
di
Mauro Piras
Il problema non è più prendere
posizione. Pro o contro la TAV (o il TAV? la divisione passa anche per
le parole, i No TAV della valle usano il maschile). E non è neanche
quello dei “gruppetti di violenti” contrapposti alla “maggioranza dei
manifestanti pacifici”. Questa rappresentazione è ingenua, o costruita.
C’è qualcosa di più profondo, qualcosa che sfugge a noi quarantenni
della classe media di, diciamo, centrosinistra. Noi che abbiamo lottato e
manifestato per tante campagne pubbliche, democratiche, contro la
guerra, a fianco della FIOM e dei sindacati, per la scuola, con i
precari. Che abbiamo sostenuto i referendum per l’acqua pubblica. Ci
siamo trovati a fianco di tutte le persone che sono anche la nervatura
della protesta contro la TAV. Ci siamo trovati a fianco dei nostri
studenti, nelle manifestazioni e nei presidi. Siamo riusciti a stare
uniti su tante cose, mettendo insieme nell’attività politica reale (nel
sindacato, per esempio, o nelle scuole) i diversi pezzi della sinistra.
Abbiamo cercato di tenere viva l’idea di una democrazia non solo
istituzionale, ma partecipata, dal basso. In questa costruzione, abbiamo
anche tessuto il rapporto con i più giovani. Ma c’è qualcosa che
sfugge, di più profondo. Che riguarda anche l’inadeguatezza di noi
adulti nei confronti dei giovani, quelli veri.
Adesso questo qualcosa si vede, negli
scontri in Val di Susa, e nel contagio rapido della protesta nelle città
italiane, anche le più lontane (Roma, Pisa, Pesaro, Avellino, ecc.).
Per capire, bisogna allargare lo sguardo: guardare oltre la valle, e
ritornare indietro nel tempo.
All’improvviso, mentre torno a casa da
scuola, ho un lampo, un ricordo di più di un anno fa. Il 14 dicembre
2010 a Roma, a fronte della pagliacciata di un voto parlamentare che ha
salvato Berlusconi per un pelo, con traffici innominabili, la piazza
esplode. Due mie allieve sono lì, nel casino. Mi accorgo di avere una
apprensione quasi da genitore. Quando tornano, le prendo un po’ in giro:
“allora, vi hanno menato a Roma?” “no, quando è partita la carica
eravamo in un bar, perché ci scappava la pipì; hanno tirato giù la
saracinesca e siamo rimaste chiuse dentro”. Farà ridere, ma mi viene in
mente Tolstoj: chi sta dentro gli eventi li capisce meno di tutti, è
travolto dal dettaglio. Comunque hanno visto: il lancio dei sampietrini,
le cariche, i lacrimogeni, le macchine incendiate. Cerco di ricostruire
il percorso, la dinamica, ma non si capisce niente. Come sempre,
saranno i giornali con le loro cartine e i loro disegni a farmi capire
meglio la devastazione del centro barocco, luogo privilegiato delle mie
passeggiate oziose nel centro di Roma. Un’altra ferita.
Poi parliamo della violenza. La
discussione, in quei giorni, è sull’intervento di Saviano: la sua
predica ai giovani, “isolate i violenti, i gruppi organizzati che
cercano la violenza”. Eccetera. Conosco il ragionamento. L’ho già fatto
anch’io. Superficialmente, a distanza, parlando nel settembre 2001 dei
fatti di Genova con i miei allievi. Con più cognizione di causa, qualche
settimana prima degli eventi di Roma: gli studenti delle superiori si
erano scontrati con la polizia in via Po, davanti a via S. Ottavio, qui a
Torino. Li ho visti, mi sono trovato proprio lì per caso: ho visto lo
scatenarsi della violenza di questi ragazzi, la ricerca della
provocazione. Ho incontrato un mio studente, gli ho chiesto; e lui: “sì,
questi cercavano lo scontro, è l’estetica della violenza”. E io:
“dovete isolarli, basta, cercate di svegliarvi”. La solita predica.
Invece, in classe, dopo gli scontri a
Roma, sento un’altra nota. E comincio a capire. La violenza?
“Professore, c’è un limite oltre il quale non puoi fare altrimenti”.
