Intervista a John Bellamy Foster
di C.J.Polychroniou
CJP:
Quella che è iniziata come una crisi finanziaria nel 2007 è diventata
una
delle maggiori crisi di disoccupazione del mondo capitalista
avanzato. Questo può forse voler dire che la crisi del 2007-08 non è
stata in realtà causata dalla finanza in sé, ma ha avuto piuttosto le
proprie cause sottostanti nell’economia reale?
JBF:
Non c’è alcun dubbio che sia stato lo scoppio della bolla finanziaria a
condurre alla crisi economica. Dunque, in questo senso, la causa
prossima della crisi è stata finanziaria. Ma le risposte più profonde
vanno ricercate nella cosiddetta “economia reale”, cioè nel regno della
produzione. Una grave crisi economica come la Grande Crisi Finanziaria è
invariabilmente il prodotto di fattori strutturali che sono andati
sommandosi nel corso di molti anni e ha sempre radici nella produzione. I
tassi di crescita dell’economia reale delle economie mature, di
capitalismo monopolistico della Triade – Stati Uniti/Canada, Europa e
Giappone – hanno cominciato a rallentare negli anni ’70 e sono scesi
fondamentalmente di decennio in decennio da allora. Il principale
fattore di bilanciamento di tale rallentamento dell’economia è stato la
finanziarizzazione, che si può definire come consistente in: (1)
crescita della dimensione della finanza (struttura del credito-debito)
rispetto alla produzione; (2) una quota accresciuta di profitti
finanziari in seno ai profitti complessivi delle imprese e (3) la
crescita dei ritorni finanziari come elemento sempre più dominante anche
nelle operazioni delle imprese non finanziarie.
Questo
processo di finanziarizzazione ha avuto inizio alla fine degli anni
’60 e si è ampliato in misura massiccia negli anni ’80.
Di fronte alla saturazione del mercato e al declinare delle opportunità
d’investimento le imprese e gli investitori individuali si sono
trovati di fronte a problemi di assorbimento del surplus. La loro
reazione è consistita nel collocare una quota sempre maggiore del
surplus economico a loro disposizione nel settore finanziario, in cerca
di opportunità speculative associate all’apprezzamento dei patrimoni.
Le istituzioni finanziarie hanno accolto questo enorme afflusso di
capitale inventando strumenti finanziari sempre più esotici. L’intero
processo di finanziarizzazione ha fatto crescere l’economia più di
quanto sarebbe cresciuta altrimenti, dando una base alla crescita
economica.
Ma
dato che il processo di finanziarizzazione era esso stesso una
reazione a un’economia sempre più stagnante, che non poteva curare,
quelle che sono emerse da questo processo sono state bolle finanziarie
sempre più grosse e più frequenti sommate a una base economica debole.
Ciò ha portato a una stretta creditizia dietro l’altra, ciascuna più
grave della precedente, con la Federal Reserve e le altre banche
centrali intervenute in continuazione come prestatori di ultima istanza
in uno sforzo disperato di impedire che crollasse l’intero castello di
carte. Ogni volta è stato allontanato il crollo finanziario completo,
preparando il terreno per problemi più grossi nel futuro.
Contemporaneamente la finanziarizzazione era globalizzata, poiché tutti i
paesi erano costretti ad adottare la stessa architettura finanziaria.
Alla fine era destinata a determinarsi una situazione in cui gli
effetti di scala dello scoppio di una bolla finanziaria avrebbero
superato la capacità delle banche centrali di impedire gravi danni
all’economia. Ciò è successo con la Grande Crisi Finanziaria del
2007-08. Tuttavia è stato evitato un crollo finanziario completo
mediante il processo relativo del “troppo grande per fallire”, cioè al
salvataggio delle grandi istituzioni finanziarie, con i costi
trasferiti a carico del pubblico.
