L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 6 luglio 2013

Non si tratta di “rovesciare” il capitalismo. Ma di costruire logiche di una società che va al di là di esso. Questo include nuove forme di democrazia

  Giovedì 04 Luglio 2013 22:54 

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Disordini in paradiso

di Slavoj Žižek

estratto
... quando il capitalista globale è costretto a violare le sue proprie regole, lì vi è l’opportunità di insistere perché invece obbedisca a quelle regole. Esigere coerenza su punti strategicamente selezionati nei quali il sistema non può permettersi di pagare per essere coerente vuol dire mettere sotto pressione l’intero sistema. L’arte della politica sta nell’imporre richieste specifiche che, mentre esse sono perfettamente realistiche, colpiscono il cuore dell’ideologia egemonica ed implicano cambiamenti molto più radicali. Queste richieste, anche se sono valide e legittime, sono, di fatto, impossibile. Caso esemplare è la proposta di Obama di fornire assistenza sanitaria pubblica universale. Per questo le reazioni sono state così violente.

Un movimento politico inizia con un’idea, qualcosa per cui lottare, ma nel tempo,l’idea subisce profonde trasformazioni – non semplicemente un accomodamento tattico, ma una ridefinizione essenziale – perché l’idea stessa diventa parte del processo: essa diventa sovradeterminata*. Diciamo che una rivolta inizia con una domanda di giustizia, magari sotto forma di rifiuto di una determinata legge. Dopo che il popolo si è profondamente impegnato nella rivolta, si rende conto che ci vorrà molto di più della domanda iniziale, perché ci sia una vera giustizia. Il problema allora è quello di definire, precisamente, in che consiste questo “molto di più”.

 ... Proteste e rivolte di oggi sono sostenute dalla combinazione di richieste sovrapposte, e lì sta la loro forza: lottano per la democrazia (“normale”, parlamentare) contro regimi autoritari; contro il razzismo e il sessismo, soprattutto quando sono diretti contro gli immigrati e i rifugiati; contro la corruzione nella politica e negli affari (inquinamento industriale dell’ambiente, ecc.); per lo stato sociale contro il neoliberismo; e per nuove forme di democrazia che vadano oltre i rituali multipartitici. Mettono in discussione anche il sistema capitalista globale in quanto tale, e cercano di tenere viva l’idea di una società che vada oltre il capitalismo.

Due trappole vi sono, lì, da evitare: il falso radicalismo (“ciò che conta davvero è abolire il capitalismo liberale-parlamentare, tutti le altre lotte sono secondarie”), ma anche il falso gradualismo (“in questo momento abbiamo dobbiamo lottare contro la dittatura militare e per una democrazia minima, tutti i sogni di socialismo ora devono essere messi da parte”).

Qui, nessuno dovrebbe vergognarsi di mettere in pratica la distinzione maoista tra antagonismo principale e antagonismi secondari, tra quelli che contano in prospettiva, e quelli che dominano oggi. Ci sono situazioni in cui insistere sull’antagonismo principale significa perdere l’opportunità di dare un colpo significativo, nel corso della lotta.

Solo una politica che tenga pienamente conto della complessità della sovradeterminazione merita il nome di strategia. Quando si intraprende una lotta specifica, la domanda chiave è: come il nostro impegno o disimpegno in questa lotta colpisce altre lotte?

La regola generale è che quando una rivolta contro un regime di semi-democratico inizia – come in Medio Oriente nel 2011 – è facile mobilitare grandi folle con degli slogan (per la democrazia, contro la corruzione, ecc.). Ma ben presto ci troviamo ad affrontare scelte molto più difficili. Quando la rivolta ha successo e raggiunge l’obiettivo iniziale, ci rendiamo conto che ciò che veramente ci turbava (la mancanza di libertà, l’umiliazione quotidiana, la corruzione, scarso o nessun futuro) persiste sotto una nuova veste. In quel momento siamo costretti a vedere che qualcosa mancava nello stesso obiettivo iniziale. Può implicare che si arrivi a vedere che la democrazia può essere una forma di de-libertà, o che si può esigere molto più di una mera democrazia politica: che anche la vita sociale ed economica deve essere democratizzata.

In sostanza, ciò che a prima vista prendiamo come un fallimento, l’aver raggiunto solo un principio nobile (la libertà democratica), è in ultima analisi percepito come un fallimento insito nel principio stesso. Questa scoperta – che il principio per il quale lottiamo può essere intrinsecamente viziato – è un grande passo in qualunque educazione politica.

I rappresentanti della ideologia dominante mobilitano tutto il loro arsenale per evitare che giungiamo a questa conclusione radicale. Ci dicono che la libertà democratica comporta le sue proprie responsabilità, che ha un prezzo, che è un segno di immaturità aspettarsi troppo dalla democrazia. In una società libera, dicono, dobbiamo agire come capitalisti e investire nella nostra vita: se falliamo, se non riusciamo a fare i sacrifici necessari, o se in qualche modo non siamo all’altezza, è colpa nostra.

