
Uscito dalla casa dell’idealismo sbattendo la porta a ventiquattro anni, Marx ci ritorna a ventisei per non uscirne mai più. Ma passano solo pochi anni, ed in Europa si diffonde come un incendio inarrestabile l’immagine positivistica del mondo. Tutto ciò che può essere detto, al di fuori della letteratura, deve essere “scientifico”. Marx è un essere umano, non un superuomo nicciano. È dunque comprensibile che egli inserisca il suo progetto, che è un progetto di scienza filosofica in senso hegeliano, in una forma di scienza positivistica pura. E di qui nasce il particolare paradosso di Marx, quello di una scienza filosofica della storia che si veste (o meglio, si traveste) da scienza positivistica della presunta (ed in realtà del tutto inesistente) previsione deterministica del futuro a partire dalle contraddizioni economiche e sociali del presente.
Questo è il paradosso di Marx, storicamente parlando un paradosso felice, perché la ragione principale del successo del marxismo successivo fu proprio la sua menzogna, e cioè la pretesa di previsione deterministica del futuro. Non c’è nulla da stupirsi, perché la ragione principale del successo del cristianesimo primitivo fu parimenti la sua menzogna, e cioè la promessa del prossimo avvento del regno di Dio. Si tratta della stessa natura del paradosso di Cristoforo Colombo, il cui successo (la scoperta dell’America) è derivato direttamente dal suo errore (l’idea di stare andando in Asia).
Si tratta di quello che io chiamo il futurismo marxista, e cioè del fatto che il successo del marxismo viene certificato (erroneamente) a partire dalla sua proiezione rivoluzionaria nel futuro. Questo futurismo, a sua volta, viene costruito sui tre elementi dell’economicismo, dello storicismo e dell’utopismo. Dall’elemento economico viene ricavata la (falsa) teoria del crollo economico del capitalismo. Dall’elemento storico viene ricavata la (falsa) teoria del progresso interminabile ed asintotico fino all’approdo alla razionalità finale. La somma di economicismo e di storicismo si chiama utopismo, e di utopismo il comunismo muore (ed infatti ultimamente di utopismo e morto).
In realtà, e questo non è che il maggiore paradosso di un pensiero fin dall’inizio dialettico, e quindi paradossale (la dialettica è infatti soltanto la forma teorica sviluppata del paradosso, il cui codice genetico è l’unità dei contrari che, unendosi, diventano opposti), Marx non dà luogo ad una sequenza futuristica, ma è al contrario inserito in qualcosa che soggettivamente avrebbe senz’altro rifiutato (ma tutti rifiutano di avere un complesso di Edipo, senza che questo sia un argomento decisivo per la negazione dell’esistenza del complesso di Edipo stesso), e cioè la lunga tradizione della resistenza dell’elemento comunitario e solidale dell’umanità contro l’elemento privatistico e dissolutore.
Che l’individuo concreto Karl Marx (1818-1883) avesse o meno accettato o rifiutato questa auto interpretazione, che dopo la sua morte diventa necessariamente l’interpretazione di altri, è certo un fatto rilevante sul piano biografico e letterario, ma non ha assolutamente nessuna importanza sul piano filosofico generale. La filosofia della storia di Marx può anche manifestarsi superficialmente nella forma dell’ “infuturamento” della filosofia della storia di Hegel, ma personalmente ritengo che questo infuturamento sia un elemento del tutto secondario. L’elemento principale non è l’infuturamento futuristico delle tendenze già presenti nell’oggi borghese-capitalistico, ma è il ricollegamento alla lunga tradizione della conservazione, nei tempi nuovi in cui si vive, della struttura comunitaria e solidale della società.
