L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

giovedì 6 settembre 2012

capire, interiorizzare la realtà è il primo passo per cominciare ad essere liberi


L’invincibilità del neocapitalismo

set 5th, 2012 |

di Eugenio Orso

La sopraggiunta incapacità di suscitare le forze produttive, la caduta tendenziale (e inarrestabile) del saggio medio di profitto, la centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro che diventano incompatibili con l’involucro capitalistico (e lo “sfondano”), lo spettro incombente del sottoconsumo nonostante la crescita demografica, per molti anni hanno alimentato le speranze di coloro che attendevano la fine del capitalismo e la liberazione dell’uomo.

Le teorie del crollo del capitalismo, da Rosa Luxemburg a Paul Sweezy, da Valdimir Lenin a Henryk Grossman, hanno tenuto banco per decenni ed hanno avuto in qualche modo origine, come molte altre teorie del passato e l’intero corpus teorico marxista-engelsiano, dall’opera originale e dal pensiero di Karl Marx.

Per quanto riguarda Grossman, ricordiamo brevemente, in questo accenno al crollismo novecentesco, la notissima opera dal titolo esplicito La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista, la cui pubblicazione ha preceduto di poco il disastroso crollo del ’29 e la successiva, disastrosa depressione conclusasi con il secondo conflitto mondiale, suscitando per questo un grande interesse.

Se l’”incubo” permanente dei capitalisti borghesi – e la maggiore minaccia per la tenuta del sistema – era rappresentato da un livello del saggio medio di profitto in costante discesa, Grossman ha analizzato a fondo la situazione, oltre Marx, individuando un insieme di forze, dei gruppi sociali, definibili secondo una certa ottica “parassitari” – fra i quali spiccavano commercianti, professionisti, domestici, e persino i preti – che consumavano senza produrre, riducendo inesorabilmente e sistematicamente il profitto capitalistico di natura produttiva.

Il prevalere degli “improduttivi”, consumatori ma non produttori negli spazi della fabbrica, avrebbe contribuito a far cadere i profitti, fino alle estreme conseguenze?

Così non è stato, ed anzi, le società capitaliste più “avanzate”, in cui tendevano a prevalere i “colletti bianchi” sugli operai e sui proletari, il ceto medio sul tradizionale proletariato di fabbrica, hanno conosciuto qualche decennio di espansione e di gloria.

Non parliamo poi della rilevanza economica, politica e sociale che ha avuto la grande storica querelle riguardante sottoconsumo e sovrapproduzione, insufficienza dei salari e scarsità di domanda, capaci di pregiudicare la crescita capitalistica tradizionalmente intesa, una querelle che ha attraversato buona parte del novecento, impegnando marxisti, keynesiani, monetaristi e liberisti, e che continua, nonostante si sia già consumata la sconfitta di marxisti e keynesiani, anche all’inizio del ventunesimo secolo.

Ma il sistema capitalista, lungi dal collassare definitivamente e aprire la strada al nuovo, lungi dal preludere alla sequenza finale socialismo – comunismo, quale definitivo approdo dell’umanità, è mutato “geneticamente”, diventando altro da sé ed imponendo, dopo il collasso sovietico, la legge neoliberista globalizzante in ogni angolo del mondo.

Oggi che il capitalismo è mutato di forma ed è qualitativamente cambiato, rispetto a ciò che era all’epoca di Marx, ed anche ai tempi di Lenin, Luxemburg, Grossman e Sweezy, fino al punto che possiamo considerare il neocapitalismo un nuovo modo storico di produzione sociale, discutere del crollo imminente del capitalismo senza che vi siano scricchiolii decisivi, mentre si susseguono le crisi neocapitalistiche lambendo aree geopolitiche vaste e interi continenti, ricorda un poco la condizione degli avventisti nordamericani ottocenteschi i quali, aspettando la fine del mondo fissata alla tal data e per la tal ora (ad esempio, per il 22 ottobre 1844), si riunivano in preghiera su una collina, e poi, constatato con sorpresa che l’ora era arrivata e il mondo era ancora lì, e che non vi sarebbe stato (ancora per un po’) un nuovo avvento e l’inizio dell’atteso regno dei giusti, se ne andavano scornati e delusi.

Se il capitalismo del secondo millennio, a parere di Marx, era retto da due soli, ma fondamentali pilastri – i rapporti di produzione e lo sviluppo delle forze produttive – essendo tutto il resto definibile sovrastruttura, il neocapitalismo finanziarizzato dell’era della globalizzazione può contare su molti pilastri che lo sostengono, ed uno di questi è rappresentato proprio dalla crisi strutturale.

