L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 27 agosto 2022

27 agosto 2022 - News della settimana (26 ago 2022)

Il 14 agosto scorso nella capitale Seoul è stata teatro della più grande manifestazione pubblica degli ultimi decenni contro la presenza militare statunitense in Corea del Sud

Corea del Sud: “Questa terra non è una base di guerra degli Usa”



Quasi tutte le informazioni sulla Corea del Nord, siano esse semplici voci senza consistenza, notizie false o semplicemente sciocche, diventano foraggio per le invenzioni dei media mainstream che certo non possono temere di essere smentite. Ma quando si tratta della Corea del sud si censura qualsiasi cosa non vada nel senso della narrazione americana: del resto con 28.500 soldati e la più grande base militare del Pentagono al di fuori del Nord America, è fin troppo chiaro che tutto deve andare sempre bene e ai cittadini americani o delle colonie europee non si possono dare notizie che inducano a pensare che dopotutto le cose non vanno sempre come dovrebbero. Così quasi per caso ho scoperto il 14 agosto scorso che la capitale Seoul è stata teatro della più grande manifestazione pubblica degli ultimi decenni contro la presenza militare statunitense in Corea del Sud. Ma di questa protesta non è apparsa nemmeno un riga o un immagine, al al massimo è rimasta impigliata in qualche trafiletto invisibile in organi di informazione ufficiale che nessuno legge.

Invece decine di migliaia di persone sono sfilate cantando “questa terra non è una base di guerra degli Stati Uniti” riferendosi alle esercitazioni militari congiunte su larga scala in programma nella penisola coreana dopo che dal 2017 si era evitato di creare queste perturbazioni nelle difficili relazioni fra le due Coree. Le proteste sono state organizzate dalla Confederazione dei sindacati coreani ( KCTU ), la seconda federazione del lavoro della Corea del Sud che come è noto sono piuttosto combattiva . A essa si è unita una serie una serie di alleati che definiremmo progressisti, se oggi il progressivo non fosse che un atto di ossequio alla finanza e alle sue visioni, tra cui People’s Solidarity for Participatory Democracy ( PSPD ), un influente gruppo di cittadini fondato nel 1994 e il gruppo “pionieri della riunificazione pacifica”. Secondo gli organizzatori l’esercitazione militare rischia di aumentare la tensione nella penisola coreana senza peraltro offrire alcun contributo alla pace e men che meno al processo di denuclearizzazione. Alla manifestazione, è stato preso di mira direttamente il cuore della politica statunitense in Corea, con cartelli che dicevano “Niente prove di guerra, niente Usa” e “Nessuna cooperazione militare Corea-USA-Giappone”. Si tratta della prova che le cose vanno cambiando anche in un Paese dove la maggioranza delle persone secondo sondaggio governativi è favorevole alla presenza delle truppe Usa e sopporta che anche le forze coreane siano sotto comando Usa. Tuttavia da qualche anno le cose sono cambiate ed è per questo che dal 2018 le esercitazioni militari vengono compiute come simulazioni al computer ed è chiaro che la decisione di tornare a farle nel mondo reale con tutti i pericoli del caso, non è stata ben accolta. Ci si sta rendendo conto che la politica di Washington diventa sempre meno comprensibile; che la Corea del Nord è comunque diventata una potenza nucleare che potrebbe infliggere danni gravissimi e permanenti, specie in un Paese grande un terzo dell’Italia, ma abitato da oltre 50 milioni di persone;, che gli Usa hanno ormai poco da offrire anche sul piano economico rispetto ai loro avversari, Cina in testa. E si fa sempre più strada il sospetto che gli Stati uniti vogliano sfruttare le aree di attrito per condurre la loro guerra contro Russia e Cina, risparmiando al massimo i loro uomini. Una cosa che in Europa è già realtà e che ha già messo in ginocchio il continente. Se non altro saremmo di monito a chi verrà dopo e probabilmente costituiremo un mistero per gli storici dei prossimi millenni come per noi è la scomparsa nel giro di appena qualche anno del ricco impero assiro.

Ma al di là delle tristi cronache nostrane, come in molti Paesi satelliti degli Usa anche in Corea del sud sta crescendo l’idea che l’alleanza con Washington che non concepisce partecipazione e partenariato, ma solo il comando, sia alla fine un ostacolo vero il futuro. Se questo accade a Seoul che certo ha avuto momenti turbolenti, ma che fino ad ora è stato il più solerte servo asiatico di Washington significa che davvero il clima, quello geopolitico intendo va cambiando.

Speranza e i suoi accoliti in galera, bastava l'aspirina o altri antinfiammatori non steroide data velocemente senza aspettare il tampone farlocco

Bastava l’aspirina
Maurizio Blondet 27 Agosto 2022

 The Lancet | Infectious Diseases • 25 AGOSTO 2022 (https://doi.org/10.1016/S1473-3099(22)00433-9)

 “Home as the new frontier for the treatment of COVID-19: the case for anti-inflammatory agents”
 “La casa come nuova frontiera per la cura del COVID-19: il caso degli antifiammatori”

 “Sono state proposte diverse raccomandazioni su come trattare a casa le persone con il COVID-19 con sintomi da lievi a moderati, a partire dall’uso di farmaci antinfiammatori (FANS) (https://t.me/studiscientificivaccini/521). I principali FANS raccomandati sono gli inibitori selettivi della COX-2: (https://it.m.wikipedia.org/wiki/COX-2) l’indometacina (https://t.me/studiscientificivaccini/503), l’ibuprofene e l’aspirina (https://t.me/studiscientificivaccini/825), spesso come parte di un protocollo multifarmacologico (https://t.me/studiscientificivaccini/492).”

 “Alcune delle raccomandazioni suggeriscono il paracetamolo come terapia sicura per la gestione precoce del dolore e della febbre nelle persone con il COVID-19. Tuttavia, si dovrebbe considerare che (oltre ad essere un farmaco con capacità antinfiammatorie trascurabili) a dosi relativamente basse il paracetamolo riduce le concentrazioni plasmatiche e tissutali di glutatione (https://t.me/studiscientificivaccini/169), il che potrebbe aggravare COVID-19 (https://t.me/studiscientificivaccini/193).”

 “[…] i risultati dei nostri studi hanno consolidato le raccomandazioni del protocollo per il trattamento ambulatoriale precoce del COVID-19 […]. Queste raccomandazioni terapeutiche si basano su tre pilastri:intervenire all’esordio dei sintomi a casa;
iniziare la terapia il prima possibile dopo che il medico di famiglia è stato contattato dal paziente (senza attendere i risultati di un tampone nasofaringeo);
fare affidamento sui FANS, in particolare sugli inibitori selettivi della COX-2.”

 “Nel complesso i nostri studi e altri studi osservazionali indicano che la terapia antinfiammatoria, in particolare con i FANS, è fondamentale per la gestione dei pazienti ambulatoriali con i primi sintomi del COVID-19, poiché l’attenuazione di questi sintomi protegge dalla progressione verso una malattia più grave che alla fine potrebbero richiedere il ricovero, gravando enormemente sul sistema ospedaliero.”


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Leggetevi anche questo studio

La Spike provoca malattie tipo “mucca pazza”

 AUTHOREA – MDPI | Diseases • 16 AGOSTO 2022 (https://doi.org/10.22541/au.166069342.27133443/v1)

 “SARS-CoV-2 Spike Protein in the Pathogenesis of Prion-like Diseases”
 “LA PROTEINA SPIKE DEL SARS-CoV-2 NELLA PATOGENESI DI MALATTIE COME DA PRIONI”

”[…] descriviamo il contributo della proteina spike, attraverso le sue proprietà simili ai prioni (https://it.m.wikipedia.org/wiki/Prione), alla neuroinfiammazione e alle malattie neurodegenerative; a disturbi della coagulazione all’interno del sistema vascolare; alla soppressione della regolazione […] dell’insulino-resistenza; e ad altre complicazioni alla salute che potrebbe indurre.”

 “[…] abbiamo esaminato dall’ampia letteratura prove del fatto che la glicoproteina spike del SARS-CoV-2 sia una neurotossina e che i vaccini a mRNA siano in grado di portare la proteina spike al cervello […] aumentando il rischio di malattie neurodegenerative. […] Particolarmente preoccupante è l’evidenza che i monociti CD16+ possano continuamente produrre proteine spike per mesi dopo la vaccinazione, probabilmente attraverso la trascrizione inversa dell’mRNA nel DNA (https://t.me/studiscientificivaccini/389). […] Ad ogni richiamo aumenta il rischio di future malattie neurodegenerative.”