La comunità dei marxisti è pronta per un simile colossale riorientamento gestaltico? Ma neppure per sogno! Essendo composta in maggioranza di veri e propri “intellettuali di sinistra”, individualisti e futuristi per loro stessa storica natura, tutto questo le sembrerà un’ irritante follia. Il fatto è che, purtroppo, essa non ha più nulla a che fare con il pensiero di Marx, ma unicamente con la cosiddetta “sinistra”, che è una costellazione culturale individualistica e futuristica per sua propria essenza sociologica e politica. Se il problema afferma di essere la soluzione, ogni soluzione diventa impossibile. E questa è esattamente la situazione tragicomica in cui oggi ci troviamo, in cui le comunità presunte “marxiste” sono fra i principali ostacoli per la riscossione senza ipoteche dell’eredità di Marx.
11. La legittimità del comunismo storico novecentesco e le ragioni del suo fallimento
Il principale errore di prospettiva storica e di valutazione metodologica che si può fare a proposito del bilancio del comunismo storico novecentesco veramente esistito (da non confondere con il comunismo onirico-utopico degli intellettuali marxisti, che ragionano sempre come se si trattasse di esaminare i “discostamenti” da un comunismo platonico modernizzato ideale) sta nel chiedergli le “credenziali” di conformità alla lettera ed allo spirito di Marx. Dal momento che i discostamenti dalla lettera di Marx sono enormi, e non avrebbe comunque potuto essere diversamente (il modello originale di Marx è infatti strutturalmente del tutto inapplicabile), ne deriva una inevitabile condanna, che rivela soltanto l’incapacità di ragionamento storico delle “anime belle”, i soggetti culturali più stupidi della intera tormentata storia dell’umanità.
Eppure, il difetto sta nel manico, perché fu Lenin, fondatore unico ed indiscusso del modello teorico-pratico del comunismo storico novecentesco realmente esistito, ad impostare le cose nei termini religiosi della opposizione dicotomica fra Ortodossia e Revisionismo (variante ateo materialistica della vecchia buona eresia). Lenin aveva tutte le buone ragioni di legittimazione ideologica di fronte ai suoi seguaci religiosizzati (non esiste fanatico religioso più grande dell’ateo positivista), per cui sarebbe assurdo ed antistorico criticarlo a posteriori con la pedanteria del professore universitario. Ma resta il fatto che il modello del comunismo nato nel 1917 in Russia, benemerito quanto si vuole (e per me è benemerito almeno come Gesù e Maometto, forse non di più, ma neppure di meno), non deriva per nulla dalla utopia comunista marxiana, peraltro assolutamente inapplicabile, perché fondata sull’ipotesi irrealistica della estinzione dello stato politico attraverso l’autogoverno politico integrale dei consigli dei lavoratori.
In questo modo, vengono richieste “credenziali” teoriche verbose ad un fatto storico che si legittima da solo per la sua stessa benemerita nuda esistenza, sulla base di “discostamenti” da una lettera marxiana del tutto inapplicabile, perché costruita sulla base dell’ipotesi storica (assolutamente non realizzatasi) del passaggio diretto al socialismo sulla base dello sviluppo economico capitalistico nei punti alti della produzione capitalistica stessa. Soltanto una categoria ingenua e dogmatica come quella dei “marxisti” poteva ritenere di poter presentare “credenziali” di giudizio in base ai presunti (ed anzi realissimi) “discostamenti”.
Antonio Gramsci fu uno dei pochi marxisti della sua generazione che comprese subito che nel 1917 Lenin non si era presentato ad un esame universitario di “vero marxismo” di fronte ad una commissione presieduta dal signor Kautsky (in questo caso, sarebbe stato inesorabilmente bocciato), ma aveva autonomamente ripreso lo spirito di anticapitalismo rivoluzionario radicale di Marx lasciandone cadere la lettera. E tuttavia Gramsci, come tutti i marxisti della sua generazione, riteneva in perfetta buona fede che Marx fosse stato il fondatore del marxismo, laddove non è affatto così, in quanto il marxismo inteso come formazione ideologica coerentizzata, fu una creazione esclusiva di Engels e di Kautsky nel ventennio 1875-1895, in cui il modello positivistico domina, incorpora e soffoca i residui elementi filosofici idealistici.