Ecco. Detto così, più o meno. Ma dovreste vederle, queste ragazze, e le
loro compagne che non la pensano tanto diversamente; e anche alcuni dei
più piccoli, del penultimo anno. Dovreste vedere l’aria gentile e per
bene che hanno. Così simili a noi. Certo, una delle due ha il tipico
aspetto da alternativa del centro sociale, jeans bassi, larghi,
piercing, ecc.; e la vedo sempre, alle manifestazioni, con il carro
dell’Askatasuna. Ma questo non vuol dire niente. Il problema è
l’argomentazione. Saviano non ha capito niente, e questo lo dicono
tutti, anche quelli che non giustificano la violenza. Il problema è
l’analisi: tutti capiscono, tutti sanno (anche i più moderati, anche
quelli che quando ci sarà l’occupazione rimarranno in classe) che la
violenza è diffusa. Nessuno la teorizza o la vuole. Ma tutti ammettono
che c’è stata una partecipazione che andava ben oltre gli “specialisti”.
Tanti ragazzi sono disposti allo scontro. Perché il livello di
repressione della comunicazione è troppo alto. Me lo dicono: sono anni
che facciamo casino, manifestiamo, facciamo i flash mob, ecc. E
nessuno ci ascolta. Allora. Anche lì, la mia mente va all’indietro.
Dalla fine del 2008, si è mossa la grande mobilitazione degli studenti
della scuola e dell’università. E mi ricordo, anche lì come in un lampo,
dell’incontro sulla giustizia globale a Scienze Politiche occupata. Le
mie ex allieve mi invitano, bene, vengo, vi presento le mie tesi. Mi
accorgo con due anni di ritardo della freddezza con cui sono stati
accolti i miei ragionamenti sul diritto internazionale. Non è quello il
discorso che li può interessare.
C’è un solco che si scava. Leggo con più
attenzione i giornali. Ripercorro le storie di queste ragazze
giovanissime, a volte anche della buona borghesia romana, che lì, in
piazza, hanno deciso di passare all’azione. Basta, non ci ascoltate?
Allora ci facciamo sentire noi. Ecco, questo è successo. Questa è l’area
che il nostro riflesso di benpensanti chiama la “zona grigia”. Il nome
non importa. Il punto è questo: c’è una vasta area di popolazione
giovanile che aspira alla mobilitazione, alla partecipazione, e che non è
rappresentata. Da nulla. Così è disposta a fare da cassa di risonanza
dei gruppi organizzati, quelli che in effetti pianificano le azioni. Ma
da soli non possono andare molto avanti. A Roma a Piazza del Popolo si è
mossa una parte consistente dei manifestanti. Hanno deciso di rompere,
per farsi sentire, ma anche per esasperazione.
Mentre leggo le informazioni, le
analisi, mi accorgo che è una protesta senza sbocco. Non sembra
progettare una prospettiva politica sulla lunga durata. Cerca la
fiammata. Mi vengono in mente parole della politica d’Antico Regime: riots, émeutes,
tumulti. Non è una rivoluzione, è una rivolta. Uno sfogo senza sbocco
politico. Perché la sua origine è proprio qui: la repressione dello
sbocco politico. Due anni di mobilitazioni che non sono riusciti a
trovare canali di rappresentanza. In generale, l’indebolimento, fino
alla rottura, dei legami con organizzazioni e istituzioni
rappresentative più o meno grandi: i sindacati, i partiti. Nel 2009
trovavo ancora i miei studenti ai presidi della CGIL, con noi. Poi
niente. Solo attempati cinquantenni più o meno nostalgici. Io ero uno
dei più giovani.
Nei mesi successivi succedono cose simili. I riots,
veri, di Londra, nell’estate del 2011. I primi esperimenti in Val di
Susa, sempre nell’estate. E di nuovo a Roma, il 15 ottobre. Questa
volta, i “gruppetti” avevano un’organizzazione molto precisa. E gli
errori clamorosi della questura di Roma li hanno aiutati. Ma sapevano di
potere contare su una complicità. Sapevano di poter colpire e
immergersi poi nella manifestazione; sapevano anche di poter trovare un
po’ di manodopera disponibile, lì per lì. Hanno avuto ragione, è andata
così. Tutta l’attenzione dei media, della “nostra” opinione pubblica di
benpensanti di centrosinistra (mi ci metto dentro), si concentra sulla
crescente organizzazione dei gruppi di “specialisti” della violenza. Ma
il problema non è lì: il problema è la radicale, vertiginosa crisi della
rappresentanza politica, che genera il malessere, soprattutto tra i
giovani, e li sposta sul terreno dell’assenza di mediazioni. Le nostre
generazioni, dei quarantenni e cinquantenni, hanno perso il polso della
situazione. Un po’ per una incapacità intrinseca di fare gli adulti, per
il nostro continuare a pensarci giovani come loro; un po’ perché
continuiamo ad avere una fiducia nelle forme (a diversi livelli) della
vita democratica, che loro non hanno.