Elenchiamoli tutti, gli elementi strutturali neocapitalistici, in un ordine cronologico, per avere un’idea un po’ più precisa della situazione, delle grandi differenze fra il capitalismo di Marx e quello attuale: [1] rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive (riuniti in uno perché lo sviluppo delle forze dipende strettamente dai rapporti di produzione in essere), [2] l’ideologia di legittimazione sistemica (l’economia liberista e mercatista non è scienza, ma ideologia e come tale ha la funzione di legittimare il sistema), [3] manipolazione antropologica e culturale dell’uomo (delle classi dominate, in particolare) attuata su vasta scala (utilizzando, a tale scopo, sia la precarietà lavorativa sia la potenza dei media), [4] creazione del valore azionaria, finanziaria e borsistica, che contiene in sé la “classica”, marxiana estorsione del plusvalore dal lavoro nella fabbrica, [5] crisi come assetto strutturale neocapitalistico, e perciò destinata a mutare di forma e di aspetto, ad aggredire paesi e mercati nuovi, ma non a scomparire nei tempi futuri.

Sfuggendo alla trappola dell’economicismo, che esalta gli aspetti economico-finanziari e trascura il resto, comprendiamo che i punti di forza neocapitalistici (i pilastri sui quali si regge l’intera costruzione) sono di varia natura e origine, ed accanto a quelli economico-finanziari, come ad esempio la creazione del valore finanziaria che subordina l’estorsione del plusvalore nelle produzioni industriali, vi sono l’ideologia di legittimazione (rivolta soprattutto a favorire l’integrazione di colti e semicolti), elemento strutturale e non sovrastrutturale come credeva il grande Marx, e la fondamentale manipolazione antropologico-culturale delle masse, per adattare l’uomo alla precarietà, spegnere sul nascere le tensioni sociali e impedire la diffusione di un vero antagonismo.

Oggi sappiamo che crisi non significa imminenza del crollo, fine del capitalismo, svolta della storia, ma semplicemente che è in atto un ennesimo esproprio di risorse per velocizzare la creazione del valore, per modificare gli assetti sociali, per comprimere ancor di più i redditi da lavoro e per ridurre al lumicino la sovranità degli stati nazionali.

La stessa lotta di classe è ormai uno strumento in mani neocapitalistiche, utilizzato durante le crisi dalla classe globale dominante, allo scopo di orientare nel senso voluto gli assetti sociali e politici di interi paesi e di aree geopolitiche importanti.

I tagli alla sanità pubblica, nei paesi del welfare “avanzato”, significheranno vita media in discesa e morte per soggetti deboli, marginali, senza reddito e malati, e rappresenterà una strada praticabile (ma non la sola) per ridurre i numeri di una forza-lavoro in eccesso, esuberante rispetto alle esigenze del nuovo capitalismo.

La promozione sociale e il miglioramento delle condizioni materiali di vita delle popolazioni (delle classi subalterne largamente maggioritarie), rappresentano un ostacolo per questo capitalismo, e non più una via per sostenersi, creare consenso intorno a sé e fagocitare intere generazioni di subordinati, come accadeva nello scorso secolo, nei tre decenni che seguirono il secondo conflitto mondiale.

La droga semilegalizzata dal lato del consumo e il gioco d’azzardo legalizzato capillarmente diffuso (ambedue molto presenti in Italia, purtroppo), al di là degli ovvi risvolti di natura economica, sono strumenti di dominazione efficaci per controllare le masse-pauper, fiaccarne la resistenza e ridurne il numero (attraverso l’uso prolungato e l’abuso di droghe, spesso letali).

Sia la ludopatia sia la ketamina, o peggio, la nuova devastante droga krokodil “low cost” che viene dalla Russia e che mangia letteralmente le carni degli sventurati consumatori, sono utili per comprimere negli spazi neocapitalistici milioni di dominati, privandoli progressivamente della possibilità di critica al sistema e della loro stessa dignità personale.

Economia formalmente criminale (droga, armi, schiavi, traffico di organi umani) ed economia legale procedono appaiate, e il referente ultimo è sempre lo strato più alto della classe dominante, l’Aristocrazia globale o Strategic global class.

