L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

martedì 28 dicembre 2010

Bagno di sangue in Fiat!


Caro Sergio, Non posso nascondere l’emozione provata quando ho trovato la sua missiva, ho pensato fosse la comunicazione di un nuovo periodo di cassa integrazione e invece era la lettera del «padrone», anzi, chiedo scusa: la lettera di un collega.
Ho scoperto che abbiamo anche una cosa in comune, siamo nati entrambi in Italia. Mi trova d’accordo quando dice che ci troviamo in una situazione molto delicata e che molte famiglie sentono di più il peso della crisi. Aggiungerei però che sono le famiglie degli operai, magari quelle monoreddito, a pagare lo scotto maggiore, non la sua famiglia. Io conosco la situazione più da vicino e, a differenza sua, ho molti amici che a causa dei licenziamenti, dei mancati rinnovi contrattuali o della cassa integrazione faticano ad arrivare a fine mese. Ma non sono certo che lei afferri realmente cosa voglia dire.
Quel che è certo è che lei ha centrato il nocciolo della questione: il momento è delicato.
Quindi, che si fa? La sua risposta, mi spiace dirlo, non è quella che speravo. Lei sostiene che sia il caso di accettare «le regole del gioco» perché «non l’abbiamo scelte noi».
Chissà come sarebbe il nostro mondo se anche Rosa Lee Parks, Martin Luther King, Dante Di Nanni, Nelson Mandela, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, Emergency, Medici senza Frontiere e tutti i guerrieri del nonostante che tutti i giorni combattono regole ingiuste e discriminanti, avessero semplicemente chinato la testa, teorizzando che il razzismo, le dittature, la mafia o le guerre fossero semplicemente inevitabili, e che anziché combatterle sarebbe stato meglio assecondarle, adattarsi.
La regola che porta al profitto diminuendo i diritti dei lavoratori è una regola ingiusta e nel mio piccolo, io continuerò a crederlo e a oppormi.
Per quel che riguarda Pomigliano, le soluzioni che propone non mi convincono. Aumentare la competitività riducendo il benessere dei lavoratori è una soluzione in cui gli sforzi ricadono sugli operai.
Lei saprà meglio di me come gestire un’azienda, però quando parla di «anomalie» a Pomigliano, non posso non pensare che io non conoscerò l’alta finanza, ma probabilmente lei non ha la minima idea di cosa sia realmente, mi passi l’espressione, «faticare».
Non so se lei ha mai avuto la fortuna di entrare in una fonderia. Beh, io ci lavoro da 13 anni e mentre il telegiornale ci raccomanda di non uscire nelle ore più calde, io sono a diretto contatto con l’alluminio fuso e sudo da stare male.
Le posso garantire che è già tutto sufficientemente inumano. Costringere dei padri di famiglia ad accettare condizioni di lavoro ulteriormente degradanti, e quel che peggio svilenti della loro dignità di lavoratori, non è una strategia aziendale: è una scappatoia.
Ma parliamo ora di cose belle. Mi sono nuovamente emozionato quando nella lettera ci ringrazia per quello che abbiamo fatto dal 2004 ad oggi, d’altronde come lei stesso dice «la forza di un’ organizzazione non arriva da nessuna altra parte se non dalle persone che ci lavorano».
Spero di non sembrarle venale se le dico che a una virile stretta di mano avrei preferito il Premio di risultato in busta paga oppure migliori condizioni di lavoro. Oppure poteva concedere il rinnovo del contratto a tutti i ragazzi assunti per due giorni oppure una settimana solo per far fronte ai picchi di produzione, sfruttati con l’illusione di un rinnovo e poi rispediti a casa. Lei dice che ci siete riconoscenti.
Ci sono molti modi di dimostrare riconoscenza. Perché se, come pubblicano i giornali, la Fiat ha avuto un utile di 113 milioni di euro, ci viene negato il Premio di produzione? Ma immagino che non sia il momento di chiedere. D’altronde dopo tanti anni ho imparato: quando l’azienda va male non è il momento di chiedere perché i conti vanno male e quando l’azienda guadagna non è il momento di fermarsi a chiedere, è il momento di stringere i denti per continuare a far si che le cose vadano bene.
