
Perché il Fiscal Compact sprofonderà l’Europa nel baratro
La
ratifica del Trattato di stabilità fiscale condurrà a una forma di
austerità perpetua e a un restringimento mortale della democrazia in
Europa. Proponiamo un capitolo da “Cosa salverà l'Europa. Critiche e proposte per un'economia diversa” a cura di B. Coriat, T. Coutrot, D. Lang e H. Sterdyniak, in questi giorni in libreria per Minimum Fax
Un patto per l'austerità perpetua
«Più va a rotoli, più ci sono possibilità che funzioni» [1]
La crisi attuale, iniziata nel 2007, ha messo in evidenza i pericoli
della costruzione europea attuale dominata dal neoliberismo. Nei primi
mesi del 2012, le classi dirigenti così come la tecnocrazia europea
sono state incapaci di superare la crisi. Ancora peggio, oggi
utilizzano la crisi per raggiungere il loro principale e costante
obiettivo: ridurre la spesa pubblica, indebolire il modello sociale
europeo, il diritto al lavoro, e impedire ai cittadini di avere una
qualsiasi voce in capitolo.
La situazione diventa così catastrofica. Per ammissione stessa della
Commissione, la zona euro prevede un calo del Pil nel 2012 (-0,3%). Nel
marzo 2012, il tasso di disoccupazione della zona euro ha raggiunto il
10,9%. La crisi si è tradotta nella perdita di circa il 9% del Pil.
Tuttavia, la Commissione continua a imporre politiche di austerity, che
spingono l’Europa verso una recessione senza fine. Sebbene siano la
cecità e l’avidità dei mercati finanziari ad aver causato la crisi, sono
la spesa pubblica e la protezione sociale a essere colpite.
La Commissione, la Bce e gli stati membri consentono ai mercati
finanziari di speculare contro i debiti pubblici. Hanno permesso ai
creditori di imporre tassi d’interesse esorbitanti all’Italia e alla
Spagna.
Tre dei paesi membri – Grecia, Portogallo e Irlanda – hanno visto
direttamente la Troika (Commissione, Bce e Fmi) decidere le loro
politiche economiche.
L’azione che ha intrapreso oggi la Commissione insieme ai leader degli
stati membri consiste nel tentare di imporre alla popolazione, senza
consultarla, un trattato che scolpirà nella pietra politiche
economicamente suicide. Queste politiche sono realmente volte a salvare
l’euro, o piuttosto dietro di esse si cela «un’agenda nascosta»? Si
tratta solo di «rassicurare i mercati», o piuttosto di imporre ad ogni
modo alla popolazione europea un adeguamento strutturale di grandi
dimensioni al fine di ridare competitività all’Europa nella guerra
economica globale, con la Cina e gli altri paesi emergenti che
competono con bassi salari? Queste sono le domande che il patto solleva,
cui noi tentiamo di rispondere in questo libro.
Per fare ciò, dobbiamo iniziare da un’affermazione essenziale: il patto
si basa su una diagnosi errata – o dovremmo dire falsa, considerata la
difficoltà nel credere alla cecità dei nostri governanti.
Infatti la diagnosi implicita che sta alla base consiste nel ritenere
che la mancanza di una disciplina fiscale sia la causa delle difficoltà
della zona euro. Gli stati membri sono stati troppo «lassisti» e hanno
lasciato gonfiare la spesa pubblica per finanziare un modello sociale
obeso e obsoleto. Tuttavia i dati negano fortemente questa tesi: prima
della crisi i paesi europei non si caratterizzavano per livelli di
deficit pubblico particolarmente elevati: durante il periodo 2004-2007
gli Stati Uniti avevano un deficit medio del 2,8% del Pil, il Regno
Unito del 2,9% e il Giappone del 3,6%, mentre quello della zona euro
era solo dell’1,5%. Il debito pubblico della zona euro non è aumentato
in percentuale più del Pil. Solo la Grecia presentava un disavanzo
eccessivo. Mentre paesi come l’Irlanda e la Spagna, oggi in difficoltà,
non presentavano alcun disavanzo pubblico.
Il Patto di stabilità e crescita è un fallimento...
