio), sono riusciti a fare irruzione nel tempio della democrazia Usa, è perché li hanno lasciati fare. Altrimenti, lo insegnano le manifestazioni di Black Lives Matter di questa estate, a quel palazzo non ti avvicini nemmeno. Salvo fare un’indigestione di piombo.

Serviva il teatrino finale, serviva la pantomima in chiave realista della Seconda guerra civile americana di Joe Dante, serviva l’atto di rottura per garantire a Joe Biden e all'ala repubblicana da sempre contraria a Donald Trump l’evento traumatico e in mondovisione per dar vita a una sorta di compromesso storico in salsa barbecue. La normalizzazione, per arrivare, necessita sempre di un atto prodromico traumatico. Sempre. E come da copione, il redento Donald Trump ha assicurato una transizione ordinata in vista del 20 gennaio, di fatto l’implicito e tanto agognato riconoscimento della vittoria di Joe Biden. Titoli di coda, luci in sala.

E poi, scusate, se per qualche ora la democrazia Usa è stata sotto assedio, addirittura a rischio golpe della destra più becera, come mai in contemporanea Wall Street chiudeva sui massimi e il Vix, l’indice della volatilità, restava placidamente a 26? Forse il caos fa bene ai mercati, come ricorda il vecchio adagio del comprare quando scorre il sangue per le strade? O non ci sono più i colpi di Stato di una volta, come per le mezze stagioni? Oppure ancora il fatto che Wall Street non sia crollata ha a che fare con la solita, ennesima coincidenza?

Mentre tutte le televisioni e i siti di informazione del mondo erano infatti totalmente focalizzati sul Campidoglio, fra gli strali isterici di chi gridava all’iconoclastia democratica, a poche centinaia di metri venivano rese note le minute della riunione della Fed del 15-16 dicembre. E sapete cosa si trovava all’interno di quel documento? Fra le altre, queste poche righe: A number of participants noted that… a gradual tapering of purchases could begin and the process thereafter could generally follow a sequence similar to the one implemented during the large-scale purchase program in 2013 and 2014. Insomma, alla faccia dei proclami relativi a tassi fermi come rocce fino alla fine del mondo, all’ultima riunione si è parlato di ipotesi di implementazione del programma di tapering del Qe come avvenuto nel 2013 e 2014, a fronte di una normalizzazione della situazione o di una ripresa più spedita del previsto. E come sia andata a finire sui mercati emergenti, quando Ben Bernanke abbozzò soltanto l’avvio di un processo di ritiro dello stimolo, lo ricordiamo tutti, vero? Taper tantrum, praticamente la creazione ex ante e a tavolino della crisi successiva. Insomma, madama Realtà è entrata a Palazzo. E sotto forma di vaccino, la Signora ha fatto finalmente capolino nella sala riunioni della Fed e ha timidamente ricordato a lor signori che la politica dello stampa che ti passa non può durare in eterno.

Come avrebbe reagito Wall Street, già appesantita da un Nasdaq azzoppato dalla doppia vittoria democratica in Georgia, a una notizia simile, se il rumore di fondo del golpe in atto a Washington non avesse coperto tutto? Rifletteteci. Direte voi, passata la buriana, ne prenderà atto? Certo. Ma partendo però da un presupposto politico decisamente diverso, come spiegavo nel mio ultimo articolo. E poi riflettete soprattutto su un altro paio di cose, la prima e fondamentale rappresentata in questa tabella, la quale ci mostra come senza il Covid staremmo vivendo in pieno nel poco gradevole scenario di una fusione fra il 2008 della crisi finanziaria e il 2011 dell’eurozona a rischio implosione per i debiti sovrani fuori controllo. A livello globale, però.


I calcoli di Bloomberg Intelligence parlano chiaro: quest’anno andranno a scadenza qualcosa come 13 triliardi di debito contratto nel post-Lehman Brothers, insomma il conto da pagare per la prima ondata di stamperia globale da crisi permanente. E guardate bene: la somma di rifinanziamento maggiore fa capo proprio agli Usa con 7,7 triliardi di debito, seguiti dai 2,9 triliardi del Giappone e poi a scendere i 577 miliardi della Cina, i 433 dell’Italia, i 348 della Francia e i 325 della Germania. E cosa sarebbe successo, se il Covid e l’allarme pandemia non avessero obbligato le Banche centrali a un intervento così massiccio da schiacciare quei costi di finanziamento spesso ridicolmente sotto zero? Un debt vortex, capace di fare danni. Ma danni veri. Default sovrani e ristrutturazioni forzate. E non della piccola Grecia, bensì dei big players. E invece, ecco come Gregory Perdon, co-chief investment officer alla Arbuthnot Latham ha commentato la situazione con Bloomberg: “Le ratio di debito dei governi sono letteralmente esplose, ma penso che, alla luce di quanto avvenuto da marzo in poi, le preoccupazioni di breve termine siano assolutamente risibili. Il debito è sostanzialmente leverage e, se non se ne abusa, rimane lo strumento più efficace per garantire il benessere e la crescita”. Certo, se non se ne abusa.

Ed ecco il parere di Steven Major, capo del centro ricerche sul reddito fisso di HSBC: “La realtà pratica e inconfessabile è che ormai livello di debito e tassi di interesse sono legati, questo perché la gran parte della nazioni sviluppate non possono più permettersi costi del denaro più alti dello zero”. Benedetto Covid, ci ha salvato dall’Armageddon! Certo, direte voi, è costato qualche milione di morti. Vero. E ognuno di loro rappresenta una tragedia. Vera e non la pagliacciata andata in scena al Campidoglio. Ma senza l’ennesimo calcio al barattolo del redde rationem con la realtà rappresentato dalla pandemia, siamo sicuri che tutte quelle nazioni avrebbero saputo affrontare le scadenze sul debito sovrano in maniera ordinaria e ordinata? Siamo sicuri che quella stessa America armata, una cui sparuta e colorita rappresentanza ha dato vita a un assalto al Parlamento degno di Ugo Tognazzi in Vogliamo i colonnelli, avrebbe accettato di colpo una politica di tagli draconiani, a fronte di scadenze obbligazionarie che avrebbero imposto lacrime e sangue e la fine del deficit strutturale? Siete davvero sicuri?

E nel relativamente piccolo ammontare della sua somma, il governo Conte – 1 o 2, poco cambia – come avrebbe gestito quei 433 miliardi di debito in scadenza su cui operare roll-on o pagamento? Avreste ancora la vostra pensione, tutta intera e puntuale nel suo bonifico? Avremmo evitato una bella incursione sui conti correnti, stile Giuliano Amato? Proprio sicuri? Lo so, la realtà è spesso cruda. Scomoda. Volgare nei modi e nei contenuti. E noi ormai siamo un esercito di palati fini, un battaglione di politicamente corretti che consulta il dizionario Boldrini-Italiano prima di rivolgerci a uno straniero, una donna o un gay, per timore di sbagliare approccio o articolo. Tutto vero. Però, vi invito a riguardare quei numeri (ufficiali e messi in fila da Bloomberg Intelligence, non da un blog di complottisti) e pensare davvero quanto vicini siamo andati questa volta alla resa dei conti per gli azzardi morali del debito passato. Il conto di Lehman Brothers rischiava di farci andare in bancarotta con quasi quindi anni di ritardo. E ora?

Ed ecco la seconda criticità: ora quanto debito ulteriore si stanno caricando sulle spalle i governi, in ossequio a una lotta al Covid che appare sempre di più – i realtà – una lotta contro i creditori? Poco importa, altro calcione al barattolo. Ne riparleremo fra dieci anni. Magari di più, stante l’allungamento della vita media delle emissioni garantito dalle Banche centrali. Ma prima o poi, la strada finisce. E il barattolo, sbattendo contro il muro, poi ci planerà diretto sui denti. E quel giorno – più vicino di quanto pensiate, perché a forte rischio di spoiler attraverso la prossima correzione dei mercati azionari, spaventosa rispetto alle precedenti – il timore per la tenuta della democrazia non sarà rappresentato da un ragazzotto di Huntsville che si fa un selfie con la bandiera confederata nell’ufficio di Nancy Pelosi, fischiettando spavaldo Sweet home Alabama. Saranno i soldati schierati – questa volta sì, puntuali e armati fino ai denti – a difesa dei Palazzi del potere. Sarà la guerra civile quotidiana per non perdere tutto, per riuscire a sopravvivere. Sarà violenza, quella vera. E prima di usare la parola golpe, informatevi davvero fino in fondo. Magari scoprirete che dalle parti di Piazza Maidan, a Kiev, le brigate con le rune ancora ringraziano il neo-presidente Usa e il suo titolare di allora per l’appoggio gentilmente fornito nel 2014.