Lei vuole insegnarci che questa «è una sfida che si vince tutti insieme o tutti insieme si perde». Immagino che comprenda le mie difficoltà a credere che lei, io, i colleghi di Pomigliano e i milioni di operai che dipendono dalle sue decisioni, rischiamo alla pari. Se si perderà noi perderemo, lei invece prenderà il suo panfilo e insieme alla sua liquidazione a svariati zeri veleggerà verso nuovi lidi.
Noi tremeremo di paura pensando ai mutui e ai libri dei ragazzi, e accetteremo lavori con trattamenti ancora più più svilenti, perché quello che lei finge di non sapere, caro Sergio, è che quello che impone la Fiat, in Italia, viene poi adottato e imposto da ogni altro grande settore dell’industria.
Spero che queste righe scritte con il cuore non siano il sigillo della mia lettera di licenziamento. Solo negli ultimi tempi ho visto licenziare cinque miei colleghi perché non condividevano l’idea «dell’entità astratta, azienda». Ora chiudo, anche se scriverle è stato bello. Spererei davvero che quando mi chiede se per i miei figli e i miei nipoti vorrei un futuro migliore di questo, guardassimo tutti e due verso lo stesso futuro.
Temo invece che il futuro prospettato ai nostri figli sia un futuro fatto di iniquità, di ingiustizia e connotato da una profonda mancanza di umanità. (…) Un futuro in cui si devono accettare le regole, anche se ingiuste, perché non le abbiamo scelte noi. Sappia che non è così, lei può scegliere. Insieme, lei e noi possiamo cambiarle quelle regole, cambiarle davvero, anche se temo che non sia questo il suo obbiettivo (…).
A lei le cose vanno già molto bene così.
Sappia che non ha il mio appoggio e che continuerò ad impegnarmi perché un altro mondo sia possibile. Buon lavoro anche a lei.
Massimiliano Cassaro
24 luglio 2010
tratto da http://www.disordine.com/2010/07/25/gran-torino-lettera-di-un-operaio-fiat-a-marchionne/

Una giornata da operaio Fiat: 8,95 euro l'ora, sveglia alle 4,30, la stessa mansione per otto ore

Scritto da FRANCESCO   
di Salvatore Cannavò  da "Il Fatto quotidiano" (...)
Uno guarda la tv, sente le notizie sulle industrie, le fabbriche, gli operai e pensa che questi non esistano più. Sullo schermo ci sono solo immagini di robot tecnologici che spostano pezzi, bullonano auto, le verniciano e a volte le guidano anche. Le immagini degli operai non ci sono mai. (...)Per vederli devono fare uno sciopero o una manifestazione, bloccare un'autostrada. Oppure devi metterti tu davanti ai cancelli, magari proprio quelli di Mirafiori, a Torino, e vederli sciamare veloci per tornarsene a casa. A malapena ti danno retta se vuoi parlarci, dopo otto ore lì dentro è comprensibile. Ma com'è lì dentro? Che significa oggi essere un operaio? Davvero, siamo lontani dagli anni 70 e 80, dalla figura dell'”operaio massa” che tanta storia ha fatto in questo paese? A sentire il racconto di Pasquale, operaio alle Carrozzerie di Mirafiori dal 1988 – «prima ero alle Meccaniche», precisa – sembra quasi di rileggere le formidabili pagine del “Vogliamo tutto” di Nanni Balestrini. Certo non c'è quella rabbia fisica, non trasuda la rivolta ma la fabbrica è ancora tutta addosso alle spalle di chi ci lavora, un ambiente che induce alla «paranoia», straniante e straniera allo stesso tempo. Anche se ci lavori da oltre venti anni. Venti anni di giornate uguali e faticose.
Ore 4,30, la sveglia
«Quando ho il primo turno, che inizia alle sei del mattino, mi alzo alle 4,30. Non è facile ma dopo un po' ci si abitua anche se rimango in silenzio almeno fino alle 8 di mattina. In fabbrica ci vado in tram, con i servizi speciali che l'Att torinese ha predisposto per gli operai Fiat. Li possono prendere tutti ma fanno dei tragitti speciali. In media ci vogliono solo 20 minuti per arrivare ai cancelli ma bisogna arrivare alla fermata in tempo, quindi alle 5,10 sono già lì in modo da stare alle 5,45 davanti ai cancelli».