In che rapporto tutto questo con la Val
di Susa? Mi si può obiettare molto giustamente che la protesta No TAV
non ha niente a che fare con i casi ricordati. In primo luogo, questa
protesta ha una prospettiva politica, un progetto; inoltre, ha dietro di
sé una lunga esperienza di maturazione democratica, con formazione di
competenze, discussione pubblica, partecipazione e condivisione di
saperi e iniziative; infine, la maggioranza della popolazione della
valle che partecipa a questa protesta non è formata da giovani. Tutto
giusto, e tengo a scriverlo perché penso che siano tutti elementi da
sottolineare per capire e apprezzare questo movimento politico. Però è
evidente a tutti che ci sono anche altri elementi. Il sostegno al
movimento No TAV da parte dei centri sociali e dei movimenti alternativi
di ogni genere è composto soprattutto da giovani. Tra questi, i
problemi sono quelli che ho cercato di indicare. Inoltre, è evidente
che, questa estate e in questi ultimi giorni, si è innestata sul
movimento l’iniziativa di gruppi organizzati, che hanno anche promosso
la Val di Susa a luogo del conflitto sociale. Quello che vorrei
sottolineare, però, non è il solito ritornello dei “violenti
organizzati” che inquinano il movimento e andrebbero isolati. Voglio
additare un problema più profondo: questi gruppi possono agire e
“rappresentare” qualcosa perché c’è, tra essi e una protesta giovanile
diffusa, una continuità, come quella che si poteva vedere a Roma nel
dicembre 2010; questa continuità ha la sua radice nel fallimento di
tutti i canali di rappresentanza politica e sociale, nel nostro paese;
inoltre, anche la popolazione della valle che protesta, che non è fatta
ovviamente solo di giovani, ma spesso di persone mobilitate da anni, è
esasperata per la stessa ragione.
Quindi il problema non è solo, in sé, se
si è a favore o contro la TAV. Il problema è, in generale nel nostro
paese, il collasso della rappresentanza politica e delle istituzioni
sociali. Collasso che si colloca su uno sfondo di crisi generale della
democrazia e di acuta crisi economica e sociale.
Intanto, la nostra classe politica ha
mostrato anche qui la sua totale inadeguatezza. Fino alla conferenza
stampa di Monti del 2 marzo, il motivo dominante degli interventi a
favore della TAV, da parte delle istituzioni (alcuni ministri) e dei
politici, è stato quello efficacemente definito da Sofri del “partito
preso”: “ormai dobbiamo andare avanti, ce lo chiede l’Europa, abbiamo
preso degli impegni, non si può tornare indietro”. Che razza di
argomenti sono? Buoni solo a irritare l’interlocutore. Nessuna forza
politica che, con coraggio e con costanza, sia capace di prendere in
mano il dossier e di mostrare con precisione, con abbondanza di
dettagli, e rispondendo alle critiche, le motivazioni dell’opera.
Qualche balbettamento di Bersani. La conferenza stampa di Monti si è
mossa solo timidamente in questo senso, e rimandando il momento in cui
verranno presentati dei dati precisi. La nostra politica non ha mai
imparato davvero la democrazia, tende sempre, per riflesso, agli “arcana
imperii”.