 “Uno studio pubblicato su Lancet (https://doi.org/10.1016/S0140-6736(22)00089-7) ha monitorato l’efficacia dei vaccini COVID-19 nel tempo. Ha mostrato che una volta trascorsi 8 mesi dalla seconda dose, la funzione immunitaria dei vaccinati era inferiore a quella delle persone non vaccinate (https://t.me/studiscientificivaccini/459). Mentre i booster possono ripristinare temporaneamente livelli più elevati di anticorpi, frequenti booster potrebbero erodere ulteriormente la funzione immunitaria innata, per un periodo di tempo indefinito, portando ad un aumento del rischio di varie infezioni e cancro.”

 “Alla luce di queste considerazioni, il rapporto rischio/beneficio dei vaccini a mRNA deve essere rivalutato. Con ogni dose arriva un flusso di proteine spike che viene rilasciato nella circolazione, aumentando ulteriormente […] il rischio di future malattie neurodegenerative.”

 Unisciti a STUDI SCIENTIFICI (https://t.me/studiscientificivaccini)

L’articolo qui sopra è postati dal MDPI, acronimo di Multidisciplinary Digital Publishing Institute, è un editore di riviste scientifiche ad accesso aperto. Fondato da Shu-Kun Lin come archivio di campioni chimici, pubblica oltre 390 riviste diverse, peer-reviewed e ad accesso aperto e amplia continuamente il proprio portafoglio.

Mentre la Fed scarica sul resto dell'Occidente l'inflazione da lei stessa creata, aumentando i tassi d'interessi. La Cina guardando il suo mercato interno cerca stabilità nella crescita

Autore articoloDi Pasquale Cicalese
Data dell'articolo22 Agosto, 2022

DA CHINA DAILY DI OGGI. COMMENTO.

Come dare un senso alla riduzione del tasso a sorpresa da parte della PBOC di Zhou Lanxu | Quotidiano cinese | Aggiornato: 22-08-2022 09:18 L

Se dovessi scegliere l’argomento macroeconomico più interessante di quest’anno, la mia prima scelta sarebbe la divergenza tra le politiche monetarie delle due maggiori economie mondiali. La Federal Reserve statunitense ha alzato i tassi di interesse di ben 225 punti base da marzo per frenare l’inflazione galoppante che si aggira intorno ai massimi da 40 anni. Al contrario, la People’s Bank of China, la banca centrale del paese, ha mantenuto una posizione accomodante, con l’ampia offerta di moneta del paese, o M2, in aumento del 12% su base annua rispetto alla fine di luglio. La divergenza è diventata più netta la scorsa settimana quando la PBOC ha tagliato un tasso di riferimento chiave per sostenere la ripresa economica. La PBOC ha condotto 400 miliardi di yuan (58,89 miliardi di dollari) in operazioni di prestito a medio termine il 15 agosto a un tasso di interesse del 2,75 percento, in calo rispetto al 2,85 percento del mese prima. Secondo un rapporto di Sealand Securities, il taglio dei tassi non solo ha sorpreso la maggior parte dei partecipanti al mercato, ma ha segnato il primo taglio in assoluto dei tassi ufficiali della PBOC durante i cicli di rialzo dei tassi della Fed. La teoria e la pratica hanno dimostrato che gli aumenti dei tassi della Fed possono restringere la liquidità globale e accumulare le pressioni del deflusso di capitali e del deprezzamento della valuta sui mercati emergenti, impedendo loro un allentamento monetario, che potrebbe intensificare tali pressioni. Quindi, come mai la PBOC ha scelto il taglio dei tassi apparentemente rischioso in un momento in cui la Fed è nel suo ciclo di rialzo dei tassi più aggressivo degli ultimi decenni? Innanzitutto, una crescita economica stabile funge da fondamentale supporto per la stabilità dei flussi di capitali transfrontalieri, dato che i rendimenti degli asset a medio e lungo termine dipendono ancora dalle prospettive di sviluppo economico. Questa logica trova prove nel mercato cinese delle azioni A. I dati compilati da China International Capital Corp, o CICC, hanno mostrato che il commercio in direzione nord dei programmi di connessione tra la terraferma e le borse di Hong Kong, ha visto afflussi netti di capitali per quasi 80 miliardi di yuan a giugno, la cifra più alta finora quest’anno. Gli analisti del CICC hanno attribuito l’aumento degli afflussi alla fiducia del mercato nella ripresa economica della Cina, rafforzata dalla riduzione del tasso di riferimento del prestito superiore a cinque anni a maggio, un benchmark guidato dal mercato su cui i finanziatori basano i loro tassi ipotecari. In secondo luogo, poiché la capacità di approvvigionamento costante della Cina si distingue in una catena industriale globale in frantumi e soddisfa la domanda globale di beni, il suo forte surplus commerciale ha sostenuto il tasso di cambio dello yuan e compensato la pressione dei deflussi di capitali. L’eccedenza commerciale cinese di merci è aumentata del 36% su base annua a 320,7 miliardi di dollari nel primo semestre, la lettura più alta mai registrata per lo stesso periodo, ha affermato l’Amministrazione statale dei cambi. In effetti, il tasso di cambio onshore dello yuan rispetto al dollaro si è indebolito a circa 6,79 martedì in seguito al taglio dei tassi, ma ha guadagnato una posizione più solida mercoledì intorno a 6,77, continuando a funzionare entro un intervallo ragionevole. Le possibili giustificazioni di cui sopra per il taglio dei tassi della PBOC non solo alimentano la curiosità, ma possono fornire indizi sulla definizione delle politiche della banca centrale nel resto dell’anno. La pressione imposta dall’inasprimento della Fed potrebbe non fermare le mosse di allentamento della PBOC fintanto che i dati economici interni indicano la necessità di un maggiore sostegno mentre i pagamenti internazionali del paese rimangono generalmente stabili. Ciò potrebbe essere particolarmente vero in quanto la Fed potrebbe rallentare i rialzi dei tassi con la pressione inflazionistica statunitense che ha mostrato segni di attenuazione a luglio. Come ha affermato la PBOC nel suo rapporto sulla politica monetaria del secondo trimestre, continuerà a considerare i fattori interni come dominanti nella definizione delle politiche, tenendo d’occhio gli effetti di ricaduta della situazione economica e gli aggiustamenti della politica monetaria nelle economie sviluppate.

un autunno da incubo. E dopo che hanno ricevuto il VOSTRO VOTO questi VOSTRI partiti si scateneranno, già stanno preparando una nuova crisi sanitaria per coprire il disastro economico in arrivo, al sistema sanitario già arrivano le mascherine ordinate. Già sanno che arriva la nuova ondata di influenza, sarà chiamate sempre covid

Le ferie sono finite, va in scena la realtà. Che è la vera arma segreta della Russia

27 Agosto 2022 - 12:55

Italia e Germania già prospettano la nuova ondata di Covid, quasi ipotecando un alibi sanitario a restrizioni e razionamenti. Perché è il gas la priorità della gente. E non si può sanzionare la paura.


Nei film dei Vanzina, la fine dell’estate e del periodo vacanziero arrivava sotto forma di libecciata agostana, i cui temporali garantivano gocce di pioggia sufficienti a nascondere sui volti dei protagonisti le lacrime per l’addio all’amorazzo estivo di turno. Nell’Italia pre-elettorale del 2022, il ritorno dalle ferie coincide con una presa d’atto della realtà tanto drammatica e repentina quanto surreale,

Confindustria scopre che con il gas a questi prezzi (ieri è arrivato al record assoluto di 334 euro per MWh) sono oltre 120.000 le imprese a rischio, scomoda una figura retorica come quella del terremoto economico incombente e prega il governo in carica per gli affari correnti di intervenire con una decretazione d’urgenza. Viene da chiedersi se si fossero accorti come le quotazioni del Dutch ad Amsterdam fossero vagamente fuori controllo già da alcuni mesi e non abbiamo subito una clamorosa impennata a ridosso di Ferragosto. Ma tant’è, a chi riteneva l’inflazione meramente transitoria e di natura speculativa non si può chiedere troppo. E mentre i sindacati paiono limitare il loro perimetro di intervento unicamente alla blindatura di Quota 41, saldando un inusuale asse con Matteo Salvini in nome della loro categoria di iscritti più rappresentativa, è la stampa a regalare enormi soddisfazioni.

Salvo rari casi di ossessione patologica, il Russiagate all’amatriciana ha lasciato il posto alla presa d’atto di un mese di settembre che si presenta fin da ora come il trailer di un autunno da incubo. E ciò che fino a ieri era derubricato ad allarmismo ingiustificato, stante il novero pressoché infinito di alternative al gas russo che il governo garantiva, ora diviene carne e sangue di un tracollo che ci attende al varco inesorabile. Imminente come il suono della sveglia al mattino, quando si sono fatte le ore piccole. Ad esempio, il rischio che lo shock energetico colpisca a morte il comparto tessile, dando vita a una delocalizzazione forzata del settore verso la Turchia.