Ore 5,45, ai cancelli
«Lì avviene la prima timbratura, quella ai tornelli. Una volta infilato il badge nella fessura la Fiat sa che sei dentro, sei nel perimetro della fabbrica. Non è ancora l'inizio dell'orario di lavoro, c'è da fare ancora una seconda timbratura, che noi chiamiamo bollatura, subito dopo i tornelli. Da lì si passa agli spogliatoi, ci vogliono cinque minuti per arrivarci e in cinque minuti ci si cambia, ci si mette la tuta dell'azienda e si arriva alla postazione di lavoro. Io ci arrivo a pelo, alle 6 in punto si comincia a lavorare. Se sgarri di un solo minuto, l'azienda ti addebita un quarto d'ora sulla busta paga; dopo il primo quarto d'ora l'addebito sale a mezz'ora dopo la quale i ritardi vengono conteggiati nei minuti esatti». La paga oraria di Pasquale – la prende e la controlla - è di 8,95 euro l'ora. Un ritardo di un minuto, facciamo i calcoli, gli costa circa due euro netti. Per mezz'ora se ne vanno quattro euro.
Ore 6, inizio turno
Alle sei del mattino, quindi, il nostro interlocutore si piazza alla sua postazione di lavoro. Che è quella del giorno prima. L'azienda può cambiare la postazione o la squadra a cui si è assegnati, entro un'ora dall'avvio della produzione ma o ci sono emergenze oppure generalmente si procede come d'abitudine. Pasquale lavora a una postazione «di sequenza», cioè prende i pezzi da montare sulle auto, o su parti di esse, che scorrono lungo la linea di montaggio, e li distribuisce a seconda dei numeri che hanno impressi sopra. «Prima stavo anch'io sulla linea e ho montato per anni i pezzi direttamente sull'auto, poi dopo un'embolia polmonare e altri malanni vari sono stato messo di fianco a sequenziare i pezzi. Il vantaggio è di non essere direttamente legato al ritmo costante della linea che ti impone tempi più rigorosi».
«Ogni numero corrisponde a una posizione sull'auto. I pezzi sono contenuti in vari cassoni – dodici in tutto e ogni cassone è lungo circa tre metri per un metro e mezzo di larghezza – e io li smisto in cassoni più piccoli, più maneggevoli sulla linea». Sulla sua linea passano le portiere: dalla scocca dell'auto, nuda e verniciata, che scorre su una delle tre linee di cui sono composte le Carrozzerie, vengono smontate le portiere che scorrono su una linea separata e lì vengono completate dei pezzi mancanti: si aggiungeranno maniglie, cavi elettrici, insonorizzazioni e così via. I pezzi a volte pesano 6 o 7 chili l'uno: la mansione è sempre la stessa non ha varianti, non prevede imprevisti né autonomia. Si tratta di raccogliere pezzi, distribuirli, raccoglierli e smistarli. Tutto il giorno, per otto ore, anzi un po' meno perché ci sono le pause che vedremo fra poco. «Quando stavo direttamente sulla linea ricordo che montavo delle boccole – supporti cilindrici per albero motore o cambio -, tutto il giorno a montarle senza sosta. Era un lavoro frenetico e ossessivo, paranoico direi. Perché la cosa assurda che ti capita con la linea di montaggio è che più il lavoro è facile più dai fuori di testa, perché la ripetizione è micidiale. Se è più difficile, magari puoi utilizzare un po' di malizia per cercare di rallentare il ritmo e provare un po' a pensare». Sembra di vedere Charlie Chaplin, in Tempi moderni, ma non è uno scherzo. Il fatto è che, parlando con Pasquale, capiamo che la fisionomia dell”operaio massa” è tutt'altro che superata in fabbrica. «L'azienda non fa che parcellizzare il lavoro, semplificarlo al massimo in modo da poterlo far fare a tutti. Abbiamo verificato, parlando con dei compagni di lavoro della Sevel di Atessa, che in quella fabbrica succede che un nuovo assunto viene lasciato da solo dopo solo un'ora. Un'ora, capisci!, per imparare una mansione che dovrà svolgere a tempo indeterminato: ogni giorno un solo pezzo, sempre allo stesso posto, in continuazione; una paranoia». «Quando lavoravo alle Meccaniche – aggiunge Pasquale – usavo di più la testa, il lavoro era duro e ripetitivo ma per sistemare un pistone ci si ragiona un po' di più».