La
maggior parte delle discussioni sull’intera Grande Crisi Finanziaria,
anche a sinistra, ha teso a concentrarsi sugli aspetti e i sintomi
superficiali, ignorando le contraddizioni a lungo termine sia
nell’ambito della produzione sia in quello della finanza. Per contro
sono orgoglioso di dire che la Monthly Review, basandosi inizialmente sul lavoro di Harry Magdoff e di Paul Sweezy, ha seguito da vicino gli sviluppi di queste contraddizioni in articoli scritti in un periodo di quattro decenni e più.
Il
principale problema dell’economia capitalista, oggi, non è ovviamente
tanto la crisi finanziaria, quanto la stagnazione. Persino economisti
liberali come Paul Krugman oggi parlano di “stagnazione permanente”. Il
periodo attuale è caratterizzato da una crescita economica estremamente
lenta nelle economie mature, un fenomeno emerso in seguito alla Grande
Crisi Finanziaria. Il sistema preso in quella che nella Monthly Review abbiamo
chiamato la “trappola della stagnazione-finanziarizzazione”. Senza
altri boom guidati dalla finanza non c’è nulla attualmente che possa
smuovere il sistema dal suo centro morto, per così dire. Ma il processo
di finanziarizzazione è esso stesso ostacolato oggi dalla mancanza di
prestiti bancari e dunque incapace di offrire uno stimolo sufficiente a
stimolare l’economia.
Il
capitale si preoccupa perciò soprattutto di rimettere in moto il
processo di finanziarizzazione. Il compito prioritario consiste nel
garantire la stabilità e la crescita degli attivi finanziari, che
costituiscono entrambe la ricchezza della classe capitalista e che oggi
sono i mezzi principali di un’ulteriore generazione di ricchezza. In
pratica ciò significa rafforzare le condizioni dell’austerità
neoliberale mirata a dirottare i flussi economici pubblici e privati
sempre più nel settore finanziario. Lo stato capitalista è trasformato
in modo tale che la sua funzione di prestatore di ultima istanza sta
diventando il suo ruolo principale, con tutti gli altri fini politici
subordinati a esso. In una situazione simile le vecchie strategie
keynesiane di spesa in deficit e promozione dell’occupazione devono
essere sacrificate all’altare dell’élite del potere finanziario. Alla
fine ciò può riuscire a generare un altro boom e un’altra bolla generati
dalla finanza. Ma le conseguenze finali di questo distorto processo
speculativo di generazione di ricchezza, se ne sarà consentita la piena
riproposizione, saranno probabilmente più gravi nel futuro.
Interpreti la finanziarizzazione dell’economia come un risultato
deliberato o anche casuale ricercato dai decisori della politica o
semplicemente come parte della dinamica del processo in corso di
accumulazione del capitale?
C’è
stata una quantità enorme di discussioni, tra i liberali e nella
sinistra, su come lo stato e i decisori della politica hanno promosso la
finanziarizzazione, come se il ruolo dello stato in tutto questo fosse
primario. Un buon esempio di ciò è Capitalizing on the Crisis [Sfruttare
la crisi] di Greta Krippner, che affronta la finanziarizzazione
principalmente come un regime politico. Ciò si adatta bene all’idea
popolare e keynesiana che il problema sia stato la deregolamentazione
finanziaria e la soluzione stia nella disciplina della finanza.
Naturalmente non c’è dubbio che i governi della Triade siano stati
pesantemente coinvolti nel promuovere la deregolamentazione della
finanza e che abbiano tratto ogni vantaggio possibile dalle opportunità
politiche ed economiche introdotte dalla finanziarizzazione.
Ma ricondurre il
problema allo stato è mettere il carro davanti ai buoi. Come ha
sostenuto Sweezy alla fine degli anni ’90, il problema cruciale
dell’analisi economica oggi è capitale la “finanziarizzazione del processo di accumulazione del capitale”.
