Il Fondo di stabilità finanziaria (Fsf), varato a inizio maggio per la Grecia (e poi per l’Irlanda), il Meccanismo di stabilizzazione europeo (Mse), deciso dal vertice europeo di metà dicembre, che a partire dal 2013 ingloberà il Fsf, rendendolo permanente, e gli interventi della Banca centrale europea (Bce), hanno solo tamponato la crisi: i tassi sul debito greco rimangono allo stesso livello di maggio, segno che i governi non hanno ancora restituito fiducia agli investitori. Fiducia che si va gradualmente erodendo anche per i titoli italiani: lo spread tra i nostri Btp decennali e quelli tedeschi da inizio 2008 ha continuato a salire gradualmente, fino all’1,6 per cento di dicembre (0,2 per cento in media nei sette anni precedenti); e dopo ogni crisi (Lehman, Grecia, Irlanda) è sempre rimasto più elevato di prima (vedi grafico a pag. 83). Banche e assicurazioni italiane sono bersaglio di vendite a ogni cenno di crisi, più perché detengono tanti nostri titoli di Stato, replicandone così il rischio finanziario, che per loro demerito.
Tre gli squilibri strutturali. L’andamento dei flussi finanziari all’interno dell’Eurozona è il primo. Le partite correnti di un Paese misurano l’ammontare del risparmio nazionale investito all’estero, o importato. Il grafico a pagina 82 evidenzia come la Germania, dall’avvio dell’euro, abbia continuato ad accumulare risparmio, pubblico e privato, arrivando a un avanzo “cinese” nel 2007 (quasi l’8 per cento del Pil); affluito negli altri paesi dell’area, a compensare le esportazioni nette tedesche. Tutti gli altri, Italia compresa, hanno vissuto “al di sopra dei propri mezzi” grazie all’afflusso di questi capitali: nel caso spagnolo, i disavanzi crescenti sono stati la controparte di debiti contratti da privati per finanziare investimenti immobiliari (diventati debito pubblico dopo lo scoppio della bolla); per l’Italia, invece, è stato lo Stato a finanziarsi all’estero. Così, a metà 2010, 837 miliardi di titoli pubblici italiani su 1.587, erano in mani straniere: un dato che amplifica la possibilità di una crisi di fiducia nella capacità dello Stato di tassare i propri cittadini per onorare gli impegni con gli investitori esteri. Né si può contare sul risparmio privato degli italiani che, in caso di crisi, farebbero a gara con gli stranieri nel disertare Btp e Cct.
Il superamento della crisi dovrebbe essere accompagnato da un coordinamento fiscale: l’eccesso di risparmio tedesco suggerirebbe una politica più espansiva in quel paese; e l’opposto in quelli, come l’Italia, in cui il deficit del settore pubblico assorbe una quantità eccessiva di risparmio. In altre parole, l’Eurozona replica il disequilibrio tra Cina e Stati Uniti. Come in quel caso, il coordinamento economico sarebbe auspicabile, ma rimane politicamente impraticabile.
Il secondo squilibrio è dato dall’eccesso di indebitamento complessivo. Nonostante si dica il contrario, anche l’Eurozona ha vissuto in una bolla di debito. Dati della Bce mostrano livelli di indebitamento complessivo (famiglie, imprese, Stati e istituzioni finanziarie) simili a quelli Usa (3,5 volte il Pil); cresciuti in pari misura (2,5 volte nel 1999). Siamo dunque solo all’inizio di un inevitabile processo di delevering, pubblico e privato, necessariamente lungo e recessivo. Ecco perché la crisi dell’Eurozona investe paesi come Spagna (bolla immobiliare; debito privato), Irlanda (eccessivo debito delle banche), o Italia (eccessivo debito pubblico). C’è stato un effetto sostituzione tra debito pubblico e privato che ha reso simili situazioni inizialmente diverse: Spagna e Irlanda avevano uno stock di debito pubblico molto basso, che cresce rapidamente perché lo Stato si è accollato i debiti di banche e privati; l’Italia ha un disavanzo pubblico relativamente contenuto, ma parte da uno stock di debito enorme.
