Dieci tesi contro il capitalismo predatorio1
di Jean-Claude Lévêque
I
Il
capitalismo contemporaneo è la forma estrema dello stesso, ovvero il
capitalismo nella sua fase discendente, ancora inedita nei suoi effetti
complessivi. La «servitù del debito» è uno dei suoi modi di oppressione
e controllo delle masse, ma non il solo.
Si
può a ragione parlare di «capitalismo predatorio» o di «Capitalismo
assoluto» (Preve), anche se entrambe le definizioni paiono ancora
insufficienti per coglierne le caratteristiche dominanti. Il dibattito
attuale (considero come posizioni interessanti e opposte quelle di
Dardot/Laval, di Bidet, di Lazzarato, Negri, Zizek, Badiou, di Aglietta e
di Lévy) stenta a trovare una strategia di uscita dal dominio del
capitale finanziario, per ragioni teoriche e ideologiche. Si fanno delle
analisi convincenti- anche se non sempre-, ma quello che risulta
pressoché impossibile (forse soprattutto perché, in generale, non si
tiene conto di Lenin) è trovare un modo per opporsi efficacemente alla
retorica intransigente della classe dominante.
La
strategia dei capitalisti sembra invece molto più efficace nello
spuntare le armi dei movimenti che vi si oppongono. La constante
criminalizzazione di qualsiasi forma di opposizione e l’affermazione
constante e martellante dell’assenza di alternative lasciano poco spazio
ai movimenti2.
Un’altra caratteristica del capitalismo predatorio è la sua connivenza
con le mafie mondiali, che ormai spesso appare assolutamente evidente,
sebbene negata dai media di regime.
I
metodi dei «pirati legalizzati» e dei «pirati fuorilegge» spesso
coincidono, sia nei modi che nei risultati ottenuti. Il velo fuorviante
della retorica dei “diritti umani” serve solo a occultare il fatto che
di essi è stato fatto strame.
II
La sua strategia dominante, sul piano discorsivo, è quella del «disinnesco».
Dopo
aver sapientemente distrutto la logica del discorso negli ultimi
venticinque anni, l’ideologia dominante è in grado di imporre un
linguaggio fatto di slogan incoerenti e di parole d’ordine indiscutibili
(v. Marcuse). In compenso, i discorsi coerenti delle opposizioni
vengono costantemente rifiutati in nome degli slogan ripetuti fino alla
nausea e la loro forza imbrigliata all’interno di controargomentazioni
speciose e sofistiche; un’altra forma di «disinnesco» consiste nello
svuotamento sistematico del vocabolario – l’esempio più chiaro ed
immediato riguarda la parola «democrazia», svuotata di senso e usata per
indicare invece una forma di “dittatura” appena velata3. Viviamo immersi in una sorta di «brodo di coltura» di una LTI-come direbbe V. Klemperer –,
forse meno “militaresca” di quella del Terzo Reich, ma non meno
inquietante. Il processo di svuotamento della capacità di argomentare è
giunto a un punto tale che oggi è estremamente difficile essere
compresi da un pubblico di media cultura. Chi oggi neghi tutto questo,
va detto a chiare lettere, è da considerare un complice del
«capitalismo predatorio».
III
Una
delle caratteristiche più inquietanti del pensiero neoliberista è
quella della sistematica distruzione della cultura umanistica- e
dell’istruzione pubblica.
La
nuova scuola del neoliberismo è una scuola delle competenze e della
formazione continua da una parte, della concorrenza spietata dall’altra:
non si tratta di formare le future generazioni, ma di asservirle
all’unica ideologia ammessa, quella del profitto per pochi e della
servitù dei molti.
Individualismo
e proprietà privata sono i due dogmi ai quali il sistema educativo
deve essere sottomesso senza discussioni. Bologna, Lisbona e Europa
2030 sono le linee guida di questa spietata operazione. I dirigenti
scolastici, le pedine, consapevoli o meno, indispensabili per attuarle.
Come afferma Christian Laval in un volume recente,
«Sois stage et tais-toi!». Formazione continua, dunque, e
superficiale. Niente di più vicino di questo alla strategia
neoliberista.
Lo
stesso si può dire dell’Università, con l’aggravante che in questo
caso i costi di iscrizione sono aumentati e la qualità sta diminuendo
anno dopo anno.