Poi, è vero che la crisi della
democrazia rappresentativa è generale, perché in tutti i paesi avanzati
la sfiducia nelle istituzioni democratiche è crescente. In questo, però,
la situazione italiana è più grave. I politici non riescono a
convincere sulla TAV perché non riescono a convincere su nulla. Hanno
perso totalmente di credibilità, dopo avere portato il paese in questo
disastro, e avere mostrato una totale immaturità delegando a un governo
non realmente rappresentativo la responsabilità di prendere decisioni
che non hanno mai voluto prendere. I partiti rimarranno screditati
finché non riusciranno davvero a raccogliere la voglia di politica che
c’è nella società; invece chiudono le porte, irrigiditi in meccanismi
privati di cooptazione, che paralizzano del resto tutta la società
italiana. I sindacati sono visti con ostilità da tutti coloro che non ne
fanno parte; e alimentano questa ostilità mirando più all’aumento delle
tessere che alla creazione del consenso. La stessa deriva “politica”
della FIOM, che esce dal suo ruolo di sindacato per combattere in prima
fila la battaglia No TAV, è un segno di questo malessere.
Su tutto questo sfascio della
rappresentanza, ben avvertibile già nella primavera del 2008, al momento
della fine del governo Prodi, è piombata la crisi economica. Che, come
previsto da tutti gli economisti a suo tempo, sta facendo pagare i suoi
prezzi più alti in termini di disoccupazione, soprattutto giovanile,
proprio in questi mesi.
I giovani nutrono le forze puramente antisistema, pronte a rinchiudersi nella logica del riot,
a cercare lo scontro per lo scontro, perché sono realmente tagliati
fuori, da tutti questi meccanismi. Il problema della TAV, ora, non è
schierarsi da una parte o dall’altra, ma cercare di restaurare qualche
canale di comunicazione democratica. Per esempio, in primo luogo,
accettando il confronto politico: le forze politiche che sostengono il
progetto hanno l’obbligo di andare nella valle e parlare con chi
protesta. E parlare portando argomenti veri. Non è facile. Ma bisogna
mettersi d’accordo e porre le premesse per un confronto. Il rispetto
reciproco che ci impongono le istituzioni democratiche non si manifesta
solo con le procedure, e con i risultati delle votazioni, ma anche con
le ragioni che si propongono per giustificare una scelta. E con la
disponibilità. I vertici delle nostre organizzazioni (partiti,
sindacati) hanno paura di affrontare i cittadini, hanno paura di essere
messi in minoranza e di essere contestati: come i dirigenti sindacali
non accettano di essere fischiati dalle assemblee dei precari infuriati,
così i dirigenti politici non hanno il coraggio di parlare con le
assemblee dei No TAV. Se si costruiscono, con accordi preliminari, le
condizioni per un confronto corretto, questo è invece un obbligo.
Ovviamente, questo confronto deve essere
anche istituzionale. La proposta di un referendum, anche solo
consultivo, avanzata da Sofri, probabilmente non è percorribile. Il
problema non è tanto la base elettorale: è vero che, in astratto, tutti
gli italiani sono coinvolti, ma è anche vero che si tratterebbe di
consultare quelli che possono avere dei danni diretti dalla
realizzazione dell’opera. E questi sono solo gli abitanti dei comuni
toccati direttamente dai lavori. Questi quindi dovrebbero votare se
vogliono o no la TAV. Ma il referendum non è fattibile per altre
ragioni: istituzionali, perché tutti i livelli di decisione sono già
stati passati, e fare adesso il referendum svuoterebbe le istituzioni
rappresentative ai livelli comunitario, nazionale e locale (su questo ha
ragione Chiamparino: il referendum andava fatto sei anni fa, quando si è
riaperta la partita); e procedurali, perché il referendum diventerebbe
allora un precedente da utilizzare per bloccare qualsiasi tipo di opera
pubblica.
La via da adottare deve essere politica.
Il richiamo al referendum è, in fondo, un’altra prova del fallimento
della politica: la classe dirigente non è capace di affrontare la cosa,
allora facciamo il referendum. No, deve essere proprio quella classe
dirigente a farsi carico della cosa. Pena derive sempre più gravi in
forme di rifiuto di ogni forma di mediazione politica. Gli appelli
generici contro la violenza lasciano il tempo che trovano. La
responsabilità individuale di chi organizza la violenza è ovvia, ma in
queste crisi politiche è come nelle crisi tra coppie: la colpa non è mai
solo da una parte.
(Torino, 4 marzo 2012)
[Immagine: No TAV: tutto il resto è noia, scritta murale (gm)].
tratto da http://www.leparoleelecose.it/?p=3703#comment-24291