E' solo una questione di tempo, è vero che il tempo lo si può comprare, Ma TUTTI i nodi vengono la pettine

CAOS USA/ Trump, il furore e la profezia di Malcom X

Pubblicazione: 08.01.2021 - Paolo Valesio

La pace sarà molto fragile, perché come ogni avvenimento “storico” il giorno di Capitol Hill non è cominciato ieri e non finirà il 20 gennaio

Un seggio elettorale a New York City (LaPresse)

Di fronte allo scorrere del sangue, c’è una sola parola umana che si possa dire, prima di ogni altra: la parola “pace”; e occorre ripeterla – anche se è un’ovvietà – di fronte ai tragici avvenimenti del 6 gennaio, al Campidoglio di Washington. Ma parlare di pace non significa rinunciare all’analisi, limitandosi a far da velina alle dichiarazioni della Cnn e della “grande” stampa statunitense. “Pensare non è proibito”, come esclama la Carmen di Bizet rivolta all’ufficiale che l’ha arrestata. E il pensiero va seguito dovunque esso ci porti.

Nel turbine di lunghe (a volte vivaci) conversazioni telefoniche con amici americani, è emersa una visione degli eventi che si potrebbe definire (senza alcun desiderio di sminuirla) cospirazionista: come mai la polizia si è fatta trovare così impreparata, di fronte all’irruzione dei dimostranti? Domanda importante che resta aperta, e certo merita risposta; anche se bisogna dire che la polizia capitolina, o chi per essa, sembra essersi più che ripresa dalla sua debolezza iniziale. In ogni caso, questa visione dei fatti si concentra su ciò che è accaduto in quelle ore: una violenta, assolutamente condannabile, aggressione al Congresso degli Stati Uniti che stava pronunciandosi sulla legittimità delle elezioni.

Ma il problema della verità (più che il suo contrasto con la falsità) è che essa è inevitabilmente parziale rispetto al suo contesto. Chiunque abbia visto e udito buona parte del dibattito congressuale delle ore precedenti alla giornata della violenza sa che esso è stato duro (duro, ma non scurrile e non violento: parliamo, dopotutto, del Congresso degli Stati Uniti, non dell’arena di Montecitorio). La contestazione della trasparenza e della regolarità delle elezioni ha trovato largo spazio, e gli applausi che seguivano gli interventi sulle numerose, diciamo così, criticità sono stati più numerosi e convinti di quelli che accoglievano gli interventi a favore.

La popolazione ha percepito l’incertezza e l’imbarazzo di questo potere in via di insediamento: e ciò ha rafforzato lo slogan (chiaramente inesatto, ovvero iperbolico: ma quale slogan non è iperbolico?) delle elezioni “rubate”. Il presidente uscente – che ha continuato a essere avventato e spericolato anche quando era chiaro da settimane che il tempo di quegli impeti era ormai passato – ha tentato di cavalcare questa tigre, che invece l’ha buttato gambe all’aria; e la sua parabola politica sembra essenzialmente conclusa. 

Allora, finito il dies horribilis, non resta che spazzare i cocci e prepararsi al trionfo inaugurale? Beh, non funziona esattamente così; e non solo perché morti e feriti non sono cocci da buttare nella spazzatura o sotto il tappeto; ma perché quello che è successo è stato un evento storico, come del resto si è già detto e si ripeterà ampiamente. E, come ogni avvenimento storico (qui cominciano le distinzioni “delicate”), esso non è cominciato ieri, e non finirà il 20 gennaio. 

Quando, nel 1963, Malcolm X commentò l’assassinio di Kennedy con una vecchia frase popolare americana: “Le galline tornano al pollaio” (che in italiano equivarrebbe a “I nodi vengono al pettine”), la dirigenza del movimento politico-religioso a cui egli allora apparteneva gli vietò di parlare in pubblico per qualche mese, perché aveva ben colto la portata “sovversiva” di quell’allusione allo sfondo imperialista del mito kennediano. Ora, questi tumulti dell’inverno 2020 sono anche i figli dei tumulti della primavera ed estate dello stesso anno; ciò non giustifica il 6 gennaio, ma richiede una prospettiva più critica su tutto quello che era accaduto nei mesi precedenti. 

Ci troviamo sempre di fronte al fiume in piena della storia americana, per cui resta sintomatico il titolo del gran romanzo (poi divenuto film) di John Steinbeck del 1939, che in italiano suona Furore; e rende bene la parola centrale, ma non chiarisce il riferimento biblico del suo titolo completo: The Grapes of Wrath, che allude a una delle frasi più terribili di quel terribile libro che è l’Apocalisse: “L’angelo lanciò la sua falce sulla terra, vendemmiò la vigna della terra e rovesciò l’uva nel grande tino dell’ira di Dio. Il tino fu pigiato fuori della città e dal tino uscì sangue” (14, 19-20).

A volte noi dimentichiamo quanto forte, direi viscerale, sia la presa della religione sulla popolazione americana; dove un certo tipo di laicismo un po’ intellettualistico e un po’ supponente è assai meno diffuso che in Europa. Non si evoca, certo, questa coscienza religiosa (o subconscio religioso) come tale che legittimi il ricorso alla violenza; ma non si può sottovalutare la forza di questo oscuro sentimento di umiliazione e offesa.

La distinzione dunque non è primariamente fra i colti e gli incolti, come tanti alfieri dell’élite si compiacciono di ripetere. È fra due tipi di consapevolezza dei valori della vita: quella che ha gli strumenti per giungere a piena (a volte accondiscendente) coscienza; e quella invece che, non sapendo esprimere bene le sue credenze, sente tuttavia profondamente questi suoi valori, ed è pronta a entusiasmarsi per chi li enunci a voce chiara – non importa con quanto semplicismo e sommarietà.

La cerimonia inaugurale che si prepara sarà la più triste da molti molti anni, perché non ci si può rifiutare di vedere il suo sfondo sanguigno. Chi però continua ad aver fiducia negli Stati Uniti come grande Stato di diritto, sa che sono subito cominciate inchieste meticolose e decise su chi e come abbia sparato e ferito, anche a morte. Non è possibile prevedere i loro risultati, ma le conseguenze di queste inchieste marcheranno a fondo tutta la stagione politica che sta aprendosi; e questo è il fatto fondamentale che il chiacchiericcio televisivo di queste ore non può nascondere completamente.

“La pace è fragile, la pace è furtiva”, ha detto un pastore (Christian Kriegler) nel suo intervento del 13 dicembre 2018 alla cerimonia ecumenica tenutasi nella cattedrale di Strasburgo in ricordo dell’attentato terroristico al mercatino di Natale di quella città, due giorni prima (e sembra già storia antica …). Di fronte a quegli aggettivi tutti i discorsi di parata e di circostanza sulla Pace con l’iniziale maiuscola suonano un po’ falsi: una pace fragile e furtiva è l’unica pace in cui possiamo realisticamente sperare.

Io non sono Charlie Hebdo - La beffa dei mass media che NON si sono mai voluto fare domande sulle contraddizioni di quei fatti


Je suis Charlie Hebdo: 6 anni fa l’attentato, cosa è accaduto nel frattempo

-January 7, 2021


Il ricordo della strage che segno un prima e un dopo nella storia francese: a distanza di 6 anni e dopo la decapitazione del professore parigino che mostrò le vignette del giornale satirico cosa è accaduto?

Era il 7 gennaio 2015 quando due individui mascherati e armati fecero irruzione attorno alle 11 del mattino nella sede del giornale satirico Charlie Hebdo a Parigi. Nell’attentato – rivendicato dalla corrente yemenita di Al-Qaeda (o Ansar al-Sharia) – persero la vita 12 persone e ne rimasero gravemente ferite 11.


L’attentato di Charlie Hebdo: cosa accadde

Quella mattina gli estremisti di Al Qaeda presero come ostaggio una delle disegnatrici del giornale, Corinne Rey, costringendola con le armi ad immettere il codice per entrare nella sede. Una volta fatto breccia nella redazione aprirono il fuoco contro 12 dipendenti del giornale al grido di Allahu Akbar: fra le vittime il direttore Stéphane Charbonnie, vignettisti, giornalisti e alcuni poliziotti. Uno di questi ultimi era il responsabile della sicurezza del giornale, che morì sparato.

Il poliziotto ucciso fuori la sede del giornale

I due attentatori si danno alla fuga a bordo di una Citroën C3 nera: mentre sfrecciano fra le vie di Parigi all’altezza della Boulevard Richard-Lenoir incrociano un auto della polizia verso la quale aprono il fuoco, sparando alla testa e uccidendo un altro poliziotto prima di rubare il veicolo di un civile trovatosi lì per caso. Il governo francese mette in piedi un impianto giudiziario capillare in tutta la nazione per trovare i fuggivi; questi ultimi, che vengono rintracciati il 9 gennaio 2015: si sono barricati all’interno di una tipografia che viene immediatamente circondata dalle forze dell’ordine.