Ore 8, le prime parole
In postazione si lavora con qualche operaio di fianco. Si può parlare ma «prima delle 8 del mattino nessuno apre bocca, siamo ancora assonnati» anche se spesso «se fai una domanda la risposta arriva dopo qualche minuto, perché prima c'è da finire una portiera o un vetro da montare. Però chi si trova vicino uno con cui non va d'accordo è davvero sfortunato, mica si può spostre da un'altra parte. Quello che ti sta di fronte è il tuo unico interlocutore, o te lo fai piacere o stai zitto».
Pasquale lavora in una squadra come tutti gli operai di Mirafiori. Ogni squadra conta circa 30-35 operai ma non è il capo-squadra l'interlocutore di riferimento. «No, è il “team leader”, uno ogni dieci operai circa». E' lui che sorveglia la produzione, interviene in caso di pezzi mancanti, sostituisce eventuali assenze per malattia, raccoglie le richieste o i bisogni dei dipendenti e riferisce al capo-squadra. Un team-leader è un'operaio di quarto livello, prende un po' di euro in più e ovviamente è particolarmente affidabile: «Io non ne ho mai visto uno scioperare».
«Sono loro che quando serve assegnano straordinari serali per mansioni che non rientrano negli straordinari comandati al sabato, quelli cioè previsti dal contratto. Passano per le linee e si rivolgono agli operai più fidati, ai “loro”, per offrire un paio d'ore per ripulire un piazzale, sistemare del lavoro arretrato, mai per aumentare la produzione, quello si fa solo al sabato. Ovviamente due ore fanno spesso comodo, si guadagna un po' di più anche se alle dieci di sera – il secondo turno comincia alle 14 e termina, appunto, alle 22 – è faticoso».
Tre pause di 10 e 15 minuti
La fatica si sente. «Lavoriamo in piedi tutto il tempo. Io a fine turno ho davvero bisogno di togliermi le scarpe, riposarmi, mi fanno male i piedi e le gambe, la schiena è bloccata. Devo dire che chi soffre di più sono le donne, le vedo spesso lamentarsi per il mal di gambe tanto che ne ho viste molte portarsi una cassettina di legno accanto alla postazione su cui sedersi non appena scatta una pausa o anche durante l'ora di mensa». A Pomigliano la Fiat porterà, in base all'accordo sottoscritto, la pausa mensa a fine turno e ridurrà di dieci minuti le pause. Come funziona ora? «Le pause sono tre, una ogni due ore, per un totale di quaranta minuti: 15+15+10». Ma che succede durante la pausa? «Intanto si va in bagno, poi chi fuma esce fuori a fumare – nello stabilimento è vietato, chissà come farà Marchionne... - ci si prende un caffè. Per chi svolge attività sindacale è l'unico momento per parlare con i compagni di lavoro ma spesso è impossibile perché, appunto, ognuno ha qualcosa da fare. E poi dieci o quindici minuti durano davvero poco».
Ore 11,45, la mensa
Con la pausa mensa forse va anche peggio. «L'interruzione è di mezz'ora, dalle 11,45 alle 12,15 e dalle 18,45 alle 19,15 per il secondo turno. Ma dobbiamo mangiare in non più di quindici minuti. Ci vogliono infatti tra gli 8 e i 10 minuti per raggiungere la mensa, spesso c'è da fare la coda e quindi non c'è molto tempo». L'azienda trattiene dalla busta paga 1,19 euro per ogni pasto. Eppure, spiega Pasquale, «ci sono davvero tanti operai, soprattutto donne come dicevo prima, che preferiscono portarsi da casa un panino o qualcosa da mangiarsi lì accanto alla propria postazione, così da recuperare un po' di tempo e far riposare le gambe».