I continui tagli ai redditi da lavoro e alle pensioni, combinati con la diffusione del lavoro precario, oltre ad avere benefici effetti sui profitti che alimentano, in posizione subordinata, la creazione del valore azionaria, finanziaria e borsistica, sostituiscono progressivamente il profilo neocapitalistico del precario-escluso, aderente alle dinamiche neocapitalistiche, a quello “tradizionale” del produttore-consumatore, caratteristico del capitalismo del secondo millennio.

La merce, il lavoro, la fabbrica hanno ancora importanza e sono imprescindibili, ma il nuovo capitalismo ha trovato altre strade per incrementare più rapidamente il capitale, e con lui il potere della nuova classe dominante globale.

E’ ancor vero e verificabile ciò che ha affermato Karl Marx nell’ottocento, e cioè che lo scopo del capitalismo non è tanto la produzione di merci, ma l’incremento senza fine dei capitali investiti attraverso plusvalore e profitto, ed è altrettanto vero ciò che ha scritto Max Weber nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, se lo scopo perseguito dai dominanti è l’incremento del profitto e non la “salvezza dell’anima”, ma le differenze fra questo capitalismo e quello dello scorso millennio, sul quale si concentravano le speranze crolliste di comunisti, antagonisti e rivoluzionari, sono invero notevoli.

In primo luogo, lo “spirito del capitalismo”, sciolto ogni vincolo di natura politica, religiosa, comunitaria ed etica che lo imbrigliava, è libero come mai fu nei due secoli precedenti, di aleggiare incontrastato su tutte le società umane, riconfigurandole brutalmente e rapidamente secondo le sue esigenze riproduttive.

In secondo luogo, la complessità strutturale neocapitalistica rende la costruzione sistemica più solida, retta dai cinque pilastri fondamentali prima elencati, e consente una riproduzione più agevole, rendendo improbabili scossoni insurrezionali (o addirittura rivoluzionari) e non necessarie le “concessioni” politiche e di reddito ai dominati che riducono i profitti e il potere della classe superiore

In terzo luogo, la nuova classe dominate globale, a partire dall’Aristocrazia finanziaria fino ad arrivare allo strato “lower” della classe, è culturalmente diversa dalla vecchia borghesia proprietaria, e non corre il rischio di fare pericolose e destabilizzanti concessioni – anticapitalistiche, antagonistiche, critiche – alla coscienza infelice che animava parte della borghesia.

Se borghesia e capitalismo hanno proceduto appaiati per un paio di secoli, il capitalismo ha mostrato, con il cambio di evo dal secondo al terzo millennio, di poter fare a meno della borghesia, nella sua veste rinnovata di nuovo modo storico di produzione, “plasmando” una classe dominante cinica, apolide, deterritorializzata, completamente aderente alle sue dinamiche.

La metamorfosi dell’ordine sociale che il neocapitalismo ha innescato riguarda, ovviamente, non soltanto i dominanti, ma il fondo della piramide sociale.

E’ in corso la formazione della classe povera del futuro, espropriata sia delle risorse materiali che consentono l’emancipazione sia della coscienza politico-sociale, del solidarismo e della lotta di classe, ed è per tale motivo che l’impressionante “passività sociale”riscontrabile in occidente e nell’Europa eurounionista (non solo in Italia) consente all’Aristocrazia globalistico-finanziaria dominante di perseguire, in tutta tranquillità, i suoi obiettivi di trasformazione delle società umane.

Ingegneria sociale (formazione della Pauper class e dissoluzione dell’ordine sociale precedente) e ingegneria politica procedono appaiate nella realizzazione del progetto demiurgico neocapitalistico.

L’autentica invasione degli spazi politici, in cui i dominati, quando erano proletari o appartenenti al ceto medio, avevano ancora qualche accesso e qualche peso, ha consentito di stabilire nuove forme di governo nate nell’alveo degenerativo della liberaldemcrazia occidentale, come la dittatura indiretta della classe globale che utilizza, per “regnare” sui vecchi stati nazionali colonizzati, governi “tecnici” non eletti (Mario Monti in Italia e fino al 16 maggio 2012 Lucas Papademos in Grecia), o governi “politici” di natura elettiva (insediatisi grazie a elezioni pilotate e manipolate, ponendo sotto ricatto la popolazione, come l’attuale governo greco di Antonis Samaras), ma completamente subordinati, per quanto riguarda le politiche e le scelte strategiche, agli interessi globalisti (e così sarà, probabilmente, anche in Italia, dopo Monti).

La riduzione degli spazi di (autentica) alternativa politica e l’atomizzazione sociale hanno avuto un’enorme importanza, per l’affermazione del nuovo capitalismo, poiché in questo modo i nemici sono stati uccisi “nella culla”, o addirittura ancora prima, provocando aborti.