 ... il “villaggio globale” di oggi: si applicano al Qatar o a Dubai, playgrounds per i ricchi, che dipendono dal mantenimento dei lavoratori immigrati in uno stato di semi-schiavitù, o di schiavitù. Un esame più attento rivela somiglianze tra la Turchia e la Grecia: privatizzazioni, la chiusura dello spazio pubblico, lo smantellamento dei servizi sociali, l’ascesa di politici autoritari. Su un piano elementare, quelli che protestano in Grecia e quelli che protestano in Turchia sono impegnati nella stessa lotta. La cosa migliore può essere quella di coordinare le due lotte, respingere le tentazioni “patriottiche”, lasciarsi alle spalle la storica inimicizia tra i due paesi e cercare spazi di solidarietà. Il futuro delle proteste può dipendere da questo.
* Nella sua prefazione a Per la critica dell’economia politica, Marx scriveva (nel suo peggiore modo evoluzionista) che l’umanità si propone solo i problemi che sia in grado di risolvere. E se invertissiamo questa frase e dichiariassimo che, come regola generale, l’umanità si propone solo i problemi che non possono essere risolti, e quindi mette in moto un processo il cui sviluppo è imprevedibile, e nel corso del quale lo stesso obiettivo viene ridefinito?
Pubblicato dalla London Review of Books e tradotto in portoghese dal sito brasiliano outraspalavras.net. La traduzione dal portoghese è di DKm0.
http://www.sinistrainrete.info/societa/2897-slavoj-iek-disordini-in-paradiso.html 
 

venerdì 5 luglio 2013

... rivendicare con orgoglio la dignità dell’essere italiani


martedì 25 giugno 2013

Postfazione a Europa Kaputt di A.M. Rinaldi 

di  @AlbertoBagnai

(vi anticipo la postfazione al testo di A.M. Rinaldi, uno studioso che avete imparato a conoscere qui e soprattutto qui...)

