La moneta del comune
Summer school
di Christian Marazzi
A
me sta il compito di tentare di inquadrare la situazione così come si è
venuta a determinare recentemente fino alle ultime decisioni prese
dalla BCE. Quando si seguono le vicende monetarie e finanziarie si
viene travolti dal divenire della situazione e molto spesso non si
riesce a riflettere oltre queste stesse questioni finanziarie. La
colonizzazione finanziaria della mente è qualcosa di reale, ma credo
che almeno su tre cose sia importante soffermarsi:
- la prima questione è come si è arrivati a queste ultime misure prese
dalla BCE in questi giorni e con gli effetti euforici che hanno
provocato sui mercati;
- la seconda ha a che fare con il rompicapo della moneta unica. Come ci
posizioniamo noi di fronte al dilemma relativo alla sopravvivenza
dell’Unione Monetaria Europea?;
- il terzo punto credo che sia un inizio di riflessione su questa
categoria che abbiamo buttato lì, ma che mi sembra potenzialmente
interessante per lo meno sotto un profilo politico, la moneta del
Comune.
Come si è arrivati a queste misure in sede BCE, prese
quasi all’unanimità ma con l’opposizione della Bundesbank, di
intervenire in modo illimitato sul mercato secondario dei titoli
pubblici al massimo a tre anni, con una serie di misure collaterali.
Questa decisione era già circolata tra la fine del mese di Luglio e il 2
di Agosto, al vertice di Bruxelles. Per arrivare a questo compromesso
all’interno del Board della BCE, era stato necessario, per lo meno per
Draghi, cedere sulla questione delle condizionalità aggiuntive da
accompagnare a qualsiasi forma di aiuto ai Paesi che ne hanno bisogno,
l’Italia e la Spagna.
Io credo che questa concessione, necessaria per ottenere il consenso
della maggioranza nel Board della BCE, sia una concessione alla
Bundesbank, agli ortodossi più incalliti, e che sia importante. Credo
che sia questa la cosa più importante in realtà da sottolineare. La
maggiore flessibilità della politica monetaria della BCE è altrettanto
importante, ma bisogna considerare che questi interventi nel mercato
delle obbligazioni pubbliche e dei titoli sovrani non sono stati presi
per la prima volta. Sono misure attuate già l’anno scorso, sia nei
confronti dell’Italia che della Spagna. Sono state poi riprese, con
l’iniezione di 1000 miliardi, fra Dicembre ed inizio Febbraio, da parte
della BCE. I precedenti ci dimostrano anche che queste misure sono
durate quanto sono durate. Non sono state risolutive, insomma, dei
problemi strutturali che affliggono l’Eurozona. Ci siamo confrontati da
due anni a questa parti con una specie di finanziarizzazione
emergenziale: credo che tutti condividano la conoscenza dei problemi
fondamentali dell’architettura dell’Euro, però allo stesso tempo vediamo
che si continua a procedere con misure di emergenza, tentativi di
guadagnare tempo; ma non sappiamo bene per cosa si stia guadagnando
tempo. Qual è l’orizzonte temporale di questo processo? Siamo in
presenza di misure emergenziali e del diffondersi di una netta
sensazione che i problemi fondamentali dell’Eurozona non siano per
niente risolti. Perché questo movimento sincopato sul piano delle
politiche monetarie? Quest’ultima misura viene a coronamento di una fase
in cui di nuovo l’Euro ha rischiato un collasso. Abbiamo assistito a
un frazionamento dello spazio finanziario europeo. C’è stato un vero e
proprio ripiegamento di tipo sovranista-bancario; è diminuito
moltissimo il
cross border lending, cioè il prestito tra le
banche di Paesi diversi sul mercato all’ingrosso, con cui le banche si
finanziano correntemente; si è assistito in questi mesi a una fuga di
capitali dalla Spagna e dall’Italia molto importante. Gli operatori
finanziari hanno lavorato su un’ipotesi di spaccatura dell’Euro. A
partire da questa ipotesi hanno posto un premio al rischio che è molto
elevato e si sono attivati per uscire dai Paesi periferici per mettersi
al riparo da questa eventualità. Sappiamo che questa fuga di capitali,
per un meccanismo che sta all’interno della zona Euro e che si chiama
Target 2, ha comportato un aumento impressionante della posizione
debitoria della BCE sulla banca maggiormente creditrice, la Bundesbank,
si parla di 727 miliardi (c’è anche chi dice che questo non dovrebbe
causare problemi nel caso in cui dovesse collassare l’Euro); è
difficile immaginare una situazione in cui i cittadini dei Paesi
indebitati non si trovino a subire le pressioni dei creditori, laddove
veramente si dovesse uscire dall’Euro. Quello che voglio dire è che la
BCE in questi mesi ha dimostrato di non avere più il controllo sui
tassi di interesse, tanto è vero che abbiamo una divergenza fra i tassi
di interesse nei vari Paesi (quando il progetto dell’Euro doveva
consistere in una convergenza dei tassi di interesse dei Paesi membri).