In fabbrica fa freddo d'inverno e caldo d'estate, non è un ufficio, non c'è l'aria condizionata. «I capannoni sono alti anche trenta metri, ci sono spifferi, sono stabilimenti vecchi ma soprattutto la fabbrica è in parte deserta e quindi i riscaldamenti vengono accesi solo parzialmente. E quindi fa freddo. Per mettere un po' di stufette in giro per i reparti o le pale di ventilazione non sai quante ore di sciopero abbiamo dovuto fare». Il momento più difficile della giornata è dopo pranzo «perché senti di più la stanchezza. Al mattino sei più riposato ma hai sonno, dopo ti svegli ma sei stanco». Mentre scriviamo ci rendiamo conto che nel farci raccontare una giornata di lavoro abbiamo avuto un resoconto limitato a poche decine di minuti: l'avvio, le funzioni, le pause, la mensa. L'andata e il ritorno dal lavoro. Per il resto non c'è più nulla da raccontare, solo una costante ripetizione di movimenti che non cambiano mai. Eppure a Pomigliano si vuole portare la mensa a fine turno e ridurre le pause da quaranta a trenta minuti, lavorano così per sette ore e mezza con solo due pause da quindici minuti o tre da dieci minuti l'una.
Ore 12,15, si riprende
Ma non c'erano i robot che avevano sostituito gli operai? «I robot ci sono ma solo alla lastratura e alla verniciatura. In realtà sono pochi mentre le case automobilistiche concorrenti ne hanno molti di più. Gli operai non sono del tutto contrari ai robot perché ci sono lavori, come la lastratura – dove praticamente si “incolla” il pianale dell'auto alle portiere e al tetto – che erano davvero micidiali. O la verniciatura che ci portava via i polmoni. Però, nonostante i robot gli operai ci sono ancora e sono loro a far andare avanti la produzione, da qui non si scappa». Pagata quanto?
Alla Fiat si sopravvive con poco. Pasquale tira fuori dalla tasca la busta paga, quella dell'ultimo mese. Il minimo contrattuale lordo, per un operaio di terzo livello, è di 1.395,44 euro a cui si sommano, dopo 22 anni di fabbrica, 125 euro di scatti di anzianità e 27 euro di premio produzione. In totale fanno 1548 euro lordi che diventano 1.239 al netto delle molteplici trattenute. «Sempre che non ci sia stata cassa integrazione oppure qualche ora di sciopero». Se si hanno dei figli, l'affitto e le bollette i conti sono facili da farsi.
Ore 14, fine turno
La nostra chiacchierata finisce qui. La giornata è praticamente conclusa e fuori dalla fabbrica ne resta solo il rumore, costante, avvolgente, fatto di ferraglia, di colpi sordi, di martelli pneumatici e di trapani elettrici. O del clangore dei pezzi metallici. Un rumore confuso che lascia un ronzio nella testa. E poi c'è il silenzio, fatto dall'esterno della fabbrica pochi minuti dopo l'uscita, lo sciame operaio si disperde subito, veloce come la rassegnazione che si è impadronita del mondo del lavoro.
Resta però una sensazione, quella della dignità. Pasquale, e molti come lui, minimizzano la fatica, lo stess, l'alienazione, «la paranoia» come la chiama lui. La sente ma non se ne lamenta, non si atteggia a vittima. Sarà perché è iscritto al sindacato, perché crede nella lotta comune e in qualche possibilità di riscatto. Sarà perché con qualcosa bisogna pure difendersi e resistere. Gli operai metalmeccanici in Italia sono quasi due milioni e di questi 363 mila sono iscritti alla Fiom, primo sindacato di categoria. Sarà mica la dignità il problema?
 
Tratto da http://www.fiomsevel.it/index.php/comunicati/comunicati-sevel/52-una-giornata-da-operaio-fiat-895-euro-lora-sveglia-alle-430-la-stessa-mansione-per-otto-ore.html