La crisi del debito pubblico nell’Eurozona è dovuta alla sfiducia nella capacità di alcuni paesi di risanare le finanze pubbliche: lo dimostra il fatto che Stati Uniti e Giappone stanno peggio, ma la crisi dei titoli di Stato è scoppiata qui. Un recente studio del Fondo monetario internazionale ha infatti stimato che gli Stati Uniti avrebbero bisogno di un aggiustamento fiscale di quasi 12 punti percentuali del Pil nel prossimo decennio per poter stabilizzare il debito al 60 per cento e il Giappone 13 per portarlo all’80 per cento; ma soltanto 5,5 punti, nel suo complesso, l’Eurozona per rientrare al 60 per cento.
Il terzo squilibrio sono le banche. La crisi del debito pubblico di Eurolandia è in realtà una crisi del suo sistema bancario. Il salvataggio della Grecia è stato deciso nel momento in cui il default sul debito pubblico greco rischiava di far fallire le sue banche e mettere in crisi quelle più esposte verso la Grecia. Così il piano di salvataggio è stato accompagnato da uno stress test del sistema bancario europeo. Ancora più evidente il caso dell’Irlanda: un enorme disavanzo pubblico (30 per cento del Pil) ammassato per ricapitalizzare le banche irlandesi sull’orlo della bancarotta. Più che lo Stato irlandese, sono state salvate le sue banche. E ora si parla di nuovi stress test. Senza contare che una parte del sistema è ancora incapace di reggersi senza il sostegno della Bce.
Il salvataggio di una banca è compito delle autorità di quel paese. Ma la crisi ha ampiamente dimostrato che le banche possono essere troppo grandi anche per gli Stati, che rischiano il loro dissesto se si accollano quello delle banche che tentano di salvare. Soprattutto se la crisi è determinata da perdite sui titoli di Stato. È il cane che si morde la coda. Servirebbe invece un meccanismo di salvataggio organizzato e finanziato a livello europeo. Che non esiste, neanche sulla carta.
Si dice che il sistema bancario italiano abbia superato la crisi finanziaria meglio degli altri, grazie al maggior radicamento territoriale, meno finanza e più attività tradizionale. Ma la Borsa non sembra apprezzare le apparenti virtù dei nostri banchieri: i nostri maggiori istituti sono tra i più penalizzati proprio dall’inizio della crisi greca: meno 19 per cento in media rispetto all’indice di settore europeo. Le nostre maggiori banche rimangono sottocapitalizzate al confronto con l’Europa: su 91 banche esaminate dallo stress test di giugno, Mps, Ubi, e Banco Popolare erano, rispettivamente, al 79, 70 e 67 posto per dotazione di capitale nello scenario avverso; Intesa, la più solida nel test, non andava oltre il 49 posto. Eppure gli aumenti di capitale sono osteggiati dalla determinazione a preservare l’attuale struttura di proprietà e controllo del nostro sistema bancario (e dalla ferma volontà dei vertici di mantenere la poltrona).
Questi squilibri strutturali devono essere affrontati con decisione se si vuole superare definitivamente la crisi del debito in Europa. Di fatto, tutti gli interventi fin qui decisi dai governi europei, e quelli proposti, affrontano la crisi come se fosse prevalentemente di liquidità, ovvero la difficoltà di alcuni paesi a finanziarsi sul mercato, se non a tassi proibitivi: finanziare temporaneamente i paesi in crisi, a tassi più bassi del mercato, è infatti la logica che accomuna il Fsf al futuro Mse, e ai Bond europei. Ma se i governi dei paesi colpiti dalla crisi non riescono a imporre politiche di austerità fiscale, per quanto amare e impopolari, che diano credibilità alla loro determinazione di rendere sostenibile il debito pubblico, la crisi diventa di insolvenza. Ma mancano le istituzioni e le regole a livello europeo che sarebbero necessarie per gestirle in modo ordinato e coordinato; come le ovvie ripercussioni sul sistema bancario europeo. Né, per ora, sono in agenda. Il 2011 promette dunque austerità fiscale per i cittadini; e per gli investitori una vera odissea nello spazio del debito pubblico: la vecchia definizione di “attività priva di rischio” appare oggi quanto mai inappropriata.
Alessandro Penati è professore di Finanza aziendale all’Università Cattolica
tratto da
http://www.nuovaresistenza.org/2011/01/05/crisi-il-peggio-viene-adesso-lespresso/