L’interesse storico della rivoluzione russa del 1917 e del successivo comunismo storico novecentesco fino al 1991 non sta quindi assolutamente nella sua maggiore o minore fedeltà o nel suo maggiore o minore discostamento dal pensiero di Marx, che comunque non era mai stato coerentizzato dal suo creatore, e quindi non può servire neppure teoricamente da pietra di paragone. Il suo interesse sta unicamente nel fatto che, per la prima volta nella storia comparata dell’umanità, per la prima volta (lo ripeto) le classi dominate sembrano vincere stabilmente contro le classi dominanti, cosa inaudita e mai successa prima. Di regola, le classi dominate perdono sempre (vorrei ripeterlo: sempre) contro le classi dominanti, che in generale perdono soltanto contro altre classi dominanti più forti (gli esempi sono innumerevoli, dai proprietari romani contro i capi germanici alla nobiltà francese nel 1789 contro la borghesia, eccetera), e questo a causa di una peculiare ed inestirpabile stupidità strategica insita nel codice culturale delle classi dominate.
Domina soltanto chi è in possesso della totalità concettuale della riproduzione dei rapporti sociali. Certo, sono importanti la forza, la violenza organizzata, la tecnologia, i saperi di manipolazione ideologica, il monopolio del simbolismo religioso, eccetera, ma sopra ad ogni altra cosa è importante la proprietà concettuale della totalità dei rapporti sociali. Ora, la specifica stupidità delle classi dominate, dovuta alla loro collocazione subalterna all’interno della divisione sociale del lavoro, per cui le classi dominate dominano soltanto empiricamente il particolare separato dalla totalità riproduttiva, sta nel fatto che le classi dominate soffrono sulla loro pelle lo sfruttamento e la diseguaglianza, ma non possono mai accedere alla comprensione della dinamica della totalità riproduttiva. Ed è per questo che hanno perso sempre, ed alla fine hanno perso persino nell’unica occasione storica in cui avevano stabilmente vinto almeno per alcuni decenni del novecento. Ragione ultima, questa, della demonizzazione del novecento oggi concertata da tutta l’orchestra ideologica delle classi dominanti.
Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anticomunitario.
Abbiamo visto che, di regola, le classi dominate sono destinate a perdere sempre e comunque contro le classi dominanti per la loro inguaribile stupidità strategica, dovuta al “materialismo spontaneo” che nasce dalla loro collocazione subalterna nella divisione classista del lavoro sociale (e questo, in tutti i modi classisti di produzione, nessuno escluso). Le classi dominanti sono in possesso della sintesi “idealistica” della totalità sociale e, sulla base della conoscenza di questa totalità idealistica, possono vincere regolarmente. Il 1917 russo è quindi opera esclusiva dell’unità di direzione strategica del partito comunista di Lenin. Il partito di Lenin rappresenta infatti un esempio unico di classe dominata diretta sulla base di un sapere strategico di classe dominante.
L’eccezionalità storica di questo evento è sbalorditiva. Considero il triste fallimento di questo esperimento di ingegneria sociale sotto cupola geodesica protetta (cupola geodesica protetta definita in termini di “totalitarismo” dai servi ideologici delle classi dominanti capitalistiche) la più grande tragedia storica (sia pure certamente provvisoria e non definitiva, per fortuna) non solo del novecento, ma dell’intera storia dell’umanità. Ci furono certamente eventi immensamente più sanguinosi, ma nessuno dotato di significato storico talmente tragico. Per una sola volta nella loro miserabile storia di oppressione e di dominio le classi dominate avevano vinto contro le classi dominanti (cosa mai avvenuta prima), e questo dominio è durato solo settant’anni, con il rischio di essere stata soltanto una parentesi anomala, anziché l’apertura di un ciclo storico evolutivo.