Nel frattempo, però, scatta un secondo allarme: è la mattina dell’8 gennaio e a sud di Parigi, nella città di Montrouge, il terrorista di origini maliane Amedy Coulibaly spara alla polizia uccidendo un’agente. Si saprà in seguito che il trentaduenne del Mali è legato ai fratelli Kouachi. L’uomo si da alla fuga e il giorno dopo, comprendendo che la polizia fosse sulle sue tracce, si barrica in un supermercato kosher Hypercacher presso Porte de Vincennes, a est di Parigi, dove prende in ostaggio 17 persone, dichiarando di rilasciarle solo a patto della liberazione dei fratelli Kouachi. Nell’attacco perdono la vita quattro ostaggi, di cui tre cittadini francesi di religione ebraica.


Alla fine, il 9 gennaio 2015 durante il pomeriggio mentre la polizia fa irruzione nella tipografia e uccide i responsabili della strage di Charlie Hebdo, le forze speciali entrano con la forza nel supermarket preso in ostaggio da Coulibaly e lo uccidono. 
Durante la condanna l’uccisione del professore

Il processo per la strage si è aperto all’incirca durante il mese di agosto 2020: una prova durissima per i sopravvissuti e i familiari delle vittime che hanno dovuto rivivere quei terribili momenti. Durante la fase del dibattimento vi sono stati altri due attacchi terroristici: a settembre l’accoltellamento di due persone vicino alla sede del giornale e ad ottobre, invece, in un vile attacco terroristico è stato decapitato un professore parigino, Samuel Paty, che aveva mostrato ai suoi alunni le vignette di Maometto in classe.


Alla fine, però, il 16 dicembre è arrivata la condanna ufficiale: 30 anni ad Ali Riza Polat, ritenuto il complice principale dei fratelli Kouachi e di Amédy Coulibaly. Tre degli imputati sono latitanti, fra cui Hayat Boumeddiene, vedova di Coulibaly, anche lei condannata a 30 anni, e i fratelli Mohammed e Mehdi Belhoucine: il primo è stato condannato all’ergastolo, mentre per il secondo sono state estinte azioni legali dato che è considerato deceduto.


Tecnologia ed innovazione - da qualsiasi parte ci si giri la Cina c'è

Cina: rete di comunicazione quantistica da 4.600 km
Sicura e stabile, combina collegamenti in fibra e via satellite

Xinhua
07 gennaio 202115:42NEWS

(ANSA-XINHUA) - HEFEI, 07 GEN - Alcuni scienziati cinesi hanno creato una rete quantistica integrata di comunicazione che combina 700 collegamenti in fibra e due a terra via satellite, realizzando un sistema di distribuzione a chiave quantistica tra oltre 150 utenti su una distanza complessiva di 4.600 chilometri.

Secondo quanto riportato nell'articolo, il sistema è costituito da quattro reti quantistiche metropolitane (in inglese: Quantum metropolitan-area network, QMAN), create a Pechino, Jinan, Hefei e Shanghai, da una dorsale in fibra che supera i 2.000 chilometri e da due collegamenti via satellite tra la stazione a terra di Xinglong a Pechino e quella di Nanshan nella Regione autonoma dello Xinjiang Uygur, situata a 2.600 chilometri di distanza. Inoltre, Xinglong è collegata in fibra anche alla rete quantistica metropolitana della capitale cinese.
Basate sulle leggi della fisica quantistica, le comunicazioni quantistiche garantiscono un elevatissimo livello di sicurezza.
E' praticamente impossibile mettere sotto controllo, intercettare o decifrare le informazioni trasmesse poiché lo stato quantistico di un fotone usato per trasmettere i dati lungo la fibra ottica "collasserebbe" in caso di intercettazione. (ANSA-XINHUA).

Ci hanno stuprato per anni con L'AUSTERITÀ ora sono diventati TUTTI sostenitori dei vantaggi dell'intervento pubblico anche quando finanziato con il debito. Assumere almeno un milione di giovani nella pubblica amministrazione è un investimento strutturale

Cosenza, 6 novembre 2020. (Ivan Romano, Getty Images)


Roberta Carlini, giornalista
7 gennaio 2021

Se Dante avesse dovuto scegliere un posto per gli economisti pentiti, forse li avrebbe messi nel Purgatorio. Di sicuro, oggi dovrebbero aumentarne la capienza per accogliere tutti i sostenitori dell’austerità fiscale che hanno cambiato idea in questi ultimi anni, rivalutando i vantaggi dell’intervento pubblico anche quando finanziato con il debito. Alla fine del 2020, il coro è stato guidato dalle due massime istituzioni internazionali che hanno dettato le regole del trentennio neoliberista, temporaneamente chiuso con la crisi del 2007-2008 e archiviato dalla pandemia: il Fondo monetario internazionale (Fmi) e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse).

Qualcosa di simile a dire il vero si era già visto dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime, con i salvataggi pubblici della finanza privata. Ma allora era uno stato di necessità e presto si è cercato di tornare al business as usual. Adesso c’è qualcosa in più, che potrebbe fare pensare a un cambio di paradigma.

Le ultime parole destinate a diventare famose le ha dette Laurence Boone, capo economista dell’Ocse, in un’intervista al Financial Times nella quale lancia un appello ai governi: per non ricominciare con l’austerità, continuate a spendere. Già l’ultimo rapporto dell’organizzazione lo aveva messo nero su bianco: “Le politiche dovranno continuare a sostenere fortemente l’attività economica, almeno fino alla fine dell’emergenza sanitaria”.

Su cosa puntare, cosa evitare
Il rapporto dell’Ocse, oltre a dare i numeri senza precedenti della recessione mondiale, riconosce che le politiche pubbliche per tenere vivi interi settori, imprese e lavori sono riuscite in qualche modo a moderare gli effetti negativi. Pur con differenti impatti a seconda delle diverse situazioni, “le lezioni degli ultimi nove mesi”, si legge, “dicono che quest’azione politica era e resta appropriata”.

Ora, cominciata la campagna di vaccinazione, non è il caso di interrompere il supporto pubblico, semmai si tratta di indirizzarlo meglio a coloro che sono stati più colpiti. Ci sarà tempo, quando la ripresa sarà consolidata, di assicurare la sostenibilità del debito. Ma la frase più importante è questa: “Il fatto che i vaccini sono in vista suggerisce che questo non è il tempo di ridurre il supporto, come è stato fatto troppo presto dopo la crisi finanziaria globale”.

L’inciso in corsivo (mio) implica un’autocritica. Anche nel 2008, di fronte a quella che era la più grave crisi dal dopoguerra nel mondo occidentale, gli stati intervennero, eccome. Ma subito dopo si tornò all'ortodossia dello stato minimo e del contenimento dei debiti pubblici mentre, notava lo stesso Fmi, la mole del debito privato mondiale continuava a crescere. La precoce stretta post-crisi fu particolarmente dura in Europa, sia nella politica monetaria (la Banca centrale europea prima di Draghi) sia in quella fiscale, strangolando le economie europee più fragili e portando al doppio capitombolo della crisi stessa, negli anni 2010-2011.

Non esiste una ricetta unica
Nell’intervista al Financial Times, Boone dice però qualcosa di più. Ricorda appunto che nel 2008 le politiche di stimolo fiscale si fecero, ma furono abbandonate troppo presto. Dobbiamo imparare da quella lezione, da tutti e due i lati dell’Atlantico, aggiunge, spiegando che i governi non devono porsi obiettivi numerici a breve termine di rientro dal deficit e dal debito. Di più, dobbiamo anche dimenticare che abbiamo in tasca un’unica ricetta che si adatta a tutti. Boone strappa così i due simboli di quelle istituzioni che lo stesso Financial Times definisce ”le cheerleader dell’austerity”. Ne esiste una terza, cioè la predominanza della politica monetaria: non è sano lasciare tutto il potere e il peso della politica di ripresa alle istituzioni monetarie, che non sono democraticamente elette e sono guidate soprattutto dalla preoccupazione sull’inflazione.

La politica monetaria ha un impatto sulla redistribuzione del reddito, anche se non è suo compito: tocca alla politica fiscale occuparsene, tanto più con l’allargamento della forbice tra ricchi e poveri che la pandemia sta aggravando, con il rischio di un forte aumento delle diseguaglianze sociali.

La pensano allo stesso modo al Fondo monetario internazionale, un’altra istituzione cardine del cosiddetto Washington consensus (la dottrina associata alla svolta degli anni ottanta, basata sulla stabilizzazione macroeconomica, le privatizzazioni, la deregulation e lo stato minimo). È interessante che anche in questo caso alla guida ci sia una donna, Gita Gopinath, la cui popolarità è uscita dai confini della politica e dell’accademia da quando Vogue le ha dedicato una copertina.

