
Di lotta alla mafia, anche di San Giovanni, si occupavano in gruppo tre Sostituti Procuratori, quando un rapporto a carico di mafiosi coinvolse anche Rizzo.
Venuto a conoscenza dell'imminente cattura, questi la eluse e avvertì molti altri imputati (è falso che sia stato arrestato e poi scarcerato dal Tribunale in sede di riesame). Il Tribunale annullò le misure, per lui, latitante, e per parecchi altri, o latitanti o carcerati, ma la Cassazione rimosse (12/02/1997) i provvedimenti del Tribunale; Rizzo, rabbiosamente frustato, lasciò trasparire che non appena in carcere avrebbe cantato.
Lo uccisero prima, il 24 di quel febbraio.
A Catania, nessun crimine ha mai pesato, come ha fatto questo, sulla Giustizia, sovvertendone il corso per moltissimi anni.
Decenni di stretto sodalizio con i Laudani, in un ruolo speciale, implicante contatti e rapporti con pubblici ufficiali e operatori economici, avevano fatto di Rizzo un pericoloso conoscitore di segreti del clan. Il suo pentimento ne avrebbe svelato struttura e connessioni, messo gli inquirenti sulle tracce dei suoi capitali, smascherato referenti non sospetti, gettato nel fango funzionari che favori avessero fatto alla cosca, o favori ne avessero ricevuto. Con i Laudani, ce l'aveva: ne era stato abbandonato, "dopo tutto quello che egli aveva fatto per loro"; e anche imprecava contro un certo bastardo di giudice di Roma, esoso fornitore, per non meno di centinaia di milioni di lire, di soffiate circa imminenze di arresti. Solo i capi clan sapevano che cosa egli sapesse e potevano fare previsioni circa ciò che avrebbero detto.
L'eliminazione di lui, necessaria al clan, giovava a molti, affrancandoli per sempre dalla sua offensiva, ma nello stesso tempo assoggettava ad un servaggio nuovo e spietato quanti di costoro fossero uomini delle Istituzioni, chiamati come tali a perseguire l'autore.
Perseguito e convinto, il mandante poteva reagire asserendo d'aver commesso anche per loro il delitto che si voleva punire in lui solo; e già con questo egli avrebbe sradicati dalla vita civile. E se egli trovava intollerabile il pagare, soltanto lui, per un delitto che era giovato anche loro, chi poteva proteggerli da altre sue reazioni, anche fisicamente distruttive? La tremenda potenza della quale egli era armato poteva suggerire prudenza oltre che in quella specifica area di inchiesta, nella ricerca dei suoi capitali e nel perseguire i suoi referenti più qualificati.
Capitolo V: Volontà di non sapere e rivincita della verità
Identificato il cadavere -arso- di Rizzo, le cronache giornalistiche del 29 febbraio dissero tutto: di lui, al corrente di tutti i segreti dei Laudani, dell'infortunio occorsogli in Cassazione, il 12, e della causale dell'omicidio, voluto dal clan per prevenirne l'arresto e le rivelazioni. La Procura (il gruppo Antimafia; Il Procuratore Capo; gli altri Sostituti. cui fosse toccata la notizia di reato, prima della identificazione dei resti) dovevano mettersi in caccia della verità, dalla imponente rilevanza per il procedimento in corso (il primo "ficodindia").
C'eerano molte cose da fare: i sequestri dei libri contabili e corrispondenza, sequestri di beni, indagini e sequestri presso banche, convocazioni di persone che si potessero presumere informate. Non fu fatto nulla, da nessuno; e nel giugno dell'anno dopo, '98, venne chiesta l'archiviazione.
Ma di lì a poco la verità, non voluta cercare, irruppe essa in Procura. L'esecutore materiale del delitto rese confessione e chiamò correità, quali mandanti, il capo clan, Laudani Alfio, ed altri. Era il '98 o il '99, ma nessuna iscrizione nel registro degli indagati fu fatta sin oltre il marzo del 2001, sebbene nel 2000 lo staff della Procura si fosse accresciuto di un pezzo forte, col rientro di Gennaro, in veste di Procuratore Aggiunto. Iscrizioni sopraggiunsero solo ad aprile del 2001, dopo che la Procura Generale ebbe avocato un altro procedimento per l'omicidio di Atanasio, a carico del Laudani: al che poteva seguire avocazione, per connessione anche di questo.
Richiesta di comunicazione degli atti ci fu in effetti da parte dei Sostituti assegnatari del procedimento avocato, ma ad essa fu opposto, dal Procuratore Capo, netto rifiuto: le indagini in corso -egli disse- esigevano speciale riservatezza. Il Procuratore Generale si acconciò.
Deve essere molto impropabile successo la ricerca, in tutta la storia della Magistratura italiana, di precedenti di un tale rifiuto o di una siffatta acquiescenza.
All'inagurazione dell'anno giudiziario 2002 (12 gennaio) qualcuno riuscì a dire -presente Gennaro; presente; verosimilmente, l'on. Finocchiaro- le parole giuste: a proposito di San Giovanni (luogo nel quale si incontravano tutte le devianze, tutte), e di quell'assassinio col quale erano stati seppelliti ontosi segreti, e a concludere -interrotto con immoderata insistenza dal Presidente della Corte, "per l'ora già tarda"- auspicando che ad occuparsi delle indagini fossero mani che non tremano".
(il testo dell'intervento in Città d'Utopia, 2002).
Rinvio a giudizio fu chiesto un anno appresso; ma intanto veniva negata la capacità del Laudani, di partecipare coscientemente alle udienze, e la negazione, fatta propria dalla Procura, caparbiemente, anche contro irrestibili evidenze di simulazione (conclamate dalla CC di Parma, che deteneva l'imputato; conclamate dal Tribumale di Sorveglianza di Bologna) ha impedito la celebrazione del processo sino al 2009. ( si veda per il seguito il capitolo XVIII)
tratto da http://www.ucuntu.org/pdf/ScidaCasoCatania.pdf