Domenica 13 Gennaio 2013 13:54
amministratore
15 ottobre e repressione. Una riflessione
Militant

Ritorniamo,
con un ragionamento più strutturato, sulle sei condanne di qualche
giorno fa per il 15 ottobre, allargando il discorso in generale alle
forme repressive che hanno preso corpo per quella giornata. Queste sei
condanne non sono le prime: già nove persone, infatti, sono state
condannate – tutte con rito abbreviato – a pene che vanno dai 2 ai 5
anni per il reato di resistenza – aggravata o pluriaggravata – a
pubblico ufficiale. Le ultime sei condanne – tutte a sei anni, senza
distinguere le condotte dei singoli imputati –, invece, sono state per
il reato di «devastazione e saccheggio»: e non faremo finta di
sorprenderci che i compagni siano ancora condannati con reati previsti
dal codice fascista o che non sia stato tenuto conto della gestione
della piazza (una piazza autorizzata) messa in pratica delle forze
dell’ordine.
La macchina repressiva dello Stato, dunque, continua a fare alacremente
il suo lavoro, sostenuta da una parte dell’opinione pubblica che,
all’indomani del 15 ottobre, partecipò alla campagna delatoria messa in
piedi da «Repubblica» e da altri quotidiani e contribuì a rafforzare e
a legittimare la retorica dei «buoni» contro i «cattivi», dei «black
bloc» violenti infiltratisi per rovinare il corteo ai manifestanti
pacifici.
In prima linea, questi ultimi, nella
collaborazione con la polizia per identificare e consegnare quanti gli
sembravano vestiti un po’ troppo di nero…
Si tratta, però, di una retorica poco aderente alla realtà. Il 15
ottobre la radicalità della piazza ha scavalcato le strutture che
avevano contribuito a costruire quella giornata e le assemblee e i
passaggi politici che l’avevano preparata. Abbiamo scritto, fin dalle
ore immediatamente successive, che a piazza San Giovanni aveva preso
parola – in modo indubbiamene rabbioso e, in alcuni aspetti,
pre-politico – una parte del “nuovo proletariato” emerso dalle
trasformazioni del mondo del lavoro degli ultimi trent’anni (
vedi).
Si trattava di una massa di persone in gran parte priva di riferimenti
politici – teorici e organizzativi – precisi, che ha scavalcato
gruppi, strutture, movimenti, sindacati e partiti: una parte
consistente del nuovo proletariato metropolitano che si è resa
disponibile alla lotta e al conflitto radicale e senza mediazioni. E il
movimento, inadeguato nel canalizzare questa rabbia e questa
determinazione, si è mostrato tanto più inadeguato nel gestire la
repressione di quelle giornate, che ha colpito già alcune decine di
persone.
Davanti a condanne enormi – e lo diciamo senza sorpresa: al di là di
ogni provocazione ironica, infatti, sappiamo lo Stato non processa se
stesso e, dunque, poco ci stupisce che le condanne per l’uccisione di
Federico Aldrovandi siano inferiori a quelle per l’incendio di un
blindato – possiamo dire quasi spropositate anche per un regime
liberal-democratico, la presa di parola dei compagni e dei movimenti
appare insufficiente.
Non lanciamo comodi anatemi: noi per primi facciamo autocritica e
avvertiamo la nostra insufficienza e inconsistenza. Eccetto poche
eccezioni – a cui rendiamo merito, se ha senso rendere merito per
qualcosa che dovrebbe essere patrimonio condiviso per i compagni –,
come ad esempio la
Rete Evasioni,
eccetto alcuni compagni che si sono impegnati con presidi, comunicati,
raccolte di fondi per i denunciati del 15 ottobre, ci sembra che
questi processi siano molto poco sentiti dalla maggior parte del
movimento. Forse molti compagni non hanno ancora una lettura adeguata
della repressione, abituati a pensare che le sue forme più dure
riguardino solo alcune aree. Del resto, la repressione di quella
giornata ha mirato finora a punire con condanne esemplari persone e
compagni non strutturati o appartenenti a realtà piccole o periferiche:
lo scopo era evidentemente quello di frazionare la solidarietà e, in
parte, è stato raggiunto.
Il silenzio dei compagni sembra andare nella direzione che le
istituzioni si pongono, quella di considerare la repressione come un
«giusto monito» – come ha detto Alemanno a commento delle pene inflitte
ai 5 compagni di Teramo – diretto a chi intende ribellarsi. Quanti
compagni e quante compagne, infatti, continueranno ad assumersi la
responsabilità di compiere azioni che potrebbero comportare gravi
condanne se sapranno di non avere dietro un movimento solidale,
complice e partecipe?