In
Italia, il volano necessario a questa trasformazione è stato
rappresentato, in larga misura, dai corsi di laurea in Scienze della
Comunicazione: produzione di manodopera a basso costo e dequalificata
per i call-centers (per lo più) e diplomificio per una minoranza
relativamente competente pronta a servire gli interessi del capitalismo
predatorio a un livello comunque medio-basso; in tutti i casi,
strumento efficace per la «riduzione dei cervelli» – o comunque per una
trasformazione regressiva dei medesimi.
IV
I media ormai sono ridotti ad altoparlanti fumosi e in malafededell’ideologia neoliberale dominante.
Ovvero,
sono solo agit-prop! Ripetizione ossessiva di ritornelli – crisi,
tagli, riduzioni, deficit, spread, ecc. Con la triste coorte di
presentatori, puttane, ministri e giornalisti servi a celebrare
l’indegno spettacolo dell’autorappresentazione di un’oligarchia marcia e
corrotta, che vuole pompare senza fine risorse e denaro dal popolo (e
dalla classe media). Come diceva Saint-Just: «chi non vuole la virtù,
vuole la corruzione!».
Ce
ne sarebbe più che abbastanza per una rivoluzione; per ora, però, non è
così. Vale ancora la seduzione del potere economico sovraesposto sui
media di regime e funziona l’arte di «ridurre i cervelli». Il nemico è
ancora troppo invidiabile per essere odiato davvero; nonostante si
mostri ormai chiaramente per quello che è, ovvero turpe e disprezzabile.
Monti o Tre-monti, nel caso italiano, fa poca differenza.
Tutti in fila per tre, ma fino a quando?
I media rappresentano attualmente, per la stragrande maggioranza, un’insensata commedia che oscilla tra il grand macabre e il vaudeville, con qualche tocco burlesque, quando ve n’è la necessità.
Comparsate
di presunti esperti, politici ignoranti o cinici fino al disprezzo dei
cittadini, ruffiani ecc., tutti pronti per il carosello quotidiano
della società dello spettacolo «integrato» (Debord).
Le
prossime elezioni italiane, un teatrino infame in cui il voto non è
più un diritto, ma solo l’esercizio passivo di ratificazione
dell’esistente attraverso una delega in bianco. È triste affermarlo, ma
è proprio così – grande «rischio Weimar», anche se le conseguenze
saranno quasi sicuramente diverse.
V
Il
carattere predatorio del neoliberismo appare evidente e soprattutto
difficilmente arrestabile, a meno che non si decida di opporsi alla
predazione indiscriminata con tutte le forze a disposizione. Questo
significa abbandonare la cultura del compromesso e della mediazione a
tutti i costi, che ha bloccato negli ultimi vent’anni l’azione delle
forze politiche- e sociali- di sinistra.
Si
è potuto constatare che ormai la maggior parte dei gruppi politici è
al servizio di gruppi di lobbisti senza scrupoli, in grado di
condizionare l’approvazione o l’abrogazione delle leggi nei parlamenti
europei. L’opposizione dall’interno è divenuta molto difficile se non
impossibile.
Lo
spirito predatorio si è ormai impadronito delle istituzioni –
naturalmente vi sono casi – abbastanza rari – di dissenso. Per questo
non è più possibile essere riformisti senza cadere nell’accettazione
acritica dei meccanismi perversi del neoliberismo. La «disobbedienza
civile», fuori dalle sedi istituzionali, sembra l’unica arma a
disposizione per fronteggiare la corruzione e lo sfruttamento
illimitati.
Debito,
dunque – sono i poveri a pagare per le banche! Assurdità di un sistema
che si avvita su se stesso. Economia del ricatto. Criminalità ed
economia neoliberale: spovrapposizioni continue e intrecci
inestricabili. Per questo è necessario discriminare senza ambiguità: le
colpe ricadono tutte—e intendo dire proprio tutte--sul capitalismo
predatorio; esso deve essere identificato come «il» nemico da combattere
per evitare il definitivo tracollo della democrazia.
Le
politiche del «male minore» non hanno più alcun senso quando di fronte
ci sono degli interlocutori che si sono posti «al di sopra della
legge»: associazione a delinquere (le parole pesano e contano!) di
privilegiati dediti escusivamente ad incrementare a qualsiasi costo le
proprie entrate: sicurezza, controllo poliziesco e sfruttamento fino al
suicidio dei lavoratori.
Le
politiche della sinistra radicale si sono fin qui distinte per la
mancanza di strategie efficaci e per una grande incapacità di leggere il
presente – con Marx o senza Marx. Fermi al secolo passato, i suoi
Readers non hanno saputo comprendere l’evoluzione dell’economia (se non
in modo molto parziale) e hanno sinora perso tutte le occasioni per
cercare di cambiare il corso degli eventi. I movimenti sono andati molto
oltre nella comprensione del capitalismo predatorio, ma non hanno
un’organizzazione efficace.