Nel Fiscal monitor pubblicato nell’ottobre 2020, l’Fmi insiste perché i governi non alzino il piede dal pedale della spesa pubblica, sottolineando in particolare il ruolo degli investimenti pubblici: prima della pandemia, vi si legge, nelle economie industrializzate si era assistito a una generale riduzione degli investimenti pubblici (come del resto richiesto dallo stesso Fmi, va aggiunto). Così, molte infrastrutture non erano più all’altezza dei bisogni. Adesso, si legge nel documento, bisogna dedicare capitali pubblici alle infrastrutture, in particolare quelle sanitarie, quelle per lo sviluppo digitale e quelle per la transizione ecologica.

L’eccezionale situazione sui mercati monetari, con tassi di interesse prossimi allo zero o negativi nelle economie avanzate e anche in parte di quelle in via di sviluppo, aiuta questo processo: il debito che si fa per finanziare gli investimenti pubblici è a basso costo e potrebbe restarlo per molto tempo. L’Fmi fa calcoli molto ottimisti su quello che si chiama il “moltiplicatore” degli investimenti: spendere l’1 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) in investimenti pubblici potrebbe portare, nelle economie industrializzate e in quelle emergenti, a creare sette milioni di posti di lavoro in maniera diretta e 33 milioni indirettamente, grazie all’indotto.

Boone e Gopinath, rappresentanti del nuovo keynesismo di questi anni venti, non sono sole. Un’altra intervista importante aveva inaugurato il nuovo corso, quella di Mario Draghi, che il 25 marzo 2020, dunque all’inizio della pandemia, chiamò alla mobilitazione contro il covid-19, facendo questa previsione: “Un debito pubblico molto più alto diventerà un carattere permanente delle nostre economie e sarà accompagnato da una cancellazione dei debiti privati”.

La svolta interessa università, centri di ricerca, pensatoi dei governi mondiali. E sia Boone sia Gopinath hanno alle spalle le loro potenti istituzioni, nelle quali il ripensamento delle vecchie ricette era già cominciato dopo la grande crisi del 2008. Allora si pensò che era solo una questione di sano pragmatismo: i salvataggi pubblici servono quando il privato ha bisogno, appena l’economia si rimette in piedi le caselle dell’ortodossia tornano a posto. Stavolta potrebbe essere diverso, e il ruolo pubblico non dovrebbe essere limitato a dispensare pietosi cerotti per le vittime più deboli o costosissimi salvataggi per i potenti. Si tratta di traghettare l’economia dal mondo pre-covid a quello post-covid, e per farlo i governi devono riappropriarsi degli strumenti del bilancio pubblico.

Gli ostacoli, a questo punto, non sono in un consenso cementificato e potente attorno ai vecchi schemi; né nella mancanza di risorse, data l’eccezionale disponibilità di denaro a buon mercato: con tassi di interesse pari a zero o negativi, e un tasso di risparmio salito a livelli record, i governi hanno buone possibilità di salvare le generazioni di oggi senza aggravare il debito di quelle future. Ma sapranno farlo? L’incomprensibile crisi politica in Italia, che fa venire in mente i poveracci di Miseria e nobiltà sorpresi a litigare attorno al tavolo improvvisamente imbandito mettendosi in tasca i maccheroni, non deve trarre in inganno, facendo pensare che sia una tragicommedia all’italiana. Le altre classi dirigenti non se la cavano molto meglio.

L’Europa ha avuto uno scatto di reni con il piano Next generation EU (stronzate, 30 miliardi l'anno per l'Italia e per sei anni), ma adesso si tratta di metterlo in pratica. I politici sono intrappolati nella logica del breve periodo e dei confini nazionali (se non regionali), hanno strumenti di politica pubblica arrugginiti, e spesso non hanno la minima idea di come usarli. E così ricorrono alle vecchie abitudini della contrattazione con gli interessi forti e i gruppi che hanno maggiore capacità di pressione. Tutto il contrario di quel che servirebbe: l’uso del bilancio ordinario, nel breve periodo, per redistribuire e tutelare gli interessi dei più deboli, di quelli più colpiti dalla crisi, e l’uso del debito straordinario per investimenti in beni pubblici nel medio e lungo periodo.

L'illusione degli euroimbecilli TUTTI è penosa


7 GENNAIO 2021

Amore, odio e sottomissione; sono questi i migliori termini con cui si potrebbe riassumere e condensare la natura dell’alleanza fra le due sponde dell’Atlantico. Quale che sia l’appartenenza politica dell’inquilino della Casa Bianca, in effetti, nei confronti dell’Europa è sempre una questione di alternare il bastone e la carota, dosandone il ricorso a seconda della contingenza.

È in errore, quindi, chi interpreta e legge l’imminente inizio dell’era Biden in termini di intervento provvidenziale a favore dell’unità del cosiddetto Occidente. Le origini di quella che si potrebbe definire la “rottura atlantica” antecedono l’ascesa di Donald Trump e possono essere ricondotte alle politiche di Bill Clinton all’epoca della disgregazione della Iugoslavia, de facto contrarie all’interesse europeo e funzionali a sfruttare l’instabilità nell’antica polveriera balcanica ad uso e consumo di Washington.

Non è stato Trump, del resto, ad avviare lo scontro a distanza con la Germania, nel quale è finita coinvolta anche la Francia, e ad imporre all’Unione Europea una rivisitazione globale della sua relazione con la Russia; il presidente uscente ha semplicemente proseguito una partita a scacchi iniziata dal predecessore, Barack Obama, con lo scandalo Dieselgate, le pressioni su Deutsche Bank e Bayer e l’acredine per la politica commerciale tedesca.

Coloro che credono fermamente nel fatto che Biden, che di Obama è stato vicepresidente e di Clinton ha guidato le azioni nella Iugoslavia in frantumi, lavorerà per sanare integralmente la rottura atlantica, hanno una conoscenza epidermica e imprecisa dei meccanismi che regolano la weltanschauung degli Stati Uniti, in particolare del suo rapporto con i cugini europei.

Odi et amo, in aeternum

Stati Uniti ed Europa, alleati, sì, ma non troppo: gli uni dovranno prevaricare sugli altri – sempre – per ragioni tanto pragmatiche, un sistema egemonico è tale fino a che il controllo è esercitato da una potenza in posizione di netta superiorità, quanto storiche, ovvero la memoria di due guerre mondiali scoppiate a causa di rivalità intra-europee e risolte mediante l’intervento salvifico americano.

La comunità euroatlantica non potrebbe esistere se le relazioni fra gli Stati Uniti e le potenze di riferimento del Vecchio Continente, come Francia e Germania, si reggessero su criteri di uguaglianza e parità: le contraddizioni e le divergenze, che neppure il processo di americanizzazione dell’Europa ha annullato totalmente, emergerebbero con forza e condurrebbero l’Occidente al collasso. Il presidente francese Emmanuel Macron, nella celebre intervista rilasciata a Le Grand Continent lo scorso 16 novembre, aveva espresso con chiarezza la validità senza tempo di tale scenario.

In un passaggio squisitamente geofilosofico e di grande rilevanza, Macron aveva affermato che “[noi europei] siamo proiettati in un altro immaginario, legato all’Africa, al Vicino e Medio Oriente, e abbiamo un’altra geografia, che può disallineare i nostri interessi. La nostra politica di vicinato con l’Africa, con il Vicino e Medio Oriente, con la Russia, non è una politica di vicinato per gli Stati Uniti d’America”.

Nella dottrina Macron, in breve, l’Europa è culturalmente parte dell’Occidente ma è geograficamente parte dell’Asia e, per esteso, dell’Eurafrasia; questo è il motivo principale per cui “è insostenibile che la nostra politica internazionale dipenda da loro [Stati Uniti] o che segua le loro orme”. Ciò che per l’Europa è una naturale e fisiologica politica di buon vicinato, per la Casa Bianca – e la storia lo dimostra continuamente – è un affronto punibile con sanzioni, ritorsioni diplomatiche e azioni unilaterali di danneggiamento e boicottaggio dell’agenda di Bruxelles.

Cosa attendersi da Biden?

La premessa iniziale si presta facilmente a distorsioni e misinterpretazioni, perciò è necessario spiegare che cosa potrebbe accadere fra le due sponde dell’Atlantico dal 20 gennaio 2021, giorno dell’inaugurazione dell’amministrazione Biden, al 2024. Il futuro presidente degli Stati Uniti è uno dei padrini del Partito Democratico, convinto appartenente alla scuola dell’internazionalismo liberale e sostenitore del multilateralismo.

Biden aveva preannunciato che, se eletto, avrebbe cessato il braccio di ferro con quelle organizzazioni internazionali realizzate da Washington all’indomani del secondo dopoguerra per costruire un ordine liberale americano-centrico, che sarebbe rientrato negli accordi di Parigi sul clima e che avrebbe posto fine alla peculiare linea trumpiana dell’amoreggiamento con gli autoritarismi e i populismi di destra.