Gli organismi europei sono stati a lungo concentrati sul rispetto di
norme arbitrarie definite dal Trattato di Maastricht (1991) e dal Patto
di stabilità e crescita (1999). Essi hanno lasciato crescere gli
squilibri in Europa tra i paesi del Nord, che guadagnavano in termini
di competitività ed eccedenze commerciali, e i paesi del Sud, travolti
da una bolla immobiliare e dall’aumento del debito privato.
Non si sono accorti dei pericoli che possono derivare tanto dagli
squilibri delle economie reali quanto dalla deregolamentazione
finanziaria.
Invece di prendere atto di questa cecità, e di porvi rimedio, la
filosofia fondamentale del Fiscal Compact è quella di proseguire allo
stesso modo, attraverso un’ancora maggiore rigidità, portando
all’estremo il Patto di stabilità e crescita in vigore dal 1999,
seguendo quel comportamento che ha portato alla situazione catastrofica
attuale. Questo patto, ricordiamo, si componeva di tre voci
principali:
1. Divieto di
disavanzi pubblici superiori al 3% del Pil. Questo limite si applicava
ai saldi correnti (non corretto per le fluttuazioni cicliche). Questo
limite risultava l’unico soggetto a sanzioni in caso di mancato
rispetto: la Procedura per deficit eccessivi (Pde) obbligava il paese
«in difetto» a intraprendere una politica di restrizione fiscale e a
rendere conto delle sue decisioni in materia di spesa alla Commissione e
al Consiglio e infine, eventualmente, a pagare una sanzione.
2. Divieto di un debito pubblico superiore al 60% del Pil. Superato
questo limite, i paesi «in difetto» dovevano avviare delle politiche
correttive. Ma questo vincolo non prevedeva procedimenti sanzionatori.
3. Ciascun paese doveva presentare, alla fine dell’anno, un programma
di stabilità (il bilancio approvato per l’anno n+1 e una proiezione per
gli anni da n+2 a n+4), con l’obiettivo di raggiungere una posizione
fiscale «strutturale» [2] in modo da chiudere in equilibrio nel medio
termine. Se il saldo strutturale risultava in disavanzo, esso doveva
essere ridotto di almeno lo 0,5% del Pil all’anno. Una volta raggiunto
l’equilibrio, i paesi dovevano impegnarsi a mantenerlo. Era prevista la
possibilità che lasciassero fluttuare i loro saldi in funzione della
congiuntura (cosiddetti stabilizzatori automatici), ma non potevano
adottare misure discrezionali per sostenere l’attività economica.
Il Patto di stabilità e crescita così definito si è tradotto in
continue tensioni e, in ultima analisi, è stato solo raramente
rispettato. Nel 2005,
cinque dei dodici paesi della zona avevano un deficit superiore al 3% del Pil.
I paesi non hanno mai rispettato i loro programmi quadriennali di
stabilità, poiché non hanno potuto impegnarsi a seguire una politica
fiscale predefinita per quattro anni, senza tener conto della
congiuntura. Con la crisi, queste regole sono state buttate fuori dalla
finestra dai governi.
Tutti i paesi (esclusa la Finlandia) hanno infatti superato nel 2009 i tetti del 3% del deficit e del 60% del debito pubblico.
Malgrado ciò, la Commissione ha voluto «rafforzare il Patto di
stabilità e crescita» piuttosto che ripensare l’organizzazione della
politica fiscale della zona. Il nuovo trattato riprende un insieme di
disposizioni proposte dalla Commissione nel periodo 2010-2011 e, per la
maggior parte, già adottate dal Consiglio e dal Parlamento europeo,
come il Patto per l’euro e i Six+Two-pack (vedi l’Appendice 3).
...Il Fiscal Compact lo radicalizza
Le principali disposizioni del nuovo trattato estendono e radicalizzano
i trattati precedenti, in particolare il Patto di stabilità e
crescita.
Nell’articolo 1, il trattato riprende infatti le affermazioni abituali
degli organismi europei. Le regole sono «volte a rafforzare il
coordinamento delle politiche economiche». Ma vincoli numerici sui
debiti e sui deficit pubblici, che non tengono conto delle differenti
situazioni economiche, non possono di certo favorire un reale
coordinamento di politiche economiche.
Allo stesso modo, il trattato afferma di rafforzare «il pilastro
economico dell’Unione Europea al fine di realizzare gli obiettivi in
materia di crescita duratura, occupazione, competitività e coesione
sociale», ma al di là delle parole, niente di concreto viene previsto
per facilitare la realizzazione di tali obiettivi, anzi si favorisce il
contrario.