Questo significa che la BCE non può far fronte al proprio mandato,
alla stabilità del sistema, anche se esso è inteso nel senso ortodosso
del controllo dell’inflazione. Da questo punto di vista la situazione è
grave tanto quanto lo era l’anno scorso. Oltre all’incremento del
costo del denaro per le imprese e i cittadini, vi è la consapevolezza
della crescita di un movimento politico di rifiuto dell’Euro
all’interno dei vari Paesi. A questo proposito io credo che un
movimento anti-Euro sia molto più forte e pericoloso in Germania, cioè
nei Paesi forti, non nei Paesi deboli. Nei Paesi deboli non mi pare ci
sia un’avversione popolare all’Euro, se mai c’è un’avversione alle
politiche di austerità indotte dal funzionamento dell’Euro. In questa
situazione una mossa da parte della BCE ci voleva. Draghi è dunque
stato da una parte abile, dall’altra parte a me sembra che queste
misure (che vedremo quanto dureranno e che sono senza dubbio
impressionanti – pensate che la Banca Svizzera sta facendo ormai da un
anno interventi illimitati sul mercato dei cambi per evitare la
rivalutazione del franco, interventi che al momento non si sono
tradotti in inflazione immobiliare come molti di noi temevano) non
reggeranno, per una ragione semplice: non sta funzionando in
Inghilterra, dove questa politica di intervento da parte della Banca
Centrale è in corso da tempo, non mi sembra che abbia funzionato in
modo splendido neanche negli Stati Uniti dove questa politica è
ricorrente. Bisogna tener conto che i benefici di questa misura
sicuramente sono tutti per le grandi banche tedesche e francesi; infatti
l’aumento del valore dei titoli pubblici dei Paesi periferici permette
alle banche tedesche e francesi che hanno in bilancio ancora parecchi
di questi titoli di rivalutarli. Abbiamo a che fare con una partita
all’interno del mondo finanziario e bancario. L’aggiungersi di misure di
condizionalità oltre a quelle già introdotte con il
fiscal compact in
questi ultimi mesi non è uno scherzo. Nessuno sa bene quali saranno
queste condizionalità, credo che varieranno da Paese a Paese e che ci
sarà una sorta di
fine tuning, di regolazione flessibile a
seconda di quante riforme, o meglio controriforme, sono state realizzate
qui e là, ma, da questo punto di vista, ancora non si sa cosa potrà
succedere. Vi è poi la questione della sovranità: vedremo come si
pronuncerà la Corte Costituzionale tedesca di Karlsruhe il 12 Settembre,
sembrerebbe già abbastanza incredibile che dovesse considerare
incostituzionale la creazione di questo secondo “Fondo salva Stati”, il
Financial Times scrive che uscirà un sì al Fondo ma con queste condizioni aggiuntive
[1].
Certo che per un Governo tecnocratico che assume il vincolo dei
mercati e che si trova a dipendere da altre condizionalità sembra
incredibile: da questo punto di vista la questione della sovranità
nazionale sembra non esistere. Esiste se mai un ritorno alla sovranità
bancaria, ma questo tende alla frammentazione. Questo pone un problema
serio: da una parte un vuoto di sovranità nazionale politico, di
margini di manovra per decidere della politica monetaria, della
politica economica sul piano nazionale, e dall’altra frazionamento e
nazionalizzazione delle politiche bancarie, quindi ulteriore
divergenza.
Io mi sono espresso più volte sull’ipotesi della rottura dell’Euro.
