ECONOMIA MONDIALE
I rischi globali di un dollaro senza più bussola
20 ottobre 2018
Marka
C’era una volta un mondo in cui si raccontavano due storie: quando il dollaro si apprezzava, gli altri Paesi dovevano brindare, perché le loro merci diventavano più competitive; allo stesso tempo, si prevedeva che il ruolo della valuta verde come moneta mondiale sarebbe declinato. Quel mondo non esiste più. A dieci anni dall’inizio della Grande crisi, tanto è cambiato nell’economia mondiale, ma almeno una cosa è sempre la stessa: il dollaro è sempre la valuta più importante. Non solo: i canali attraverso cui le oscillazioni del dollaro possono influenzare le altre economie sono aumentati, e l’effetto finale oramai non è più scontato.
Per cui non solo l’incertezza sul dollaro è oramai un catalizzatore di instabilità per gli altri Paesi, ma il suo apprezzamento è destabilizzante, soprattutto sulle economie emergenti. Il dollaro può essere il canarino nella miniera della recessione prossima ventura.
Per comprendere perché il mondo di una volta non c’è più, basta ricordare che la moneta in generale ha tre funzioni, tra loro intrecciate: è mezzo per far scambi, è riserva di valore, serve per dare i prezzi ai beni ed ai servizi che si scambiano. Nel “c’era una volta” però il dollaro era visto principalmente come mezzo di pagamento. Per cui un apprezzamento della valuta statunitense veniva ritenuto senza dubbio una buona notizia: per ciascun altro Paese l’effetto era un aumento di competitività delle sue produzioni a svantaggio di quelle americane: ne derivava un effetto positivo sul saldo dei conti con l’estero, quindi sulla domanda aggregata, con effetti finali benefici su produzione e occupazione.

Ma il dollaro può essere considerato anche una riserva di valore, e allo stesso tempo essere utilizzato per dare un prezzo alle merci non americane, o ai debiti non americani. Nessuna sorpresa allora che ancora oggi nel mondo il 70% delle riserve ufficiali delle banche centrali sia in dollari, e che negli ultimi 25 anni l’investimento all’estero dei privati sia stato almeno per il 50% in attività denominate in dollari. L’utilizzo del dollaro per prezzare beni prodotti al di fuori degli Stati Uniti è più diffuso di quanto comunemente si pensi. Non solo: la quota di beni prezzati in dollari è di frequente maggiore della quota di beni importati dagli Stati Uniti. Da qui una conseguenza importante: non c’è alcuna ragione di brindare se il dollaro si apprezzerà, perché l’effetto sull’interscambio non è affatto scontato. Se una impresa italiana utilizza fattori produttivi italiani e produce un bene che esporta all’estero prezzandolo in euro – è il vecchio “c’era una volta” – la rivalutazione del dollaro è una buona notizia. Ma se l’impresa italiana prezza le sue esportazioni in dollari, e magari utilizza anche fattori produttivi importati, che paga in dollari, lo spumante può rimanere in frigo.
Non basta: se quell’impresa italiana si è indebitata in dollari, allora farà meglio a sperare che il dollaro non si apprezzi mai. La morale della (nuova) storia è che nei prossimi mesi l’andamento del dollaro andrà monitorato con attenzione, perché potrà essere un catalizzatore di instabilità mondiale, più di quanto non sia già stato in passato. A sua volta, l’instabilità del dollaro può essere innescata da più di una miccia. L’ultima in ordine di tempo è lo scontro in atto tra il disegno della politica fiscale (senz’altro) espansiva che il presidente Trump sta mettendo in atto e la (presunta) politica monetaria di normalizzazione perseguita dalla banca centrale (Fed). La vicenda è senz’altro un fattore di instabilità sul futuro corso del dollaro, con una dinamica che però è tutta da scoprire, perché gli attori in campo sono entrambi indisciplinati, nel senso dell’analisi economica. Da un lato il presidente Trump ha messo in campo una politica fiscale evidentemente pro-ciclica, per ragioni esclusivamente legate all’appuntamento elettorale di novembre. Dall’altro lato abbiamo una banca centrale assolutamente anarchica, nel senso di priva delle regole che definiscono una buona condotta di politica monetaria.
La Fed non annunzia i suoi obiettivi - o meglio ne dichiara solo uno, che è come dire nessuno, perché così tutte le scelte sono razionalizzabili ex post - non comunica quale sia il suo tasso di interesse neutrale, che è l’oggettivo spartiacque per individuare una finta normalizzazione della politica monetaria da una vera svolta. Ancora: non annunzia come banca centrale i suoi passi successivi - come fa ad esempio la Bce - ma lascia che i suoi singoli membri esprimano - per giunta in modo rigorosamente anonimo - le proprie previsioni. La differenza per la politica monetaria tra un impegno istituzionale - quello della Bce - e previsioni individuali - quelle della Fed - è la stessa che passa tra la notte ed il giorno. Non sappiamo come finirà la (finta?) dialettica tra un presidente indisciplinato e una banca centrale autoreferenziale. Certo è che non c’è una bussola per il cammino del dollaro. Questa è una brutta notizia per tutta l’economia mondiale, a partire - ma solo a partire - dai Paesi emergenti. I recenti scossoni subiti ad esempio dalla Turchia potrebbero essere solo uno spiacevole assaggio.
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