L’articolo 3.1, che rappresenta il cuore del Fiscal Compact, soffoca
definitivamente le politiche economiche. Esso afferma che «il bilancio
delle amministrazioni pubbliche deve essere in equilibrio o in avanzo;
questa regola si considera soddisfatta se il deficit strutturale
annuale delle amministrazioni pubbliche risulta inferiore allo 0,5% del
Pil. I paesi devono garantire una convergenza rapida verso questo
obiettivo. I tempi di questa convergenza verranno definiti dalla
Commissione. I paesi non possono discostarsi da questi obiettivi o dal
loro percorso di aggiustamento se non in circostanze eccezionali. Un
meccanismo di correzione è avviato automaticamente se si individuano
forti divergenze; ciò comporta l’obbligo di adottare misure volte a
correggere queste deviazioni in un periodo determinato».
Così, il quasi-equilibrio delle finanze pubbliche è sancito dal
trattato, pur non avendo alcuna giustificazione economica. Al contrario
la vera «regola d’oro delle finanze pubbliche», insegnata in ogni
testo di economia (si veda l’Appendice 4), giustifica che «gli
investimenti pubblici possano essere finanziati attraverso il debito
pubblico, nella misura in cui essi vengano utilizzati per molti anni»:
il deficit finanzia degli investimenti capaci di creare ricchezza che
permetterà di stabilizzare o rimborsare il debito stesso. Nel caso
della Francia, ciò permetterebbe un deficit permanente dell’ordine del
2,4% del Pil.
Infatti, il livello del deficit pubblico dovrebbe essere considerato
come legittimo non in base a una regola quantitativa immutabile fissata
in anticipo, ma perché permette di raggiungere un livello di domanda
soddisfacente determinando un livello di produzione che non causi
disoccupazione di massa, né un aumento dell’inflazione. Non vi è alcuna
garanzia che il saldo di bilancio desiderato garantisca l’equilibrio.
In particolare all’interno della zona euro, in cui i paesi non hanno
più alcun controllo sul tasso d’interesse, né sul tasso di cambio (che
dipendono dalla politica della Bce e dai mercati finanziari), essi
hanno ancor più bisogno di avere dei margini di manovra in termini di
politica fiscale per affrontare situazioni difficili. Inserire il
pareggio di bilancio nella Costituzione equivale a prescrivere per gli
uomini calzature numero
42 e per le donne 40.
Questo equilibrio non ha senso sul piano empirico. Se consideriamo, per
esempio, i dieci anni prima della crisi, dal 1998 al 2007, e prendiamo
i dati dell’Ocse, la Germania, l’Italia, la Francia e il Giappone
hanno sempre avuto un deficit strutturale superiore allo 0,5% del Pil;
mentre il Regno Unito e gli Stati Uniti hanno superato il limite sette
anni su dieci. Per cui, il tetto imposto non è mai stato rispettato in
maniera duratura.
Il Fiscal Compact richiede ai paesi di seguire un sentiero di
convergenza rapida verso l’equilibrio di bilancio, definito dalla
Commissione, senza tener conto della situazione congiunturale. I paesi
perderanno dunque ogni possibile libertà d’azione.
Come precauzione supplementare, un meccanismo «automatico» dovrà essere
messo in pratica per ridurre il deficit. Se la Commissione stabilisce
che un paese ha raggiunto per esempio un «deficit strutturale» pari a
tre punti percentuali del Pil, questo dovrà mantenere un «deficit
strutturale» limitato a 2% l’anno successivo, amputando in tal modo la
domanda (attraverso una riduzione delle spese e un aumento delle
imposte) di un punto del Pil, indipendentemente dal livello di
disoccupazione. Un paese colpito da una recessione economica non
avrebbe così il diritto di attuare una politica a sostegno
dell’economia. Tuttavia, nel 2008-2009, la Commissione stessa aveva
richiesto a tutti i paesi di adottare politiche di sostegno.
Certamente, come per il Patto di stabilità e crescita, sarebbe comunque
possibile prevedere uno scarto temporaneo in caso di circostanze
eccezionali, come in caso di un «tasso di crescita negativo o un
declino cumulativo della produzione per un periodo prolungato», ma le
misure correttive dovrebbero essere sempre pianificate e adottate
rapidamente.
