L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 22 giugno 2013

Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti vogliono morti e territorio

21 giugno,


(di Benedetta Guerrera) (ANSAmed) -
 ROMA, 21 GIU - Il gruppo degli undici paesi ''Amici'' della Siria torna a riunirsi domani a Doha, in Qatar, a pochi giorni dal vertice del G8, che sul lungo e sanguinoso conflitto tra il regime di Damasco e l'opposizione ha raggiunto un accordo da molti definito ''al ribasso'' nonostante il presidente del Consiglio Enrico Letta lo abbia definito un ''passo significativo'' invitando la comunita' internazionale a ''non sottovalutarlo''.

Dal verde delle colline irlandesi al caldo torrido dell'emirato, i temi sul tavolo sono gli stessi e ogni giorno che passa diventa sempre piu' urgente raggiungere risultati, almeno sul piano diplomatico: trovare un sostegno condiviso per una conferenza di pace ('Ginevra 2') e decidere sui modi in cui sostenere l'opposizione al regime di Damasco contemplando anche la fornitura di armi ai ribelli. L'Italia, che sara' rappresentata dal ministro degli Esteri Emma Bonino, sostiene fortemente l'idea di una 'Ginevra 2' che coinvolga tutte le parti interessate. In una conversazione telefonica con il suo collega iraniano qualche giorno fa, la titolare della Farnesina ha ribadito la necessita' di ''lavorare insieme'' ad una soluzione. Ma come a Lough Erne cosi' a Doha il nodo, pur non facendo parte del gruppo degli 'Amici', sara' rappresentato dalla posizione della Russia. Il ministro degli esteri Serghiei Lavrov, con cui la Bonino ha avuto un incontro a Mosca sabato scorso incentrato principalmente sul tema della Siria, ieri ha addossato agli occidentali le incertezze sulla convocazione di una nuova conferenza di pace a Ginevra. Slittata comunque la possibilita' di tenere la conferenza ai primi di luglio, in Qatar si puntera' a stabilire, se non una data (i primi di agosto), almeno un quadro d'azione.

L'altro grande tema sul tavolo saranno i mezzi per sostenere l'opposizione. Proprio oggi, un portavoce dell'Esercito libero siriano ha dichiarato che i ribelli ''hanno ricevuto armi in grado di cambiare il corso della guerra''. Ma, intanto, il ministro degli Esteri francese, Laurent Fabius, che insieme con la Gran Bretagna ha piu' insistito perche' venisse revocato l'embargo sulla vendita di armamenti al fronte anti-regime, si e' mostrato ieri molto prudente, sottolineando l'esigenza di avere nuovi colloqui con l'opposizione prima di procedere con qualsiasi consegna. L'Italia da parte sua negli ultimi mesi ha rafforzato e consolidato l'assistenza alla Coalizione nazionale siriana e ai suoi organi esecutivi, fornendo sostanziali contributi all'emergenza umanitaria e programmando iniziative di formazione.

All'iniziativa di Doha, che fa seguito a quella del 22 maggio ad Amman, prenderanno parte il segretario di Stato Usa John Kerry e i ministri degli esteri di Gran Bretagna, Francia, Spagna Germania, Turchia, Egitto, Giordania, Qatar, Emirati Arabi e Arabia Saudita. (ANSAmed).
http://ansamed.ansa.it/ansamed/it/notizie/stati/siria/2013/06/21/ANSA-Bonino-Doha-domani-riunione-Amici-Siria-_8908856.html

commento critico
I paesi sopracitati, comprensiva dell'Italia, due anni fa sono partiti alla grande e hanno sovvenzionato con uomini, armi e denaro, molto denaro la Rivoluzione a Pagamento in Siria.

Dopo breve tempo si sono accorti che all'interno di questo raggruppamento si era formata un'anima islamica che questi paesi non controllavano e non controllano,  l'obiettivo degli islamici è creare un'altra zona al di fuori dell'influenza degli Stati Uniti e dei suoi seguaci.