Posto di fronte a una bolla dopo l’altra, derivanti dal rapporto
stagnazione-finanziarizzazione, lo stato non ha avuto altra scelta, in
ciascuna fase del processo, che rivolgersi alla deregolamentazione
finanziaria al fine di evitare che la bolla scoppiasse, dando al regime
finanziario maggiore spazio in cui operare e rimuovendo gli ostacoli
alla sua espansione. Nessuno, dopotutto – né un direttore di banca
centrale, né un Segretario al Tesoro e certamente non un capo di stato –
vuole che una bolla gli scoppi davanti agli occhi. La
deregolamentazione finanziaria al fine di evitare lo scoppio delle bolle
e di dare ossigeno al processo di finanziarizzazione è stata
particolarmente evidente nell’amministrazione Clinton, in cui Alan
Greenspan, Larry Summers e Timothy Geithner hanno lavorato in pieno
accordo. Ma l’idea che questo intero processo sia in qualsiasi modo controllato dallo
stato nel suo sorgere o nel suo declinare è un’illusione. Si tratta di
un processo fondamentalmente incontrollabile, con i problemi veri che
stanno nello sviluppo irrazionale dell’economia capitalista.
Hyman Minsky ha contribuito forse più di ogni altro economista del
dopoguerra alla nostra comprensione delle crisi finanziarie, ma ha
anche proposto alcune politiche solide e realistiche per gestire la
piaga della disoccupazione e della povertà. In che cosa consistono le
tue differenze rispetto a Minsky e perché i radicali non dovrebbero
abbracciare tali proposte politiche che contribuiranno ad alleviare la
miseria e la sofferenza di milioni di disoccupati e di poveri?
Minsky
è stato certamente una grande figura post-keynesiana e la sua
reputazione è meritatamente cresciuta dopo la crisi più recente. La sua
intera opera è stata dedicata alla teorizzazione delle crisi
finanziarie. Il fondamento della sua analisi è consistito in
un’interpretazione alternativa di Keynes (nel suo libro del 1975 John Maynard Keynes)
in cui ha tentato di convertire le principali intuizioni di Keynes in
una teoria delle crisi finanziarie di breve termine. Nel procedere,
Minsky ha esplicitamente minimizzato il fatto che l’analisi di Keynes in
quest’area era legata alla sua preoccupazione per la stagnazione a
lungo termine o per il declino dell’efficienza marginale del capitale.
Minsky ha mostrato che il capitalismo aveva un “difetto” fatale che lo
costringeva a generare periodi di ‘catene di Sant’Antonio’ [‘schema Ponzi’
nell’originale – n.d.t.] di instabilità finanziaria, passando da una
posizione finanziariamente stabile a una di instabilità finanziaria in
conseguenza della sua logica intrinseca. Ciò nonostante la debolezza
principale dell’analisi di Minsky è consistita nel basarsi su una teoria
pura del ciclo finanziario, separata dalla comprensione delle tendenze
all’interno della produzione. In conseguenza non si trova nella sua
opera alcuna reale teoria della finanziarizzazione, intesa come un
fenomeno di tendenza piuttosto che ciclico. Il suo modello astratto
della crisi finanziaria è stato perciò privo di molti dei problemi
storici dell’accumulazione reale che erano stati al centro
dell’attenzione di Marx, Keynes e Kalecki. Pur ammirando molto il
modello di Minsky, Magdoff e Sweezy
lo hanno tuttavia criticato negli anni ’70 per non aver guardato alla
relazione dinamica tra produzione e finanza. Naturalmente il fatto che
Minsky non abbia ricondotto la crisi finanziaria alle cause di base
nella produzione e che non si sia occupato dello sviluppo a lungo
termine del capitalismo lo ha reso più accettabile al sistema
(nonostante la sua storia e i suoi presupposti di sinistra) quando si è
ricercata una spiegazione del crollo finanziario del 2007-08. Quella
che ha preso piede è stata l’idea che si era trattato di un “momento
Minsky”, suggerendone un carattere ciclico e temporaneo. Inoltre Minsky –
valutando piuttosto ingenuamente la sua analisi – aveva suggerito che
una gestione della finanza meglio diretta dallo stato avrebbe potuto
superare questi problemi.
