L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

venerdì 17 dicembre 2010

sul solco delle idee della "lettera degli economisti".


GLI STATI INVESTANO PER FERMARE LA CRISI
Da "LA REPUBBLICA - INSERTO AFFARI&FINANZA" di lunedì 13 dicembre 2010
di JOSEPH STIGLITZ Nel periodo immediatamente successivo alla Grande Recessione, i Paesi si sono ritrovati con deficit senza precedenti in tempi di pace e sempre più forti ansie per il loro indebitamento pubblico in costante aumento. In molti Paesi tutto ciò ha portato a varare nuove misure di austerity, provvedimenti che quasi di sicuro comporteranno una maggiore debolezza per le economie nazionali e globali.
Questi provvedimenti porteranno anche ad un cospicuo rallentamento del ritmo della ripresa. Coloro che così facendo auspicano significative riduzioni del deficit rimarranno amaramente delusi, dal momento che la recessione economica ridurrà considerevolmente il gettito fiscale e aumenterà le richieste di sussidi di disoccupazione e altri benefit sociali.
Il tentativo di frenare la crescita del debito servirà a concentrarsi meglio: obbligherà infatti i Paesi a focalizzarsi sulle priorità e a dare giusto valore alle cose. E poco plausibile che gli Stati Uniti nel breve periodo varino consistenti tagli al budget, seguendo l`esempio del Regno Unito. Ma la previsione a lungo termine - resa particolarmente disastrosa dall`incapacità della riforma dell`assistenza sanitaria di incidere più di tanto nelle spese mediche in costante aumento - è sufficientemente spenta da far sì che sia giunta l`ora di fare qualcosa in modo bipartisan. Il presidente Barack Obama ha nominato una commissione bipartisan incaricata di lavorare sulla riduzione del deficit, i cui presidenti di recente hanno anticipato alcuni dati, fornendo qualche indizio su come potrebbe risultare il loro rapporto conclusivo.
Da un punto di vista esclusivamente tecnico, ridurre il deficit è una faccenda assai semplice: si tratta infatti di tagliare le spese oppure di aumentare i1 prelievo fiscale. E evidente, tuttavia, che l`agenda della riduzione del deficit, quanto meno negli Stati Uniti, si spinge ben oltre: è un tentativo di indebolire le coperture sociali, ridurre la gradualità del sistema fiscale, ridimensionare il ruolo e l`azione del governo, lasciando al contempo intatti e colpiti meno possibile gli interessi ormai consolidati, come quelli del comparto industriale militare.
Negli Stati Uniti come pure in qualche altro Paese industriale avanzato - qualsiasi programma di riduzione del deficit deve essere contestualizzato in rapporto a ciò che è accaduto nel corso dell`ultimo decennio:
1) Un consistente aumento delle spese per la Difesa, alimentate da due guerre inutili, ma che sono andate ben oltre le aspettative;
2) Disparità in forte crescita: l`uno per cento della popolazione guadagna più del 20 per cento del reddito complessivo del Paese. A ciò si accompagna un consistente indebolimento della classe media: il reddito della famiglia media negli Stati Uniti è sceso nell`ultimo decennio di oltre il cinque per cento, nell’ultimo decennio, ed era già in calo prima che subentrasse la recessione;
3) Scarsi investimenti nel settore pubblico, compreso nelle infrastrutture, messi platealmente in luce dal cedimento degli argini di New Orleans;
4) Un aumento del corporate welfare, dai salvataggi in extremis delle banche ,ai sussidi per l`etanolo, alla proroga dei sussidi agli agricoltori, addirittura dopo che proprio tali sussidi sono stati definiti illegali dall`Organizzazione Mondiale del Commercio.
In conseguenza di tutto ciò, è facile formulare un pacchetto di riduzione del deficit che migliori l`efficienza, rafforzi la crescita e riduca le disparità.
Si rendono necessari cinque elementi basilari.