Accolgo con piacere l’invito dell’amico e collega Antonio Rinaldi a tirare le fila del discorso. Compito non semplice, data la complessità e la varietà dei temi sollevati dal suo testo, che, pur essendo agile, affronta comunque il tema della crisi sotto una varietà di sfaccettature, tutte ugualmente rilevanti: l’aspetto tecnico-economico, quello storico, quello politico, quello sociologico.
Nel farlo porterò all’attenzione del lettore gli aspetti che ho trovato più significativi nel mio percorso di lettura, necessariamente individuale e soggettivo. Sarebbe molto difficile immaginare due studiosi dal percorso tanto diverso quanto il mio e quello di Antonio: lui proveniente, dopo una solida formazione, da un percorso di responsabilità ai vertici di importanti aziende, dove ha svolto un’attività operativa che l’ha avvicinato a quella classe dirigente italiana che dipinge in modo piuttosto disincantato (e dobbiamo pensare che lo faccia a ragion veduta); io, invece, proveniente da un percorso di ricerca accademica, totale outsider, distante dai palazzi del potere e dalle dinamiche politiche italiane, interessato per anni allo studio delle economie emergenti.
Eppure, due persone così diverse si sono trovate in prima fila sui media italiani nel dibattito sulla crisi, perché accomunate da due motivazioni profonde: il rispetto verso gli insegnamenti dei nostri maestri (Paolo Savona nel suo caso, Francesco Carlucci nel mio), fra i pochi economisti italiani ad aver osato esprimere tempestive posizioni di critica verso la follia dell’euro; e la preoccupazione verso i nostri figli, ai quali avremmo voluto, per usare le belle parole di Antonio, “riconsegnare il nostro paese come lo abbiamo ricevuto”. Ma da tecnici, entrambi, con grande amarezza, sappiamo già che questo non sarà possibile, quale che sia lo scenario che si venga a materializzare: il piano A, B o D, per usare l’efficace categorizzazione proposta da Antonio. I danni sono fatti, e trascendono ormai ampiamente la dimensione economica.
È ormai lo stesso processo di integrazione culturale, sociale e politica europea a conoscere una grave e forse irreversibile battuta di arresto, le cui cause erano ampiamente note agli economisti: già Nicholas Kaldor nel 1971, e poi Dominick Salvatore nel 1997, con tanti altri ricordati nel testo, avevano denunciato il fatto che far precedere all’unione politica l’unione monetaria avrebbe compromesso la prima, senza assicurare il successo della seconda. I motivi sono ormai chiari a tutti e ben riassunti da Antonio nel terzo capitolo di questo libro (L’Euro non è una moneta): la mancanza di un prestatore di ultima istanza credibile, cioè sorretto da un’unitaria volontà politica, per i governi dell’Eurozona, trasforma anche attività normalmente prive di rischio, come i titoli del debito pubblico, in attività soggette al rischio paese, alimentando lo spread, quel fenomeno perverso in virtù del quale in caso di crisi il denaro costa di più dove più sarebbe necessario per rilanciare l’economia.
È difficile trasmettere ai “laici” (cioè ai non economisti) l’assoluta e totale prevedibilità di questi esiti perversi, che la letteratura economica aveva non solo analizzato in termini teorici da tempo, ma anche descritto in termini empirici, avendoli riscontrati nelle tante crisi finanziarie che hanno flagellato i paesi emergenti negli ultimi trent’anni. Ma appunto, ricorda molto opportunamente Rinaldi nello stesso capitolo, il nodo sta qui: l’adesione all’euro ha di fatto comportato la conversione dei debiti pubblici dei paesi membri in una valuta estera. A titolo di esempio, per il Portogallo, oggi, indebitarsi in euro è come per l’Argentina negli anni ’90 indebitarsi in dollari: in entrambi i casi, il governo non ha il controllo della valuta nella quale è definito il suo debito, e per questo elementare fatto si trova in balìa dei mercati.
È proprio questo fatto ovvio, banale, che disvela la natura ideologica di una scelta politica e le ragioni economiche del suo fallimento. Il progetto “eurista”, unanimemente rivendicato o biasimato come tappa di un percorso “europeo”, in realtà è, dal punto di vista ideologico, l’espressione del più retrivo liberismo di stampo statunitense, della più ottusa e integralistica fiducia nell’onnipotenza dei mercati, quella che s’identifica nella scuola di Chicago e nel Washington Consensus. L’euro è quindi il segno tangibile della colonizzazione culturale del continente europeo da parte di precetti di origine americana, fieramente discussi ormai nel mondo intero, a partire dai pragmatici Stati Uniti, sempre disposti a rimettere in discussione un modello qualora non funzioni. Disponibilità assente a Bruxelles e all’Eurotower.
In effetti, con l’euro si è accettato di mettere i paesi in mano ai mercati sulla base del presupposto che i mercati, cioè il settore privato, fossero efficienti e infallibili, e che di converso il settore pubblico andasse comunque compresso perché inefficiente. L’euro era uno snodo essenziale di questo progetto mercatista per due ovvi motivi.
Il primo lo abbiamo già detto, ed era di natura essenzialmente politica: perché metteva gli Stati in mano ai mercati, con l’idea che la perdita di sovranità democratica che ciò comportava sarebbe stata compensata da guadagni di efficienza, visto che il mercato avrebbe effettuato un indiretto ma penetrante scrutinio dell’efficienza dell’azione pubblica. In Italia la pillola amara della perdita di sovranità è stata fatta ingoiare anche diffondendo sistematicamente, in un popolo già morbosamente propenso all’esterofilia e all’autodenigrazione, l’idea che gli italiani fossero comunque incapaci di governarsi da soli, e che i nostri governi corrotti, clientelari, incapaci, necessitassero delle briglie del vincolo esterno e delle regole europee. Un’idea alla base del rifiuto da parte di Guido Carli della clausola di opting-out, come ricorda Antonio nel primo capitolo. Uno sguardo alla realtà europea ci rivela però che corruzione, nepotismo, incapacità, sono un male più comune di quanto non si creda, il che, pur non essendo motivo di vanto, rende ingiustificata la percezione negativa che il popolo italiano ha di sé. Percezione, duole dirlo, alimentata sistematicamente dai messaggi di biasimo che la classe politica e i mezzi d’informazione non ci lesinano, dipingendoci sistematicamente come un popolo di lazzaroni corrotti, e mostrando già solo per questo motivo quanto distorta sia la loro concezione dell’interesse e della dignità nazionale. È un grande pregio del libro di Antonio il rivendicare con orgoglio la dignità dell’essere italiani, il difendere l’onorabilità di un popolo che ha saputo risollevarsi dopo tragedie immani e che anche nelle attuali condizioni mostra di avere una stupefacente riserva di energie e capacità di sacrificio.
Il secondo motivo è più sottile. Qual era il razionale economico dell’euro? Certo non la promozione del commercio! Gli stessi studi della commissione (ad esempio il celeberrimo One market, one money) avevano chiarito con dovizia di dettagli che l’impatto della moneta unica sul commercio sarebbe stato minimo: un dato confermato retrospettivamente da Volker Nitsch, e spiegabile con l’ovvio motivo che dopo decenni di cambio fluttuante i mercati valutari fornivano (e tuttora forniscono) efficientissimi strumenti di copertura contro le oscillazioni dei corsi a breve (quelle alle quali sono esposte le transazioni commerciali). L’euro serviva quindi a favorire la circolazione dei capitali, abolendo definitivamente il rischio di cambio su contratti a medio/lungo termine (come sono quelli di credito/debito).
Intendiamoci: questa evoluzione (la facilitazione dei movimenti di capitale) non sarebbe stata necessariamente negativa, ma lo diventava nel momento in cui si ignoravano due dati di fatto: i grandi divari di sviluppo fra i paesi dell’Eurozona, e l’assenza di controlli penetranti sui mercati.
Quando il Portogallo e la Grecia sono entrati nell’Eurozona, il reddito medio dei loro cittadini equivaleva a quello tedesco all’inizio degli anni ’80. I paesi periferici erano di vent’anni indietro rispetto all’economia leader, ed era chiaro che per creare un’area effettivamente integrata avrebbero dovuto correre di più. Un processo, quello di “recupero” (catch-up), fisiologico e previsto dalla teoria economica, che l’afflusso di capitali avrebbe dovuto facilitare. Il punto è che, così come quando si corre è normale sudare, quando si cresce di più è normale che vi sia un po’ più di inflazione. Se non si permette al tasso di cambio di compensare, cedendo fisiologicamente, questo fenomeno, il paese ingaggiato in un processo di recupero perde competitività. Succede così che i capitali che all’inizio affluiscono per finanziare lo sviluppo, alla fine affluiscano per finanziare i consumi, visto che i prodotti locali, per via della maggiore inflazione, sono diventati meno convenienti. Un fenomeno che era stato evidenziato fin dal 1957 dal premio Nobel James Meade.
A questo punto la mobilità dei capitali diventa una droga. Le economie periferiche continuano a recuperare terreno, e il tenore di vita dei cittadini ad aumentare, solo nella misura in cui il centro li finanzi. Chi eroga il prestito sa che sta finanziando consumi anziché sviluppo, ma in assenza di controlli sta bene così a tutti, nella speranza che il cerino acceso rimanga in mano a un altro.
Ma non può durare per sempre. Quando i crediti diventano inesigibili, e scoppia la crisi finanziaria, il meccanismo dello spread mette rapidamente in ginocchio le economie dei paesi più deboli, distruggendo la redditività delle imprese e rendendole facile preda di investitori esteri desiderosi di acquisire marchi e know-how di prestigio, ambiti sui mercati emergenti, come quelli espressi da molte piccole e medie imprese italiane. Paradossalmente, il disporre di una valuta troppo forte espone il paese alla svendita dei propri gioielli di famiglia. Una svendita che Antonio denuncia con forza, individuandone correttamente l’origine nel fallimento di mercati finanziari privati che mai hanno rinunciato a elargire cospicui benefit ai manager che prestavano largamente, senza discernimento. Le stesse istituzioni private e gli stessi manager che ora vengono salvati dalle tasche del contribuente, o convertendo i loro debiti privati in debito pubblico.
La svendita quindi altro non è che il portato di una mobilità dei capitali incontrollata, o meglio controllata a senso unico, perché, come ricorda Antonio in questo e nel suo precedente testo (Il fallimento dell’euro?), nell’Europa dei figli e dei figliastri i tentativi del capitale italiano di acquisire aziende estere sono stati sempre prontamente ostacolati da una rete di protezione degli altrui interessi nazionali.
È ormai diffusa, e sarà presto patrimonio condiviso, la percezione che questa svendita delle nostre aziende costituisca un grave pericolo per la nostra sopravvivenza, semplicemente perché, se e quando l’economia italiana dovesse ripartire, buona parte dei redditi prodotti in Italia verrebbero rimpatriati all’estero (come profitti di aziende di proprietà estera) e quindi goduti non dai cittadini italiani, ma da quelli dei paesi ai quali il sistema euro, come Antonio efficacemente esprime, ha facilitato lo shopping delle nostre imprese. Ma questo, in Italia, ancora non si sente dire, se non da studiosi indipendenti (ad esempio, Dominick Salvatore alla lezione Felice Ippolito, 24 giugno 2013, Biblioteca della Camera dei Deputati).
Questa analisi tecnicamente ineccepibile contrasta, ovviamente, con l’elogio acritico degli afflussi di capitali esteri fatto dai nostri governanti e dai rappresentanti delle organizzazioni di categoria come Confindustria. Soggetti che spesso sono contigui, quando non espressione diretta, di quelle centrali finanziarie internazionali che dallo shopping hanno tutto da guadagnare (come consulenti, come gestori), e che quindi sono in ovvio conflitto di interessi.
L’euro cadrà. Le affermazioni di Mario Draghi, secondo cui chi prende in considerazione questa ipotesi sottostima il capitale politico impegnato nel progetto europeo, sono futili. Un capitale politico ben più rilevante era stato investito nell’Impero sovietico. Ma quando le leggi dell’economia ne hanno decretato la fine, gli sforzi per prolungarne la sopravvivenza si sono tradotti solo in un aggravio di inutili sofferenze per popolazioni incolpevoli. Questo è lo stadio al quale siamo giunti. Ringraziamo Antonio per questo testo che ci mette di fronte alla realtà, e ci consente di gestirla delineando gli scenari possibili. Certo, la materia è problematica, è e sarà oggetto di discussione. Ma nessuno potrà togliere ad Antonio, indipendentemente dal merito specifico delle sue proposte, il merito ben più importante di aver contribuito ad aprire un dibattito concreto, la cui assenza ha rappresentato una grave lesione della democrazia nel nostro paese.
È atteggiamento adulto riconoscere gli errori, e l’euro è stato un errore. Il perseverare, unica risposta che i nostri governanti e la cosiddetta “Europa” ci forniscono, è atteggiamento puerile e suicida. Possa il buon senso prevalere prima che la scure della storia si abbatta su una costruzione resa antistorica, prima che antieconomica, dalla sua matrice ideologica iniqua e sconfessata dai fatti, e prima che il nostro paese, depauperato dall’azione poco lungimirante dei suoi governanti, perda le energie necessarie per reagire con vitalità alle sfide che i mutati scenari gli porranno.