E la politica? Fra accuse incrociate, lunari proposte di sospensione della campagna elettorale e promesse in formato offerta del discount, ecco cosa ci attende:

ciò che realmente sta occupando i pensieri del governo paiono i preparativi per una nuova crisi sanitaria che operi da alibi e copertura al disastro sociale ed economico di restrizioni e razionamenti. E a inquietare è il fatto che, in perfetta contemporanea con la puntualissima risalita dei contagi post-vacanzieri in Italia (l’industria ricettiva ringrazia sentitamente, almeno potrà pagare le bollette), il ministro della Sanità tedesco, Karl Lauterbach, abbia messo in guardia i suoi connazionali dal pressoché certo arrivo di una nuova ondata pandemica. E il tutto al termine di una riunione di governo in cui sono già state decise le linee guide per nuove e più stringenti misure anti-contagio in vigore a partire dal 1 ottobre.

Non stupisce. Perché questi due grafici

Andamento comparato del costo dell’elettricità a 1 anno di Francia e Germania Fonte: Bloomberg
Andamento ponderato all’effetto leva dei contratti energetici a 1 anno di Francia e Germania Fonte: Pictet

parlano chiaro. Se ieri i contratti energetici a 1 anno di Francia e Germania hanno sfondato l’ennesimo record al rialzo, addirittura con le valutazioni per il mercato transalpino che hanno superato per la prima volta in assoluto i 1.000 euro per MWh, ecco che la seconda immagine mette in prospettive l’effetto leva patito da quei medesimi contratti dal gennaio 2020 a oggi. Nemmeno un hedge fund nel giorno del lancio del Qe. E questo altro grafico

Andamento dell’indice di fiducia dei consumatori tedeschi Fonte: Bloomberg

offre un’ulteriore giustificazione all'apparente abuso di precauzioni del governo tedesco: proprio il costo della bolletta energetica ha spedito l’indice di fiducia dei consumatori al minimo storico assoluto dal 1991, anno in cui è cominciata la tracciatura della serie storica: -36,5 punti. E dopo il già catastrofico -30.9 del mese precedente. E la ciliegina sulla torta è stata messa dal ministro dell’Economia, Robert Habeck, a detta del quale il Paese è destinato a un ulteriore balzo dei prezzi in inverno, tale da rendere quello di cui stiamo discutendo un qualcosa di limitato.

Ma ecco che questa notizia

sembra porsi come evento spartiacque e cartina di tornasole della presa d’atto della realtà - fra il catastrofico, il demenziale e l’irresponsabile - che l’Europa sta per affrontare, tanto da aver costretto persino Bruxelles a convocare entro metà settembre un vertice Ue straordinario sull’energia. La municipalità dell’Aja ha infatti chiesto una deroga temporanea alle sanzioni europee per potersi rifornire di gas da Gazprom, poiché non le è stato possibile trovare un’alternativa non sanzionata per garantire l’approvvigionamento necessario a evitare un black-out totale.

Insomma, la realtà ha fatto il suo ingresso a palazzo. E dopo aver bussato per settimane al portone, non ricevendo risposta, ha deciso di sfondarlo. Senza ulteriore preavviso. E questo grafico

Andamento a livello globale delle ricerche su Google della parola «Ucraina» da febbraio a oggi Fonte: Statista/Google Trends

concentra in sé l’assenza stessa della strategia russa. La quale, dopo aver strategicamente utilizzato con il contagocce il ricatto energetico fino a farlo esplodere in tutta la sua magnitudo alle porte dell’autunno, ora può attendere che la sua vera arma segreta lavori per lei. La paura del freddo, del buio, dei razionamenti, dei licenziamenti, dei fallimenti, della povertà hanno ora preso il posto dell’Ucraina nelle preoccupazioni della gente. E anche in quelle forzatamente adattate al gioco di sponda dei media, della politica e delle cosiddette parti sociali.

Ovunque. Ma in Italia in maniera particolare. E per quanto si possa dissimulare, lanciare granate mediatiche stordenti, stendere cortine fumogene, la paura del signor Rossi non si può sanzionare. E nemmeno la realtà. In compenso, possono entrambe detonare. Dentro e fuori il seggio elettorale. Con un’aggravante, decisamente in linea con quell’allarme tedesco che pare configurare all’orizzonte un terminale mors tua vita mea in sede europea. Anzi, Bce. Dove Reuters rende noto che alcuni partecipanti intendano mettere sul tavolo del board del 7-8 settembre un aumento dei tassi di 75 punti base, stante il peggioramento del dato inflazionistico durante l’estate.

L’incombente recessione sull’eurozona non dovrebbe rallentare o fermare il processo di normalizzazione di politica monetaria, ha puntualizzato una fonte sotto anonimato all’agenzia di stampa. Se per caso il mercato prezzasse in questo contesto anche una potenziale messa in discussione del reinvestimento titoli, il nostro spread volerebbe in orbita al pari del prezzo del gas. A due settimane dal voto. La verità fulmina chi osa guardarla in faccia, ammoniva Ennio Flaiano. Ma per il nostro Paese pare giunto il momento di dover correre questo rischio. Obbligatoriamente.

Repetita iuvant è Costanzo Preve - 6 -

 https://www.progettoalternativo.com/2016/10/italia-prossimo-presente-la-storia.html

sabato 1 ottobre 2016

Costanzo Preve - la storia procede secondo ritmi che neppure gli osservatori più acuti possono prevedere.


Bombardamento Etico!
di Costanzo Preve

Prefazione di Costanzo Preve alla traduzione greca de “Il Bombardamento Etico” (luglio 2012)



Il 14 aprile 2016, Costanzo avrebbe compiuto 73 anni. Ed invece ha dovuto congedarsi dalla vita nel novembre 2013.Ma ha pensato, lavorato, scritto fin che ha potuto. Nel luglio del 2012 aveva preparato la prefazione alla edizione greca del suo «Il Bombardamento Etico», tre pagine che proponiamo alla considerazione critica dei lettori.Sono trascorsi 16 anni da quando pubblicammo questo suo importante testo, che – come dice l’autore – non solo non è invecchiato, ma è ancora più attuale. Sedici anni, eppure vivida è la memoria di quei giorni in cui,ospitando Costanzo per qualche giorno a casa mia qui nella campagna intorno a Pistoia, leggevamo il suo dattiloscritto, discutendone in modo appassionato, per prepararne la pubblicazione. [C. F.]

* * *

Sono molto contento che il mio saggio Il Bombardamento Etico, scritto negli ultimi mesi del 1999 e pubblicato in lingua italiana nel 2000, sia stato tradotto in greco. Rivedendo la traduzione, precisa, corretta e fedele, mi sono reso conto che purtroppo il saggio non è “invecchiato” in dieci anni, ma in un certo senso è ancora più attuale di dodici anni fa. E’ ancora più attuale, purtroppo. E su questo “purtroppo” intendo svolgere alcune rapide riflessioni. Dodici anni non sono pochi, ed è possibile capire meglio che l’uso strumentale e manipolatorio dei cosiddetti “diritti umani” ed il processo mediatico di hitlerizzazione simbolica del Dittatore che di volta in volta deve essere abbattuto (Milosevic, Saddam Hussein, Gheddafi, Assad, domani chissà?) inauguravano una fase storica nuova, che potremo definire dell’intervento imperialistico stabile nell’epoca della globalizzazione con l’uso massiccio della dicotomia simbolica di sicuro effetto Dittatore/Diritti Umani.

L’importantissimo articolo 11 della Costituzione Italiana, entrato in vigore nel 1948 e mai più da allora formalmente abrogato, recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. E’ storicamente chiaro che questo articolo segnala una profonda autocritica morale dell’intero popolo italiano per aver aderito alla guerra di Mussolini fra il 1940 e il 1945. In ogni caso, la presenza dell’articolo 11 ha da allora costretto i governi italiani ad una sorta di ipocrisia istituzionalizzata permanente. Tutte le guerre che sarebbero state fatte dopo il 1948, all’interno dell’alleanza geopolitica NATO a guida USA, avrebbero dovuto costituzionalmente essere sempre ribattezzate missioni di pace, o missioni umanitarie.