Quando un paese ha superato i limiti prescritti ed è soggetto a una
Procedura per deficit eccessivi (Pde), deve presentare un Programma di
riforme strutturali alla Commissione e al Consiglio, i quali dovranno
approvarlo e monitorarne l’attuazione (articolo 5).
Quest’articolo non è nient’altro che un’arma ulteriore per imporre alla
popolazione europea riforme liberiste. Oggi, la quasi totalità dei
paesi dell’Unione Europea (23 su 27) è soggetta a una Pde. Oltre ai
piani di riforma delle pensioni (aumento dell’età pensionabile), si
vogliono imporre un abbassamento del salario minimo, minori prestazioni
sociali (Irlanda, Grecia, Portogallo), la riduzione delle protezioni
contro il licenziamento (Grecia, Spagna, Portogallo), la sospensione
della contrattazione collettiva a favore della contrattazione
d’impresa, più favorevole ai datori di lavoro (Italia, Spagna, etc.),
la deregolamentazione delle professioni chiuse (tassisti, notai,
architetti, etc.).
L’atto di fede dei neoliberisti è la convinzione che queste «riforme
strutturali» creeranno un nuovo potenziale di crescita economica nel
lungo periodo. Niente assicura che sarà così. Ciò che è certo invece è
che nella situazione attuale queste riforme determineranno un aumento
delle disuguaglianze, della precarietà e della disoccupazione.
In nessun passaggio, purtroppo, l’espressione «riforma strutturale»
riguarda l’adozione di misure volte a rompere il dominio dei mercati
finanziari, ad aumentare l’imposizione fiscale sui più ricchi e sulle
grandi imprese, a organizzare e finanziare la transizione ecologica.
L’obiettivo del trattato è piuttosto quello di realizzare il sogno di
sempre dei neoliberisti: paralizzare completamente le politiche
fiscali, privare le politiche economiche di qualsiasi potere
discrezionale.
Una macchina taglia debiti... che il debito lo fa aumentare
L’articolo 4 del Fiscal Compact rafforza la regola per cui il debito di
ogni paese deve rimanere o ritornare al di sotto del 60% del Pil.
Questa regola era già presente nel Patto di stabilità e crescita, ma la
Commissione non aveva alcun mezzo per assicurarne il rispetto. Ora, le
sanzioni diventano le stesse di quelle previste in caso di disavanzi
eccessivi: un paese il cui rapporto debito/Pil supera il 60% del Pil,
dovrà obbligatoriamente ridurre tale rapporto di almeno un ventesimo
della differenza con il 60% ogni anno, in caso contrario dovrà in un
primo momento effettuare presso la Bce un deposito che potrà poi essere
trasformato in una sanzione variabile tra lo 0,2% e lo 0,5% del Pil
dello stato in questione.
Questa regola pone tre problemi:
1.
Presuppone che un rapporto del 60% sia un valore ottimale realizzabile
da tutti i paesi. Però, in Europa, paesi come l’Italia o il Belgio
hanno avuto a lungo un debito pubblico pari al 100% del Pil (per non
parlare del Giappone che raggiunge il 200%) senza squilibri, dal
momento che questi debiti corrispondono a elevati livelli di risparmio
delle famiglie abitanti nei paesi considerati.
2. Obbliga i paesi a frenare in maniera ancora più forte l’attività che
risulta già rallentata: si parla di una politica «prociclica». Per
ridurre di un punto il rapporto del debito pubblico è necessario uno
sforzo tanto più intenso quanto più debole risulta la crescita
economica. Peggio ancora, tale sforzo di riduzione del debito peserà a
sua volta sulle attività, aggravando ulteriormente il quadro generale.
3. In realtà, la regola dell’equilibrio di bilancio ignora
completamente i suoi effetti sull’attività economica, effetti che
possono portare a conseguenze assurde. Supponiamo per esempio un paese
con un Pil pari a 100, un debito pari al 100% del Pil, un tasso di
crescita del 4% e un deficit uguale al 4% del Pil. In queste condizioni
il rapporto del debito rimane stabile al 100%. Ma se il paese viene
obbligato, al fine di rispettare la regola della riduzione del suo
rapporto di debito, a ridurre del 2% la spesa pubblica, l’attività si
riduce a 98, le entrate fiscali si riducono di 1. Di conseguenza il
deficit e così il debito si riducono di 1%. Il Pil sarà pari a 98 e il
debito a 100; il rapporto del debito, invece di diminuire, è aumentato a
101%.