VI
Governance I
L’«Economic governance» è uno degli strumenti più devastanti per imporre l’ideologia neoliberista.
Partiamo da alcune considerazioni di Toni Negri, svolte in un saggio recente:
Ormai, quando si parla di costituzione europea, si parla essenzialmente di economic governance, e quando si parla di governance economica, spesso si traduce sostantivamente il concetto nel tedesco Ordo-liberalismus (ci
è stato detto che questa traduzione si è data anche in documenti
ufficiali). Vale a dire in una autoritaria “economia sociale di mercato”
che, non a caso, sotto la pressione dei mercati, ha perduto ogni
dimensione sociale e riformista per esaltare al massimo quella
autoritaria ed ordinativa. Prodotto da una scuola che, assumendo diverse
– e spesso inquietanti – figure politiche, si prolunga e si trasforma
dagli anni ’20 ad oggi: essa domina gli attuali processi costituenti
europei. Stabilità dei prezzi, regolazione repressiva di ogni deficit budgetario
inappropriato, unione monetaria separata dall’unione politica, sono
diventati principi cui attenersi – con alcune conseguenze dissolutive di
ogni pur formale regola democratica. Il controllo e la supervisione
burocratica dei bilanci sono infatti privi di ogni legittimazione
democratica (non solo delle istituzioni nazionali ma anche di quelle
comunitarie); gli interventi regolatori sono di volta in volta
individualizzati fuori da ogni norma generale – il carattere di
giustizia dell’azione comunitaria è del tutto svuotato; e, in terzo
luogo, le politiche europee di regolazione sociale, distributive e
compensatorie, risultano effettivamente dissolte. Per dirla con Jörges,
nella crisi l’Europa è passata da una costruzione giurisdizionale ad
una costituzione autoritaria e da un deficit di democrazia ad un default democratico.
Il
deficit di legittimità caratterizza, in generale, l’azione delle
istituzioni europee (e dei singoli stati dell’Unione, purtroppo!), ormai
divenute sistemi autonomi, assolutamente lontani dai popoli e fuori da
ogni regola. «De-regulation» e asservimento ai dettami delle
multinazionali, questo è l’unico programma da seguire. Non condivido del
tutto le tesi di Negri e di C. Vercellone sul «Capitalismo
finanziario», ma certamente le pressioni dei mercati sulle scelte dei
governi sono enormi e sempre più pervasive; nonostante ciò, il
“capitalismo predatorio” non è soltanto di carattere finanziario—si
vedano, ad esempio, le guerre imperialiste per il controllo delle
risorse in Africa e in Medio Oriente.
Come affermano Laval e Dardot,
Per
contrasto, il momento neoliberale è caratterizzato da
un’omogeneizzazione del discorso sull’uomo a partire dalla figura
dell’impresa. Questa nuova forma di soggettività opera un’unificazione
senza precedenti della forme plurali di soggettività che la democrazia
liberale lasciava sussistere e delle quali si sapeva servire
all’occorrenza per meglio consolidare la sua esistenza.
Il
capitalismo predatorio si caratterizza quindi per la soppressione di
quel pluralismo che tuttavia sussisteva nelle democrazie liberali del
secondo dopoguerra: quello di cui c’è bisogno è invece di un controllo
“totale” sull’individuo e di una sua altrettanto totale
«depersonalizzazione». Timore e speranza, sapientemente dosati e
istituzionalizzati a partire dalla assurda regolamentazione del mercato
del lavoro.
VII
Sul potere costituente.
Le
tesi di Hardt-Negri sul potere costituente vanno riviste abbandonando
il concetto di «moltitudini», troppo indefinito. Non sono le
moltitudini a poter dare scacco al neoliberalismo.
Non riesco ad essere d’accordo con Negri quando affida il potere
costituente alla “moltitudine”; rimane per me un concetto troppo
astratto e vago, direi. Lasciare lo spazio per un cambiamento al solo
«desiderio costituente», alla «ricerca della felicità» – seppur intesa
in un senso latamente spinoziano – mi pare davvero un’ingenuità teorica
che mal si accompagna alle sottili analisi negriane della governance.
Davvero, ci servono altre definizioni, ben più pregnanti e concrete.