Nel quadro della lotta al populismo di destra è altamente probabile che si assisterà ad una riduzione del supporto all’alleanza Visegrad, ragion per cui Diritto e Giustizia ha promesso di rivedere parte della propria agenda estera ed è possibile che Fidesz seguirà tale esempio, ma ciò non equivarrà automaticamente ad una fine del confronto con l’asse Parigi-Berlino. La questione Visegrad, per Biden, è puramente ideologica; il mantenimento dell’Ue in una condizione di subalternità rispetto agli Stati Uniti, invece, è un imperativo dal quale dipende l’idea stessa di pax americana. In breve, cambieranno i mezzi, ma il fine resterà immutato.

Il multilateralismo, e non l’uso strumentale dell’euroscetticismo, potrebbe essere l’instrumentum regni di Biden: richiamo all’unità, in realtà una coesione coercitiva, per prevenire, rallentare e ritardare la formazione della cosiddetta “autonomia strategica europea” caldeggiata da Macron. Questo tipo di multilateralismo è stato utilizzato più volte, e con successo, nella storia recente degli Stati Uniti: dalla “coalizione dei volenterosi” di George Bush Jr alla politica delle sanzioni antirusse di Obama.

Il multilateralismo non è (soltanto) un modo per dimostrare la tenuta e la solidità dell’Occidente, è anche uno strumento funzionale ad evitare che i cugini europei distanzino eccessivamente le loro politiche estere da quella della casa madre, ossia gli Stati Uniti. Il regime sanzionatorio antirusso, ad esempio, è stato ideato e implementato più per allontanare l’Ue, in particolare la Germania, dalla Russia che per punire le azioni di quest’ultima in Ucraina.

Il rapporto continuerà ad essere complicato

L’ascesa di Biden, in definitiva, non avrà delle ricadute particolarmente benefiche per l’Ue: la Germania continuerà ad essere oggetto di pressioni variopinte per via del suo potere economico e della necessità di impedire un asse con la Russia e con la Cina, la Francia vedrà evaporare i sogni di autonomia strategica europea a causa del rientro in scena del multilateralismo, e Paesi come Polonia e Ungheria potrebbero assistere ad un aumento dell’instabilità sociale e politica al loro interno.

Il tono dello scontro silenzioso fra le due sponde dell’Atlantico sarà meno acceso e visibile, avverrà lontano dai riflettori e sarà addolcito, o completamente ignorato, da quelle realtà dell’informazione e dell’analisi politica che non hanno compreso quanto profonda sia la rottura atlantica.

Biden, sicuramente, assumerà una postura più consona al ruolo, abbandonando lo stile volutamente irriverente del predecessore, e mostrerà anche una propensione maggiore al do ut des con gli alleati europei, ma non rappresenterà la panacea alle patologie che affliggono l’Occidente. La rottura atlantica, infatti, è un male cronico il cui superamento potrà avere luogo soltanto per completa americanizzazione dell’Europa, ovvero con la fine delle aspirazioni di autonomia di Berlino e Parigi, o per disaccoppiamento, ossia con la trasformazione dell’Ue in un blocco di potere a se stante e sufficientemente autonomo dagli Stati Uniti.

Le porcate per regalare ai privati il Monte dei Paschi di Siena. Ce lo dice l’Europa

Mps: regalo di Natale da 400 milioni dal Tesoro, grazie a Sace. Si cerca di spianare la strada a Unicredit

 8/1/2021 4:00:57 AM 

01/01/2018 Siena, piazza Salimbeni, sede della banca Monte dei Paschi di notte, la statua di Sallustio Bandini e l'albero di Natale - Luca Dadi / AGF

Il contratto con cui Sace si è impegnata a garantire un portafoglio di crediti “performing”, vale a dire non deteriorati, del gruppo Monte dei Paschi di Siena fino a 670 milioni di euro è stato siglato il 30 dicembre 2020. Tuttavia, comunicati stampa ufficiali non ne sono stati diramati e i dettagli dell’accordo sono stati svelati soltanto la sera del 5 gennaio 2021, con la pubblicazione del necessario documento informativo relativo a un’operazione di maggiore rilevanza con parte correlata.
Sì, perché Sace è controllata dal ministero dell’Economia (sulla carta le azioni sono ancora in mano alla Cassa depositi e prestiti, la maggioranza della quale è in ogni caso in mano al Tesoro, ma il decreto Liquidità ha già sancito il passaggio del controllo di Sace al ministero dell’Economia), il quale, a sua volta, esercita anche il controllo di diritto sul Monte dei Paschi, avendone una quota del 64,23% tra l’altro da dismettere entro la fine di quest’anno. “Ci si interroga sul futuro del Monte dei Paschi di Siena – ha detto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte in occasione della conferenza stampa di fine 2020 – perché la partecipazione in capo al ministero dell’Economia e Finanze deve essere dismessa entro il 2021. Ce lo dice l’Europa. Ci sono allo studio delle operazioni, il governo, il Mef in particolare le segue con discrezione ma con molta attenzione, è parte in gioco”.

30/12/2020 Roma, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte durante la conferenza stampa di fine anno – Ufficio Stampa / AGF

L’operazione, spiega il documento, “ha ad oggetto il rilascio, da parte di Sace, di una garanzia a prima richiesta su un portafoglio di crediti performing (…) per un ammontare massimo pari a circa 670 milioni, già presenti nei bilanci di Banca Mps e Mps capital services, rispettivamente per gli importi di 380 e 290 milioni”. Il documento fa sapere che per la banca senese l’operazione ha “l’effetto, nell’immediato, di liberare Rwa”, ossia attività ponderate per il rischio, “e, in chiave prospettica, di migliorare la capacità di garantire supporto all’economia italiana nel corso dei successivi 18 mesi”.

In pratica, con la garanzia di Sace, Mps “alleggerisce” il proprio bilancio liberando attività ponderate per il rischio con un impatto positivo che nel documento viene quantificato in 400 milioni circa: “La quota del portafoglio crediti oggetto di garanzia è pari ad un ammontare massimo di circa 520 milioni, a cui corrisponde una riduzione iniziale di Rwa, a livello consolidato, stimata pari a circa 400 milioni”. Dal punto di vista patrimoniale, aggiunge il documento informativo, “l’operazione avrà, nell’immediato, un impatto positivo sugli indicatori patrimoniali consolidati del Gruppo Bmps, per effetto della menzionata riduzione di Rwa sul portafoglio crediti, in virtù della ‘ponderazione zero’ applicata alla quota dei finanziamenti garantita da Sace”.

ROMA, settembre 2020, COMMISSIONE DI INCHIESTA SULLE BANCHE, AUDIZIONE DELL’AD DI BANCA MPS GUIDO BASTIANINI – PAOLO CERRONI Imagoeconomica

Mentre il documento informativo spiega l’obiettivo di “garantire supporto all'economia italiana” nel giro di 18 mesi con l’impegno preso dal gruppo senese guidato dall'amministratore delegato Guido Bastianini di “utilizzare un importo non inferiore alle risorse liberate”, ossia come visto 400 milioni, “per l’erogazione di nuovi finanziamenti destinati allo sviluppo dell’internazionalizzazione e allo sviluppo dell’economia italiana. Tale impegno, se non soddisfatto, comporterà un incremento del costo della garanzia Sace” avverte il documento informativo.

È vero che l’operazione per Mps ha un costo, che nel documento informativo non viene rivelato (si parla di una remunerazione da determinare “secondo la metodologia definita da Sace con logiche di pricing di mercato applicate a tutto il sistema bancario”), ma è altrettanto vero che, beneficiando Sace della garanzia di ultima istanza dello Stato, Mps può “applicare all’esposizione creditizia connessa al portafoglio crediti una ponderazione pari a zero, contribuendo a ridurre in maniera più efficace gli Rwa rispetto ad altre garanzie proposte da controparti bancarie che consentirebbero un minor impatto sulla riduzione di Rwa, non beneficiando della controgaranzia statale”.


In altri termini, grazie alla garanzia sui crediti di Sace arrivata a fine 2020, Mps ha potuto alleggerire il bilancio e rafforzare la situazione patrimoniale più di quanto avrebbe potuto fare con qualsiasi altra banca. Non a caso, è proprio questo uno degli elementi determinanti che hanno portato il comitato parti correlate della banca senese a concludere che l’operazione fosse vantaggiosa, tanto più che si inserisce in una fase particolarmente complessa per Mps.
L’istituto di Rocca Salimbeni, come comunicato il 17 dicembre, entro la fine di gennaio dovrà sottoporre alla Banca centrale europea il nuovo piano sul capitale (capital plan) che conterrà l’indicazione di un ammanco di capitale fino a 2,5 miliardi, oltre che ovviamente l’indicazione della strada che si intende perseguire per colmarlo. Nel frattempo, alla fine del 2020, la stessa Bce ha ridotto di 25 punti base i requisiti patrimoniali “Srep” (in gergo Total Srep capital requirement o Tscr) che Mps dovrà garantire per il 2021, portandoli al 10,75% degli attivi ponderati per i rischi, gli Rwa appunto diminuiti grazie l’operazione Sace.