Primo: la spesa per investimenti pubblici molto redditizi dovrebbe essere aumentata. Anche se ciò sul breve periodo inevitabilmente aumenta il deficit, a lungo termine porterà a una riduzione dell`indebitamento della nazione. Quale azienda non sarebbe disposta a lanciarsi e a investire in opportunità in grado di garantire utili superiori al dieci percento, se solo potesse prendere in prestito capitali - come può fare il governo degli Stati Uniti con un tasso di interesse inferiore altre per cento? Secondo: è indispensabile tagliare le spese militari, non solo i finanziamenti per le guerre inutili, ma anche i finanziamenti per armi che non funzionano contro nemici che non esistono. Noi abbiamo continuato a investire in questa direzione come se la Guerra Fredda non fosse mai giunta a termine, spendendo per la Difesa quanto spende il resto del mondo considerato nel suo complesso.
Da ciò si arriva al terzo punto, la necessità di eliminare il corporate welfare. Se da un lato l`America ha rimosso ogni rete dì protezione per la popolazione, dall`altro ha rafforzato quella per le aziende come hanno platealmente attestato durante la Grande Recessione i salvataggi in extremis di AIG, Goldman Sachs e di altre banche. Al programma di assistenza alle imprese va circa la metà delle entrate complessive in alcune aree del comparto agricolo degli Stati Uniti. Per esempio pochi ricchi coltivatori ricevono miliardi di dollari di sussidi per il cotone, nel momento stesso in cui si registrano prezzi in calo e povertà in aumento tra i concorrenti del mondo in via di sviluppo.
Una forma del tutto particolare di sovvenzione offerta alle aziende è quella concessa alle società farmaceutiche. Anche se il governo è l`acquirente principale dei loro prodotti, non gli è consentito trattare sul prezzo, e di conseguenza così si alimenta un aumento degli utili del settore - e di spese per il governo - quantificabili in mille miliardi di dollari nell`arco di dieci anni.
Altro esempio di questo fenomeno è la straordinaria abbondanza di benefit particolari concessi al settore energetico, specialmente petrolifero e del gas, circostanza che a uno stesso tempo priva il Tesoro, dirotta l`allocazione delle risorse e distrugge l`ambiente. Seguono da vicino quelle che paiono offerte smisurate delle risorse nazionali, dalla banda di frequenza gratuita concessa alle emittenti, alle basse royalty date dalle società minerarie, ai sussidi per le aziende del legname.
Si rende pertanto necessario creare un sistema fiscale più equo e più efficiente, eliminando ogni trattamento speciale dei capital gain e dei dividendi. Perché mai coloro che lavorano per mantenersi dovrebbero essere soggetti a un prelievo fiscale maggiore di coloro che rovinano la loro vita speculando sulla loro pelle, e spesso a spese altrui? Infine, giacché oltre il 20 per cento del reddito complessivo va finire nelle tasche del più fortunato 1 per cento della popolazione, un leggero aumento (nei loro confronti) - diciamo del cinque per cento - del prelievo fiscale effettivamente riscosso porterebbe nel giro di un decennio a incassare oltre mille miliardi di dollari. Un pacchetto di misure miranti alla riduzione del deficit strutturato secondo queste linee orientative risponderebbe più che mai alle richieste più esigenti dei falchi del deficit. Incrementerebbe l`efficienza, promuoverebbe la crescita, migliorerebbe l`ambiente e offrirebbe vantaggi ai lavoratori e alla classe media.
L`unico vero problema è che non arrecherebbe vantaggi a coloro che sono al vertice della piramide sociale, né alle imprese, né ad altri interessi speciali che sono ormai arrivati a dominare la politica americana. La sua logica così convincente è per l`appunto il motivo stesso per il quale ci sono davvero scarse possibilità che una proposta così ragionevole possa essere adottata.
Traduzione di Anna Bissanti