Per parte mia ripartirei dal concetto di classe, andando certo ben oltre
quello classico marxista. Tuttavia, mi sembra ancora ineludibile
partire da lí, per riformularne i punti essenziali. Non se ne può fare a
meno, per interpretare questa nuova fase del capitalismo.
In questo senso, non mi sembra inutile ritornare a leggere Lenin e
Lukács, con spirito critico, ovviamente. La «lotta di classe» è
estremamente attuale, anche se ha assunto caratteristiche diverse,
contorni meno netti e al centro non c’è più la classe operaia in senso
Stretto, ma un universo molto più sfaccettato ( precariato, migranti,
marginalità nuove).
VIII
Governance II
L’aspetto
più propriamente giuridico della Governace globale è forse quello più
inquietante: attraverso processi di giuridificazione che saltano a pié
pari le Costituzioni nazionali, le multinazionali impongono
spietatamente i loro interessi.
a) Sono d’accordo con M. Lazzarato quando afferma che il termine governance nella
neolingua del capitalismo predatorio significa in realtà «comando» –
dispotico, aggiungo io (v. Lazzarato, 2011, p. 27). Borrelli (2010)
sottolinea l’importanza del concetto di responsabilità personale; la
«democrazia efficace» si basa appunto su questo e sul concetto di governance.
Struttura reticolare di governance. Chi comanda, ovviamente, sono le
élites, non il popolo. Governo dei comportamenti e dei corpi.
Psicopotere? Prendere su di sé i rischi come ingiunzione. Teubner ci
insegna che i processi di «ibridazione del diritto» possono portare alla
sovversione dell’ordine giuridico tradizionale.
b) Ascesi della “performance” e controllo totale.
Come hanno rilevato Dardot e Laval,
Tutti
questi esercizi pratici di trasformazione di sé tendono a trasportare
tutto il peso della complessità e della competizione sul solo
individuo. I «manager dell’anima», seguendo un’espressione di Lacan
ripresa da Valérie Brunel, introducono una nuova forma di «governance»
che consiste nel guidare i soggetti facendo loro assumere pienamente
l’attesa di un certo comportamento e di una certa forma di soggettività
sul lavoro.
Qui la questione dominate è quella del «lavoro su di sé» allo scopo di adattarsi alle regole del management e
di essere disposti a una continua trasformazione e ad un continuo
riposizionamento di sé. Da cui segue la “liquidità” dei legami sociali e
personali, fino alla loro assoluta intercambiabilità.
c) Giuridificazione bottom-up.
Quello che è accaduto e accade è che i processi di giuridificazione e di «costituzionalizzazione» seguono una logica bottom-up e indipendente dalla costituzioni nazionali. Si legifera sempre di più ad hoc,
attraverso processi orizzontali che conferiscono valore giuridico
superiore a procedimenti transazionali privati che riguardano gli uffici
giuridici delle multinazionali e non si confrontano con le
Costituzioni dei singoli paesi.
IX
Biopolitica e biopotere
Pur
accettando solo parzialmente la prospettiva foucaultiana, sosteniamo
che la figura dominante nel mondo tardocapitalista si quella dello
sportivo e dell’uomo in continua lotta con se stesso per migliorare le
sue performances – una sorta di «ultimo uomo». Forse, nietzscheanamente
«il più brutto».
Produzione
dell’uomo “performante” e assolutamente responsabile in prima persona
di ciò che fa, al lavoro e nel tempo libero—che non è tale, in quanto
interamente sussunto nei meccanismi produttivi. Costruzione dell’uomo
indebitato- esposizione, ricatto. (V. Deleuze, Cours, 1971-72--73,
citati da Lazzarato).
Il tema dell’assenza della mediazione nell’uso degli strumenti
elettronici è fondamentale: qui Lazzarato segue Deleuze quasi alla
lettera. Un altro punto, legato al precedente, concerne l’imposizione
del pareggio di bilancio nelle costituzioni dei paesi europei; questo
provvedimento, a breve, aumenterà in modo esponenziale l’esposizione
delle famiglie, impoverendole ulteriormente fino a livelli impensabili
prima d’ora. Le destre e le sinistre europee non vogliono vedere la
gravità del problema e insistono su questa strada, probabilmente fino ad
arrivare al collasso dell’intero sistema. Come sottolinea Christian
Marazzi in un articolo recente,
Però
il problema, per come lo vedo io, è che siamo in una situazione dentro
la quale siamo in un qualche modo costretti a passare attraverso una
crisi feroce che è implicita nel funzionamento stesso di questo euro.