Le classi dominanti hanno capito immediatamente chi era il nemico principale. Soltanto i “marxisti”, la categoria più stupida del lavoro intellettuale, hanno continuato a giudicare questo fenomeno storico in base al criterio del “discostamento” dalla lettera di Marx. E si sono messi a dire che si trattava di normale capitalismo di stato, di dispotismo asiatico elettrificato, di stato operaio burocraticamente degenerato, eccetera. Tutte cose plausibili, ma che passavano a lato della sconvolgente novità del fenomeno storico. Se il lettore distratto non lo avesse ancora capito, lo ripeto: di regola, le classi dominanti vincono sempre contro le classi dominate; e vincono sempre, perché sono proprietarie private non tanto e non solo delle forze produttive, quanto della totalità concettuale ideale della riproduzione sociale classista: le classi dominate sono invece vittime di una peculiare stupidità strategica, dovuta al loro materialismo spontaneo, che gli inibisce la conoscenza della totalità concettuale riproduttiva ideale (l’Uno di Platone, il Dio del cristianesimo, la Ragione dell’illuminismo, il Modo di Produzione di Marx, eccetera).
Quali sono le cause della rovina di questo meraviglioso e mai abbastanza rimpianto esperimento sociale comunista? In ultima istanza, questo fallimento è dovuto alla evoluzione dialettica distruttiva del suo stesso principio fondatore. Il partito leninista, riproposizione positivistica del pitagorismo antico, per cui la verità non sta nella somma delle opinioni maggioritarie ma in un rimando all’universale (geometrico per Pitagora, storico per Lenin), afferma la sua pianificazione economica socialista sciogliendo tutte le comunità precedenti (si tratta del fatto già correttamente rimproverato da Hegel al pur virtuoso Robespierre), e scomponendo tutte queste comunità in individui singoli ideologizzati “a sinistra”. Ma in questo modo il comunismo non diventa la rigorizzazione egualitaria del principio della comunità, ma diventa un esperimento sociale moralistico su basi individualistiche. Il comunismo collettivistico come coronamento dell’individualismo “atomistico” di sinistra.
E tuttavia, su basi individualistiche, la restaurazione capitalistica diventa tragicamente inevitabile. In una prima generazione, il dispotismo sociale egualitario delle classi dominate, carico degli elementi regressivi di invidia e di rancore verso le classi dominanti appena sconfitte e su cui si vuole bestialmente infierire, afferma il proprio potere in forma necessariamente dispotica e burocratica (senza mediazione burocratica, infatti, le classi dominate non potrebbero affermare il loro potere, perché la loro spontanea stupidità strategica gli impedirebbe di dominare la totalità concettuale della riproduzione, e Stalin ne è l’esponente esemplare, mentre invece Trotzkij rappresenta la coscienza infelice del discostamento palese dalla lettera dell’inapplicabile utopia anarcoide marxiana). In una seconda generazione (Krusciov) le classi burocratiche sorte sul terreno della pittoresca incapacità delle classi dominate di esercitare direttamente e senza intermediari il loro autogoverno politico e la loro autogestione economica (capacità certamente superiore fra i contadini sumeri ed egizi che fra gli operai fordisti della catena di montaggio), rafforzano il loro consumo parassitario sulla società e sull’economia pianificata sempre più stagnante. In un terzo momento, infine (Gorbaciov, Eltsin, dirigenti cinesi attuali, eccetera), le nuove classi medie cresciute all’interno del processo di industrializzazione socialista, piene di odio sia verso l’egualitarismo plebeo dei dominati sia verso il parassitismo burocratico dei quadri di partito, attuano una maestosa controrivoluzione sociale che restaura in forma nuova il potere assoluto delle classi dominanti, e che solo la categoria corrotta ed imbecille degli intellettuali può definire in termini di vittoria della libertà contro il totalitarismo.
Il discorso sarebbe ancora lungo, ma dobbiamo fermarci qui per ragioni di spazio e di opportunità. Io considero l’esperimento benedetto del comunismo storico novecentesco un precedente simbolico inestimabile. Esso ha infatti costituito prima di tutto un precedente. Prima di allora mai le classi dominate avevano vinto, sia pure provvisoriamente, contro le classi dominanti. Ma se è successo una volta, sia pure una sola volta, può succedere ancora. Bisogna però vedere su che nuove basi.
Di Costanzo Preve
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