Quello che ferma oggi questi paesi per  dare il colpo finale alla Siria è proprio la prospettiva di abbattere si il potere di uno Stato Sovrano ma poi di non sapere a chi verrebbe consegnato questo territorio, in quanto nella Rivoluzione a Pagamento i rapporti di forza tra i mercenari e gli islamici sono nettamente a favore di questi secondi.

Ci sono missili potentissimi della Nato schierati sul confine turco e giordano. Truppe degli Stati Uniti in Giordania pronti ad invadere, insieme ai giordani la Siria, ma c'è questo forte ma.

In questa situazione si è inserita in maniera più determinata la Russia portando ulteriori  navi nello scalo di Tartus riaffermando in questa maniera la sua vicinanza con lo Stato Sovrano siriano.

A latere di questo discorso è da far notare che sono i francesi e gli inglesi i più determinati ad andare in guerra, sono così determinati che non rifiutano di inventare fantastiche uso di armi non convenzionali come le armi chimiche, imputando, a prescindere, il Presidente Bashar al-Assad. 

 L'Iraq, nella complessità di un altro paese Sovrano, occupato, dileggiato, sperperato un patrimonio culturale di un popolo ci ha dato un grande lascito: la grande menzogna degli Stati Uniti e Gran Bretagna a creare dal nulla fantomatiche armi chimiche di Saddam Hussein. Questa menzogna è rimasta scolpita nella memoria, ed è nostro precipuo dovere ricordare quanto è successo e nel ri-membrare, ricomporre fatti e avvenimenti.

Questa menzogna è stato lo strumento di scusa per  creare guerra ma è anche stato uno strumento di cui sarà difficile riutilizzare bruciato da una inconsistenza palese e falsa che in dieci anni si è sedimentata nella memoria collettiva del mondo dove invece si è depositata innoppugnabilmente  la verità.