Già queste poche righe dovrebbero far comprendere che c’è il rischio, per i pochi che veramente si oppongo al sistema, di cadere nello sconforto più totale, e di considerare invincibile il neocapitalismo, generatore di crisi continue (dal terziario avanzato ai sub-prime, dal debito pubblico degli stati ai prossimi, futuri attacchi a nuovi mercati) di crescenti squilibri sociali e distruzioni ambientali, di de-emancipazione di massa e di nuova schiavitù del lavoro (con conseguente e capillare diffusione, nel mondo del lavoro e nella società, del profilo di neoschiavo precario).

C’è poi la novità che le riforme concepite all’interno del sistema per preservarlo cambiandolo (e non fuori e contro il sistema stesso), della portata di quella keynesiana che ha cambiato il volto del capitalismo del secondo millennio, oggi non sono più possibili, e che, quindi, la via riformista (responsabilità sociale dell’impresa, capitalismo sociale di mercato, patrimoniale sui ricchi, tassazione delle transazioni finanziarie, rinnovamento dell’unione europoide con la nascita di veri “stati uniti d’Europa) costituisco soltanto vuote e vaghe formule che servono ad ingannare la popolazione, altrettanti imbrogli, praticati senza pudore da una sinistra, in certi casi ex comunista ed ex filo-sovietica, attualmente miglior servo politico del neoliberismo, esattamente come quella italiana del Pd che sostiene Monti, od anche come quella che ha sostenuto Hollande contro Sarközy in Francia.

L’attuale riformismo, millantato da una sinistra al servizio delle Aristocrazie globali, si configura come un nuovo strumento (in tal caso politico e sociale) di dominazione neocapitalistica, e costituisce, nella realtà, un supporto sistemico che “tiene lontane le masse”, illudendole, dalla tanto esecrata Rivoluzione (della quale si è proclamata frettolosamente la morte, dopo il collasso sovietico) e dai temuti avventurismi “populistici” (nella lunga involuzione da Peron a Berlusconi).

Se la via rivoluzionaria oggi non sembra praticabile, per l’indisponibilità totale delle masse, idiotizzate, pauperizzate, neutralizzate politicamente, per l’assoluta scarsità di forze antagoniste, ed anche la via riformista non è più praticabile, trattandosi di un inganno utile soltanto per favorire la tenuta sistemica, si può concludere che il neocapitalismo è veramente invincibile e sarà destinato a reggere nei secoli, riconfigurando a suo talento l’ordine sociale e le società umane in occidente, in Europa e nel mondo intero?

L’invincibilità, in tal caso, significherà veramente, per la prima volta nella storia umana, la fine della storia?

Personalmente non lo credo, anche se tutto sembra confermarlo, anche se la potenza sistemica è tale, oggidì, da consentire alla classe dominante di prevenire (non soltanto reprimere a posteriori, come in passato) ogni accenno di rivolta e di alternativa.

Non credo nell’invincibilità e nella quasi eternità del nuovo capitalismo (per quanto molto più “corazzato” del capitalismo che storicamente lo ha preceduto, generandolo dalle sue “rovine” sociali, culturali e politiche) perché i principali punti deboli, che si riveleranno entro il prossimo decennio, se non già entro questo tormentato decennio di cambiamenti e crisi, sono sostanzialmente tre:

1) L’impossibilità di spingere oltre un certo limite, accelerandola come sta avvenendo ora, la compressione materiale e psicologica dei dominati, senza dover far fronte a caos, rivolte, destabilizzazione dei centri neocapitalistici di sub-potere nazionale e insurrezioni diffuse.

2) La finitezza delle risorse naturali che si scontra drammaticamente con l’illimitatezza capitalistica, destinata a raggiungere il suo picco con l’affermazione del nuovo capitalismo finanziarizzato del secondo millennio.

3) La presa di coscienza della nuova classe dominata, la Pauper class, con conseguente “risveglio del Conflitto”, quando il processo di costituzione sarà in una fase un po’ avanzata e l’ordine sociale precedente un po’ più vicino alla sua definitiva scomparsa.