Il Mondo del Lavoro è sempre in movimento.


Fiat: ‘Lavoro e libertà’, sabato manifestazione Fiom a Mirafiori Si terrà sabato, 18 dicembre, alle 9.30, alla Porta 5 di Mirafiori, la manifestazione 'Lavoro e Libertà', promossa dalla Fiom di Torino. “Vogliamo un lavoro libero - hanno affermato il responsabile auto della Fiom, Giorgio Airaudo, ed il segretario generale della Fiom di Torino, Federico Bellono, nel corso della presentazione dell’iniziativa - un lavoro che non limiti la libertà delle persone”. Alla mobilitazione di sabato hanno aderito anche la Cgil torinese e quella del Piemonte. “La Fiom - si legge nella nota sindacale - invita tutti i cittadini a partecipare. Manifesteremo perché la trattativa riprenda, perché noi siamo disposti a lavorare, ad andare oltre i 15 turni e siamo disponibili sulla flessibilità”. “Bisogna evitare che, - ha spiegato Bellono - dopo dieci giorni di empasse, peraltro con i lavoratori in azienda, si concluda un accordo a fabbrica chiusa. Su questa condizione - ha proseguito - abbiamo registrato una forte richiesta da parte dei lavoratori durante le assemblee della scorsa settimana”. Questi ultimi, infatti, “vogliono essere coinvolti in corso d'opera e non solo a posteriori per essere chiamati semplicemente a dire sì o no”. Lo stesso Bellono ha anche reso noto il numero delle firme raccolte alle Carrozzerie di Mirafiori per chiedere l'investimento previsto, ma senza replicare il modello Pomigliano, ossia “2.700 su circa 5.500 dipendenti complessivi”. I due sindacalisti hanno poi commentato l’indiscrezione su un'iniziativa pro Marchionne, a favore del contratto su Mirafiori, che si dovrebbe svolgere sempre sabato al Lingotto. “Se ci sarà una manifestazione organizzata dai capi Fiat - hanno dichiarato Airaudo e Bellono - pensiamo sia legittima, ma pensiamo anche sia necessaria un'alternativa e per questo noi saremo alle 9.30 di sabato alla Porta 5 di Mirafiori”. Secondo Airaudo, inoltre, il tutto sarebbe “la ripetizione in farsa di quella del 1980, la 'marcia dei quarantamila’, che in realtà - ha concluso - è stata una tragedia, perché ha significato la sconfitta degli operai”.
Mauro Sedda
Tratto da http://www.newnotizie.it/2010/12/16/fiat-%E2%80%98lavoro-e-liberta%E2%80%99-sabato-manifestazione-fiom-a-mirafiori/

martedì 14 dicembre 2010

La violenza è utilizzata dal potere contro le classi subalterne!






Che poi la violenza proviene da manifestanti o da forze di polizie non ha importanza perché sono identiche figlie dell' intolleranza, dell’annichilimento e nemiche del potere delle idee e delle sue affermazioni!
La violenza è costruita per impedire la nascita, la crescita del Potere Alternativo, questo si che viene temuto dal potere politico, economico e finanziario degli Interessi Consolidati.
I poveri si fanno la guerra tra loro, manifestanti e forze dell’ordine, mentre in Parlamento si attua plasticamente l’effetto del mercato degli acquisti e delle vendite di uomini, e i contenuti propositivi e i valori sono relegati in soffitta.

La fiat di Sergio Marchionni ha deciso di abolire il Contratto Nazionale in quanto questo è lo strumento per la salvaguardia delle condizioni di lavoro e dei salari degli operai.

I 1.300 euro al mese sono troppi per vivere, la fiat di Sergio Marchionni ha deciso che li deve diminuire forse a 1.200, forse a 1000, forse a 900 euro al mese, forse a 350- 400 euro al mese come a Krugujevac in Serbia nel futuro stabilimento fiat.

La fiat di Sergio Marchionni ha deciso che l’operaio deve lavorare 10 ore al giorno per quattro giorni, ma se serve per cinque giorni, sei giorni, sette giorni, sempre dieci ore al giorno, se serve.

Ma se serve l’operaio deve andare in cassa integrazione, che è pagata dalla comunità cioè dalle classi subalterne, (le rendite finanziarie, dei ricchi sono tassate al 12,50%), con un salario ancora più basso in quanto non ha lavorato.

La fiat di Sergio Marchionni ha deciso che l’operaio non si deve ammalare e se si ammala non deve essere pagato

La fiat di Sergio Marchionni ha deciso che l’operaio non deve scioperare, perché se sciopera sarà licenziato.

Il Mondo del Lavoro, del Precariato e della Disoccupazione è il vero problema dell’Europa e dell’Italia e servono proposte forti per affrontarlo e cercare di risolverlo.