martelun


mercoledì 19 giugno 2013

i lavori concreti dipendono dai bisogni sociali: Inventare lavoro

Giorgio Lunghini: Reddito sì, ma da lavoro

E-mail Stampa PDF
AddThis Social Bookmark Button

Reddito sì, ma da lavoro

di Giorgio Lunghini

L’autonomia economica e politica delle persone presuppone un reddito da lavoro. Il reddito di cittadinanza corre il rischio di far aumentare il numero dei non occupati e la loro l'emarginazione, lasciando irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti
Forse per ragioni di età, sono ancora affezionato alla idea di Adam Smith e alla Costituzione. Secondo Smith, “Il lavoro svolto in un anno è il fondo da cui ogni nazione trae in ultima analisi tutte le cose necessarie e comode della vita che in un anno consuma”. Più breve e efficace, l’Articolo 1 della Costituzione recita: “L’Italia è una Repubblica democratica [corsivo aggiunto], fondata sul lavoro”. Sul lavoro, non sul reddito. Circa il reddito di cittadinanza o altre forme di reddito garantito, d’altra parte, non ho cambiato l’idea che coltivavo qualche anno fa, e qui la riprendo.
Quando una improbabile crescita dell’economia è sì condizione necessaria per realizzare la piena occupazione, ma non anche sufficiente, il problema di fondo di una società capitalista si aggrava. Problema di fondo che si può evocare con questo disegnino: 
Se si è d’accordo su ciò, e se si conviene che presupposto della democrazia è la democrazia economica;
e che a sua volta la democrazia economica presuppone la massima occupazione possibile e una distribuzione della ricchezza e del reddito né arbitraria né iniqua, allora si deve anche convenire che nessuna forma di reddito garantito costituisce una soluzione del problema. Il reddito di cui dispongono i lavoratori non occupati è il risultato di un trasferimento da parte dei lavoratori occupati, attraverso lo Stato o direttamente all’interno della famiglia. Quel reddito è semplicemente l’eccesso del salario percepito dai lavoratori occupati rispetto al costo di riproduzione di questi. Il palliativo rappresentato da un reddito di cittadinanza o di esistenza non risolverebbe la questione dell’autonomia economica e politica dei non occupati, probabilmente ne aumenterebbe il numero, ne certificherebbe l’emarginazione, favorirebbe il voto di scambio e lascerebbe irrisolta la questione dei bisogni sociali insoddisfatti. L’autonomia economica e politica presuppone un reddito da lavoro.
Diverse e positive sarebbero le conseguenze dell’altra soluzione cui si può pensare: una riduzione generalizzata dell’orario di lavoro; tuttavia una politica di riduzione dell’orario di lavoro (a parità di salario) suscita oggi ovvie e probabilmente insuperabili resistenze da parte dei capitalisti, e implicitamente assume che le merci possano soddisfare tutti i bisogni. Nello stato attuale del mondo, la redistribuzione del lavoro come forma di trascendimento è una prospettiva da perseguire con determinazione ma difficilissimamente praticabile in un paese solo, se non altro per i vincoli di competitività nel settore che produce sovrappiù. Per tutta la lunga durata della depressione che si annuncia, la riduzione dell’orario di lavoro rischia di essere una forma di rispettabile compromesso aziendale tra capitale e lavoratori occupati, che però non fa diminuire la disoccupazione e rimane confinato alla logica della produzione di merci. L’idea che giustifica le politiche di riduzione dell’orario di lavoro è quella di una ripartizione dei guadagni di produttività tra imprese e lavoratori, in termini, per questi ultimi, di minori tempi di lavoro anziché di maggior salario. Dunque presuppone salari di partenza relativamente elevati e una situazione economica e sociale florida, tendenzialmente di piena occupazione. L’esatto contrario della situazione attuale. Altrimenti si tratta di licenziamenti ‘parziali’ accettati in cambio di aspettative di stabilità del posto di lavoro, ma con una ulteriore divisione tra occupati e non occupati e con una maggiore ‘flessibilità’ all’interno della fabbrica e sul mercato del lavoro.
Il livello della produzione capitalistica non viene deciso in base al rapporto tra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di una umanità socialmente sviluppata, bensì in base al saggio dei profitti. La produzione di merci si arresta non quando i bisogni sono soddisfatti, ma quando la realizzazione del profitto impone questo arresto. Anche se la produzione di merci riprendesse a crescere, non si avranno variazioni significative nell’occupazione se non in lavori servili, precari e a basso reddito. Si avrà dunque una crescita sia dei bisogni sociali insoddisfatti sia della disoccupazione. La soluzione di questo problema – troppe merci, poco lavoro – va cercata altrove, al di fuori della dimensione capitalistica e mercantile della società. C’è oggi coincidenza tra una situazione di crisi gravissima e prospettive di nuovi spazî politici. Non si tratta di uscire dal capitalismo, ma di occupare quella terra di nessuno dell’economia e della società nella quale le merci non pagano. Questa terra esiste, lo dimostrano da un lato i tanti bisogni sociali insoddisfatti, dall’altro le tante attività che non sono mosse dall’obiettivo del profitto. Volontariato, associazionismo, movimenti ambientalisti, cooperative, centri sociali, attività tutte sospette in quanto non si piegano al criterio del calcolo e del lucro, sono tutti segni non sospetti di questa realtà (al punto che a queste attività si assegna una funzione surrogatoria).