Possiamo dire che così l’ipocrisia, la menzogna e la schizofrenia sono state in Italia istituzionalizzate e “costituzionalizzate”. Lo dico con tristezza, perché vivo in questo paese. Oggi sappiamo cose che alla fine del 1999 non sapevamo, e potevamo soltanto sospettare. Era capo del governo italiano l’ex comunista D’Alema (oggi “democratico”), che inviò i caccia italiani a bombardare il paese balcanico, dicendo in parlamento che i suoi aerei non sganciavano bombe, ma partecipavano semplicemente a non meglio precisate “operazioni di difesa integrata”. Una presa in giro pari solo alla faccia tosta dell’allora primo ministro. Alla fine delle operazioni saranno gli stessi alleati a riconoscere che l’Italia era stata solo seconda – dopo gli USA, ma prima della Francia e della Gran Bretagna – per numero di raid sulla Jugoslavia.

In un’intervista sul quotidiano “Il Manifesto” dei primi mesi del 2012 l’ex generale in pensione Fabio Mini, allora direttore delle operazioni, confessò che la cosiddetta “strage di Raciak”, uno dei pretesti dell’intervento in Kosovo, era stata un falso e una montatura, e lui lo sapeva. Potremmo continuare, ma il decennio trascorso ci ha reso bene informati. Nel 2001 ci fu l’invasione dell’Afghanistan, in base al pretesto dell’attacco di Al Qaeda di Bin Laden alle torri Gemelle di New York.

Bin Laden è stato nel frattempo ucciso, l’islamismo radicale è stato “normalizzato” fino a farlo diventare alleato strategico geopolitico degli USA (vedi Libia 2011 ed oggi Siria 2012), cinquanta soldati italiani sono morti in dieci anni combattendo contro gli insorti afgani come mercenari della NATO, le possibilità di formare un governo di coalizione afgano relativamente stabile sarebbero a portata di mano, ma gli USA non se ne vogliono andare per il semplice fatto che voglio istallarvi basi militari permanenti, il cui scopo geopolitico è la minaccia potenziale futura verso l’Iran, la Russia e la Cina.

I morti italiani in Afghanistan vengono riportati in patria nelle bare come “caduti per la pace”, ove in realtà sono caduti per poter permettere agli USA di istallare basi permanenti in Asia Centrale. Nel 2003 Bush decise di aggredire l’Irak. In Italia c’era Berlusconi, che aveva una parte di elettorato cattolico, ed a quei tempi la Chiesa Cattolica non era favorevole all’attacco all’Irak, sapendo che avrebbe aperto una fase di massacri fondamentalisti per la componente religiosa cristiana irachena.

Il sistema mediatico per sei anni attuò una “hitlerizzazione” capillare della figura di Saddam Hussein, simile a quella attuata quattro anni prima per Milosevic. Questa hitlerizzazione lascia indifferenti il popolo normale, quello che legge solo le pagine sportive e la cronaca cittadina, ma è particolarmente adatta alla manipolazione del gruppo sociale degli “intellettuali”.

L’Italia mandò un corpo di spedizione nella zona irachena di Nassiriya, che fu oggetto di attentati sanguinosissimi, e si rese colpevole dell’uccisione di civili. In tutto questo periodo si parlò di “missioni di pace” e di “caduti per la pace”. A proposito della Libia, da tempo gli occidentali premevano su Gheddafi per la piena privatizzazione delle imprese del paese, ed avevano trovato un potente alleato nel ministro Jibril. Fu questo stesso Jibril ad organizzare un colpo di stato con l’aiuto di gruppi islamici radicali e di tribù divise da rivalità storiche.

L’Italia partecipò massicciamente ai bombardamenti che furono decisivi per la sconfitta di Gheddafi ed il successivo terribile linciaggio. Mentre scrivo queste righe, il ministro degli esteri italiano Terzi (che nessuno ha eletto, ma che è stato insediato da Monti e Napolitano) è in prima fila a chiedere insistentemente un intervento armato in Siria, fatto sul modello precedente ben riuscito della Libia.

Potrei ovviamente continuare con altri particolari, ma non voglio annoiare il lettore greco. Ciò che conta è ribadire che il modello dell’intervento umanitario e della hitlerizzazione mediatica simbolica del dittatore di turno si è dimostrata in questo decennio molto “performativa”, cioè ricca di successo.

Dal momento che tutto questo dovrà pur essere inquadrato in uno schema interpretativo, per non sembrare un semplice insieme di violenze comuni da gangsters, voglio citare un’affermazione dello studioso francese di geopolitica Aymeric Chauprade:

“Il mondo unipolare è il progetto dell’oligarchia mondiale anglosassone e della sua estensione oligarchica europea. E’ evidente che questo progetto dispone di forze considerevoli e che è fortemente avanzato dopo la fine dell’URSS. Nello stesso tempo, deve confrontarsi con un risveglio multipolare portatore di promesse considerevoli. Io non penso che questo processo unipolare possa venire a capo delle potenze russa, cinese, indiana, brasiliana, turca, iraniana, eccetera. Noi siamo quindi entrati nella fase iniziale del declino del progetto unipolare ed è per questo che la situazione è tanto pericolosa. Se gli Stati Uniti non accettano la realtà multipolare, allora ci sarà una nuova guerra mondiale”.

Io penso che il futuro sia completamente aperto e ignoto, e quindi non mi unisco alle previsioni catastrofiche di Chauprade. L’accettazione da parte degli USA di un mondo realmente multipolare è resa difficile dall’ideologia messianica di origine veterotestamentaria di essere un “popolo eletto da Dio” (gli americani non sono cristiani nel nostro senso europeo del termine, ma sono piuttosto “sionisti cristiani”). Quindi, gli USA devono essere costretti ad accettare un mondo multipolare, ma purtroppo hanno sottomesso politicamente e culturalmente le oligarchie europee.

Questa sottomissione integrale delle oligarchie europee, fenomeno che spiega la Jugoslavia 1999, l’Afghanistan 2001, l’Irak 2003, la Libia 2011, ed oggi la Siria, è qualcosa di nuovo nella storia europea. Dal 1945 al 1990 c’era la cosiddetta “guerra fredda” (che fu comunque “calda” in quasi tutto il mondo, dalla Corea al Vietnam, dall’Angola all’Etiopia) e la contrapposizione fra paesi comunisti e paesi capitalisti faceva parte di uno scenario certo sgradevole, ma anche chiaro e comprensibile.

Dopo il 1990, invece, non sembrò esserci più nessuna ragione perché le oligarchie europee dovessero continuare nella linea di canina obbedienza all’impero geopolitico USA. Eppure, la situazione peggiorò, anziché migliorare. L’Europa è ormai soltanto una povera appendice geopolitica subalterna degli interessi strategici degli USA nel mondo.

Il mio saggio Il Bombardamento Etico non voleva certo limitarsi ai fatti del Kosovo. Voleva mettere in guardia da una forma di barbarie incipiente, che consiste nel poter facilmente conoscere i dati principali dei problemi, ma nell’ignorarli ostentatamente, rimandando ad un capro espiatorio su cui concentrare l’attenzione e il fanatismo degli ignoranti. Il lettore greco sa bene che il suo paese soffre una situazione di impoverimento progressivo morale e materiale, e mentre le colpe, che ci sono certamente, riguardano ristrette oligarchie e circoli politici semimafiosi, l’intero popolo greco è stato colpevolizzato dall’apparato mediatico europeo, in particolare quello tedesco, ma non solo.

Sembra che stia giungendo l’ora della Spagna, e comunque l’ora dell’Italia non è lontana. In un simile momento, sarebbe necessaria la solidarietà e la fratellanza tra i popoli, e non certo le stupidaggini su popoli virtuosi e sui PIGS, sulle formiche e sulle cicale. E’, ovviamente, uno scandalo. Ma abbiamo taciuto e tollerato su scandali che non ci toccavano direttamente, dal Kosovo 1999 all’Irak 2003 e alla Libia 2011. Abbiamo finto di credere alle menzogne mediatiche sui feroci dittatori e alla necessità di difendere i diritti umani, perché in fondo si trattava soltanto di trasmissioni televisive e di “sangue virtuale” sugli schermi dei televisori. E adesso la menzogna tocca anche noi.

Un problema filosofico molto interessante, cui non so assolutamente rispondere perché non conosco il futuro, è quanto tempo ancora una società che si dice civile potrà continuare a vivere nella menzogna sistematica. La crisi economica che stiamo vivendo è certamente dovuta anche a ragioni strutturali di debolezza dell’apparato produttivo europeo rispetto ai paesi detti emergenti (India, Cina, Brasile, eccetera), ma è continuamente minacciata da speculatori finanziari che agiscono incontrollati, e che lasciano giovani senza lavoro, padri di famiglia senza casa, pensionati senza medicine.