Il nuovo proletariato metropolitano, composto in gran parte di
giovanissimi, che ha preso parola il 15 ottobre, è un soggetto non
destinato a sparire e che, anzi, sarà probabilmente sempre più presente
sulla scena pubblica di tutto il mondo: le città – soprattutto quelle
grandi – sono infatti destinate a diventare sempre più lo scenario
privilegiato dei sommovimenti e degli scontri sociali. Si calcola,
infatti, che entro il 2020 il 70% della popolazione mondiale vivrà in
una città: la repressione, come messo in luce in un bell’
articolo
di Elisabetta Teghil di questi giorni, si rivolge e si rivolgerà
sempre più spesso proprio al contesto urbano. E, in questo ambito,
sempre più frequentemente si assisterà al protagonismo rabbioso di
questa nuova massa di proletari metropolitani insoddisfatti e frustrati
per la precarietà delle loro esistenze, acutizzata nei momenti di
endemica crisi economica del sistema capitalista: reprimere queste
prese di parola con condanne durissime significa spaventare anche
quanti agiscono spinti più dalla rabbia che dall’analisi politica. Essi
mettono in gioco loro stessi ma se, poi, tornano a casa non solo senza
aver migliorato la loro condizione esistenziale – fatto del resto
prevedibile – e con qualche livido in più ma anche con la
consapevolezza che i fermati e gli identificati saranno condannati a
pene durissime nel silenzio e nella solitudine pressoché totali,
probabilmente non torneranno in piazza all’appuntamento successivo.
Penseranno che non ne vale la pena.
Ed ecco che così la repressione raggiunge il suo scopo principale: non
tanto quello di punire chi ha commesso azioni ritenute illegali, quanto
quello di incutere timore, evitare che il fronte si estenda e la lotta
si generalizzi, costruendo percorsi che possano davvero mettere in
discussione questo sistema economico e sociale. “Normalizzazione”
economica e repressione politica e sociale vanno a braccetto: in tempi
di governo tecnico, nessuna forma di dissenso può essere tollerata e,
quindi, ciascuna di esse viene perseguitata e pesantemente punita.
Il silenzio che circonda queste condanne, del resto, non è che l’ovvio
riflesso delle difficoltà di gestione di quella giornata: il fatto che
non sia stata assunta dal movimento nella sua interezza, infatti, ha
fatto avvertire fin dalle prime ore che la repressione sarebbe stata
facile e non avrebbe trovato alcuna risposta da parte dei compagni. I
denunciati si sono trovati – eccetto le eccezioni di cui sopra – a dover
gestire i processi quasi da soli, come se fossero questioni private e
senza far emergere, quindi, che si tratta di processi politici, che
riguardano tutti e tutte. Del resto, quella della riduzione dei
processi e delle pene alla sfera privata sembra essere una delle nuove
tendenze delle politiche repressive, su cui probabilmente dovremmo
riflettere: sia sufficiente pensare che negli ultimi mesi, in tutta
Italia, sono state notificate a compagni e compagne numerose multe –
anche del valore di diverse migliaia di euro – per blocchi stradali e
manifestazioni non autorizzate. Si tratta di procedimenti
amministrativi, accertati dalla Polizia stradale, che riguardano
personalmente i compagni che le ricevano e che frazionano la
solidarietà: far diventare una multa una questione politica diventa
molto difficile.
Ovvio riflesso di questa solitudine, è stata anche la scelta di tutti i
condannati finora di scegliere il rito abbreviato: una scelta che non
critichiamo sotto il profilo personale, ma che avvertiamo come perdente
non solo dal punto di vista politico ma anche da quello più
strettamente processuale. Le pene sono state, finora, infatti
pesantissime. Non ci dilunghiamo si questo: siamo infatti d’accordo con
l’
articolo
uscito ieri su infoaut. Pensiamo, però, che una più adeguata
assunzione di responsabilità collettiva e una più capillare campagna
contro la repressione aiuterebbe a far diventare patrimonio condiviso
tra i compagni che non ci si può fidare della giustizia e dei suoi
sconti né si può pensare che la propria innocenza possa aiutare in un
processo con un valore politico.
Ed è anche per questo che, invece, pensiamo che sia necessaria
un’assunzione di responsabilità collettiva e compatta da parte dei
compagni per giornate come il 15 ottobre: un fronte unito contro la
repressione che significhi non solo solidarietà attiva verso i compagni
denunciati ma anche continuazione delle lotte e dello scontro sociale.
rabbia istintiva non è costruzione di un Progetto Alternativo

Sono uno di quelli che non ha capito
niente di quello che è successo il 15 ottobre 2011.
