
Politica e Istituzioni
di Silvano Andriani
01 ottobre 2010
Quale modello di sviluppo? Un nuovo ciclo di sviluppo sarà sostenibile se non sarà più trainato da una crescita dissennata di consumi privati, ma da un poderoso e prolungato flusso di investimenti diretto a fare compiere un salto di qualità all’apparato produttivo ed a potenziare la produzione di beni pubblici – messa in sicurezza e valorizzazione del territorio e dell’ambiente, infrastrutture e trasporti, energia, formazione, sanità, sicurezza, giustizia - che migliori le condizioni del vivere civile ed aumenti l’efficienza del sistema.
L’aumento del tasso di risparmio dovrebbe diventare sistematico, ma il problema sarà di trasformare le maggiori risorse finanziarie verso investimenti confacenti col nuovo modello di sviluppo. Una tale svolta non sarà realizzata dai mercati. Spetta agli Stati produrre una visione dello sviluppo confacente con le potenzialità, le risorse e le vocazioni di ciascun paese ed adottare politiche e avviare progetti in grado di generare e mobilitare in quella direzione risorse private e pubbliche. Una coalizione per l’innovazione dovrebbe perciò formarsi non solo sull’individuazione dei nuovi bisogni prioritari e delle conseguenti strategie di investimento, ma anche sui meccanismi distributivi e sugli incentivi confacenti con un nuovo tipo di sviluppo.
Si potrebbe dire, in termini teorici, che si tratta di combinare un approccio keynesiano con uno shumpeteriano. Si tratta, da una parte, di essere consapevoli della necessità di una politica della domanda, non solo per i tempi di crisi, tipo deficit spending, ma di tipo sistematico. Questo vuol dire mettere in campo un modello distributivo che risulti non solo più giusto, ma anche funzionale alla qualità ed alla stabilità dello sviluppo desiderato, in grado anche di generare un livello adeguato della domanda interna senza che sia necessario fare crescere il livello dell’indebitamento pubblico e privato, cosa possibile come dimostra l’esperienza dei “ trenta anni gloriosi” successivi alla seconda guerra mondiale. Una tale distribuzione il mercato non è in grado di generarla da se, come dimostra l’esperienza degli ultimi trenta anni, e deve perciò essere orientata politicamente. D’altra parte si tratta di avere consapevolezza che crisi di questa portata, che segnano la fine di un modello di sviluppo e di un ciclo tecnologico impetuoso ma distorto da una distorta distribuzione del reddito, comportano una inevitabile “ distruzione creatrice” e che si tratta di rafforzarne la componente creativa con politiche dirette a favorire modifiche strutturali che sostengano il passaggio ad un nuovo modello di sviluppo e ad un nuovo ciclo tecnologico.
Una tale svolta richiede la rottura con l’ortodossia per quanto riguarda la politica economica. Ma non solo: ancora più importante sarà un cambiamento culturale che faccia da base al mutamento dello stile di vita delle persone e dei popoli. Ogni modello di sviluppo incorpora un sistema di valori. Nel modello sostenuto dal pensiero unico le figure centrali sono i consumatori ed i proprietari. La Thatcher, che ripetutamente ha affermato che la società non esiste ed esistono solo gli individui, cantò vittoria quando potè annunciare che il numero degli azionisti aveva superato quello degli iscritti ai sindacati. Lo sviluppo doveva così essere trainato dai consumi privati, ma Il titolo per partecipare alla distribuzione del maggior reddito prodotto era non il lavoro e l’impegno continuo a migliorarne la qualità, ma l’astuta gestione dei beni patrimoniali. E poiché la maggior parte della popolazione non era in grado di concorrere a quell’aumento le disuguaglianze sono aumentate e la crescita dei consumi ed il mantenimento del consenso sono stati ottenuti con la continua crescita del debito delle famiglie, favorita da politiche monetarie costantemente espansive e garantito dall’aumento inflazionato del valore dei beni patrimoniali che è alla base delle varie bolle speculative che con crescente violenza sono scoppiate negli ultimi venti anni.
Uno stile di vita edonistico in quella che è stata definita “ società del desiderio” e comunque appiattito sul presente ha orientato i comportamenti delle imprese e delle persone, prodotto un eccesso di beni di consumo ed il deperimento di beni pubblici a partire dall’ambiente. Tale andazzo deve essere rovesciato. In un nuovo modello di sviluppo lo stile di vita andrebbe orientato a guardare di più al futuro, a richiedere alle persone un impegno continuo a migliorare le propria professionalità ed a realizzare le proprie capacità. Anche la governance delle imprese andrebbe riorientata di conseguenza. Ciò richiederebbe un sostanziale cambiamento del sistema di incentivi ed un potenziamento dei beni pubblici che possa sostenere l’impegno delle persone e delle imprese. Il tasso di risparmio dovrebbe aumentare non per paura, ma per capacità di guardare al futuro ed i mezzi finanziari da esso derivanti andrebbero orientati a finanziare le nuove strategie di investimento.