Quando si critica l’Euro sembra che si critichi l’Europa. Ma andiamoci
piano! Qui non si vuole criticare l’Europa come nostro orizzonte, come
nostro spazio identitario, come nostro spazio di lotta, si critica
l’Euro come “gabbia d’acciaio”, come “camicia di forza”, che, come ho
appena finito di dire, non ha spazi di socializzazione né di
generalizzazione della lotta di classe. D’altra parte la caduta
dell’Euro sembra andare di pari passo al ritorno di una politica
sovranista, al ritorno delle monete nazionali, al ritorno del Sistema
Monetario Europeo, che avevamo visto tra 1979 e il 1992, monete
nazionali collegate l’una all’altra con tassi fissi, aggiustabili
annualmente, per dare più ossigeno alle politiche nazionali. Da una
parte questo Euro, che a me non piace, dall’altra una spaccatura
dell’Euro nel nome di un ritorno alle sovranità nazionali. Qui non si
può dire delle due l’una. Siamo di fronte ad un problema sul quale
dobbiamo esprimerci. Nei prossimi mesi sono convinto che partirà una
grossa mobilitazione, e che sarà incasinata e confusa e difficile anche
da definire politicamente secondo gli schemi attuali, contro le
politiche introdotte dall’Euro. Come ci staremo dentro? Da una parte
credo che dovremo essere molto determinati nella critica di questo Euro,
una moneta attuata e pensata secondo la teoria neoliberale,
monetarista, dall’inizio alla fine, da Robert Mundell in poi, la teoria
delle zone monetari ottimali, la quale è basta su delle ipotesi di cui
una è particolarmente saliente: che vi sia mobilità perfetta del
fattore lavoro. Questo è a mio modo di vedere il progetto dell’Euro,
cioè creare un grande bacino di forza-lavoro migrante. La condizione
migrante ha a che fare con quella che secondo me è una delle ragioni
del mantenere in vita questo Euro. L’Euro sta determinando un effetto di dumping
salariale, di fuga non solo di capitali, ma anche di persone, dai
Paesi più malmessi. Questa nostra critica all’Euro è anche un’occasione
di porre la questione dell’alternativa fra sovranità sovranazionale e sovranità nazionale.
Viviamo in una sovranità caratterizzata dalla crisi della
rappresentanza, una sovranità tecnocratica, che non ha nulla a che fare
con la diversità degli interessi radicati nel mondo, nella vita, nel
lavoro e nel non-lavoro. Questo significa affrontare la questione della linea di fuga (non mi piace l’espressione terza via) da questo dilemma, da questo rompicapo “Euro-non Euro”, ponendo la questione della moneta del Comune.
Voglio porre una differenza fra “moneta comune” e “moneta del Comune”.
La prima (la moneta comune) ha a che fare con il piano proposto da
Keynes a Bretton Woods. L’idea è quella di istaurare una moneta di
conto, un Bancor sovranazionale che funga da veicolo di potere
d’acquisto fra i Paesi che si scambiano beni e servizi. Non è di per sé
una cosa nuova, diciamo che è meglio dell’attuale situazione, sempre
che ci si muova nella direzione keynesiana. Per arrivare a questo
bisognerebbe spaccare l’Euro e ritornare alle monete nazionali.
Io credo che parlare in termini di moneta del Comune sia più
corretto per quanto ci riguarda perché pone la questione in termini
radicalmente diversi. Cosa è la moneta del Comune? È quella moneta che
dà espressione e riconosce ciò che è comune nella moltitudine, diciamo
così, in uno spazio politico, sociale, demografico quale è oggi
l’Europa. Quindi io non so. Ho sentito mesi fa Michael Hardt presentare
il libro che ha scritto con Toni sulle diverse forme della soggettività
(Comune. Oltre il privato e il pubblico, Rizzoli 2010).
Costruire oggi un progetto, come dire, di insubordinazione, di
mobilitazione, che riguardi l’uomo indebitato, l’uomo securizzato, o
l’uomo mediatizzato, l’uomo rappresentato, credo abbia a che fare con
la costruzione della “moneta del Comune”, credo sia un buon punto di
partenza. Ragionare sulla “moneta del Comune” potrebbe significare
partire da qui, partire da una definizione soggettiva di cosa è il
Comune, di cosa è il Comune oggi. Cosa è che ci accomuna?
C’è il fatto che stiamo subendo dei processi di espropriazione, di privatizzazione di beni che sono essenziali (le public utilities
sono indubbiamente uno degli obiettivi dei processi di privatizzazione
perché grantiscono delle entrate continue a chi ne acquista il
controllo, la possibilità di sfruttarle). Partiamo allora da qui.
Occorre però anche definire la “moneta del Comune” come processo.
Niente di nuovo, ma ribadiamolo solo per non illuderci sul possibile
esito di questo processo. Certo a me non dispiacerebbe immaginare un
Euro con l’effige Common. La moltitudine ha bisogno di avere
una sua espressione monetaria e non solo in negativo. In questo processo
bisognerà confrontarsi, prendere delle scelte in termini di alleanze.