Queste tre valide ragioni, che mettono in discussione la supposta invincibilità neocapitalistica, da sole ci fanno comprendere che nei prossimi anni vivremo “tempi interessanti”, di cambiamento repentino e imprevedibile, di mutamento dei rapporti di forza fra dominanti e dominati, e forse di rovesciamento degli stessi, e soprattutto che la storia non è scritta, non è destinata a fermarsi come un orologio le cui lancette improvvisamente si immobilizzano perché si sono esaurite le batterie

La “fine della storia” non si raggiungerà sotto le bandiere neocapitalistiche, così come non si è raggiunta sotto le bandiere comuniste.

http://www.comunismoecomunita.org/?p=3297

mercoledì 5 settembre 2012

Serbia=Siria. Tecniche di manipolazione, si ribalta la realtà: una bugia detta mille volte diventa una realtà

Il debutto in società

di Elisabetta Teghil

La Jugoslavia, quando è stata aggredita, non aveva un ruolo strategicamente importante né con riferimento ai criteri del passato, cioè vantaggi militari, accesso al mare o ad un fiume navigabile, stretti, canali, alture……né a quelli odierni, cioè controllo di particolari ricchezze , petrolio, gas, carbone, ferro, acqua….

Per gli Stati Uniti, il Kosovo, che è stato il pretesto/occasione, non presentava e non presenta un interesse strategico nel senso passato e presente del termine.

Allora perché?

Per tre buoni motivi.

Il primo è la nuova legittimazione della Nato. Quest’ultima, concepita in funzione anti patto di Varsavia, una volta sciolto questo, non avrebbe avuto più motivo di esistere.L’aggressione alla Jugoslavia ha fornito agli Stati Uniti l’occasione per avviare il nuovo concetto strategico della Nato, e lo ha applicato alla nuora, la Jugoslavia, perché suocera intenda e cioè l’Europa, perché gli USA vogliono conservare ed accentuare la loro egemonia nel vecchio continente e non c’è spazio per un’organizzazione militare specifica dell’Europa occidentale.

Da qui, anche, la cooptazione nella Nato di paesi dell'Est europeo.

“La Nato deve esistere in quanto blocca lo sviluppo di un sistema strategico europeo rivale a quello degli Stati Uniti.”( William Pfaf -International Herald Tribune-maggio 1999)

Ed ancora.

“Gli Stati Uniti sono il solo paese che abbia interessi globali e, quindi, il leader naturale della comunità internazionale”.

Questa dichiarazione, così sfrontata, di chi poteva essere se non del segretario alla Difesa del presidente Clinton, William G. Perry?

Il secondo motivo è la balcanizzazione di tutti quegli Stati che, per densità demografica ed ampiezza del territorio, possono essere di un qualche ostacolo, soprattutto quelli non allineati alla politica statunitense e asimmetrici agli interessi delle multinazionali anglo-americane. Ce lo ricorda Ignacio Ramonet nel maggio 1999 “:

...la Serbia rifiuta di adottare il modello neoliberista imposto dalla globalizzazione. Perciò costituisce, a un tempo, un bersaglio ideale per la Nato e un pessimo esempio per alcuni dei suoi vicini dell'Europa dell'Est, sui quali pure grava pesantemente la crisi economica e politica.

Questa, in fondo, è la vera ragione dell'intransigenza della Nato mentre,sotto i nostri occhi, si sta instaurando un nuovo ordine mondiale.”

Si creano, così, piccoli Stati dove gli USA possono collocare enormi basi militari, Stati che sono il crocevia di tutti i traffici illeciti possibili, guidati da corrotte mafie locali e trasformati in “case chiuse” e in sentina dei capricci dei soldati della Nato.

Infatti, la più estesa concentrazione di prostituzione, non certo volontaria, si trova in Kosovo.


Il terzo è la trasformazione della Nato in polizia internazionale che interviene là dove i governi e i popoli hanno l'ardire di sottrarsi, o almeno di tentare, al dominio imperiale.

Ma, per fare ciò, era necessaria una costruzione semiotico-simbolica, cioè ideologica, che nobilitasse questo suo nuovo ruolo.

E, qui, è stata essenziale la socialdemocrazia che, trasformandosi in destra moderna e reazionaria, si è scoperta filo atlantica e ha debuttato in società mostrando la propria affidabilità all'impero proprio in occasione dell'aggressione alla Jugoslavia.


A Belgrado sono nati i giornalisti “embedded” e, contemporaneamente, le campagne di demonizzazione nei confronti di quelli non allineati come Regis Debray in Francia, Ennio Remondino in Italia, John Simpson in Inghilterra.

La Nato ha messo a punto un dispositivo teso a rendere la guerra invisibile e a porre la sua informazione come fonte principale per i giornalisti.