Per quanto tempo ancora potrà durare la favola sulla colpa esclusiva dei politici che rubano (peraltro realmente esistenti) e su popoli pigri contrapposti a popoli virtuosi? La Grecia è stata in proposito una cavia, un animale da laboratorio, ed è stata facilmente isolata e demonizzata. Sarà però più difficile attuare una demonizzazione del genere per gran parte dell’Europa.

Questo saggio parte dalla grande menzogna organizzata della guerra del Kosovo del 1999, cui viene negata la natura di un conflitto etnico realmente esistente e risolvibile pacificamente in linea di principio, per esserle attribuita la natura di guerra dell’intera civiltà e dei diritti contro un singolo dittatore sanguinario (il macellaio dei Balcani). In questo modo fu creato mediaticamente un mondo alla rovescia. Il meccanismo ebbe successo, e fu ripetuto in questo decennio. In questo luglio 2012 in cui scrivo viene massicciamente applicato a proposito della Siria, e prescindo qui completamente dal giudizio che si può dare sui conflitti all’interno dei paesi arabo-musulmani.

Qui sta dunque l’attualità di questo mio saggio. Parte da un fatto specifico, limitato nel tempo e nello spazio, per individuare le forme dominanti del potere ideologico delle oligarchie del nostro tempo. Esse hanno creato un perfetto “mondo alla rovescia” alla Orwell ed alla Huxley, in cui la disumanità è chiamata umanità e l’ingiustizia è ribattezzata giustizia. Questo mondo merita una rivoluzione. Per ora certo ne mancano le condizioni, ma la storia procede secondo ritmi che neppure gli osservatori più acuti possono prevedere.

Repetita iuvant è la Fed che crea le crisi - 6 -

 https://www.progettoalternativo.com/2018/09/agli-interessi-bassi-si-alternano-gli.html

giovedì 13 settembre 2018

Agli interessi bassi si alternano gli interessi alti è la politica statunitense mettere ciclicamente sul lastrico i paesi in cui gli investimenti ( i famosi investimenti che gli euroimbecilli italiani sognano e invocano a ogni piè sospinto) fanno in dollari. Sono nella peste nell'ordine Argentina, Turchia, Venezuela, Indonesia, Sud Africa, Egitto, Pakistan, Sri Lanka, Ucraina. Se vi paiono pochi. Poi abbiamo gli effetti collaterali se salta la Turchia saltano le banche francesi-tedesche

Emergenti Vs dollaro: la sconfitta annunciata scatena una nuova crisi

PARTE 3

SPECULAZIONE11.09.2018

Emergenti Vs dollaro: la sconfitta annunciata scatena una nuova crisi

Nei mercati emergenti tira aria di crisi. Il rischio contagio esiste e interessa anche le banche europee. Turchia e Argentina osservate speciali


Sebbene a fasi alterne il vento della crisi valutaria soffia forte sui mercati emergenti più esposti. Lo sostiene un’analisi di Nomura che punta il dito sul rischio contagio proveniente da Argentina e Turchia, le due nazioni che nel corso del 2018 hanno patito maggiormente le conseguenze dell’apprezzamento del dollaro USA.

Nei prossimi 12 mesi, sostiene la società giapponese ripresa, tra gli altri, dal Financial Times, un’ondata di svalutazioni potrebbe travolgere altri cinque Paesi: Egitto, Pakistan, Sri Lanka, Sudafrica e Ucraina. L’instabilità politica che caratterizza le medesime aree, inoltre, potrebbe contribuire a una crescita della tensione sui mercati.
Una spada sugli emergenti

A segnalare il rischio è il cosiddetto Damocles Index, un indicatore elaborato da Nomura per identificare in anticipo una possibile escalation della crisi valutaria. Combinando una serie di fattori, l’indice attribuisce un punteggio a trenta Paesi emergenti misurando il rischio nel breve e medio periodo: un valore superiore a 100, ad esempio, evidenzia la possibilità concreta di una crisi valutaria nello spazio di un anno; un dato oltre quota 150, invece, segnala l’ipotesi che l’evento critico si verifichi da un momento all’altro.

Secondo l’ultima rilevazione lo Sri Lanka vivrebbe oggi la situazione peggiore con un punteggio di 175; sul podio si collocano quindi Sudafrica (143) e Argentina (140) che precedono nell’ordine Pakistan (136), Egitto (111), Turchia (104) e Ucraina (100).


Il mercato di Pettah a Colombo, la capitale dello Sri Lanka. Il Paese svetta nella classifica del rischio valutario stilata da Nomura. Foto: McKay Savage Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)

Super dollaro

La crescita del valore del dollaro, sostenuta anche dal progressivo rialzo dei tassi da parte della Fed, impatta soprattutto sull’indebitamento dei Paesi emergenti. Nel caso dello Sri Lanka, nota Nomura, a preoccupare maggiormente sono le scarse riserve in biglietti verdi che si contrappongono a un elevato debito estero a breve termine. Ma gli aspetti critici non si esauriscono qui.

La relativa calma vissuta nei primi giorni di settembre non esclude il rischio di una nuova ondata di volatilità nei mercati valutari, ha sostenuto l’ex presidente del Global Development Councildell’amministrazione Obama, Mohamed A. El-Erian, in un’analisi pubblicata da Bloomberg. Determinanti, secondo l’opinionista, l’incertezza politica nelle aree emergenti nonché le tensioni sul fronte degli scambi globali (leggasi guerra commerciale di Trump alla Cina) e l’evoluzione delle politiche monetarie delle banche centrali.

Ma l’aspetto più importante, forse, è relativo alle non scelte dei governi: «Né l’Argentina né la Turchia», scrive El-Erian citando i due casi più eclatanti, «hanno prodotto finora quella combinazione di adeguamenti strutturali e apertura di nuovi canali di finanziamento capace di ricondurre le loro economie sulla strada della stabilità».

Turchia: effetto contagio?

Il 14 agosto 2018 la lira turca ha fatto registrare il suo record negativo nel cambio con il dollaro cedendo oltre il 40% rispetto ai valori di inizio anno. Il lieve recupero sperimentato nelle tre settimane successive non è stato risolutivo. Quello di Ankara è un caso da manuale: elevato debito a breve scadenza in valuta estera (181 miliardi di dollari), riserve scarse, export a rischio.

Il 10 agosto Trump ha dato il via libera al raddoppio dei dazi sull’acciaio e l’alluminio turco scatenando un discreto panico tra gli operatori. Ad oggi la Turchia è il sesto fornitore mondiale di acciaio degli Stati Uniti con una quota di mercato del 5,6%; al primo posto tra gli emergenti (e al secondo nella classifica mondiale dietro al Canada) c’è il Brasile che copre da solo il 13,2% dei volumi in entrata.

Il rischio contagio resta elevato: da un lato le valute emergenti; dall’altro le banche europee che sul debito turco (in dollari) sono particolarmente esposte. Tra gli istituti nel mirino, osserva Fortune, la spagnola BBVA, l’italiana UniCredit e la francese BNP Paribas.


Lira turca Vs dollaro. Fonte: tradingeconomics.com
Argentina nelle mani del FMI

L’Argentina da parte sua segna numeri da record. Il 30 agosto la Banca centrale ha alzato il costo del denaro a quota 60%, attuale primato del mondo. Con il peso in caduta libera, il presidente Macri ha chiesto al Fondo Monetario Internazionale di accelerare i tempi nell’erogazione degli aiuti finanziari al Paese. L’intervento previsto ammonta a 50 miliardi: la cifra più alta mai concessa a una singola nazione. Il tracollo della valuta fa aumentare il rischio default del debito estero a cui il Paese ha fatto crescente ricorso negli ultimi anni.

Il direttore del Fmi Christine Lagarde e il presidente argentino Mauricio Macri. Foto: Casa Rosada – Presidencia de la Nación Creative Commons Atribución 2.5 Argentina (CC BY 2.5 AR)

L’intervento del FMI potrebbe scongiurare la nona bancarotta della storia argentina ma l’operazione ha ovviamente i suoi costi. A Buenos Aires sono già scattate le prime misure di austerity: taglio alla spesa e introduzione di nuove tasse sull’export che colpiranno in primo luogo le materie prime per portare, si stima, circa 11,4 miliardi di dollari nelle casse pubbliche nel corso del 2019.

L’operazione rischia seriamente di spezzare l’idillio con la lobby agricola, storica sostenitrice del presidente. I sindacati, nel frattempo, sono sul piede di guerra e hanno indetto uno sciopero generale per il 25 settembre prossimo. La dottrina Macri è giunta da tempo al capolinea.