“Si deve puntare a coordinare la politica fiscale e la politica monetaria europea al fine di predisporre un piano di sviluppo finalizzato alla piena occupazione e al riequilibrio territoriale non solo delle capacità di spesa, ma anche delle capacità produttive in Europa. Il piano deve seguire una logica diversa da quella, spesso inefficiente e assistenziale, che ha governato i fondi europei di sviluppo. Esso deve fondarsi in primo luogo sulla produzione pubblica di beni collettivi, dal finanziamento delle infrastrutture pubbliche di ricerca per contrastare i monopoli della proprietà intellettuale, alla salvaguardia dell’ambiente, alla pianificazione del territorio, alla mobilità sostenibile, alla cura delle persone“.

Oggi in Italia serve un governo profondamente diverso da quello di Tremonti-Berlusconi che faccia sua le proposte illustrate e le porti all’attenzione della Comunità Europea.

In Italia ci sono personalità forti e competenti per attuare programmi basati sul rilancio della scuola e università pubblica, sulla ricerca, sulle innovazioni, sulle nuove tecnologie, sulle strutture materiali e immateriali, sulla lotta agli sprechi e sulla diversa allocazione delle risorse pubbliche, è un’opportunità e non possiamo lasciarcela sfuggire.

Oggi serve un governo che duri fino alla fine della legislatura e che goda della più ampia maggioranza parlamentare possibile con l’appoggio esterno del Pd.

martelun

domenica 12 dicembre 2010

Chi ha ucciso l’euro?

Matías Vernengo* - 10 Dicembre 2010

Prima della Grande Recessione era diffusa l’opinione che il ruolo di riserva internazionale del dollaro fosse a rischio, e che una crisi avrebbe potuto generare una fuga dal dollaro. Invece, inaspettatamente, la vittima della crisi è stato l’euro. Se per caso era rimasto qualche dubbio circa la morte dell’euro dopo la crisi greca, questo è stato eliminato dalla successiva crisi irlandese.

Chi l’ha ucciso? Non c’è bisogno della polizia scientifica per cercare le prove, il colpevole ha lasciato tracce ovunque… no, non è stato il maggiordomo, ma la Banca Centrale Europea.

Negli Stati Uniti la crisi ha fatto sì che la Federal Reserve si impegnasse a mantenere bassi i tassi di interesse sui titoli del debito pubblico a lungo termine, utilizzando la controversa politica di espansione della quantità di moneta. Continuando a comprare grandi quantità di titoli pubblici, la Fed non solo mantiene bassi i tassi di interesse, ma fornisce la garanzia che questi titoli sono assolutamente sicuri. Questo a sua volta consente al Tesoro americano di mantenere elevati disavanzi pubblici senza problemi di sostenibilità.

Questo è l’esatto opposto di quanto sta facendo la BCE con i paesi della ‘periferia’ europea. I paesi che fanno parte di un’unione monetaria perdono il controllo della politica monetaria e non possono svalutare il tasso di cambio. Ma la moneta unica significa anche la perdita della possibilità per un singolo paese di decidere circa i propri disavanzi pubblici, perché le fonti di finanziamento o vengono meno o sono sottoposte ad un controllo sovranazionale. Certo, se la BCE decidesse di comprare titoli di stato greci o irlandesi (e anche portoghesi e spagnoli), in modo da mantenere i loro tassi di interesse allo stesso livello di quelli tedeschi, potrebbe farlo. Purtroppo tuttavia la BCE ha deciso di dimostrare che i titoli pubblici denominati in euro sono tutti uguali, ma alcuni sono più uguali di altri. E se la BCE dichiara che alcuni dei titoli denominati in euro non valgono nulla – chi altro può metterlo in dubbio?

Come nel caso della Grecia, l’Irlanda sta accettando un salvataggio condotto dalla Unione Europea, Fondo monetario e BCE, che richiede politiche di aggiustamento fiscale estremamente severe, che accrescono la disoccupazione, e che sono alla fine destinate a fallire. Dovrebbe semplicemente abbandonare l’euro, anche se in realtà è molto probabile che continui invece a rimanere nell’unione monetaria per diversi anni (come fece l’Argentina col il cambio fisso).