L’attuazione delle politiche di austerità, piuttosto che ridurre il
rapporto debito/Pil, ne ha determinato l’aumento! Gli esempi attuali
della Grecia e della Spagna mostrano bene ciò che noi stiamo provando a
evidenziare. L’adozione di politiche di austerità non ha contribuito a
ridurre il tasso di indebitamento pubblico, ma lo ha aumentato.
Un «coordinamento» che fa sprofondare l’Europa nel baratro
Il coordinamento delle politiche economiche evocato negli articoli
9-10-11 non comporta alcun impegno in materia di disoccupazione o saldo
con l’estero. Non è previsto in alcun modo che i paesi in surplus,
come la Germania con la sua politica di iper-competitività, che
rappresentano di fatto una delle cause principali della crisi attuale,
si impegnino ad aumentare i loro salari, il livello di spesa sociale e
gli investimenti pubblici utili per favorire un riequilibrio.
Non vi è riferimento a un reale coordinamento di politiche economiche,
ovvero a una strategia economica comune che si serva della politica
monetaria, di bilancio, fiscale, sociale e che si occupi dei salari
nazionali al fine di avvicinare i diversi paesi a una condizione di
piena occupazione e promuoverne la transizione ecologica. Il Fiscal
Compact non obbliga alla creazione di un vero e proprio bilancio
europeo, con una reale fiscalità europea, che consentirebbe invece la
ricostruzione di un meccanismo di solidarietà e convergenza verso
l’alto delle economie.
Il trattato non ha alcun altro obiettivo se non quello di ostacolare le
politiche di bilancio nazionali. Ciascun paese deve adottare misure
restrittive: ridurre le pensioni, ridurre le prestazioni sociali e il
numero dei funzionari, abbassare i loro salari, aumentare le imposte
(principalmente l’Iva, che pesa sulle famiglie più povere). Non si
prende minimamente in considerazione la situazione congiunturale
specifica di ciascun paese, né i bisogni sociali in termini
d’investimenti e occupazione, né le politiche degli altri paesi. Ciò
implica che, oggi, tutti i paesi stanno adottando di fatto politiche di
austerità, mentre i deficit sono dovuti alla recessione che ha avuto
origine con lo scoppio della bolla finanziaria e all’aumento degli
squilibri causati dall’errata architettura della zona euro. [3]
Uno studio recente di tre istituti economici indipendenti, Imk
(Germania), Ofce (Francia) e Wifo (Austria), ha calcolato l’impatto
delle politiche di austerità determinate dal Fiscal Compact. [4] Tra il
2010 e il 2013 queste misure avranno l’effetto di ridurre di circa 7
punti il Pil della zona euro. Nei paesi in crisi come l’Irlanda, la
Spagna, il Portogallo e la Grecia, l’impatto depressivo sarà ancora più
forte, variando da 10 punti di Pil (Irlanda) a 25 punti (Grecia).
«Questo determinerà il crollo totale dell’economia greca», scrivono i ricercatori.
Ma anche in Italia, Francia e Paesi Bassi l’economia rallenterà a causa
delle misure di austerità. Le misure di austerità, decise in Germania,
qui sono meno dannose che altrove (1,5% del Pil), ma a causa degli
stretti legami economici con i paesi in crisi, la crescita tedesca nel
periodo 2010-2013 si abbasserà del 2,7% rispetto a uno scenario senza
austerità.
«Nell’insieme», scrivono gli istituti, «l’attuazione delle politiche di
austerità definite nel Fiscal Compact amplierà all’interno della zona
euro il divario tra i paesi del Sud d’Europa e la Germania e altri
paesi del Centro e Nord Europa. Attraverso queste scelte, la crisi non
viene di certo risolta, ma è piuttosto destinata a peggiorare».
Gli inquietanti e insondabili misteri del «deficit strutturale»
Il Fiscal Compact introduce all’interno di un trattato europeo un
concetto economico fortemente controverso. Il saldo di bilancio
strutturale delle amministrazioni pubbliche viene di fatto definito
come il «saldo annuo corretto per il ciclo, al netto di misure una
tantum e temporanee» (articolo 3). Ma questa definizione pone un
problema tanto sul piano teorico quanto su quello empirico. Può allora
essere introdotto in un trattato un concetto economico così
controverso?