Sono uno di quelli che ha detto ma chi
sono questi ragazzi, quanta rabbia c'è in questi gesti, come è
possibile che persone politicizzate fanno ciò con tale ingenuità da
rasentare la follia?
Avevo scambiato gli scontri come una
grossa provocazione messa in piedi dalle istituzioni per mettere
all'angolo l'espressività e la forza di un movimento al suo nascere.
Ma in quei giorni via via che il tempo
è passato diverse scorie sono andate vie ed è rimasto l'essenziale
la spontaneità e la ribellione di quei ragazzi è stata naturale.
Ebbene ho annotato la condanna e come
giustamente metti in rilievo faccio parte della massa che ha
assistito inerte il 15 ottobre e inerte alla condanna.
Istintivamente non mi sento di
solidarizzare con loro, li sento estranei lontani dal mio modo di
pormi, lontano dal mio modo di far politica. Soltanto fermando il
pensiero e razionalizzando non si può che solidarizzare con loro,
non per i tipi di comportamenti fatti in quel contesto, ma perché
derivano appunto da una rabbia che esprime la non possibilità per
fare altro, dove non vi sono vie d'uscite credibili, dove la vita è
bruciata prima di essere vissuta.
La consapevolezza di una insufficienza
ed inadeguatezza la avverto ed è sul ritardo di una proposta, di
proposte da offrire per uscire fuori dall'isolamento individuale in
cui siamo spinti inesorabilmente. Proposte, proposta che ci fa uscire
fuori dal ghetto, utilizzando strumenti che ci sono ma che siamo
incapaci ad adoperare, perché li riteniamo inutili, superflui non
all'altezza delle analisi e delle prospettive che facciamo.
La lotta rivoluzionaria contro il
capitalismo bisogna unirla alla strategia rivoluzionaria e alla
tattica rivoluzionaria per tutte le rivendicazioni democratiche.
Il 24 febbraio 2013 ci sono le
elezioni, in cui forse meno della metà dei cittadini vorranno
esprimere la loro opinione attraverso il voto. Questa è
un'occasione in cui non ci si può tirare indietro.
C'è da fare una battaglia democratica.
Il Parlamento è espressione della
classe dominante. Che comunque ha bisogno assoluto di coinvolgere i
cittadini nella sua proposta di rappresentanza, facendo credere che
con il voto le regole democratiche sono rispettate, nel frattempo
quello che succede tra una votazione e l'altra non fa parte del
repertorio democratico ma diviene un prassi del quotidiano che non
tocca i fondamentali del sistema democratico. La corruzione, le
clientele, gli abusi e soprusi sono parte integrante del sistema e ci
sono gli organi preposti per limitare, eliminare questo andazzo.
Coinvolgimento dei cittadini perché
nessun sistema democratico si può permettere che un parlamento è la
rappresentanza della minoranza in quanto la maggioranza non si è
fatto coinvolgere nel gioco della votazione è una contraddizione
stridente, come si può dire che si governa per la nazione se la
maggioranza ha evitato la trappola delle votazioni? Tutte le azioni
di governo sono inficiate nel nascere e non hanno nessuna
credibilità. Che poi si possa andare avanti lo stesso, mascherando
l'arcano, questa è un'altra storia.
Tutti i partiti sono sulla stessa
lunghezza d'onda, tutti vogliono applicare l'agenda Monti che
tradotta vuol dire la continuazione delle politiche di austerità per
le classi subalterne, per i dominati. Tutti vogliono continuare a
stare nell'Euro. E ci sono stati degli imbecilli al Parlamento che
hanno messo il Fiscal Compact all'interno della Costituzione legando
ancora di più le mani agli italiani. Reperire 50 miliardi di euro
ogni anno per 20 anni dal 2015 + 90 miliardi di euro annui da pagare
per gli interessi sui 2000 miliardi di debito.
Fanno eccezione il M5S e Rivoluzione
Civile di Antonio Ingroia.
La crisi del 2007/08, nata negli Stati
Uniti, in cui ancora siamo immersi ha portato in luce le
contraddizioni della costruzione dell'Euro che Albero Bagnai nel “Il
tramonto dell'euro” e Sergio Cesaratto e altri in “Oltre
l'austerità” hanno ben evidenziato. O si esce dall'Euro o si muore
per almeno i prossimi 20 anni. Uscire dall'Euro riacquistare la
Sovranità Nazionale e Monetaria, chiudere, come giustamente
sottolinea Emiliano Brancaccio, la circolazione di capitali e di
merci e allora possiamo giocare la partita.