Per questo mi sembra fondamentale, all’interno delle lotte, porre le
questioni da una parte di una resistenza a tutto ciò che ha a che fare
con le misure di austerità, una resistenza sul fronte del salario, una
resistenza sul fronte del reddito nelle sue forme di reddito di base,
ecc. Però allo stesso tempo sono parecchio pessimista perché non riesco a
vedere fra l’altro una forza per portare effettivamente queste
rivendicazioni di tipo riformista al giusto livello sul quale andrebbero
poste. Mi piacerebbe che ci si muovesse in questa direzione, vedo però
prima di tutto questo scenario di grande crisi dell’Europa e un
ritardo preoccupante da parte del movimento operaio, ma del movimento
critico in generale nell’elaborare delle pratiche di lotta, nel
costruire dei fronti di lotta tali da poter in qualche modo orientare
questa crisi. La mia posizione sicuramente è una posizione che esprime
un disagio, forse sono troppo dentro a quella che è l’evoluzione e
l’involuzione quotidiana dei mercati per vedere un esito o un percorso
diverso da quello di rottura ma sta di fatto che questa impossibilità
di tenere l’euro, proprio per la sua stessa architettura, mi sembra che
sia la questione che dobbiamo porci per avere un approccio che sia col
tempo realista ma allo stesso tempo consapevole delle difficoltà che
abbiamo di fronte nella mobilitazione a livello europeo. Per quanto
riguarda il pareggio di bilancio, penso che sia l’anticamera del
nazismo. Questa è una battuta, ma non del tutto, perché
costituzionalizzare il pareggio di bilancio significa mettersi nella
condizione di non poter far fronte a delle situazioni che tra l’altro
nel capitalismo finanziario alla Minksy sono assolutamente prevedibili
nella loro imprevedibilità. Una crisi, o una catastrofe naturale, pone
la questione della rigidità, della gabbia d’acciaio che ci costruiamo
noi stessi e che rende estremamente difficile perseguire delle
operazioni di reazione, di risposta contingenti a delle situazioni di
crisi. È veramente un errore questa cosa, la costituzionalizzazione del
pareggio di bilancio, ed è una cosa di cui vedremo le conseguenze
abbastanza presto. ( Christian Marazzi, “L’Euro non come moneta unica
ma come moneta comune”, in www.sinistrainrete.it)
Altro
che la «gabbia d’acciaio» weberiana: qui siamo di fronte a un processo
di espropriazione dell’autorità degli Stati nazionali che non ha
precedenti! Le considerazioni di Lazzarato sull’“uomo indebitato”
andrebbero implementate pertanto da un’ampia considerazione del regime
neoliberista e delle sue politiche, su come il capitalismo finanziario
abbia poco a poco eroso lo Stato sociale attraverso meccanismi economici
ben determinati e ben descritti da Marazzi e da Bellofiore. Su questo
punto conto di tornare in un articolo successivo.Alla fine, sembra che il controllo biopolitico abbia
raggiunto almeno uno dei suoi scopi: offuscare le menti al punto che
coloro che sono stati gettati nella miseria dal capitalismo predatorio
continuano a sperare di potersi “rifare” accettando per ora le politiche
di austerità imposte dall’Europa. Una parte dei cittadini ha però
compreso come stanno le cose e si è organizzata, nonostante le mille
difficoltà a cui ha dovuto e dovrà far fronte. Non si tratta di moltitudine, ma di lotta popolare, anche se in un senso nuovo. Intendiamo
con «lotta popolare» qualcosa di Molto simile al «movimentismo» degli
anni settanta, ma adattato al carattere diffuso delle lotte
attuali—sfrattati, studenti, migranti, precari, operai, ecc. Insisto:
uscendo dall’immobilismo a cui siamo condannati a causa della
“moralizzazione” delle lotte.
X
Uscirne ( ma come?)
L’uscita
dall’ideologia neoliberale non sarà indolore, ma richiederà un
colossale sforzo di cambiare il nostro mondo di pensare e di agire.