Per spiegare in un linguaggio accessibile, ci limiteremo qui al caso in
cui il saldo del bilancio pubblico sia in disavanzo. Il «saldo di
bilancio strutturale» diventa allora un «deficit strutturale». Perché
introdurre questo concetto? Si tratta di costruire un indicatore che
permetta di giudicare se la politica di bilancio di un paese sia
davvero adeguata o piuttosto «lassista». Ciò richiede di valutare se il
deficit pubblico – la differenza tra uscite ed entrate nel corso di un
anno – risulti «normale» tenuto conto della congiuntura economica, o
se invece sia «eccessivo».
Come giudicare allora se un deficit è «normale» o «eccessivo»? Se non
ci fossero le fluttuazioni economiche, un deficit verrebbe considerato
«normale», secondo il Fiscal Compact, se non superasse lo 0,5% del Pil.
Il deficit corrente dovrebbe rispettare questo limite ogni anno.
Questa idea riflette la visione della politica di bilancio come di una
politica «neutrale» secondo la Commissione, né espansiva (attraverso
un’iniezione di reddito all’interno del circuito economico) né
recessiva (mediante un aumento del risparmio pubblico).
Ma, nella realtà, esiste un ciclo economico, con anni caratterizzati da
boom e anni negativi con recessioni. Attraverso una politica di
bilancio «neutrale» e immutata, il deficit del bilancio corrente si
riduce o scompare durante gli anni di espansione: si registra un
«surplus economico congiunturale» grazie all’aumento dei ricavi
(maggiore crescita implica aumento dei redditi distribuiti, da cui
aumento del gettito fiscale e maggiori entrate nelle casse pubbliche) e
alla riduzione delle spese (sussidi di disoccupazione per esempio). Al
contrario, durante gli anni recessivi il deficit corrente si gonfia
meccanicamente, aumentando il «deficit congiunturale».
Supponiamo che il calcolo di un istituto economico indipendente
stabilisca che nel 2009 l’impatto della recessione sul deficit è stato
pari al 4% del Pil («deficit congiunturale/ciclico»). Se il deficit
pubblico corrente (il solo realmente osservato) si stabilizza attorno
al 5%, il deficit strutturale è a sua volta stimato al 5% 4% = 1%. Il
paese è in una situazione critica.
Il suo deficit strutturale pari all’1% è superiore al famoso 0,5% e
risulta così eccessivo rispetto a quanto previsto dal Fiscal Compact.
Dovrebbe prevedere un aggiustamento (attraverso riduzione delle spese
e/o aumento delle imposte) di circa lo 0,5% del Pil. Ciò è possibile
senza troppi danni.
Supponiamo ora che gli esperti della Commissione, utilizzando il loro
metodo di calcolo, valutino il deficit ciclico non al 4% ma all’1% nel
2009. In questo caso il deficit strutturale non è più dell’1% ma del 5%
1%, ovvero del 4%. Non si tratta più di ridurlo dello 0,5% del Pil,
bensì di un valore pari al 3,5%. È tutta un’altra storia!
Ricordiamo inoltre che questo limite dello 0,5% è del tutto arbitrario;
un deficit inferiore al 2,5% del Pil sarebbe sufficiente per
stabilizzare il rapporto debito/Pil. Ricordiamo ancora che un paese può
avere un deficit strutturale durante un periodo di recessione, se
questo deficit corrisponde proprio a delle misure prese specificamente
per sostenere l’attività economica.
La situazione che abbiamo descritto non è certo fantapolitica, ma possiamo osservarne le premesse.
Così, oggi per esempio, il governo danese si trova a smentire
formalmente il calcolo della Commissione secondo il quale il deficit
strutturale della Danimarca è stato nel 2011 pari al 3%. Gli esperti
danesi hanno stimato un valore pari all’1%. Con il valore calcolato
dalla Commissione – che il Fiscal Compact impone – il paese dovrebbe
avviare una riforma delle pensioni ancora più dura di quella
effettivamente realizzata, già di per sé draconiana.
Perché queste differenze nella stima?