E dunque, la BCE è il colpevole, anche se c’è stato un complice: gli economisti, che hanno per tutto il tempo dato una mano ad uccidere l’euro. La crisi europea è un ulteriore esempio di come gli economisti mainstream cercano di far finta che nessuno potesse prevedere la crisi, perché il fenomeno era troppo complesso per essere previsto.

Per esempio recentemente Brad De Long ha espresso preoccupazione sulle politiche economiche della BCE ed ammesso di essersi sbagliato nel ritenere che nessun governo avrebbe consentito alla disoccupazione di rimanere al 10% per un periodo lungo. Eppure nel 1998, lo stesso Brad de Long affermava in un libro pubblicato da NBER che: “gli economisti…ritengono che la spesa pubblica in disavanzo non ha effetti espansivi”. Se fosse così non avrebbe ragione di preoccuparsi per le politiche attuali! Questo mostra quanto poco questi economisti credessero veramente alla loro stessa tesi che fosse la riduzione della spesa pubblica ad avere effetti espansivi sull’economia!

I problemi delle analisi mainstream sono ancora più profondi e sono strettamente legati a quella che Paul Krugman chiama la “sintesi di Samuelson”, cioè l’idea che il keynesismo fosse basato sui fallimenti del mercato (cioè su rigidità dei salari o del tasso di interesse). Ma non è così. Nel capitolo 19 della Teoria Generale Keynes mostra che la flessibilità dei salari ha effetti negativi e quindi, sì, la soluzione è la politica fiscale espansiva.

In realtà, come ha notato solo Dean Baker (che ha avuto sempre ragione e che spesso, forse proprio per questo, viene dimenticato) l’Irlanda, sino a prima della crisi, aveva fortissimi avanzi (sì, proprio così!) nei propri conti pubblici – di fatto l’Irlanda era additata come l’esempio di una politica fiscale restrittiva che genera espansione.

Sarebbe stato meglio per gli irlandesi se avessero prestato ascolto al grande economista irlandese Wynne Godley che nel 1992 avvertiva: “la incredibile lacuna nel programma europeo è che non c’è nessun progetto di qualcosa di analogo, in termini comunitari, di un governo centrale… Se un paese o regione non ha alcun potere di svalutare, e se non può beneficiare di un sistema di trasferimenti fiscali che tendano ad eguagliare le condizioni, allora non c’è nulla che possa impedirgli di soffrire di un processo di declino cumulativo e definitivo che alla fine farà sì che l’emigrazione sia l’unica alternativa alla povertà e all’inedia.” Nel 2001 Arestis e Sawyer hanno posto la questione se l’euro avrebbe causato una crisi in Europa, e hanno risposto di sì. Ma in economia avere ragione non conta – ciò che paga è dire ciò che i mercati vogliono sentire.

*University of Utah, USA. Traduzione a cura della redazione di economicaepolitica.it.

tratto da http://www.economiaepolitica.it/index.php/europa-e-mondo/chi-ha-ucciso-leuro/

“Le sentenze alla fine non bastano la «razza predona» non paga mai”