E i media, salvo alcune lodevoli eccezioni, si sono resi complici nel commentare un'immagine nella quale erano completamente assenti l'aggressione e le conseguenze sulla popolazione civile.

Con un'operazione di marketing, a Belgrado come a Damasco, si personalizza l'avversario mettendo in pessima luce familiari e rapporti personali: la moglie di Milosevic era un'anima nera, quella di Assad spende e spande in piena guerra.

La semplificazione delegittimante che riguardava a Belgrado il comunismo e il nazionalismo, a Damasco diventa il regime e il totalitarismo .

La macchina mediatica riporta una sfilza di parole-prova. Si autocita una pseudo fonte iniziale che si perde nei successivi rimandi, accompagnata da qualche condizionale che, domani, di fronte ad eventuali smentite, servirà da polizza assicurativa. La smentita diventa parte integrante della conferma.

I media rimuovono l'informazione, di cui si dicono paladini, e sposano la causa della comunicazione al servizio dell'impero.

Questa comunicazione non è un'idea innocente, non funziona senza disinformazione e senza l'uccisione simbolica dei giornalisti indipendenti attraverso la caricatura, l'epiteto infamante e l'insinuazione.

La gerarchizzazione e la selezione delle fonti, effetto perverso del dominio unilaterale dell'informazione, produce una comunicazione autointossicata.

Oggi non si utilizza più la vecchia censura. E', invece, un fiorire di immagini e scene cariche di forte emotività. Peccato che siano manichee e si ometta di dire chi le ha promosse e perchè.

Una radio francese:

”...centinaia di ragazzi sarebbero utilizzati come banche del sangue viventi, migliaia di altri sarebbero obbligati a scavare fosse e trincee e le donne sarebbero sistematicamente stuprate...”

Una televisione statunitense:

“..secondo un responsabile degli Stati Uniti decine di migliaia di persone sarebbero state giustiziate...”

Una televisione francese:”

....tra cento e cinquecentomila sarebbero stati uccisi....”

Nessuno saprebbe dire a chi e a cosa siano riferite queste dichiarazioni, se alla Jugoslavia, se alla Siria, se alla Libia o all'Iraq.

Il rapporto di forze sul piano militare tra la Nato e la Jugoslavia era talmente impari che, di fatto, è improprio parlare di guerra.

In realtà, è stata una “punizione”. Anche questa una novità che sarà ripetuta successivamente.

Belgrado è stato il primo passo verso Bagdad, Tripoli e, ora, Damasco.

A Belgrado come a Damasco si insiste a parlare di “comunità internazionale” per designare le potenze occidentali. La Cina, la Russia, l'India, l'Africa , l'America Latina... non ne fanno parte. In Jugoslavia come in Siria, si è fatto e si fa un grande uso della parola genocidio con la conseguente banalizzazione dell'olocausto ridotto alla stregua di un marchio itinerante con cui bollare sistematicamente il nemico del momento. I primi segni delle conseguenze negative dell'uso strumentale di queste parole sono lo straniamento della violenza a distanza.

Grazie a questo mutato rapporto geopolitico, a questa dittatura ideologica vissuta in regime di monopolio, finalmente potrà realizzarsi il progetto statunitense, raccontato nel settembre del 2005 dal The Guardian:

“Al fine di agevolare l'azione delle forze di liberazione, ridurre la capacità del regime siriano di organizzare operazioni militari, contenere al minimo le perdite e le distruzioni e ottenere i risultati perseguiti nel più breve tempo possibile, si rende necessaria un'azione speciale per eliminare un certo numero di dirigenti chiave. La loro rimozione dovrà essere portata a termine fin dall'inizio della sollevazione dell'intervento. Dovrà apparire che sia Damasco a sponsorizzare i complotti, i sabotaggi e gli atti di violenza contro i governi vicini. La Cia e la sua omologa britannica utilizzeranno tutte le loro capacità, sia nel campo psicologico che in quello dell'azione, per accrescere la tensione.”

Ed ancora, Alain Gresh, su “Le monde diplomatique” del dicembre 2005:

“Il rovesciamento del regime passa, inoltre, per il finanziamento di un comitato per una Siria libera e per la fornitura di armi a varie fazioni politiche con capacità paramilitari.”

Occuparsi di quello che è successo a Belgrado e, oggi, a Damasco, non è secondario, non è marginale, ma fa tutt'uno con le vicende europee e di casa nostra.

Tanto è vero tutto questo che ieri si aggredivano a voce e per iscritto Regis Debray , Ennio Remondino, John Simpson e, oggi, Marinella Correggia, Manlio Dinucci e Fulvio Grimaldi.