Perché, per valutare quale sarebbe il deficit in assenza di una
recessione o di un boom, abbiamo bisogno di una teoria. Quale sarebbe
il livello della produzione – gli economisti la chiamano la «produzione
potenziale» – se la situazione fosse «normale»? Più la differenza tra
la produzione reale – che viene esattamente misurata – e la produzione
potenziale è significativa, più la parte considerata congiunturale del
deficit risulterà rilevante, e più il deficit strutturale verrà
considerato basso. Ma, contrariamente a ciò che vogliono far credere i
neoliberisti, non esiste in merito a ciò una teoria economica
indiscutibile e consensuale.
Per comprendere meglio, proviamo a opporre un approccio liberista a un approccio keynesiano.
Secondo l’approccio liberista, il mercato ha sempre ragione. Se la
produzione ha subìto un calo, ciò dipende da problemi di offerta
(produttività o competitività insufficiente, salari troppo elevati,
mercato del lavoro troppo rigido, ecc.). Non è possibile avere una
produzione molto maggiore nello stato attuale dell’economia: occorrono
«riforme strutturali». La produzione potenziale è prossima alla
produzione effettiva. La componente ciclica del deficit è dunque
minima: la maggior parte del deficit è invece strutturale.
Secondo l’approccio keynesiano, al contrario, la recessione dipende
spesso da un’insufficienza della domanda effettiva. A seguito di un
crollo del mercato ad esempio, le imprese investono di meno e iniziano a
licenziare; i salari crescono poco, le famiglie, i disoccupati o
coloro che rischiano di diventarlo riducono i loro consumi. Nessun
meccanismo di stabilizzazione supporta spontaneamente l’attività. La
produzione può scendere bruscamente al di sotto del suo valore
potenziale. La componente ciclica del deficit diventa così la più
importante.
Il Fiscal Compact precisa bene quale sia il metodo che la Commissione
dovrà adottare. Tuttavia questo, di ispirazione liberista, tende a
sottovalutare il divario tra la produzione reale e la produzione
potenziale, particolarmente nei periodi di recessione. Così lo stock di
capitale utilizzato per calcolare la produzione potenziale è lo stock
effettivo, senza tener conto della possibilità che esso risulti
indebolito a causa della caduta dell’attività; il progresso tecnico
tendenziale si basa sul tasso osservato, che potrebbe però essere più
veloce se ci fossero più investimenti; la popolazione attiva che si
suppone disponibile a lavorare corrisponde alla popolazione osservata,
sebbene per esempio molti giovani abbiano invece deciso di proseguire
gli studi piuttosto che buttarsi in un «mercato del lavoro» depresso.
Tutte queste ipotesi portano in ogni circostanza a un tasso di crescita
potenziale appena superiore al tasso di crescita reale. Secondo la
stima della Commissione, per il 2012, il deficit strutturale della
Francia sarà del 2,4% del Pil, cifra considerevole. Secondo la nostra
stima, il deficit strutturale sarà invece dello 0,3%, quindi al di
sotto della soglia dello 0,5%: non c’è bisogno di austerità per
rispettare il tetto dello 0,5%. Malauguratamente, il Fiscal Compact
prevede che nelle costituzioni si riconosca che la Commissione europea
possiede l’unica valida teoria economica e bandisce ogni possibile
discussione.
Il risultato del progetto neoliberista
Il Fiscal Compact segna una nuova tappa di una doppia offensiva, contro
l’autonomia delle politiche di bilancio nazionali e contro la prassi
della politica economica, largamente ispirata alle teorie keynesiane,
che è diffusa un po’ ovunque nel mondo.
Dopo il 1936, infatti, la teoria keynesiana aveva imposto una nuova
concezione di politica economica. Il messaggio centrale di Keynes è
che, tenuto conto dell’instabilità propria delle economie
capitalistiche, i governi devono attuare una politica economica attiva,
volta a garantire una crescita sostenuta, il raggiungimento della
piena occupazione, utilizzando la politica fiscale, la politica
monetaria, come anche la politica salariale, sociale e industriale. In
particolare, la politica fiscale dovrebbe sostenere l’attività
economica attraverso un aumento del deficit nei periodi di caduta della
domanda, aumento indotto automaticamente a causa della riduzione delle
entrate fiscali, ed eventualmente accresciuto da misure discrezionali
di stimolo.