L’estrema
difficoltà di uscire dalla fase attuale del capitalismo è determinata
dal fatto che abbiamo assistito ad una potente colonizzazione delle
forme di pensare avvenuta soprattutto tra il 1989 e il 2001, tale che
oggi molti oppositori del neoliberismo non si accorgono di pensare come i
loro avversari. L’etica della performance e
della responsabilità individuale ha determinato e determina la
scarsissima reattività della sinistra-anche antagonista- di fronte alle
politiche aggressive dei governi occidentali. Se a questo aggiungiamo
l’accettazione passiva di un’apologia assurda della non-violenza (che
non ha nulla a che vedere con Gandhi), vedremo che per poter far fronte
alle politiche sempre più assurde della Troika è necessario cambiare il
modo di pensare a 360 gradi. Solo un’opposizione radicale, senza
remore e senza troppi distinguo ai governi attuali potrà portare, nel
tempo, a determinare un cambiamento significativo, politico e sociale
insieme. L’ipocrisia del tardo capitalismo è ormai assolutamente
inaccettabile. Per questo pensiamo che sia fondamentale rileggere Marx
per capire il presente e non lasciarsi incantare dalle varie sirene che
impediscono qualsiasi cambiamento decisivo. Non sembra però che i
moventi sociali, almeno in Italia, riescano a premere sul governo e sul
potere finanziario per spingerli verso un cambiamento di rotta. La
resistenza è ancora forte e le collusioni molteplici. Gli scandali
finanziari non sembrano, da soli, incrinare il sistema: seguendo ancora
Teubner, il reticolo di interessi è troppo complesso per essere
attaccato di fronte. L’incertezza regna, dunque. Ma solo se ci si
libererà delle scorie dei fallimenti dello scorso ventennio – non solo
berlusconiano, ahimé – sarà possibile concepire delle strategie
efficaci. Alcune strade sono state abbozzate in questo intervento,
altre restano da pensare.
Coda
Qualche
parola, per finire, in riferimento alla situazione che si sta
delinenado nelle ultime settimane in Italia e in Europa: sembra che il
«capitalismo predatorio» stia accelerando il processo di distruzione
delle economie dei paesi dell’Europa del sud, attraverso la deleteria
combinazione di assurde politiche di austerità (Germania) e di
un’accentuazione dei movimenti speculativi. Per questo mi piace definire
questo capitalismo come profondamente nichilista
e
votato alla sparizione; il problema è che intende trasportare i popoli
europei nell’abisso, e senza nessuno sconto. Se ho parlato di «Rischio
Weimar» è dunque a ragion veduta. Le condizioni politiche ed
economiche sono diverse, ma le conseguenze possono essere altrettanto
letali, dato che non si vede all’orizzonte una forza politica capace di
mettere in questione i rapporti di forza attuali. Ma non è detta
l’ultima parola: a volte le stesse forze negative possono creare le
condizioni per la propria sconfitta – inattesa. Basta leggere la realtà
con lenti diverse ed abbandonare il tono puramente «indignato» delle
proteste degli ultimi anni.
____________________________________________
Note
Vorremmo qui far riferimento a Lenin (nientemeno!) e al suo testo fondamentale Che fare?:
senza un confronto critico con le tesi leniniste, non credo che si
avrà la forza di contrastare l’egemonia del neoliberismo. Vorrei anche
riferirmi all’utile saggio di L. Basso, Agire in comune. Antropologia e politica nell’ultimo Marx,
Ombre corte, Verona 2012, che segue una prospettiva diversa. Come
ricorda Mimmo Porcaro in un brillante articolo, «L’obiettivo della
politica dei movimenti popolari diviene quindi, d’ora in poi, duplice.
Da una parte deve esserci lo sviluppo delle istituzioni popolari di
base, la crescita delle forme di autorganizzazione e di democrazia
diretta e/o partecipata. Dall’altra deve esserci l’azione coordinata,
scandita in tappe e fasi, finalizzata alla conquista e alla
ridefinizione del potere di Stato. Da una parte il tempo lineare e
cumulativo della crescita progressiva della soggettività popolare
autorganizzata, dall’altra il tempo discontinuo e mutevole
dell’intervento nella congiuntura politica. Da una parte l’agire
cooperativo, dall’altra l’agire strategico. Senza l’uno non c’è l’altro.
Senza il primo non c’è l’accumulazione delle conoscenze, delle
relazioni e delle forze che consentano la conquista e trasformazione
dello Stato e della produzione, non ci sono le autonome istituzioni
popolari che, restando a distanza dallo Stato, riescano ad influenzarlo e
trasformarlo senza però ridurre la politica socialista a statalismo.
Senza il secondo non ci sono le risorse politiche, giuridiche ed
economiche che consentano alle istituzioni popolari di costruire un
nuovo ordine sociale e, prima ancora, di sopravvivere alla crisi.» Mimmo Porcaro, Occupy Lenin, in www.controlacrisi.org, 26 marzo 2012.