mercoledì 3 luglio 2013

fuori dall’euro non è affatto detto che vi sia un inferno peggiore di quello che già ci circonda

mercoledì 3 luglio 2013

Uscire dall’euro? C’è modo e modo

Il tentativo di salvare la moneta unica a colpi di deflazione salariale nei paesi periferici dell’Unione potrebbe esser destinato al fallimento. L’eventualità di una deflagrazione dell’eurozona è dunque tutt’altro che scongiurata. Il problema è che le modalità di sganciamento dalla moneta unica sono molteplici e ognuna ricadrebbe in modi diversi sui diversi gruppi sociali. Esistono cioè modi “di destra” e modi “di sinistra” di gestire un’eventuale uscita dall’euro. Ma esiste una sinistra in grado di governare il processo?
di Emiliano Brancaccio
La crisi dell’Unione monetaria europea è stata interpretata in vari modi. Una chiave di lettura particolarmente feconda analizza il travaglio dell’eurozona alla luce di un conflitto irrisolto tra i capitali delle nazioni che ne fanno parte: in particolare, tra i capitali solvibili situati nei paesi “centrali” e i capitali potenzialmente insolventi situati nei paesi “periferici” dell’Unione. Tra i numerosi indicatori di questo scontro va segnalata l’accentuazione delle divergenze tra i tassi d’insolvenza. Stando ai dati di Credit Reform, nel 2011 in Germania le insolvenze delle imprese sono diminuite del 5,8% e in Olanda si sono ridotte del 2,9%. Al contrario, in Italia, Portogallo, Spagna e Grecia registriamo una crescita continua delle aziende dichiarate insolventi, con aumenti rispettivamente del 17, 18, 19 e 27%. Queste divaricazioni, senza precedenti, trovano ulteriori conferme nel 2012. Al divario tra i dati sulle insolvenze segue poi, logicamente, un’accelerazione dei processi di acquisizione dei capitali deboli ad opera dei più forti. [...]
[...] Chi parlava in tempi non sospetti di un rischio di “mezzogiornificazione” europea aveva visto giusto: nel senso che il dualismo economico che si riteneva essere un mero caso speciale, caratteristico dei soli rapporti tra Nord e Sud Italia, sembra oggi essersi elevato al rango di caso generale, rappresentativo delle relazioni tra i paesi centrali e i paesi periferici dell’intera Europa. Stando dunque alle dinamiche in corso, in un arco di tempo non particolarmente esteso i paesi periferici dell’Unione potrebbero essere ridotti al rango di fornitori di manodopera a buon mercato o, al più, di meri azionisti di minoranza di capitali la cui testa pensante tenderà sempre più spesso a situarsi al centro del continente.
Naturalmente, sarebbe un’ingenuità teleologica considerare scontato un simile esito. Esso, infatti, incontra forti resistenze da parte delle rappresentanze politiche dei capitali periferici. Gli sviluppi dello scontro che ne consegue, tutto interno agli assetti capitalistici europei, allo stato dei fatti restano incerti. Coloro i quali tuttora sperano in una ricomposizione degli interessi con i capitali centrali dell’Unione, invocano di continuo una riforma degli assetti istituzionali europei, che riequilibri i rapporti tra i paesi membri o consenta almeno di mitigare i tremendi effetti della mezzogiornificazione delle periferie. Fino a questo momento, tuttavia, si è trattato di vani auspici.
Alcuni avevano sperato che la crisi europea potesse costituire un’occasione per aprire un confronto politico sugli squilibri strutturali generati dall’attuale regime di accumulazione trainato dalla finanza privata, e sulla esigenza di sostituirlo con una moderna visione di “piano”, che conferisse ai poteri pubblici il ruolo di creatori di prima istanza di nuova occupazione. Fino a questo momento, tuttavia, questi temi non hanno quasi per nulla attecchito nel dibattito europeo nemmeno a sinistra, figurarsi tra le istituzioni. A un livello più modesto, anche la speranza dei partiti progressisti di rinsaldare l’unità europea tramite l’adozione di “standard” salariali e del lavoro, è immediatamente naufragata di fronte all’opportunismo della socialdemocrazia tedesca, ostile a qualsiasi ipotesi di coordinamento europeo della contrattazione. Ed ancora, persino l’auspicio minimale dei governi periferici, di mitigare la crisi finanziaria attraverso un’unione bancaria e una connessa assicurazione europea dei depositi, sembra venir meno di fronte alla opposizione dei tedeschi, intenzionati a favorire anche in campo bancario processi di centralizzazione dei capitali di tipo darwiniano.