Repetita iuvant è la Fed che crea le crisi - 5 -

 https://www.progettoalternativo.com/2018/10/2018-crisi-economica-quello-che-tutti.html

domenica 21 ottobre 2018

2018 crisi economica - quello che tutti gli analisti economici e politici sanno è che la Fed sta alzando deliberatamente il tasso d'interesse per mandare a catafascio stati e aziende che hanno debiti in dollari, nella crisi disastrosa che sta per arrivare gli statunitensi valutano che le loro aziende non saranno danneggiate ma favorite e ri-cominciano ad esportare per sanare quel buco enorme che hanno nella bilancia commerciale. Il combinato disposto con i dazi selettivi di Trump sarà una tempesta ciclonica che spazzerà il mondo e non lascerà più le cose come prima. Da qui la Cina, Russia, Germania, Turchia, Kazakistan, Ungheria, Austria puntano sull'oro per uscire fuori dal caos che verrà. I giornaloni e le Tv in altre faccende affaccendati, non ne parlano

ECONOMIA MONDIALE
I rischi globali di un dollaro senza più bussola
20 ottobre 2018

Marka

C’era una volta un mondo in cui si raccontavano due storie: quando il dollaro si apprezzava, gli altri Paesi dovevano brindare, perché le loro merci diventavano più competitive; allo stesso tempo, si prevedeva che il ruolo della valuta verde come moneta mondiale sarebbe declinato. Quel mondo non esiste più. A dieci anni dall’inizio della Grande crisi, tanto è cambiato nell’economia mondiale, ma almeno una cosa è sempre la stessa: il dollaro è sempre la valuta più importante. Non solo: i canali attraverso cui le oscillazioni del dollaro possono influenzare le altre economie sono aumentati, e l’effetto finale oramai non è più scontato.

Per cui non solo l’incertezza sul dollaro è oramai un catalizzatore di instabilità per gli altri Paesi, ma il suo apprezzamento è destabilizzante, soprattutto sulle economie emergenti. Il dollaro può essere il canarino nella miniera della recessione prossima ventura.

Per comprendere perché il mondo di una volta non c’è più, basta ricordare che la moneta in generale ha tre funzioni, tra loro intrecciate: è mezzo per far scambi, è riserva di valore, serve per dare i prezzi ai beni ed ai servizi che si scambiano. Nel “c’era una volta” però il dollaro era visto principalmente come mezzo di pagamento. Per cui un apprezzamento della valuta statunitense veniva ritenuto senza dubbio una buona notizia: per ciascun altro Paese l’effetto era un aumento di competitività delle sue produzioni a svantaggio di quelle americane: ne derivava un effetto positivo sul saldo dei conti con l’estero, quindi sulla domanda aggregata, con effetti finali benefici su produzione e occupazione.


Ma il dollaro può essere considerato anche una riserva di valore, e allo stesso tempo essere utilizzato per dare un prezzo alle merci non americane, o ai debiti non americani. Nessuna sorpresa allora che ancora oggi nel mondo il 70% delle riserve ufficiali delle banche centrali sia in dollari, e che negli ultimi 25 anni l’investimento all’estero dei privati sia stato almeno per il 50% in attività denominate in dollari. L’utilizzo del dollaro per prezzare beni prodotti al di fuori degli Stati Uniti è più diffuso di quanto comunemente si pensi. Non solo: la quota di beni prezzati in dollari è di frequente maggiore della quota di beni importati dagli Stati Uniti. Da qui una conseguenza importante: non c’è alcuna ragione di brindare se il dollaro si apprezzerà, perché l’effetto sull’interscambio non è affatto scontato. Se una impresa italiana utilizza fattori produttivi italiani e produce un bene che esporta all’estero prezzandolo in euro – è il vecchio “c’era una volta” – la rivalutazione del dollaro è una buona notizia. Ma se l’impresa italiana prezza le sue esportazioni in dollari, e magari utilizza anche fattori produttivi importati, che paga in dollari, lo spumante può rimanere in frigo.

Non basta: se quell’impresa italiana si è indebitata in dollari, allora farà meglio a sperare che il dollaro non si apprezzi mai. La morale della (nuova) storia è che nei prossimi mesi l’andamento del dollaro andrà monitorato con attenzione, perché potrà essere un catalizzatore di instabilità mondiale, più di quanto non sia già stato in passato. A sua volta, l’instabilità del dollaro può essere innescata da più di una miccia. L’ultima in ordine di tempo è lo scontro in atto tra il disegno della politica fiscale (senz’altro) espansiva che il presidente Trump sta mettendo in atto e la (presunta) politica monetaria di normalizzazione perseguita dalla banca centrale (Fed). La vicenda è senz’altro un fattore di instabilità sul futuro corso del dollaro, con una dinamica che però è tutta da scoprire, perché gli attori in campo sono entrambi indisciplinati, nel senso dell’analisi economica. Da un lato il presidente Trump ha messo in campo una politica fiscale evidentemente pro-ciclica, per ragioni esclusivamente legate all’appuntamento elettorale di novembre. Dall’altro lato abbiamo una banca centrale assolutamente anarchica, nel senso di priva delle regole che definiscono una buona condotta di politica monetaria.

La Fed non annunzia i suoi obiettivi - o meglio ne dichiara solo uno, che è come dire nessuno, perché così tutte le scelte sono razionalizzabili ex post - non comunica quale sia il suo tasso di interesse neutrale, che è l’oggettivo spartiacque per individuare una finta normalizzazione della politica monetaria da una vera svolta. Ancora: non annunzia come banca centrale i suoi passi successivi - come fa ad esempio la Bce - ma lascia che i suoi singoli membri esprimano - per giunta in modo rigorosamente anonimo - le proprie previsioni. La differenza per la politica monetaria tra un impegno istituzionale - quello della Bce - e previsioni individuali - quelle della Fed - è la stessa che passa tra la notte ed il giorno. Non sappiamo come finirà la (finta?) dialettica tra un presidente indisciplinato e una banca centrale autoreferenziale. Certo è che non c’è una bussola per il cammino del dollaro. Questa è una brutta notizia per tutta l’economia mondiale, a partire - ma solo a partire - dai Paesi emergenti. I recenti scossoni subiti ad esempio dalla Turchia potrebbero essere solo uno spiacevole assaggio.

Repetita iuvant è la Fed che crea le crisi - 4 -

 https://www.progettoalternativo.com/2015/12/2015-crisi-economica-la-fed-aumentando.html

venerdì 11 dicembre 2015

2015 crisi economica, la Fed aumentando i tassi svuota i restanti paesi di capitali e da slancio alla sua economia, gli Stati Uniti usciranno dalla crisi a spese degli altri

 
10 dicembre 2015, di Alberto Battaglia
 
NEW YORK (WSI) – Mentre il mondo attende con trepidazione le decisioni di politica monetaria della Federal Reserve e i suoi effetti sull’apprezzamento del dollaro si dovrebbe dare, in verità, un’occhiata più approfondita al futuro dello yuan cinese. A sostenerlo sulle pagine del Telegraph è Ambrose Evans-Pritchard che, con una serie di osservazioni sui fondamentali economici di Pechino, teme che ulteriori svalutazioni possano essere all’orizzonte.
Se il dollaro dovesse rivalutarsi, infatti, lo sforzo di sostenere il peg di fatto col dollaro potrebbe farsi troppo oneroso per la Pboc. Bank of America si attende che che lo yuan il prossimo anno scenda a 6,90 sul dollaro (dagli attuali 6,43), mentre Daiwa teme un deprezzamento del 20%. La valuta cinese, dunque, è sopravvalutata nei mercati?
Un aspetto certamente problematico è quello dei deflussi di capitale dalla Repubblica popolare: 113 miliardi di dollari nel solo mese di novembre, un record costato alla banca centrale cinese (secondo le stime di Capital Economics) circa 57 miliardi di vendite di riserve straniere al fine di sostenere il cambio. Nel terzo trimestre il deflusso, secondo uno studio della Reserve Bank of Australia (Rba), è arrivato a 300 miliardi di dollari con una liquidazione di 200 mililiardi di asset stranieri da parte della Pboc.
Sostenere il cambio a questo prezzo diventa molto costoso, anche per le sostanziose riserve valutarie cinesi. La guerra valutaria è entrata nel vivo. Sempre la Rba scrive che gli esportatori cinesi stanno cercando di mantenere i propri guadagni in dollari e che si è verificata “una riduzione della volontà di ricevere pagamenti in yuan”. Per compensare le cose Pechino ha tagliato la tariffa sulle esportazioni di bollette d’acciaio e sulla ghisa: un incentivo che dovrebbe favorire l’avanzo commerciale utile a sostenere la forza della moneta.
Ma, in definitiva, non è facile stabilire se la Cina abbia o meno uno yuan sopravvalutato, scrive Evans-Pritchard, anche se un shock valutario c’è sicuramente stato: la moneta cinese, in un momento in cui avrebbe necessitato di sollievo ha dovuto seguire nella sua risalita il dollaro cui lo yuan è ancorato. La vicina svalutazione dello yen giapponese, inoltre, non ha certo reso questa rivalutazione del tasso di cambio reale cinese più agevole. Quest’ultimo è salito del 30% dalla metà del 2012, mentre il costo dei salari procedeva con aumenti a doppia cifra.
Tutto questo, ovviamente, erode i margini di profitto delle imprese cinesi. L’impegno ufficiale delle autorità di Pechino resta quello di mantenere stabile il cambio. Alla luce dell’ingresso dello yuan nel novero delle valute di riserva del Fmi, sarà difficile questo obiettivo venga perseguito attraverso un ritorno alle vecchie politiche del beggar-thy-neighbour.