Allora il silenzio su queste vicende è ingiustificato e sconcertante.

Se,poi, alla base, c'è paura, questa è lecita ,perchè c'è da avere paura. E' stato impostato un apparato repressivo violento, vendicativo e privo di scrupoli.

Ma dalla solidarietà,almeno da quella, non dovremmo sottrarci.

Sempre che non si debba e, purtroppo è il caso, sottoscrivere le parole di Antonio Savino:

“.....perchè questo è l'epilogo della lunga quaresima della sinistra, da tempo senza storia e senza memoria.

Delle colpe vanno date anche all'”intellighenzia di sinistra” ancellare, tutta orientata a fare mercato, a vincere premi letterari, ai passaggi in TV e a raccontare il re.”

Il fatto che Savino si riferisca alle vicende dell'ILVA di Taranto e chiuda il suo discorso dicendo “...e si è totalmente dimenticata di questa Italia profonda, di questa vandea operaia, dei sudditi del sud”, non toglie niente al fatto che le sue riflessioni possano essere applicate anche fuori dal campo del suo intervento.

In politica non ci sono compartimenti stagni.

http://www.sinistrainrete.info/geopolitica/2263-elisabetta-teghil-il-debutto-
in-societa.html

alcune tecniche di manipolazione dell'informazione.
http://www.progettoalternativo.com/2010/10/tecniche-di-manipolazione.html

martelun

lunedì 3 settembre 2012

a richiesta. Prima parte dei Rivoluzionari e le masse


venerdì 29 giugno 2012

La Rivoluzione di Eugenio Orso



I) La Rivoluzione.