La deflazione salariale si sta rivelando inefficace
Stando così le cose, il tentativo di ricomporre il conflitto tra capitali europei resta affidato a una sola ricetta, ben delineata in questi mesi dalla Banca centrale europea: la crisi dei capitali situati nei paesi periferici, e la conseguente mezzogiornificazione delle periferie europee, potrebbero essere attenuate solo da un abbattimento dei costi del lavoro per unità di prodotto. Se cioè riducessero il costo unitario del lavoro, i paesi periferici potrebbero recuperare competitività e sarebbero quindi in grado di ridurre il loro disavanzo verso l’estero senza ricorrere alle politiche di austerità o, quanto meno, ricorrendovi in misura meno accentuata di quanto non facciano oggi. Tale proposta incontra oggi molti sostenitori presso le istituzioni europee: Lorenzo Bini Smaghi, ex membro del consiglio direttivo della Bce, è uno dei suoi più espliciti sostenitori. Senza dubbio, essa ha almeno il merito di chiarire che i problemi dell’eurozona riguardano soprattutto i conti esteri dei paesi membri, non i conti pubblici.
Ma qual è l’ordine di grandezza del mutamento che tale ricetta implicherebbe? Olivier Blanchard, capo economista del Fmi, tempo fa cercò di stimare l’abbattimento del costo del lavoro che sarebbe necessario per rimettere in riequilibrio i conti esteri dei paesi periferici: a parità di altre condizioni, i salari nominali dovrebbero subire un crollo dal 20 al 30%. Per giunta secco, una tantum: in sostanza, l’operaio portoghese che oggi è pagato 1000 euro, da domani dovrebbe prendere 700 euro. In verità, quando la formulò per la prima volta, nel 2006, Blanchard definì «esotica» questa opzione, ritenendola politicamente inverosimile. La crisi tuttavia ha reso praticabili anche le soluzioni più ardite e violente.
Ma, siamo certi che l’idea di ristabilire l’unita di classe dei capitali europei scaricando l’onere del riequilibrio sui salari avrà successo? Siamo certi cioè che la riduzione del costo del lavoro nelle periferie consentirà di ricomporre lo scontro capitalistico in atto e permetterà quindi di salvare l’attuale assetto istituzionale dell’Unione? Per tentare di rispondere prendiamo il caso della Grecia, che presenta varie peculiarità ma che ha più volte anticipato gli andamenti di tutte le periferie dell’eurozona. Ebbene, in Grecia tra il 2008 e il 2012 si registra un calo medio dei salari monetari di tre punti percentuali, un crollo dei salari reali di diciotto punti e una caduta della quota salari di oltre quattro punti. E’ interessante anche notare che il salario minimo fissato dalla legge è precipitato dal 2011 a oggi del 44%, da 877 a 490 euro. Sono cadute colossali. Eppure, nonostante tali precipitazioni, e nonostante una politica di depressione dei redditi senza precedenti storici, la Grecia ha chiuso comunque il 2012 con un disavanzo verso l’estero di 3 punti percentuali in rapporto al Pil. Il paese cioè continua a importare più di quanto esporti.
La precipitazione della crisi greca insegna che il feroce tentativo di salvare l’Unione a colpi di deflazione salariale potrebbe anch’esso esser destinato al fallimento. Se così fosse, la scelta di uscire dall’euro e svalutare diventerebbe l’ultima carta per tentare di rimettere in equilibrio le bilance verso l’estero dei paesi periferici.