Come emerso negli ultimi tempi, la strada maestra per colmare il “nuovo” buco patrimoniale è quella di una fusione con Unicredit. È per questo motivo che negli ultimi tempi ai piani alti della banca e del Tesoro suo primo azionista si sta lavorando per mettere a punto la complicata operazione che dovrebbe portare Monte dei Paschi all’interno del perimetro della seconda banca italiana, tra l’altro in cerca di un amministratore delegato dopo il recente annuncio delle dimissioni di Jean Pierre Mustier.
Un rebus difficile da risolvere, tanto per incominciare per il macigno da 10 miliardi di euro di contenziosi che pesa sul Monte e che condurrebbe Unicredit ad accettare l’operazione solo a fronte di una “dote” miliardaria, a carico ovviamente dello Stato. In questo senso, le recenti indiscrezioni circa la possibilità che la società del Tesoro Amco acquisti 14 miliardi di euro di crediti deteriorati di Unicredit e la notizia della garanzia di Sace a Mps sono solo due modi per sistemare due tasselli di un’operazione molto più ampia e complicata.

Stati Uniti - La finanza separata dalla realtà economica e un sistema di potere familistico rompono dall'interno la governabilità

Usa
Sapelli: «L'uscita di scena di Trump non basterà a cacciare i demoni della società americana»

Lorenzo Maria Alvaro 07 gennaio 2021

Per lo storico ed economista l'assalto al Congresso americano «non è solo l'esito del trumpismo, ha radici più profonde e drammatiche. Ha a che fare con la deriva finanziaria del sistema economico e con la gestione familistica del potere che sta spaccando l'establishment. È molto peggio del fascismo»

«La questione ha avuto una dilatazione mediatica al di là della sua dimensione reale», spiega lo storico ed economista Giulio Sapelli, commentando l'assalto delle frange più estreme dei trumpisti al Congresso Usa. «Non è stata un episodio di massa, parliamo di duemila persone. Naturalmente è però un indice interessantissimo e gravissimo della situazione in cui è sprofondata la vita politica americana». L'intervista

Giulio Sapelli

Cosa ci dicono le vicende di ieri con l'assalto al Congresso americano?
Possiamo dire che si è sviluppato un movimento nazionalista di destra che riattualizza i motivi classici del gingoismo che avevamo visto nascere in Europa e Usa all'inizio del '900. Nel Regno Unito investiva grandi settori della classe operaia cui la crisi economica aveva fatto riemergere la nostalgia dell'impero e l'odio nei confronti della Germania guglielmina che stava diventando la potenza che minacciava il dominio Uk sui mari. Molte parole d'ordine viste in queste ore ricordano quegli episodi descritti mirabilmente dai libri di John A. Hobson. Penso ad esempio ad “american first”, ma non è un tema che riguardi solo Trump. Anche Biden ha giocato tutta la propria campagna su concetti come “Made in Usa”.

Quindi non è un tema repubblicano?
Al contrario. Paradossalmente la storia racconta che i primi populisti americani era i farmers che poi daranno vita al Partito Democratico. La racconta bene Giuseppe Prato quando studia le imprese municipalizzate americane per conto della rivista La Riforma Sociale e descrive la loro nascita dovuta a populisti democratici dei piccoli centri rurali che sono i fondatori del Dem Party. Non solo: il Ku Klux Klan fino al 1960 era un'organizzazione di massa cui hanno aderito molti presidenti democratico degli Stati Uniti.

Quello che è accaduto dunque secondo lei sta nell'ordine delle cose?
Assolutamente. Quello che è del tutto inedito invece, per la storia americana, è stato l'atteggiamento non pronto e non vigilante e non violento della polizia. Il fatto che siano entrati con questa facilità è molto strano. Può significare solo due cose: o c'è una complicità dentro alcuni livelli del deep state americano e della polizia di Washington. Oppure che veramente i manifestanti hanno preso di sorpresa i servizi di sicurezza.

Due scenari entrambi molto gravi . Secondo lei qual è il più probabile?
Trovo poco credibile che il Paese con il più grande sistema di sicurezza del mondo si sia trovato impreparato di fronte ad una manifestazione, almeno fino a questo punto. Se fosse questo il caso sarebbe uno scenario estremamente drammatico. Ma io penso sia invece uno sfregio controllato al parlamento americano, quindi molto meno preoccupante.

Cui prodest?
Ha permesso a Joe Biden di fare quel bellissimo discorso, molto chiaro, in cui ha chiesto a Donald Trump, giustamente, di andare in televisione e condannare l'atto. Cosa che invece Trump non ha fatto.

Ma quale sarebbe lo scopo di permettere una cosa del genere?
Da un lato difendere la Repubblica e dall'altro per alimentare le divisioni e rompere il partito repubblicano

Strategicamente però questo è un rischio perché contestualmente consegnerebbe a Trump la possibilità di costruire un proprio partito e indebolirebbe molto i repubblicani...
È giusto. Ma Joe Biden punta a spingere i repubblicani ad epurare Trump dal partito per poi tornare a governare insieme nell'alveo del sistema politico tradizionale. Purtroppo queste che sono le strategie classiche che anche Merkel ha messo in atto in Germania e Chirac ha provato ad attuare con Le Pen, come anche la Dc in Italia. Ma non sono più efficaci, a mio avviso, perché la situazione negli Stati Uniti è ormai troppo radicalizzata.

C'è poi anche da considerare il danno d'immagine...
Non c'è dubbio che gli Usa abbiano perso l'egemonia culturale di cui godevano. Il primo motivo è stato il comportamento di Trump da pagliaccio per tutta la sua amministrazione. Il discredito che ha creato nelle classi medie e nei poveri non ha eguali. In secondo luogo la gestione fallimentare sul Coronavirus accompagnati agli sberleffi nei confronti del dott. Fauci. Il danno di immagine purtroppo era già stato fatto. Quello di ieri è solo la lapide definitiva non solo sugli Usa ma sull'immagine di tutto il mondo libero.

Questo senza contare che come presidente in carica Trump ha strizzato apertamente l'occhio ai rivoltosi...
Il sistema americano che abbiamo sempre portato in palmo di mano è finito. Ma ben prima di Trump e non per causa sua. Gli Usa somigliano sempre più all'Europa. Un fenomeno che va avanti da 50 anni. Gli Stati Uniti sono governati da grandi famiglie come i Bush, i Clinton e gli Obama, appoggiate dai giganti del tech, che puntano alla cumulazione allargata del capitale finanziario. Questo ha determinato ferite difficili da rimarginare. Il motivo è banale: l'industria pesante, come insegnava Ford, aveva bisogno di demografia con buoni salari, la finanza vuole solo la deflazione secolare. Ecco perché nasce la sanguinosa alleanza con la Cina. Per la finanza inondare il mondo con merci di bassissima qualità non è un problema. Sanno che i prodotti online si vendono anche a chi vive sotto il livello di povertà. Questo ha provocato una spaccatura tra l'estamblishment tradizionale come mai si era verificato prima. Il modo per governare queste fratture è il ritorno al sistema della società segmentata fondata sulle famiglie, familistico e clientelare.

E questo determina sia negli Usa che in Europa una classe dirigente non più all'altezza delle sfide...
Certo perché un sistema così non seleziona per merito ma per affiliazione, spesso genetica. Abbiamo visto che presidente è stato Bush Jr. Trump ha governato con la propria famiglia. Il genero faceva il mediatore in Medio Oriente. O si parla di queste cose oppure facciamo una narrazione triviale e politicamente corretta che non ha senso. Sento parlare di fascisti. Quelli di ieri sono qualcosa di molto più pericoloso del fascismo.

Possibile che pochi anni ci facciano dimenticare la nostra umanità?

La solitudine degli uomini primi.

Roberto Pecchioli 8 Gennaio 2021 

Entro nella piccola agenzia bancaria che custodisce a caro prezzo i miei modesti risparmi e vedo solo tre impiegati, compresi il cassiere (ma la cassa chiude alle 11.30!) e il direttore. Un paio di clienti sbrigano i loro affari con l’aiuto dei superstiti operatori, la bassa manovalanza del potere finanziario. Erano almeno dodici, una ventina d’anni fa. Ora è tutto cambiato: fusioni bancarie, accorpamento di agenzie, informatizzazione, la possibilità – sempre più trasformata in obbligo- di svolgere da sé molte operazioni. Mi domando per quanto tempo ancora entreremo in un’agenzia, in un ufficio, in un locale commerciale e incontreremo un essere umano presente per aiutare, consigliare, svolgere funzioni professionali. Uguale sorte tocca al viaggiatore: biglietterie chiuse, informazioni da reperire online. Online, ecco la parolina magica, l’abracadabra del nostro tempo, l’hardware che consente il Grande Reset, la cancellazione di ieri per un nuovo inizio nell’interesse e secondo i comodi di lorsignori.