Se i rivoluzionari sono gli agenti della Rivoluzione, coloro che la fanno ai diversi gradi di consapevolezza possibili, ed esprimono una critica “radicale”, non riassorbibile, al sistema di potere e ai rapporti sociali dell’epoca, allora è necessario definire senza troppe imprecisioni cos’è la Rivoluzione, richiamando la definizione che ne ho dato in un saggio intitolato, appunto, Insurrezione e Rivoluzione.
Pur non essendo questo un trattato dedicato alla Rivoluzione, con tutta l’analisi storica che può comportare lo studio di un simile fenomeno di rottura (e ricomposizione in altra forma) dell’ordine sociale vigente, è bene definire cosa si intende per “rivoluzione”, prima di affrontare il tema dei Rivoluzionari di domani, delle loro caratteristiche e del loro rapporto con le masse.
E’ necessario, per andare un po’ di più in profondità nella questione, distinguere lo specifico fenomeno politico e sociale rivoluzionario, che investe ogni aspetto della vita associata dei singoli, da altri importanti fenomeni che hanno l’effetto di “infiammare” la società, di sconvolgerne (seppur nel breve) gli equilibri, di mettere alla prova la stessa tenuta sistemica, trattandosi di eventi in certi casi apparentemente simili o addirittura sovrapponibili al processo rivoluzionario, come l’Insurrezione.
Per Rivoluzione qui si intende, non un semplice cambio di governo, sia pure realizzato con metodi “non democratici” ed “extracostituzionali”, che mira alla sostituzione della dirigenza politica e di una parte di quella burocratica, ma una tappa fondamentale, un momento topico del lungo processo di Liberazione ed Emancipazione umana per il raggiungimento dell’autocoscienza, che supera l’ordine precedente ed instaura un nuovo ordine politico e sociale, nuovi rapporti sociali e di produzione stabiliti fra gli uomini.
La Rivoluzione rappresenta, perciò, un punto di rottura, un discrimine fra due mondi (prima Rivoluzione Francese e Ottobre Rosso in Europa, Rivoluzione Maoista in Asia, Rivoluzione Cubana in America, eccetera), il segnale che è in corso un vero e proprio “cambio di Evo”, essendo il cambiamento prodotto dalle inevitabili trasformazioni culturali che caratterizzano il corso storico e dalla stessa azione dei rivoluzionari.
L’effettivo momento di passaggio da un vecchio ad un nuovo modo di produzione sociale può essere rappresentato, o almeno accelerato, dalla Rivoluzione, un fenomeno per sua natura tridimensionale, contrapposto all’unidimensionalità insurrezionale alimentata dalla sola rabbia dei dominati, in quanto (A) dotato della necessaria profondità storica (il periodo di “incubazione” può durare decenni, o secoli), (B) guidato da una visione politica e sociale autenticamente alternativa a quella ancora dominante, (C) animato dalla coscienza e dalla determinazione dei rivoluzionari, vero “intelletto attivo del cambiamento e trasformativo dell’ordine esistente”, quando riescono ad incanalare positivamente in termini politici, sulla via del cambiamento e della trasformazione economico-sociale, la rabbia montante, l’odio che nasce dall’iniquità sistemica, la forza degli oppressi e delle masse soggette al potere vigente.
Non esiste un unico modello di Rivoluzione universalmente applicabile, e l’implosione del comunismo sovietico, nato da una Rivoluzione, non significa in alcun modo – come la propaganda liberal-liberista ha cercato di far credere in questi anni, mistificando – che la Rivoluzione stessa è morta insieme all’Unione Sovietica e al blocco geopolitico socialista, ma significa semplicemente che la via rivoluzionaria, in futuro, potrà seguire direzioni diverse da quelle e rivestire altre forme, non più leniniste, con esiti sociopolitici ben diversi.
Nessun momento rivoluzionario è mai uguale ai precedenti (ed ai successivi), così come le forze rivoluzionarie, cioè l’insieme degli agenti che trasformano la realtà e “disalienano” l’uomo, sono perfettamente immerse nel corso storico, quale più avanzata risultante delle precedenti trasformazioni antropologico-culturali, ma nel contempo concretamente esprimono, combattendo il sistema e le forze che cercano di perpetuarlo o semplicemente di riformarlo, la potenzialità connessa alla natura umana della “possibilità di scegliere e di opporsi” – anche contro lo stesso interesse personale e di classe del singolo – che è frutto dell’esercizio della ragione nel calcolo politico-sociale e l’esito della possibilità di critica.
Per definire la Rivoluzione in un modo sintetico ma efficace, non in contraddizione con i concetti che ho esposto in precedenza, si può ricorrere alle parole del filosofo Costanzo Preve:
«Se vogliamo usare il termine di rivoluzione nel solo modo corretto e non equivoco [ ... ] e cioè di rivolgimento che attiene il funzionamento riproduttivo complessivo dell’intera struttura dei rapporti di produzione [ ... ] allora ne consegue che nell’ultimo secolo in Europa (1912 – 2012) la sola ed unica rivoluzione sia stata quella russa del 1917.»
[Etica comunitaria, progresso e rivoluzione, Costanzo Preve intervistato su questi temi da Luigi Tedeschi]
Al massimo grado possibile di cambiamento storico e culturale, come sostiene il grande filosofo marxiano ed hegeliano Costanzo Preve, vi è il rivolgimento che attiene il funzionamento riproduttivo complessivo dell’intera struttura dei rapporti di produzione, e ciò vale, in estrema sintesi, ad esplicitare l’importanza del momento rivoluzionario, che si riverbera su ogni aspetto della stessa vita quotidiana (e dell’esperienza esistenziale) dei singoli.
Lungi dal rappresentare un semplice cambio di governo e/o un rinnovo forzato della “classe dirigente politica” (che potrebbero tranquillamente avvenire in seguito ad un golpe “nonviolento” e la nomina di un Monti alla guida dell’esecutivo), la Rivoluzione è la risultante storica di un processo articolato, che implica per sua natura significativi cambiamenti culturali e una rinnovata consapevolezza umana (o almeno della parte migliore e più avanzata dell’umanità , rappresentata dalla élite rivoluzionaria) nel lungo cammino verso l’autocoscienza e l’emancipazione.
Il momento rivoluzionario deve essere inteso quale momento culminante del cambiamento, di quel processo storico che si sostanzia in una profonda trasformazione dei rapporti sociali di produzione, e per conseguenza della stessa organizzazione sociale nel suo complesso.
La società non si rinnova mai nei suoi tratti essenziali per “gentile concessione” dei gruppi dominanti, mossi dal senso di responsabilità nei confronti dei sottoposti, guidati dall’”empatia” nei confronti del resto dell’umanità e disposti, perciò, a sacrificare una parte dei loro privilegi, o a ridimensionare progressivamente il loro potere.
La società si rinnova da cima a fondo soltanto attraverso la lotta, che può assumere forme estreme (“terrorismo”, rivolte violente, conseguenti e sanguinose repressioni sistemiche, eccetera), e gli assetti sociali mutano attraverso sconvolgimenti epocali dell’ordine costituito, fino a raggiungere il culmine della lotta stessa, il climax della “tragedia sociale”, rappresentato dalla Rivoluzione.

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