Su una “exit strategy” dall’euro la sinistra è in ritardo
In uno scenario simile, è curioso che le sinistre insistano ancora oggi con la riduttiva litania secondo cui «fuori dall’euro sarebbe l’inferno». Come si fa cioè a non capire che il pigro affidarsi a simili espressioni apodittiche vanifica qualsiasi sforzo di comprensione delle reali dinamiche in corso e accentua l’emarginazione politica di tutti gli eredi, più o meno degni e diretti, della tradizione novecentesca del movimento operaio? Beninteso, una spiegazione raffinata della irriducibile fedeltà della sinistra alla moneta unica potrebbe risiedere nella tendenza storica delle rappresentanze del lavoro a cercare il proprio antagonista dialettico nel grande capitale, laddove invece con i piccoli capitali si fatica anche solo ad avviare una lotta per il riconoscimento.
Se i termini del discorso fossero questi, si potrebbe anche approfondire la questione. La verità del nostro tempo, tuttavia, si situa a un livello decisamente più basso: l’adesione a oltranza della sinistra all’euro costituisce oggi un mero riflesso narcisistico, una eco del tempo andato, quando la globalizzazione avanzava senza apparenti ostacoli e ci si illudeva di potere raccogliere residualmente qualche suo frutto, o anche solo qualche briciola. Con lo sguardo ancora rivolto a quella fase superata, la sinistra appare oggi più che mai fuori dal tempo storico. Anche per questo, il suo posizionamento conta allo stato attuale poco o punto negli sviluppi della crisi dell’Unione. L’eventuale deflagrazione della moneta unica e al limite la messa in discussione dello stesso mercato unico europeo dipenderanno dagli esiti di una partita tutta interna agli assetti proprietari del capitale europeo, rispetto alla quale il lavoro e le sue residue rappresentanze appaiono subalterne come non mai. Il problema è che, al di là della grancassa mediatica favorevole all’euro, nonostante gli impegni assunti dalla Bce nella erogazione di liquidità, e considerata l’evanescenza delle decisioni finora assunte in sede europea per l’avvio di programmi di investimento pubblico nelle aree più in difficoltà, quella partita continua a svilupparsi lungo un sentiero che a lungo andare rende insostenibile l’Unione monetaria.
In questo scenario, possibile che le sinistre rifiutino anche solo di avviare una riflessione sulle decisioni da assumere in caso di precipitazione dell’Unione? Possibile che tuttora manchi una indicazione di massima su una exit strategy dall’euro che permetta di tutelare gli interessi del lavoro subordinato? La questione, si badi bene, è cruciale. Le modalità di abbandono di un regime di cambi fissi come l’eurozona sono infatti molteplici, e ognuna può ricadere in modi diversi sui diversi gruppi sociali. In altre parole: esistono modi “di destra” e modi “di sinistra” di gestire una eventuale uscita dall’euro. E la sinistra è in netto ritardo.
Da tempo chi scrive ha cercato di insistere su questo punto, in verità con scarso successo. Il dibattito italiano di politica economica sembra infatti ormai riducibile a una mera disputa tra fautori del cambio irrevocabile e sostenitori della libera fluttuazione delle monete, come se l’ordine del discorso politico potesse essere in ultima istanza ricondotto a una scelta del regime valutario. Eppure basterebbe dare un occhio alla letteratura degli anni Settanta del secolo scorso per capire che, almeno dal punto di vista dei rapporti sociali di produzione, la questione è molto più complessa.
Tra i fondamentali aspetti che dovrebbero essere esaminati vi sono ad esempio i cosiddetti «fire sales», come li definisce Paul Krugman; vale a dire, la possibilità che lo sganciamento dall’euro, e la conseguente svalutazione della moneta, possano determinare una caduta del valore dei capitali nazionali di tale portata da mettere le autorità di governo di fronte alla scelta tra favorire eventuali acquisizioni estere a buon mercato oppure contrastarle. Per le sue implicazioni sui rapporti di produzione, la prima soluzione può esser definita “di destra”. La seconda soluzione potrebbe invece essere annoverabile tra le strategie “di sinistra”. Quest’ultima opzione, tuttavia, richiederebbe una messa in discussione, almeno parziale, non solo della moneta unica ma anche del mercato unico europeo, con buona pace dei “liberoscambisti di sinistra”. Le cose, come si può notare, si complicano.