di Rinaldo Gianola



Il premio Nobel Stiglitz ha scritto: «L’economia degli anni Novanta è stato un cocktail adulterato: tre quarti di menzogne e un quarto di avidità». Ecco la miscela Parmalat . In parlamento si comprano deputati, Alemanno assume ex camerati e amici. Tanzi condannato non passerà neanche un giorno in carcere. Tutto si tiene in un paese dove la legalità è un optional. Calisto Tanzi non sconterà nemmeno un giorno in carcere, anche se la giustizia lo ha già condannato due volte a Milano a dieci anni e ieri il Tribunale di Parma gli ha inflitto, in primo grado, una pena di diciotto anni. L’ex proprietario e presidente della Parmalat ha superato i settant’anni e anche se i giudici lo hanno ritenuto il responsabile del più grande crac finanziario dello storia della Repubblica Italiana potrà stare tranquillo a casa sua, o al massimo svolgerà qualche servizio sociale come alternativa alla detenzione.
Ma non andrà in galera perchè potrà usufruire della legge voluta da Silvio Berlusconi per evitare il carcere al suo avvocato del cuore, già parlamentare di Forza Italia e ministro della Difesa, Cesare Previti. La sentenza di Parma arriva nello stesso giorno in cui in parlamento è in corso un mercato vergognoso di voti per salvare il governo, mentre Alemanno assume vecchi fascisti
nelle municipalizzate di Roma e tutto pare tenersi in questa Italia malmessa e proterva.
Nessuno può permettersi di invocare la galera per gli altri,ma i due filoni processuali del crac Parmalat, a Milano e a Parma, le prime conclusioni, le condanne, le motivazioni dei giudici in particolare in riferimento al ruolo del sistema bancario e al comportamento delle autorità di controllo e della politica, consentono di affermare che Calisto Tanzi e i suoi manager sono stati fortunati ad essere giudicati in Italia. Fossero stati giudicati in America, com’è accaduto ai vertici della WorldCom, della Enron, al finanziere Bernard Madoff, responsabili di enormi truffe ai danni degli investitori, dei risparmiatori, dei dipendenti e dei clienti, il loro destino sarebbe stato certamente più crudele. Le corti americane hanno emesso condanne complessive per diversi secoli di carcere. I giudici hanno imposto che Tanzi e i suoi ex manager contribuiscano a un risarcimento all’azienda Parmalat e ai sottoscritori di obbligazioni, vittime ignare della truffa. Le migliaia di famiglie che hanno visto svanire i loro risparmi, i lavoratori che avevano investito la loro liquidazione, i pensionati rimasti senza un soldo dopo aver scommesso sulle promesse della vecchia Parmalat riusciranno a portare a casa qualcosa? Ora bisognerà verificare come, dopo le transazioni con le banche, sarà possibile rivalersi su Tanzi, visto che l’ex industriale al processo ha negato di esser in possesso di patrimoni: «Non ho più niente, non esiste alcun tesoretto» ha detto, anche se le indagini non hanno mai chiarito i suoi viaggi in America Latina, prima dell’arresto nel dicembre 2003. Tanzi aveva già negato l’esistenza della sua pinacoteca personale con decine di dipinti, da Kandinskij a De Nittis, che i suoi ospiti vip avevano potuto ammirare per anni.
Ma come se un’amnesia collettiva si fosse abbattuta su Parma e dintorni, nessuno si è più ricordato di quei quadri, di quel patrimonio che il padrone della Parmalat ostentava come segno del potere e della ricchezza. Nella soave ipocrisia della provincia e di questo capitalismo predatore, la città sembra estranea a quel campione dell’impresa che sotto i portici era di casa tra latte, merendine, calcio e Formula Uno. Possibile che nessuno, nemmeno la Gazzetta diParma la Pravda locale degli industriali, ricordi quando Tanzi ospitava politici e finanzieri, li portava in giro con l’aereo privato e pagava le Assise della Confindustria negli stand della Fiera dove i vari D’Amato e Berlusconi si lanciavano contro lo Stato spendaccione e i sindacati invadenti?
Tanzi e il crac sono figli di questo sistema economico, come altri. Tanzi è stato il campione di un capitalismo che ha cavalcato la finanza facile, la compromissione con la politica e la carenza dei controlli. Un fenomeno non solo tricolore. Il premio Nobel Joseph Stiglitz, che non è un pericoloso comunista, ha scritto:
«L’economia degli anni Novanta è stato un cocktail adulterato: tre quarti di menzogne e un quarto di avidità». Tutto in nome del mercato. La politica, le istituzioni, le Autorità di controllo dovrebbero chiedersi se le cose sono cambiate.
Ci possono aiutare le parole di Francesco Greco, procuratore aggiunto a Milano, che in un’intervista ha detto: «I danni e le vittime della criminalità economica e della corruzione sono ingenti se non devastanti: si pensi all’evasione fiscale, al debito pubblico esploso negli anni di Tangentopoli, agli scandali che hanno travolto centinaia di migliaia di piccoli risparmiatori, agli infortuni sul lavoro…Sono danni di cui tutti siamo vittime, che tutti stiamo pagando. Eppure questa percezione manca nell’opinione pubblica. Oggi la prima battaglia culturale è spiegare alla gente quanti e quali danni sta subendo per effetto della criminalità economica».


L’Unita 10.12.10


tratto da http://www.manuelaghizzoni.it/?p=17189