Nella produzione di merci “col carattere di utilità dei prodotti del lavoro scompare il carattere di utilità dei lavori rappresentati in essi, scompaiono dunque anche le diverse forme concrete di questi lavori, le quali non si distinguono più, ma sono ridotte tutte insieme a lavoro umano eguale, lavoro umano in astratto”. Si tratta proprio di ciò, di promuovere e organizzare lavori concreti (in contrapposizione al lavoro astratto impiegato nella produzione di merci), lavori destinati immediatamente alla produzione di valori d’uso, lavori che non siano meri ammortizzatori sociali, ma lavori capaci di soddisfare i bisogni sociali che la produzione di merci non soddisfa. Così come ci sono bisogni assoluti e bisogni relativi, ci sono servizi tecnicamente individuali e servizi tecnicamente sociali. L’azione più importante dello Stato, attraverso istituzioni appropriate e tutte da inventare, si riferisce non a quelle attività che gli individui privati esplicano già, ma a quelle funzioni che cadono al di fuori del raggio d’azione degli individui, a quelle decisioni che altrimenti nessuno prende, a quanto altrimenti non si fa del tutto.
Si tratterebbe dunque di destinare parte del sovrappiù realizzato nella produzione di merci, alla messa in moto non di lavoro improduttivo (nel senso smithiano-marxiano del termine) destinato al soddisfacimento di bisogni relativi, ma alla promozione di lavori immediatamente destinati alla soddisfazione dei bisogni sociali assoluti. Lavori prestati non nella sfera della produzione di merci ma nella sfera della riproduzione sociale e della manutenzione almeno dell’ambiente. Principalmente lavori di cura, in senso lato, delle persone e della natura. Lavori di cui vi è una domanda che i mercati del lavoro e delle merci non registrano, perché corrispondono a bisogni privi di potere d’acquisto individuale.
Mentre il lavoro astratto socialmente necessario dipende dalle tecniche di produzione adottate nella produzione di merci e si scambia sul mercato del lavoro, i lavori concreti dipendono dai bisogni sociali, questi sì inesauribili, e si scambiano non su un mercato ma nella società. In quanto intesi al soddisfacimento di bisogni sociali, i lavori concreti hanno di necessità una dimensione territoriale ben precisa e richiedono e impongono forme democratiche di rilevazione e controllo locale della domanda e di organizzazione decentrata dell’offerta. I lavori concreti non sono esposti alla concorrenza internazionale e devono rispondere a criteri di efficacia piuttosto che di efficienza competitiva. A parità dei salari monetari consentiti dalla congiuntura capitalistica e dai rapporti tra capitale e lavoro salariato, i valori d’uso prodotti dai lavori concreti comporterebbero un aumento dei salari reali e non avrebbero effetti inflazionistici. Per il lavoro astratto i lavori concreti non sarebbero un onere ma un arricchimento, poiché producendo valori d’uso servono direttamente a soddisfare i bisogni sociali, ma indirettamente servono anche a migliorare le condizioni e la stessa produttività dei valori di scambio prodotti dal lavoro astratto.
Le risorse si potrebbero trovare facilmente: se mai si volesse provvedere all’eutanasia del rentier, e alla costituzionale progressività delle imposte sui redditi e sulle ricchezze. Tuttavia di questo disegno occorre considerare gli aspetti politici, poiché si tratterebbe di governare una transizione dal paradosso della povertà nell’abbondanza a quello stato dell’economia e della società prefigurato da Lafargue e da Keynes. Anche per le sue implicazioni tecniche e organizzative, questa è una prospettiva di benessere nell’austerità, ma meglio sarebbe dire di benessere nella sobrietà. Un discorso sull’austerità che si limiti a una critica del consumismo e all’esortazione moralistica è un discorso politicamente sterile. L’alternativa non è tra benessere e austerità, è tra le possibili forme di austerità: la miseria che ci aspetta se si lascia fare, rivestita di forme nuove di fascismo, oppure una vitale sobrietà. L’apologia del mercato nasconde il disegno di cancellare la politica, riducendola a amministrazione dell’esistente. Questa opera di disvelamento e di persuasione è compito della politica, della politica in quanto critica, indirizzo e governo del processo economico-sociale di produzione e riproduzione. Utopia? Sì, ma è bene, ammonisce un grande intellettuale, che non tanto l’intellettuale quanto l’uomo in generale si senta responsabile di qualche cosa d’altro che di procacciare cibo ai suoi piccoli, finché non gli sarà segato l’albero su cui si è costruito il nido.