Uscita dall’euro “di destra” o “di sinistra”: gli effetti sui salari
La questione dei fire sales è cruciale, ma le sue implicazioni non sono di immediata lettura. Per cercare di afferrare in termini più immediati le differenze tra una opzione di uscita dall’euro “da destra” e una opzione di uscita “da sinistra”, in questa sede può essere allora opportuno soffermare l’attenzione su due sole variabili: il salario reale e la quota salari. A questo proposito, vari studi hanno segnalato che l’abbandono di un cambio fisso e la conseguente svalutazione risultano spesso correlati a una riduzione del salario reale, ossia a una perdita di potere d’acquisto delle retribuzioni. Tra le ricerche più influenti, è il caso di menzionare uno studio di Eichengreen e Sachs sugli effetti delle svalutazioni che si realizzarono nel corso degli anni Trenta, e un contributo di Lucas e Fallon sugli esiti delle crisi valutarie che si verificarono negli anni Novanta.
I risultati di ricerche più recenti suggeriscono tuttavia una lettura maggiormente articolata dei dati disponibili. Consideriamo nove casi di sganciamento da un cambio fisso avvenuti nell’ultimo ventennio: Finlandia, Gran Bretagna, Italia e Svezia nel 1992, Repubblica Ceca e Sud Corea nel 1997, Argentina e Turchia nel 2001. Rileviamo che in due dei nove casi alla svalutazione fa seguito un salario reale stazionario nell’anno successivo, mentre negli altri sette casi si registra una sua riduzione. L’entità del calo può essere modesta, come è accaduto in Italia (meno di un punto percentuale), oppure può essere enorme, come è il caso del Messico (meno tredici punti) e dell’Argentina (meno trenta punti). Negli anni successivi gli andamenti sono piuttosto diversificati: in alcuni casi il declino perdura, in altri la ripresa è immediata. In tutti i casi tranne uno, tuttavia, dopo cinque anni dalla svalutazione i salari reali tornano ai livelli precedenti ad essa, e talvolta li superano.
Riguardo invece alla quota salari – vale a dire la quota di reddito nazionale spettante ai lavoratori – l’andamento è più univoco e meno rassicurante. In tutti i casi considerati, un anno dopo la svalutazione la quota salari si riduce. E in tutti i casi, tranne uno, dopo cinque anni la caduta della quota salari si fa ancora più consistente: in Svezia il calo è di due punti percentuali, in Gran Bretagna di cinque punti, in Finlandia di nove punti, addirittura in Turchia di dodici punti. Il nesso con lo sganciamento dal cambio fisso è in molti casi evidente: in Italia, per esempio, nei cinque anni precedenti alla svalutazione la quota salari rimane pressoché stazionaria, mentre nei cinque anni successivi cade di ben cinque punti percentuali.
I risultati ottenuti trovano conferme ulteriori ampliando l’insieme di paesi oggetto dell’analisi. In tutti i casi emerge un ventaglio di andamenti, dipendenti da una molteplicità di fattori e non tutti facilmente decifrabili. Tali esiti aiutano tuttavia a chiarire un punto essenziale: l’effetto di un’eventuale deflagrazione della moneta unica europea sui rapporti tra le classi sociali non è univocamente determinabile. Così come è da ritenersi risibile l’idea, molto diffusa a sinistra, secondo cui l’abbandono dell’euro comporterebbe inesorabilmente una svalutazione di tale portata da generare un crollo verticale dei salari reali, così pure risulta infondata la tesi di chi esclude l’eventualità di un impatto negativo sui salari e sulla distribuzione del reddito. Un elemento certo tuttavia sussiste: l’uscita da un regime di cambio fisso può avere un impatto negativo o meno sul potere d’acquisto dei lavoratori e sulla distribuzione del reddito nazionale a seconda che esistano meccanismi istituzionali – scala mobile, contratti nazionali, prezzi amministrati, ecc. – in grado di agganciare i salari alla dinamica dei prezzi e della produttività. Escludere tali meccanismi implica, in buona sostanza, un’uscita dall’euro “da destra”. Contemplarli significa predisporre un’uscita “da sinistra”.
La questione salariale e distributiva è solo un tassello degli enormi problemi che derivano dall’insostenibilità dell’attuale assetto dell’Unione europea. Cercare di affrontarla in modo fattuale ci aiuta tuttavia a uscire da una lettura estremista e manichea della fase. I dati ci dicono che fuori dall’euro non è affatto detto che vi sia un inferno peggiore di quello che già ci circonda, ma non è nemmeno scontato che si possa anche solo intravedere il sole di un nuovo avvenire. Sia come sia, il processo storico è in rapido movimento: nell’uno come nell’altro caso, il peggio che le residue rappresentanze del lavoro possono fare è restare passivamente a guardare.

Riferimenti bibliografici
Brancaccio, E. (2012). “Current account imbalances, the Eurozone crisis and a proposal for a European wage standard”. International Journal of Political Economy, vol. 41, Number 1.
Brancaccio, E. (2013). Dibattito con Lorenzo Bini Smaghi. Facoltà di Economia “G. Fuà”, Ancona, 15 maggio.http://www.emilianobrancaccio.it/2013/05/15/dibattito-con-bini-smaghi/
Brancaccio, E., Passarella, M. (2012). L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa. Il Saggiatore, Milano.
Eichengreen, B., Sachs, J. (1984). “Exchange rates and economic recovery in the 1930s”. NBER Working Paper Series, n. 1498.
Fallon, P., Lucas, R.E. (2002). “The impact of financial crises on labor markets, household incomes and poverty: a review of evidence”. The World Bank Research Observer, vol. 17, n. 1.

Estratto di un articolo pubblicato su Alternative per il socialismo, n. 27, luglio-agosto 2013. La riproduzione è consentita specificando il carattere di estratto e citando la fonte.