Probabilmente chi leggesse queste note tra alcuni anni- a operazione conclusa- sorriderà di superiorità. L’uomo è un essere malleabile, flessibile: tanti cambiamenti ha visto l’umanità, quelli che sperimentiamo oggi sono solo gli ultimi in ordine di tempo. L’uomo del 2030 – l’agenda mondialista si è data un decennio e si chiama proprio “Agenda 2030”- avrà superato tutte le nostalgie e lamentazioni della generazione al tramonto a cui appartiene chi scrive. Il distanziamento sociale sarà diventato quotidianità, la digitalizzazione di tutto cosa fatta e l’uomo nuovo, resettato e riformattato come il disco rigido di un computer, vivrà pienamente l’epoca algida della tecnica trionfante, in attesa di essere condotto nel labirinto transumano, quello dell’umanità “aumentata”, il cui simbolo è h+, homo plus.

Più, appunto. Il progresso si considera somma, accumulo, pienezza in cammino. Al potere non interessano le controindicazioni, né gli effetti collaterali. E’ come con il magico vaccino antivirus: umani, fate la punturina, tornate per il richiamo e non chiedete il contenuto della fiala, né che cosa potrà succedervi, come individui e come specie, nel breve e nel lungo periodo. Non si sa, o forse qualcuno lo sa troppo bene. A noi spetta di compiere l’atto di fede: state contenti, umana gente al quia, che se potuto aveste veder tutto, mestier non era parturir Maria, scriveva Dante nel terzo canto del Purgatorio. Il poeta si riferiva ai limiti della ragione, parlava di teologia e di Gesù Cristo. Non poteva sapere, nel buio medioevo, che il vero redentore è il vaccino, con la sua santissima trinità: Big Pharma, Bill Gates e l’OMS.

Diamo per scontato che avrà successo la sanificazione di massa. Nulla, tuttavia, tornerà come prima, speranza ingenua della maggioranza eterodiretta. Troppi aspetti del nostro futuro prossimo inquietano, anche se la preoccupazione non raggiunge l’uomo-massa, distratto dalla società dello spettacolo, troppo impaurito per razionalizzare ciò che vede, bombardato da una gragnuola di messaggi unidirezionali. Uno raggela, ed è la solitudine che avanza e diventa la caratteristica dell’epoca: la solitudine degli uomini primi. La solitudine dei numeri primi è il fortunato titolo di un romanzo di Paolo Giordano, la cui frase simbolo è “i numeri primi sono divisibili soltanto per uno e per se stessi. Se ne stanno al loro posto nell’infinita serie dei numeri naturali, schiacciati come tutti fra due, ma un passo in là rispetto agli altri. Sono numeri sospettosi e solitari. “


Quanto gli somigliamo, e quanto più somiglierà loro l’ipotetico lettore del 2030, il cui destino è riconfigurato (il linguaggio informatico va esteso al “materiale umano “) per essere solo, vivere solo, un atomo solitario diviso soltanto per se stesso: un “dividuo”, un numero primo. Ribadisco: l’uomo del 2030 riderà di compatimento delle preoccupazioni del trapassato remoto. Il tempo corre in fretta, nell’abbagliante postmodernità. Rinserrato nell’alveare metropolitano, vivrà perennemente connesso a vari dispositivi interdipendenti, che sarà in grado di dirigere con un piccolo clic. L’ organo essenziale dell’homo+ sono le dita. Un numero primo, la cui unica soggettività sarà il codice a barre o il QR, il cui habitat assomiglierà sinistramente alle celle di Excel. Excel è una geniale invenzione di Microsoft, il foglio elettronico di calcolo che consente, attraverso la creazione di “macro”, di eseguire in automatico una serie di comandi. Caratteristica del foglio è di essere diviso in quadratini indipendenti, celle incomunicabili.

Il timore è che tale sia il nostro destino. Fa sorridere l’indimenticabile lezione di Così parlò Bellavista su “uomini d’amore“e “uomini di libertà”. Nel libro di Luciano De Crescenzo, Bellavista, professore napoletano uso a riunire i suoi vicini per impartire loro sapide lezioni di vita, gli esseri umani si dividono in due tipologie, uomini d’amore o di libertà “a seconda se preferiscono vivere abbracciati l’uno con l’altro oppure preferiscono vivere da soli per non essere scocciati.” Finito il tempo di entrambi: i primi per il distanziamento imposto – le conversazioni di Bellavista oggi sarebbero riunioni clandestine- gli altri perché non sapranno che farsene della libertà. Diventeranno, a norma di legge e con l’approvazione dei superiori, hikikomori, il nome giapponese di chi, rinchiuso in casa, vive connesso ai terminali elettronici e scambia il virtuale con il reale.

Gli uomini primi diventano soggetti passivi, ma innanzitutto solitari. Al potere va benissimo così: il grande reset non ha più bisogno di masse transumanti, pendolari del lavoro e del turismo. Neppure gli acquisti più elementari hanno bisogno della nostra presenza fisica: il solito clic e l’Amazon-mondo consegna qualsiasi merce richiesta. Jeff Bezos, il suo padrone, e un ristretto numero di iper ricchi nell’anno trascorso hanno visto aumentare il loro patrimonio di 1.800 miliardi, il PIL annuale dell’Italia. Con l’alibi del virus, i fattorini, poveracci perennemente in corsa per pochi spiccioli, non consegnano più fisicamente, ma lasciano il pacco nell’atrio dei palazzi o in punti di consegna. La più assoluta disumanizzazione, neppure un saluto o uno sguardo.

Che nostalgia del tempo in cui si poteva simpatizzare e persino litigare. Ora anche le riunioni si svolgono a distanza. Zoom è la piattaforma più nota. Conoscevamo il disagio delle videoconferenze di lavoro, in cui si restava ipnotizzati dallo schermo, passivi, impossibilitati a interagire, commentare con libertà. Si rimpiange l’atmosfera, il bisbiglio delle riunioni, gli incontri, i dispareri che diventavano occasioni di crescita, i crocchi in cui si intrecciavano relazioni, ma soprattutto si pensava e si confrontavano idee e soluzioni. Tecnicamente (altro vocabolo chiave!) tutto ciò è possibile anche da lontano, da remoto, come dicono, ma la differenza è enorme. Gli uomini primi, dunque, sono una specie nuova, su cui si chineranno gli antropologi culturali più che gli scienziati sociali.

Intanto la pubblicità, sismografo dei cambiamenti sociali, propaganda nuove marche di ansiolitici, segno che, per ora, il vecchio homo sapiens non ce la fa. L’angoscia si estende e fa chiedere, esigere dosi sempre maggiori di sicurezza, nella forma di ordini del potere e di paradisi artificiali. Psicologi e farmacisti segnalano un’impennata nel consumo di certe sostanze, gli insegnanti sono confusi davanti al nuovo mantra, DAD, la didattica a distanza. Quanto a chi studia, temiamo che una generazione si stia perdendo, con immense ricadute sociali e un divario crescente tra i ricchi, che continueranno ad avere un’istruzione, e tutti gli altri. Per strada, vediamo code spettrali e silenziose. Gli uomini d’amore hanno perduto la libertà. La cattività li atterrisce, ma la paura reciproca li blocca. Taci, il nemico ti ascolta, ma non sai chi è. Homo homini virus: durerà a lungo.

Sono dimenticati anche i cattivi maestri come Bertolt Brecht. “Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La voce che li comanda è la voce del loro nemico. E chi parla del nemico è lui stesso il nemico.” Ma non si marcia più, chiusi nella celletta, armeggiando con il pulsante di invio per consultare il campionario dei beni di consumo offerti dall’ Amazon-mondo, pagabili con carta di credito- ovvero di debito- a comode rate. Nelle ore di lavoro “furbo”, da casa, saremo noi a pagare riscaldamento e climatizzazione, a procurarci – probabilmente in affitto- gli strumenti di lavoro, mentre qualcuno, da lontano, un ingranaggio lievemente più in alto di noi, ci sorveglierà assai meglio che in ufficio o in fabbrica.

Come sarà tra qualche anno, quando il Reset avanzerà nonostante la sconfitta del virus, e milioni di persone lavoreranno da casa o saranno sostituiti dai robot? Lo chiamano smart work, lavoro furbo; il male è assai abile a nascondersi dietro etichette accattivanti. Lontani gli uni dagli altri, dimenticheremo di avere interessi comuni, opposti a quelli delle oligarchie. Vedremo l’ex prossimo come un nemico, uno sconosciuto con il quale competere, leoni e gazzelle entrambi costretti a correre. Uscire di casa, frequentare persone ed ambienti diversi è sempre stato il mezzo più sicuro per migliorare, conoscere le complessità del mondo e anche per prendere le distanze da se stessi, dalle idee ricevute. Gli uomini primi saranno più egoisti, meno inclini al dialogo, per impreparazione, paura, perché la cella non può contenere, come Excel, che un’unica informazione. Al resto pensa la macro, ovvero un potere remoto, lontano, la Matrix che finiremo per amare in quanto rimarrà l’unico legame tra noi e il mondo, di cui, nel buio della caverna, non distingueremo più contorni, luci e realtà.