Questa pratica keynesiana ha sostenuto l’attività dei paesi sviluppati durante il
Trentennio glorioso.
Ma durante gli anni Ottanta le classi dirigenti hanno deciso di
mettervi fine, poiché queste politiche, determinate da un rapporto di
forza fino a quel momento favorevole ai lavoratori, si erano tradotte in
un sempre maggiore intervento dello stato, con un incremento della
quota ricoperta dal settore pubblico all’interno dell’economia e della
società.
La controrivoluzione liberista si propone di invertire questa tendenza,
cominciando con il limitare – o eliminare – gli interventi anticiclici
dello stato. L’obiettivo è di mettere fine alle politiche economiche
definite dalla teoria keynesiana, ritenute responsabili dell’inflazione
e soprattutto della riduzione della quota dei profitti sul reddito
nazionale; si vuole convincere i cittadini a rinunciare definitivamente
all’obiettivo di piena occupazione, considerato causa di un aumento
dell’inflazione.
La politica economica deve ora essere pensata e progettata come lotta
all’inflazione, volta a ridurre drasticamente i costi (e specialmente il
famoso «costo salariale»), e a ripristinare e mantenere la quota dei
profitti. Essa deve essere attuata in questo modo al fine di garantire
un funzionamento «libero» del mercato. Libero soprattutto dalle
regolamentazioni e dalle controversie politiche e sociali che si ritiene
abbiano ostacolato dopo la seconda guerra mondiale gli investitori e i
capitalisti.
Ecco perché il pensiero neoliberista intende strappare le politiche
economiche dalle mani dei governi democraticamente eletti. Devono
invece essere affidate a organismi indipendenti composti da esperti e
tecnocrati, che non sono responsabili di fronte al popolo e ai
cittadini. La politica economica deve essere paralizzata con regole
vincolanti. [5] Pertanto, la Banca centrale, dichiarata «indipendente»,
ha il principale obiettivo di mantenere l’inflazione al di sotto del
2% ogni anno. E in futuro la politica di bilancio sarà affidata a
Commissioni indipendenti, sotto l’egida del patto e della Commissione,
con il solo obiettivo di garantire il mantenimento dell’equilibrio di
bilancio.
Questo progetto ideologico è in gran parte impraticabile.
L’instabilità dell’economia capitalista rende necessaria una politica
attiva. Per questo, negli Stati Uniti, la Federal Reserve ha abbassato
praticamente a zero il tasso di interesse e ha comprato massicciamente
titoli privati e pubblici, in totale contrasto con tutto il pensiero
ortodosso: il deficit pubblico ha superato il 10% del Pil nel periodo
tra il 2009 e il 2011 senza sollevare alcun allarme. All’interno
dell’Ue, nel periodo 2008-2009, i governi hanno dovuto adottare misure
fiscali sostanziose per evitare il crollo economico.
Nonostante tutto ciò, l’obiettivo delle autorità europee viene
continuamente riaffermato e il loro credo ricordato e perseguito
costantemente. Si impongono all’Europa grandi «riforme strutturali» e
la fine del modello sociale dichiarato ormai obsoleto. [6] Poiché
queste riforme sono chiaramente molto impopolari, la manovra, di cui il
nuovo trattato è uno strumento essenziale, consiste nel far applicare e
nell’imporre politiche «automatiche», attraverso delle soglie che
determinano l’applicazione di misure ingiuste.
Con questo trattato, l’Europa fa un nuovo passo verso l’obiettivo
neoliberista di «de-democratizzazione» della politica economica.
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NOTE
[1] Celebre proverbio degli Shadok, protagonisti di un popolare cartone animato francese. [n.d.t.]
[2] Ritorneremo su questa definizione. Si veda anche l’Appendice 1
riguardo la nozione di «equilibrio strutturale» che occupa un grande
spazio nel nuovo trattato.
[3] 20 ans d’aveuglement, cit.
[4] www.ofce.sciences-po.fr/blog/?p=1671.
[5] La seconda parte di questo libro, «Un patto contro la democrazia»,
analizza nel dettaglio questo aspetto, mostrando come il patto
introduca una serie di meccanismi «automatici» e di sanzioni al posto
di procedure decisionali concertate e di una deliberazione tra gli
attori responsabili davanti ai loro elettori.
[6] Si vedano le dichiarazioni del presidente della Bce Mario Draghi in tal senso.