martedì 2 luglio 2013

la violenza esercitata dal potere sui corpi e sulle vite degli individui

Il liberalismo di Napolitano

Scritto da Diego Fusaro

01/07/2013
La frase della settimana è indubbiamente quella pronunciata da Giorgio Napolitano: “non possiamo non dirci liberali”. Non è qui importante ragionare su chi l’ha pronunciata, su qual è il suo passato e quale la sua funzione presente. Occorre, invece, concentrarsi sulla cosa stessa. E la cosa stessa è presto identificata: nell’epoca schiusasi con la data-sineddoche del 1989 e con il trionfo della libertà pensata secondo il parametro aziendale libero-scambista, il pensiero liberale si è imposto come pensiero unico dominante.
Per questo, non passa giorno senza che esso accampi la sua arrogante pretesa di essere il solo modo legittimo di pensare, di esistere e di organizzare lo spazio sociale ridotto a teatro dell’economia divenuta il solo valore direttivo di riferimento. Oggi, in tutte le sue forme, in quelle più estremistiche come in quelle più temperate, il pensiero liberale che si autoproclama il solo giusto, valido e degno di essere praticato (“non possiamo non dirci liberali”) è sempre la funzione ideologica del capitale finanziario. Sbagliano quanti pensano che oggi “liberalismo” significhi ciò che significava ai tempi di Benedetto Croce: nel presente, esso è la pura e semplice sovrastruttura del nomos dell’economia, dello spread e della dittatura del mercato.
L’odierna epoca inauguratasi con l’inglorioso crollo dei comunismi storici assume come propria dimensione simbolica di riferimento il pensiero liberale e, insieme, si proclama come il tempo della fine delle ideologie.
A uno sguardo attento ed ermeneuticamente non ingenuo, essa si rivela l’epoca che, a giusto titolo, può essere qualificata come la più ideologica dell’intera storia dell’umanità: è l’epoca in cui l’unica ideologia superstite – il pensiero neoliberale, che si autocelebra come non ideologico – può contrabbandarsi come un modo di pensare naturale e non storicamente determinato; di più, come quel modo di pensare e di esistere rispetto al quale tutti gli altri appaiono illegittimi, secondo l’esiziale asserto di Napolitano.
Il pensiero unico neoliberale – nuovo oppio del popolo – non cessa di celebrare, in stile panglossiano, le virtù di un mondo in cui la libertà e l’individualità sono ricavate per astrazione dalla compra-vendita liberoscambista, dall’illimitata circolazione delle merci sul piano liscio del mercato globale. E tutto questo mentre si consuma, nel silenzio generale, l’ennesima riscrittura ideologica della storia del Novecento, secondo l’ormai consueta dialettica di rimozioni e trasfigurazioni sempre orientate all’imposizione dell’oggi come destino irredimibile. Si tratta dell’oblio integrale, e tutto fuorché ideologicamente neutro, della ricca costellazione di pensatori marxisti (Karel Kosík, Ernst Bloch, György Lukács, per menzionare i più grandi) che contestarono fermamente il socialismo reale, nell’idea che occorresse riformarlo o trasformarlo in modo radicale, e, insieme, conservarono la passione durevole della critica anticapitalistica, rimanendo fedeli all’ideale del comunismo come ulteriorità nobilitante.
Deve, allora indurre a riflettere il fatto che, in parallelo con l’odierno oblio dei molteplici critici marxisti del socialismo, si assista all’ininterrotto encomio del coro dei virtuosi critici liberali del comunismo (da Bobbio ad Aron, da Kelsen a Berlin), che demonizzano il comunismo sia reale, sia ideale (contrabbandando il primo come necessario esito del secondo), e, insieme, accettano la civiltà dello spettacolo e dell’omologazione planetaria come intrascendibile, quando non direttamente come il migliore dei mondi possibili.
La logica ideologica dirotta senza tregua la critica del passato nel circuito della glorificazione del presente. Anche questa commedia degli equivoci si inscrive a pieno titolo in quelle che Merleau-Ponty chiamava “le avventure della dialettica”. Il sistema della manipolazione organizzata promuove l’esorcizzazione compulsiva di ogni pathos trasformativo presentando il gulag come sua ineludibile conseguenza e, per questa via, neutralizzando l’eventualità e il perseguimento di un futuro alternativo tramite l’impiego ideologico della memoria. Precisare che “non possiamo non dirci liberali” equivale a sostenere che non possiamo non essere altro rispetto a ciò che siamo: in una parola, che siamo condannati a riconciliarci con l’ordine del mondo trasfigurato in destino ingiusto ma irredimibile, osceno ma non rettificabile. È significativo, a questo proposito, il ben noto iter biografico di Napolitano.
Lo scrivente, non avendo mai giustificato i crimini stalinisti, non deve neppure pentirsene e rifluire nel main stream degli apologeti di Monsieur Le Capital: può, anzi, sostenere che non possiamo dirci liberali, per i motivi a cui si è, sia pure impressionisticamente, fatto cenno poc’anzi. Essere liberali significa, nell’odierno scenario, essere per i tagli ai salari e per l’innalzamento dell’età pensionabile, per la precarizzazione e la liberalizzazione di tutto, ossia per quel tragico movimento di distruzione del futuro delle generazioni più giovani e di quelle a venire che già Kant, nel suo splendido testo del 1784 sull’Illuminismo, aveva qualificato come un “crimine ai danni dell’umanità”.
Dietro l’ipocrisia dello “schermo uniforme e perfido di cortesia”, come lo chiamava Rousseau, la violenza esercitata dal potere sui corpi e sulle vite degli individui viene oggi ipocritamente presentata come conseguenza naturale e fisiologica di quella ristrutturazione internazionalizzata dei sistemi produttivi, commerciali e finanziari che viene pudicamente definita globalizzazione e che, nei suoi tratti essenziali, è autoritariamente governata dall’alto ad opera delle politiche neoliberali che si impongono come il solo modo consentito di pensare e di esistere.
Le prestazioni ideologiche del liberalismo appaiono oggi tanto più evidenti, se si considera che, di fronte agli orrori dei sistemi politici in cui esso senza posa trova espressione, il pensiero unico percorre immancabilmente la via dell’autoassoluzione ipocrita, ripetendo che tali orrori non rispecchiano la “vera” essenza del sistema che li ha prodotti.
Come se il liberalismo fosse sempre “altro” rispetto alle oscenità che vengono prodotte nel mondo in cui esso è dominante. Con uguale ipocrisia ideologica, si potrebbe allora sostenere che, come oggi non è il “vero” liberalismo a produrre Abu Ghraib e Guantanamo, la precarizzazione sempre più oscena e i differenziali di ricchezza sempre più indecenti, analogamente non era la “vera” Russia comunista quella che produsse l’orrore dei gulag o che non era la “vera” Germania nazista quella che diede vita alla realtà luciferina di Auschwitz.
Per tutte queste ragioni (a cui se ne potrebbero agevolmente affiancare non poche altre), il primo gesto della critica dell’ideologia dovrebbe consistere oggi nel liberare dal liberalismo, ossia nel destrutturare il dispositivo narrativo che lo presenta come un modo naturale di essere e di pensare.