Verità o rappresentazione? Quali saranno le modalità di partecipazione alla vita pubblica, e, addirittura, esisterà ancora una vita pubblica, una polis e un’agorà? Certo che sì, ribattono gli uomini primi soddisfatti: la tribuna virtuale è immensa e tutti possono intervenire. L’esperienza di un decennio di reti sociali è sconsolante: volgarità, violenza verbale, superficialità dilagante, narcisismo imbarazzante e, sopra tutto e tutti, i colossi fintech che gestiscono le reti, si arricchiscono, sorvegliano e censurano. Non solo noi, minuscoli dissidenti della periferia dell’impero, ma anche il presidente degli Stati Uniti in carica, se sgradito a lorsignori. In un mondo di postmarxisti reali e immaginari, nessuno ricorda più un monito del fondatore: le idee dominanti sono sempre le idee della classe dominante.

Ma la chiusura progressiva della mente degli uomini primi fa sì che manchino gli strumenti e le parole per il pensiero critico. E poi, quanto è difficile pensare nel baccano virtuale, tra immagini e sollecitazioni – consce ed inconsce, ma non per questo meno orientate ed organizzate- che cambiano di continuo, impedendo la riflessione e lasciandoci ancora più soli, confusi, alla mercé di un dispositivo che è a ogni effetto una Matrix. Poiché vivremo prevalentemente rinserrati, hanno inventato una scienza nuova, la domotica, lo studio delle tecnologie utili per “migliorare la qualità della vita nella casa e più in generale negli ambienti antropizzati”, spiega Wikipedia. Apparati ed impianti diventeranno “intelligenti”, anzi smart, in corrispondenza diretta con l’istupidimento nostro, corpo e cervello propaggini delle dita che pigiano compulsivamente sui tasti.

Forse esageriamo, forse la nostra è una visione pessimista, ma il pessimista è un ottimista informato. Abbiamo orrore delle reazioni binarie dell’automa-uomo, on-off, dirette dalla Megamacchina. Giovanni Paolo II fu profetico, al tramonto del secondo millennio, mettendo in guardia da strumenti il cui controllo sfugge all’uomo (Sollicitudo rei socialis). Silenzio, in attesa che la cibernetica faccia sì che la macchina funzioni da sé. L’uomo è diventato antiquato, un puntino senza importanza nell’universo-macchina. Che senso avrà la parola libertà? Forse sta finendo la lunga epopea dell’homo viator, il viandante della vita e inizia quella del navigatore solitario che non si muove dalla poltrona, le cui gambe diverranno inutili, mediato e invaso dall’immagine, suddito inconsapevole della dittatura dell’Istante e del Pulsante.

La solitudine degli uomini primi ha un laboratorio avanzato, il Nord Europa, in particolare la Svezia. Nella fredda nazione che siamo abituati a definire avanzata, civilissima e libera, ossessionati dall'indipendenza individuale, dove i figli non devono dipendere dai genitori e viceversa, i coniugi sono distaccati l’uno dall'altro, i malati non devono aspettarsi nulla dai parenti, vige un paradiso per eremiti e misantropi. Metà degli svedesi vive da sola; oltre una donna su quattro concepisce i figli senza un compagno fisso attraverso l’inseminazione artificiale, per evitare complicate relazioni sentimentali. Morire nella più completa solitudine è comunissimo; non pochi versano denaro all’ente preposto per saldare in anticipo le spese funerarie. Con la compilazione di appositi moduli burocratici, si può ottenere tutto, tranne la vicinanza, l’affetto, in fin dei conti la vita.

Spinoza parlò di passioni tristi: quella, ossessiva, per l’indipendenza solitaria è ben più che triste, è la trasformazione di una comunità in un igienico, sterilizzato obitorio. In Svezia esiste la più grande banca dello sperma del mondo, in cui sono conservati, alla giusta temperatura (i ghiacci aiutano) ben 170 litri di sperma umano, prodotti dalle prestazioni solitarie dei nordici. La felicità non abita a Stoccolma: tutte le rilevazioni sull'alcolismo, la violenza sulle donne, l’abuso di droghe pongono la Svezia ai vertici mondiali, così come la contabilità dei suicidi. La tomba sembra un’alternativa migliore che trascinare la vita soli, senza l’affetto di figli e amici. In un mondo di morti viventi, non stupisce la popolarità dell’eutanasia, la “dolce morte” amministrata dallo Stato killer. Consentiteci una battuta: gli uomini primi lotteranno per una migliore vita … animale. Che costa resterà, se non la mestizia della solitudine, quando l’egoismo competitivo cederà il passo all’età e alla malattia, e non ci sarà un volto amato, una mano amica a sorreggerci, una speranza trascendente e l’unica via d’uscita sarà il commiato, la fine come liberazione?

Chissà, un giorno accetteremo di avere una scadenza prefissata, come lo yogurt. Gli uomini primi saranno una specie antropologica diversa dalla nostra, non più animale sociale e politico, ma lupi solitari e insieme greggi amministrate dal pastore, tristi, in grado di interagire con molteplici dispositivi, ma non con i conspecifici delle altre cellette dell’alveare. Individui a cui mancherà l’amore- i più sensibili ne avranno una nostalgia indistinta – e anche l’odio. Scissi da se stessi, vivranno forse in costante schizofrenia, più probabilmente quieti, sedati come gli abitanti del “Mondo nuovo” descritto da Aldous Huxley, il cui rimedio per l’infelicità è un medicinale chiamato soma, una droga euforizzante e antidepressiva.

I cittadini del Mondo Nuovo non hanno nozione della storia, salvo credere, per il condizionamento ricevuto, che nel passato l’umanità viveva nella barbarie, mentre le parole madre e padre sono usate come insulti. Ci ricorda qualcosa del presente o siamo già uomini primi?

La magistratura è parte integrante del Sistema massonico mafioso politico istituzionalizzato e quindi protegge i suoi uomini

Palamara a cena con Pignatone, ma la Finanza decise di spegnere il trojan…

Maurizio Blondet 7 Gennaio 2021 
di Paolo Comi

Non ci fu alcun malfunzionamento: il trojan venne spento dai finanzieri del Gico la sera che Luca Palamara incontrò a cena Giuseppe Pignatone. La clamorosa rivelazione è emersa solo adesso con la lettura degli atti d’indagine depositati dalla Procura di Perugia. La storia è nota. Il telefono cellulare di Palamara, indagato per corruzione nel capoluogo umbro, venne, dal 3 al 31 maggio del 2019, sottoposto a intercettazione mediante l’utilizzo del trojan”, il virus spia che trasforma l’apparato in un microfono.

Come più volte ricordato, il trojan deve essere programmato. Utilizzando molta energia, è necessario indicare le fasce orarie in cui accendersi. Normalmente non si devono superare le sei o otto ore al giorno, proprio per evitare che l’intercettato, notando un consumo anomalo della batteria, possa insospettirsi. Nel caso di Palamara, conoscendo le sue abitudini, i finanzieri alle dipendenze del colonnello Gerardo Mastrodomenico e del maggiore Fabio Di Bella, decisero che, durante l’arco della giornata, le ore serali sarebbero state quelle più interessanti dal punto di vista investigativo. E questo perché il magistrato romano era solito cenare quasi sempre fuori casa “intrattenendosi con svariati soggetti”.

Mastrodomenico e Di Bella, come disse Palamara parlando un giorno con il dem Luca Lotti, erano gli uomini di fiducia del “I”, alias Pignatone. L’avvio della registrazione avveniva all’orario programmato per ogni giornata in maniera automatica e solo quando lo schermo del terminale era spento, interrompendosi quando lo schermo si fosse acceso per qualsiasi motivo.

Leggendo, come detto, l’annotazione relativa alle operazioni di intercettazione della società milanese Rcs (che ha fornito il captatore e il supporto tecnico alla Procura di Perugia, ndr) datata 29 luglio 2019 e depositata dai pm lo scorso 20 aprile, risulta, però, una circostanza clamorosa.

LEGGI ANCHE

Integrale del Riformista qui:

Palamara a cena con Pignatone, ma la Finanza decise di spegnere il trojan… [I DOCUMENTI]



Non ci fu alcun malfunzionamento: il trojan venne spento dai finanzieri del Gico la sera che Luca Palamara incontrò a … Leggi tuttoPalamara a cena con Pignatone, ma la Finanza decise di spegnere il trojan… [I DOCUMENTI]
Il Riformista