Nel mezzo della crisi degli anni’70, che nacque dal conflitto tra i paesi industrializzati, che avevano già conseguito livelli di consumo e di benessere rilevanti, ed i paesi arretrati venditori di materie prime, Enrico Berlinguer già propose un cambiamento del modello di sviluppo. Sbagliò la scelta del nome, giacchè la parola austerità aveva ed ha un significato consolidato che non può essere modificato ed il contenimento dei consumi privati in società come le nostre non vuol dire stare peggio, se nel frattempo migliora l’offerta di beni pubblici e si riduce l’incertezza. Ma quello che lui proponeva era il passaggio ad un tipo di sviluppo meno alimentato da consumi privati e più dal potenziamento dei beni pubblici, compresa la tutela dell’ambiente. La risposta vincente a quella crisi, quella liberista, andò nella direzione opposta, quella di inglobare anche i paesi emergenti nel paradigma consumista indicendoli ad adottare modelli di sviluppo trainati dalle esportazioni. E siamo arrivati al punto che paesi ancora poveri hanno alimentato la crescita insensata dei consumi di paesi ricchi non solo con l’esportazione di beni a bassissimo costo, ma anche prestando loro quattrini per acquistarli. Ora che questo modello è in crisi sarebbe oggettivamente più forte la proposta di un modello alternativo.
Vi è poi il problema dell’enorme debito accumulato dai paesi avanzati. Il Fmi ha finalmente cominciato a formulare una classifica dell’instabilità nella quale non si tiene conto solo del debito pubblico di ciascun paese, ma del debito totale: somma del debito pubblico, di quello delle famiglie e di quello delle imprese. Adottando questo criterio paesi a più alta instabilità risultano Usa, Inghilterra, Spagna, Portogallo, paesi dai quali la crisi è nata o che da essa sono stati più pesantemente colpiti e che, tuttavia, con i criteri dell’ancora vigente “ patto di stabilità” europeo, parametrato solo sul debito pubblico, risultano tra i paesi più stabili in quanto caratterizzati da un debito pubblico inferiore alla media anche se afflitti da un enorme debito privato. La prima conclusione dovrebbe essere che è necessario cambiare il “ patto di stabilità” parametrandolo non al solo debito pubblico, ma al debito totale, al tasso di risparmio, alla situazione della bilancia dei pagamenti . Qui ciò che stupisce è che da parte italiana, neanche da sinistra è mai venuta una proposta a cambiare il patto di stabilità in tale direzione.
Il livello del debito totale è comunque enorme, secondo i dati citati va da un massimo di circa quattro volte il Pil negli Usa ad un minimo, si fa per dire, di circa due volte per il paesi più virtuosi, Finlandia e Germania. Si tratta di un record storico. Riferendosi a questa realtà, l’introduzione di un rapporto speciale sul debito pubblicato in The Economist del 26/6/10 così conclude “ Questo rapporto speciale sosterrà che, per il mondo sviluppato, il modello finanziato dal debito ha raggiunto il suo limite. La maggior parte delle opzioni per fare i conti con l’eccesso di debito sono impalatabili. Come è già stato visto in Grecia ed in Irlanda, ciascun governo dovrà trovare la propria via per ridurre il peso. La battaglia tra i debitori ed i creditori può essere lo scontro determinante della prossima generazione”.
Se ci si chiede in che direzione sono andate finora le scelte fatte non ci sino dubbi: a favore dei creditori, cioè dei più ricchi. Quando si sostiene che le banche non possono fallire e vengono salvate con denaro pubblico, che Stati come la Grecia non possono ristrutturare il loro debito per non causare perdite alle banche ed ai ai risparmiatori e vanno salvati con denaro pubblico, che il tasso di inflazione accettabile non può essere elevato, anche se ciò viene ora proposto perfino dal direttore del dipartimento economico del Fmi con altri economisti, si sta scegliendo di onorare fino in fondo il debito accumulato anche se i crediti corrispondenti sono il frutto di un meccanismo distorto ed anche di comportamenti speculativi. Allora l’austerità può apparire una scelta inevitabile dalla quale saranno colpiti non solo i debitori, ma anche i contribuenti che sono chiamati a pagare il conto ed i giovani che lo pagheranno per molti anni futuri.
In pratica pagherà la società nel suo complesso, visto che l’esperienza ci dice che situazioni di eccesso di indebitamento possono portare a lunghe fasi di depressione o stagnazione necessarie per smaltire il debito. Già negli anni ’30 il più grande economista statunitense dell’epoca, Irving Fisher, spiegò la grande depressione con la “ debt deflation theory”, come deflazione causata dall’eccesso di debito. Da quella situazione gli Usa e gli altri paesi industrializzati uscirono solo in seguito all’impetuoso sviluppo e soprattutto alla forte inflazione successivi alla seconda guerra mondiale. L’inflazione allora colpì i risparmiatori, ma aiutò le giovani generazioni impegnate a ricostruire i propri paesi.
Anche su un tema come questo bisognerebbe riflettere se si vuole aprire la strada ad un nuovo modello di sviluppo.