Repetita iuvant è la Fed che crea le crisi - 3 -

 https://www.progettoalternativo.com/2018/09/la-guerra-che-gli-stati-uniti-stanno.html

venerdì 14 settembre 2018

La guerra che gli Stati Uniti stanno facendo ai paesi emergenti che hanno fatto lo sbaglio di indebitarsi in dollari per i grandi investimenti in infrastrutture pubbliche lascia l'Indonesia nella melma. L'aumento degli interessi che sta attuando la Fed è lo strumento micidiale che ciclicamente fa per stroncare lo sviluppo dei paesi più poveri



Indonesia: sul ciglio del baratro? La rupia crolla e qualcuno pensa già alla crisi finanziaria di vent’anni fa. Ma è davvero così per l'Indonesia? 

DI ROBERTA TESTA SU 13 SETTEMBRE 2018 16:00

Tutti se lo chiedono: l’Indonesia è vicina al precipizio? L’economia indonesiana è in fase di calo dalla fine dello scorso mese. La rupia è scesa in picchiata contro il dollaro statunitense dal 31 Agosto, portando Bank Indonesia alla fatidica decisione di bruciare ben 200 milioni di dollari di riserve in valuta estera acquistando titoli di Stato. Lunedì la valuta è scesa ancora dello 0,7% a 14.820 dollari, il livello più debole dalla crisi finanziaria asiatica del 1998. Secondo alcuni, gli esportatori starebbero trattenendo i loro dollari in modo da non venir colti in fallo se la valuta si dovesse indebolire ulteriormente e i rendimenti sui titoli di stato dovessero essere in costante aumento. 

I dati, certo, non sono confortanti: la valuta sta chiudendo al suo punto più basso dalla crisi finanziaria asiatica del 1997-1998, quando ha toccato quota 16.800 rispetto al dollaro e la banca centrale ha aumentato i tassi di interesse cinque volte negli ultimi mesi per cercare di arginare il capitale dei flussi.


Gli esperti allertano: i tassi di interesse potrebbero ancora salire per contribuire a contrastare una scivolata della rupia, ma attenzione, sarebbe prematuro ed errato parlare di crisi finanziaria come vent’anni fa. Dello stesso avviso anche il numero uno della più grande banca quotata del Paese. Gli investitori stranieri temono per le obbligazioni indonesiane, le azioni e la valuta della rupia in quello che rimane un mercato emergente, spinto dall’aumento dei tassi di interesse statunitensi e dai timori di contagio da crisi finanziarie come quelle in Turchia e Argentina.

Se si procede ad una più accurata analisi, ci si accorge delle differenze tra la vecchia crisi e quella attuale nonostante i mercati dei capitali siano difficili da prevedere. Tra le incongruenze c’è sicuramente la dimensione del deprezzamento della rupia. Durante la crisi finanziaria asiatica, la rupia è scesa da 2.000 a un minimo di 16.800 nel corso di pochi mesi, con una diminuzione del valore dell’840%. In confronto, anche se in termini assoluti la rupia sta spingendo vicino ai suoi livelli di crisi da due decenni fa, si parla di una partenza in una posizione molto più bassa. La valuta ha perso solo il 9% dall’inizio dell’anno e ha subito un graduale declino. Quindi, lungi da un confronto superficiale, il declino non è affatto vicino a quello di vent’anni fa.

Inoltre, un fattore da cui non si può prescindere è che l’indebolimento della rupia si trova in perfetta linea con una tendenza generale più ampia che troviamo in tutte le valute dei mercati emergenti, una tendenza spinta, per la maggior parte, dalla decisione della Federal Reserve statunitense di iniziare a far salire i tassi di interesse. In altre parole, le valute percepiscono e rispondono al momento; non stiamo parlando, quindi, di un fenomeno prettamente indonesiano o addirittura asiatico-pacifico, ma di qualcosa di molto più ampio che coinvolge tutte le economie con i medesimi denominatori.

Spieghiamolo meglio. Quando i tassi di interesse salgono negli Stati Uniti, gli investitori sono portati a ridurre la loro esposizione nei mercati emergenti e, parallelamente, spostano i fondi verso le attività americane. Questo ha un effetto negativo per le economie che gestiscono i disavanzi delle partite correnti -come l’Indonesia, appunto- poiché queste devono prendere prestiti in valuta straniera per compensare la differenza. Se poi, si pensa all’Argentina e alla Turchia si capisce ancor di più come mai gli investitori siano diventati più scettici sulle valute dei mercati emergenti; la spiegazione è piuttosto semplice: hanno paura.

Da un punto di vista macroeconomico, lo scivolamento della rupia è anche piuttosto prevedibile data la stretta monetaria della Fed. Ma se, da un lato, è possibile che gli investitori decideranno di continuare a svendere i beni indonesiani in una sorta di panico generale, dall’altro, potrete succedere l’opposto. La rupia è solo una delle tante valute, quella che- tra l’altro- permette agevolmente di difendersi, quindi, il panico potrebbe terminare cosi come è iniziato.

E la politica come si sta muovendo? Il Governo dell’Indonesia, per migliorare il suo deficit, ha annunciato che limiterà le importazioni. Ma di che deficit stiamo parlando? A Luglio si parlava di 2 miliardi di dollari, ma occorre tener conto che, nel secondo trimestre del 2018, il Paese aveva un deficit di conto corrente di circa 8 miliardi di dollari, con crescenti importazioni di capitali e beni di consumo che spingevano il disavanzo più in alto. Ecco che le cose sono più chiare: la diminuzione è netta. 

Se quindi, da una parte, lo squilibrio commerciale sta facendo una certa pressione sulla rupia, è esso stesso un segnale che i fondamentali economici dell’Indonesia sono piuttosto solidi. Il fatto di avere un deficit commerciale di $ 2 miliardi, -che comunque rimane solo una piccola parte del $ 1 trilione di PIL del Paese-, significa avere una politica economica non poco efficace.

Per quanto riguarda il debito, dobbiamo precisare una cosa; in Indonesia esiste un limite legale, un tetto per il deficit cui il Governo può incorrere: il 3 per cento del PIL. E da questo limite, il Paese si sta tenendo sufficientemente lontano; con quasi 120 miliardi di dollari in riserve in valuta estera e un basso rapporto debito/PIL, le finanze pubbliche dell’Indonesia sono in una posizione abbastanza solida per continuare a difendere la propria valuta.

La preoccupazione più grande è, invece, quella dovuta al debito contratto da società di proprietà statale. Nell’ultimo anno, il Governo ha spinto le compagnie statali ad assumere più debiti per condividere l’onere del finanziamento di progetti infrastrutturali di grandi dimensioni. Tra le società più note e più preoccupate, c’è la società di servizi pubblici PLN, che ha appena emesso 2 miliardi di dollari in obbligazioni in dollari. Negli ultimi due anni, poi, l’accumulo di debiti da banche internazionali e consorzi di prestiti stanziati per progetti di sviluppo di centrali elettriche, hanno peggiorato la situazione. Nei suoi calcoli, la PLN ipotizza una diminuzione del 10% della valuta come lo scenario peggiore.

Il maggior problema sta in questo: tutto il debito e il potere acquisito sono in dollari, quindi, le entrate dell’utilità vengono pagate in rupia. E con ogni probabilità, continuerà a indebolirsi. La Fed, inoltre, probabilmente aumenterà di nuovo i tassi alla fine di quest’anno e gli investitori continueranno a fare attenzione alle valute dei mercati emergenti come l’Indonesia. 

Insomma, mentre gli sforzi del Governo per ridurre il deficit potrebbero contribuire ad alleviare alcune delle pressioni, certo questo non avverrà da un giorno all’altro. Non significa che, comunque, questa sia una crisi paragonabile a quella di un ventennio fa: lo slittamento della rupia guidato dagli aumenti dei tassi negli Stati Uniti, probabilmente, non minerà le finanze del Governo con un debito modesto e una grande riserva estera, in condizioni migliori, insomma, di quanto si pensi. 