Questi partiti sono talmente presi
nella loro parte che parlare di uscire dall'Euro sono presi da
paralisi, i servi sciocchi dell'informazione non aprono neanche un
minimo di dibattito per questa unica possibilità di uscire dalla
crisi e si assiste imperterriti giorno dopo giorno a guitti e
funanboli su promesse miracolanti ma dopo le elezioni, prima non si
può.
La tattica rivoluzionaria è cogliere
le contraddizioni nel sistema e metterle in evidenza, divaricarle. La
tattica rivoluzionaria è la rivendicazione di tutte le istanze
democratiche.
Già in altra parte ho analizzato
sommariamente le varie anime che ci sono in Rivoluzione Civile di
Antonio Ingroia, non perdo tempo. Il percorso politico di questo
magistrato nasce dalla lotta a Cosa Nostra, un ottima palestra per
tutti i rivoluzionari.
Nasce dallo scontro con la politica
saldata con le istituzioni dell'Italia fino alla più alta carica del
paese, la Presidenza della Repubblica. L'oggetto dello scontro è la
verità sulla trattativa tra questo stato e Cosa Nostra.
La politica ha fermato la verità e
solo la politica può rimuovere gli ostacoli verso lei, dal momento
che questi partiti a tutto pensano meno che a ricercare la verità
sulla trattativa, il passaggio alla politica è stato un fatto
obbligato da parte di Ingroia.
La grande novità
è stata il fatto che è diventato un importantissimo catalizzatore
di vari partiti, i quali per motivi diversi erano tutti in mezzo al
guado, ma la cosa più importante ha portato in politica in
primissimo piano tutto quel ricco patrimonio, quell'arcipelago
infinito, che si è formato dalla morte di Falcone e Borsellino
rosicchiando e contestando al Sistema delle mafie terreno e
prepotenze violente.
Carico di questo
patrimonio vivo come non mai è riuscito ad imporre ai partiti passi
“incontro”, passi indietro, precisi e rigorosi, significa che sta
facendo tutto bene? Significa che non farà errori? Significa che ha
una ideologia marxista? No significa che lotta per la legalità è una
istanza fondamentale della democrazia, e la tattica rivoluzionaria prevede che tutte le istanze democratiche sono il nostro terreno,
la nostra palestra per abituarci alle battaglie alle lotte
rivoluzionarie contro il capitalismo coniugando ad una strategia
rivoluzionaria.
Non possiamo
delegare ai proletari pieni di rabbia del 15 ottobre 2012 le istanze
rivoluzionarie, e poi affermare che dobbiamo fare autocritica,
affermare che avvertiamo la nostra inconsistenza e insufficienza.
Non basta, come non basta sviluppare un senso di solidarietà prima,
durante e dopo la condanna. Bisogna scendere nell'arena e combattere,
ognuno con i propri strumenti, dobbiamo saper coniugare la teoria con
la pratica metodo, non mi stancherò mai di dirlo attualissimo.
Rivoluzione
civile, insieme al M5S, è l'unico che vuole lottare per una politica
antiliberista e antimontiana, sta a noi fornire legna da ardere nella
fucina del cantiere aperto, che probabilmente rimarrà cantiere anche
dopo le elezioni.
Legna
da ardere significa far presente che Hollande ha ottenuto la sua
guerra privata e che da qualche giorno ha iniziato i bombardamenti
umanitari, dopo che da almeno un anno i servi dell'informazione hanno
preparato il terreno usando argomenti già usati per la guerra in
Afganistan.
Significa far
presente che in Turchia sono schierati i missili Patriot della Nato e
che li vogliono usare prima o dopo per continuare la
destabilizzazione della Siria.
Significa che le
morti di tre donne del Kurdistan, rappresenta una minaccia alla
Turchia se non si impegnasse nella sua guerra con la Siria.
Significa far
presente che i soldi pubblici per gli armamenti ci sono sempre mentre
la disoccupazione dilaga, i salari si impoveriscono.
Significa che dare
4 miliardi al Monte dei Paschi vuol dire: nazionalizzazione.
Significa che
l'Ilva ha la necessità di essere nazionalizzata perché i Riva non
hanno né soldi, 4 miliardi, né l'intenzione di bonificare i
processi della produzione dell'acciaio.
Significa seguire
con attenzione la Sardegna dove il livello di guardia per rivolte
sociali è stato superato ed è diventata una polveriera dove queste
istituzioni, questi partiti, l'unica risposta che danno è la
repressione.
Come si vede la
legna da ardere è molta e molta altra si potrebbe raccogliere ma
occorrono braccia forti, menti acute ora adesso subito e tutti
insieme.