Uno dei motivi per i quali in questi anni c’è stata una divergenza dal
punto di vista dei debiti pubblici è stato un certo tipo di
interpretazione del keynesismo. Una delle cose di cui si è parlato più
lungamente è questa: i Paesi che oggi sono più compromessi dal punto di
vista dell’indebitamento pubblico sono i Paesi che hanno più investito
in infrastrutture legate ai trasporti, alle strade e alle ferrovie (per
esempio la Grecia). Questa è una cattiva interpretazione di quello che
è il keynesismo di cui noi oggi abbiamo bisogno. Noi abbiamo bisogno
di investimenti, ma gli investimenti nelle così dette grandi opere sono
un disastro, opere in cui il lavoro vivo, il lavoro salariato,
rappresenta il 25% dei costi totali, e si concentra solo nella fase
finale del processo (mediamente 10 anni). Infatti si tratta di opere ad
alta intensità di capitale. Non è questo il tipo di keynesismo di cui
noi oggi abbiamo bisogno. Abbiamo invece bisogno di investimenti nell’immateriale.
C’è tutto un territorio nel quale investire, non nell’hardware o nel
software, ma nel cognitivo, nella nostra possibilità di essere
cognitivamente autonomi. Credo anche che questo tipo di keynesismo
rientri perfettamente in quel modello economico antropogenetico di cui
io sono sempre più convinto. Io credo che l’occidente possa tenere
rispetto ai Paesi emergenti solo se investe nella cultura, nella
socialità, nella formazione e nella sanità. Questi sono i quattro
settori su cui indirizzare gli investimenti. Non mi sembra che si stia
andando in questa direzione. Il liberismo montiano mi sembra proprio che
vada nella direzione di un rilancio delle così dette grandi opere come
la TAV.
Non è facile portare avanti il discorso sul capitalismo contemporaneo
come capitalismo cognitivo, non tanto dinanzi alle critiche, ma
proprio dal punto di vista dei soggetti: il confronto con i soggetti
protagonisti della Primavera araba, oppure dei riot inglesi non
conduce a facili declinazioni della categoria del “lavoratore
cognitivo”. Come fare a riconoscere la produttività di questi soggetti
in un’economia che ha generalizzato la conoscenza? Credo che dobbiamo
comunque tenerci su questo terreno, non perché dobbiamo scegliere un
soggetto (non è mai stato così anche quando si parlava di operaio massa).
Più che il lavoratore cognitivo la figura più rappresentativa della
nostra società mi pare essere il precario flessibile, comunque la
centralità del cognitivo rispetto alle rivendicazioni dei prossimi mesi n
on è da mettere in discussione.
Si parla di project bonds (meno in questi ultimi mesi), di
obbligazioni emesse per poter finanziare le grandi opere. A me sembra
interessante contrapporre a questi project bonds delle cose
simili ma che si pongano il problema di uno sviluppo locale sostenibile.
La questione ambientale è all’ordine del giorno. In questo discorso va
anche compreso il tema della rendita sociale. Perché parlare di
rendita sociale invece che di reddito di cittadinanza? Non tanto per
cambiare cosmesi: il capitalismo finanziario è un capitalismo che
produce una rendita, ma una rendita che rinvia ad una produttività dei
legami sociali e della cooperazione; è un’affermazione monetaria di
quello che noi consideriamo essere il nostro contributo all’economia,
alla vita… un contributo che è fatto di lavoro e di sofferenza che non è
riconosciuto, come non è riconosciuto il lavoro riproduttivo delle
donne. Da questa prospettiva non si può pensare che i lacci alla finanza
rimettano le cose a posto. Pensare ad una de-finanziarizzazione del
capitalismo contemporaneo è una contraddizione in termini: il nostro
problema non è certo quello di eternizzare il capitalismo finanziario,
ma di partire da questo livello di sviluppo e sviluppare delle lotte che
siano a questa altezza e preferibilmente proiettate in avanti. Parlare
di rendita sociale è un modo di tenere insieme i due corni del
dilemma: il bio-valore da una parte e la sua forma monetaria.
[1] Il 12 Settembre 2012 la Corte Costituzionale
tedesca ha approvato il fondo salva Stati. Tuttavia ha posto una serie
di condizioni sull’operatività del fondo; in particolare stabilisce che
i due rami del Parlamento tedesco siano informati delle decisioni
dell’Esm e fa sapere che l’esposizione della Germania al fondo salva
Stati non deve superare i 190 miliardi di euro senza il via libera del
Bundestag, la Camera Bassa. La barriera da 190 miliardi di euro al
contributo della Germania all’Esm, anche se non sembra sufficiente per
un bailout di Spagna e Italia, non spaventa i mercati europei che dopo
la sentenza della Corte tedesca si sono subito rafforzati. A Piazza
Affari il Ftse Mib testa il massimo della mattinata a quota 16.416
punti e sale dell’1,17%. In rialzo anche il Cac40 (+0,79%), il Dax
(+0,40%) e l’Ibex (+1,35%). Unica eccezione il Ftse 100 (-0,30%).
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