Inoltre, il deficit è in qualche modo un segnale che l’economia sta vivendo livelli salutari di domanda dei consumatori e investimenti in infrastrutture e attività economiche a lungo termine. Il quadro generale dell’economia indonesiana appare piuttosto buono e i raffronti tra il 2018 e il 1998 in realtà non ci dicono molto.

Premesso tutto questo, se la rupia continuerà a indebolirsi, cosa accadrà? Difficile avere la palla di vetro ma certo è che sarà motivo di preoccupazione, specie per il presidente Joko Widodo, pronto per la rielezione nell’Aprile del prossimo anno. «Ci sono solo due chiavi- gli investimenti devono continuare ad aumentare e anche le esportazioni devono aumentare (noi) possiamo risolvere il deficit delle partite correnti», ha detto il presidente ai giornalisti durante una visita al porto di Giacarta. Per ridurre la bolletta delle importazioni di petrolio, l’Indonesia ha cercato di aumentare l’uso del biodiesel. Il Governo ha anche annunciato tariffe di importazione su centinaia di beni di consumo. E’ e sarà premura di Widodo raggiungere una maggiore stabilità per scacciare definitivamente dalle menti più preoccupate la memoria della crisi passata.

Repetita iuvant è la Fed che crea le crisi - 2 -

 https://www.progettoalternativo.com/2018/10/2018-crisi-economica-e-inutile-che-i.html

lunedì 15 ottobre 2018

2018 crisi economica - è inutile che i giornaloni ci girino intorno la crisi prossima presente nasce dagli aumenti dei tassi d'interessi della Fed, l'ha sempre fatto ciclicamente, a prescindere dall'andamento dell'economia reale, in questo modo scarica sul mondo le sue contraddizioni ricomincia a esportare e il dollaro continua ad ingrassarsi. In più c'è il Trump con i suoi dazi ...

Perché dobbiamo temere una nuova recessione

Per difendersi ci sono gli strumenti, ma, spiega "The Economist", serve un intervento politico forte perché i tempi e lo spazio di manovra sono limitati

Recessione - 13 ottobre 2018 – Credits: iStock - Nastco
Stefania Medetti - 15 ottobre 2018

Fino a un anno fa, il mondo viveva un periodo di accelerazione economica sincronizzata. Nel 2017, ricorda The Economist che dedica la copertina del settimanale alle ombre di una nuova recessione, la crescita è stata il denominatore comune di tutte le grandi economie avanzate e della maggior parte di quelle emergenti.

Lo scorso anno, il commercio globale continuava a crescere, gli Stati Uniti erano in piena espansione, la Cina era riuscita a tenere sotto controllo la deflazione e anche la zona euro, con l’unica eccezione della Gran Bretagna, era fiorente. 
Alla radice della paura

Nel 2018, lo scenario è completamente diverso. Questa settimana, i mercati azionari sono crollati in tutto il mondo per la seconda volta: gli investitori, infatti, sono preoccupati per il rallentamento della crescita e per gli effetti delle scelte della Fed sulla politica monetaria americana.

Le paure sono fondate: il problema dell'economia mondiale nel 2018 è il suo andamento irregolare.

Negli Stati Uniti, il taglio delle tasse promosso dal presidente Trump ha contribuito a una crescita trimestrale annualizzata superiore al 4% e la disoccupazione è al minimo dal 1969.

Eppure, il Fondo Monetario Internazionale ritiene che la crescita rallenterà quest'anno in ogni altra grande economia avanzata. E anche i mercati emergenti sono nei guai.

Politiche monetarie divergenti

Dal dicembre 2015 a oggi, la Federal Reserve ha aumentato i tassi di interesse otto volte. La Bce è ancora lontana dal suo primo aumento, mentre in Giappone i tassi sono negativi. 

Questa settimana, la Cina ha allentato la politica monetaria in risposta a un'economia in declino.

Quando i tassi di interesse aumentano soltanto negli Stati Uniti, il dollaro si rafforza e questo rende più difficile per i mercati emergenti rimborsare i loro debiti in dollari. Un dollaro in rialzo ha già contribuito a spingere l'Argentina e la Turchia nei guai e il Pakistan ha chiesto aiuto al Fondo Monetario Internazionale.

Il ruolo dei mercati emergenti

Rispetto a vent’anni fa, quando i mercati emergenti rappresentavano il 43% della produzione mondiale (misurata dal potere d'acquisto), oggi sono al 59%. I loro problemi, dunque, potrebbero rimbalzare sugli Stati Uniti, proprio mentre il boom domestico inizia a spegnersi.

A quel punto, il resto del mondo potrebbe trovarsi in condizioni peggiori se le difficoltà di bilancio dell'Italia non diminuiranno o la Cina subirà un forte rallentamento. I mercati emergenti stanno causando perdite agli investitori, ma nel complesso le loro economie sembrano tenere.

Alcune note positive

La buona notizia è che i sistemi bancari sono più resistenti di quando la crisi ha colpito dieci fa e la possibilità di una recessione grave come quella del 2008 è bassa. Inoltre, la guerra commerciale di Donald Trump non ha ancora causato gravi danni.

Se il boom dell'America cede il passo a una recessione poco profonda, mentre lo stimolo fiscale diminuisce e i tassi aumentano, non sarebbe uno scenario inusuale dopo un decennio di crescita. Eppure, è qui che potrebbero arrivare i problemi.
La variabile dei tassi

Il punto è che il mondo ricco è mal preparato per affrontare anche una lieve recessione. In parte perché le misure politiche a disposizione si sono ridotte nel combattere l'ultima recessione. Nell'ultimo mezzo secolo, infatti, la Fed ha tagliato i tassi di interesse di cinque punti percentuali in una recessione.

Oggi ha meno della metà di quella possibilità di manovra e la Zona Euro e il Giappone non hanno spazio. La politica, è vero, ha altre opzioni, come il quantitative easing, ma se ciò non dovesse bastare, potrebbero essere necessari approcci più radicali e non testati, come dare soldi direttamente ai cittadini oppure aumentare la spesa statale. 

La sperimentazione politico-economica 

A questo punto, però, bisogna chiedersi se l'uso di queste armi sia politicamente accettabile. Le banche centrali, infatti, dovranno affrontare la prossima recessione con i bilanci già gonfiati: la Fed, per esempio, vale il 20% del Pil.

Chi si oppone al quantitive easing sostiene che distorce i mercati e gonfia le bolle. Per quanto fuorvianti, queste opinioni attirerebbero un esame ancora più approfondito sul QE e i vincoli sono particolarmente stringenti nella Zona Euro, dove la Bce si limita ad acquistare il 33% del debito pubblico di qualsiasi paese.

L’ostacolo del populismo

Indipendentemente dagli argomenti economici, lo stimolo fiscale attirerebbe anche l'opposizione politica. L'Ue è di nuovo il caso più preoccupante, se non altro perché i tedeschi e gli altri nordeuropei temono di ritrovarsi con debiti insoluti nel caso di inadempienza di un paese.

Le restrizioni sui prestiti sono studiate proprio per contenere le inadempienze, ma il rovescio della medaglia è che limitano il potenziale di stimolo.

L’America, che è più disposta a spendere, ha recentemente aumentato il deficit a oltre il 4%, ma proseguire su questa strada potrebbe avere conseguenze politiche. A livello internazionale, la politica è un ostacolo ancora più grande, perché l’ascesa dei populisticomplicherà il compito di lavorare insieme proprio quando servono sinergie.
Perché è il momento di agire

Giocare d’anticipo potrebbe evitare alcuni di questi pericoli. Le banche centrali potrebbero avere nuovi obiettivi che rendono più difficile intervenire durante e dopo una crisi.

Se hanno stabilito un impegno per recuperare terreno quando l'inflazione è bassa o la crescita delude, le aspettative di una ripresa potrebbero fornire uno stimolo automatico. In alternativa, alzare l'obiettivo di inflazione potrebbe far aumentare i tassi di interesse, dando più spazio ai tagli quando sarà necessario.

Il limite di un'azione preventiva

Il futuro stimolo fiscale, dunque, potrebbe essere messo in cantiere in questo momento per aumentare la potenza degli "stabilizzatori automatici", come la spesa per la disoccupazione che aumenta quando l’economia rallenta. La zona euro, inoltre, potrebbe allentare le regole fiscali per consentire ulteriori stimoli.

Il problema, però, è che l’azione preventiva richiede iniziativa politica che in questo periodo è vistosamente assente. 
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