E’
stato solo tardi nella sua vita, dopo il Crollo del Mercato Azionario
del 1987, che Minsky ha cominciato a riflettere criticamente sulla
finanziarizzazione, cioè sul problema a lungo termine. E’ stato in un
libro del 1989 sulla Capitalist Development and Crisis Theory[Teoria
dello sviluppo e della crisi capitalista], a cura di Mark Gottdiener e
Nicos Kominos (un libro al quale io ho contribuito con un capitolo).
La parte di Minsky era intitolata “Crisi finanziaria ed evoluzione del
capitalismo” e sollevava il problema del “capitalismo del mercato
monetario”. Robert McChesney e io abbiamo dedicato parte del Capitolo 2
del nostro libro The Endless Crisis[La
crisi infinita] a una valutazione della teoria di Minsky in rapporto
con questioni più vaste sollevate da Marx, Keynes, Kalecki e Sweezy.
La scuola del capitale monopolistico sembra in conflitto con tali
analisi radicali, affermando che la transnazionalizzazione del capitale
si è tradotta nella creazione di un’élite globale che attualmente
decide la politica virtualmente in tutto il mondo. In tale contesto
come risponderesti all’accusa implicita, se non esplicita, che la
scuola del capitale monopolistico si concentra su cambiamenti
microeconomici nella struttura del capitalismo avanzato ma trae
conclusioni macroeconomiche riguardo alla stagnazione?
E’
vero che per noi la tesi – oggi popolare nella sinistra – che ci sia
l’ascesa di una classe capitalista transnazionale appare troppo
semplice, non cogliendo appieno le contraddizioni. C’è una tendenza a
rimuovere il problema delle classi e a minimizzare la rivalità
interimperialista. La miglior critica che conosco di tali idee è stata
offerta da Samir Amin, nel 2011, nel suo ‘Transnational Capitalism of Collective Imperialism?’ [Capitalismo transnazionale o imperialismo collettivo?]. Amin, in particolare nel suo importante lavoro del 2010 The Laws of Worldwide Value[Le
leggi del valore mondiale], parla del “recente capitalismo degli
oligopoli generalizzati, finanziarizzati e globalizzati” e vede questa
fase come governata dalla Triade con gli Stati Uniti in una posizione
egemonica. Questa sembra a me una visione della nostra complessa realtà
storica più adeguata che non il basarsi sull’idea di una classe
capitalista transnazionale come una specie di deus ex machina.
Gli analisti dell’area del modello della classe transnazionale
capitalista guardano ai crescenti collegamenti tra le imprese con sede
in vari stati centrali. Ma in realtà tali collegamenti tra imprese non
sono affatto impressionanti nella Triade nel suo complesso. Il capitale
statunitense, ad esempio, continua a operare con notevole indipendenza,
così come lo stato USA. Il capitale giapponese è molto distinto.
E’
interessante notare che il concetto collegato di impresa
transnazionale è stato promosso dal teorico della gestione d’impresa
dell’establishment Peter Drucker, che ha sostenuto che tali società –
non più residenti in una nazione particolare ma che operano
transnazionalmente – hanno rimosso le imprese multinazionali, che erano
state definite inizialmente come imprese che operano in molti paesi ma
con sede in uno solo. Alla Monthly Review noi continuiamo a
pensare che siano le imprese multinazionali, piuttosto che quelle
transnazionali nel senso di Drucker, a restare dominanti.
La
tesi della transnazionalizzazione è stata prevalentemente popolare in
Europa in conseguenza dell’evoluzione della Comunità Europea. Ma la
crisi attuale ha aperto le contraddizioni all’interno della stessa
Europa. Nella crisi attuale si può sostenere che il rapporto imperiale
divenuto evidente tra, diciamo, Germania e Grecia abbia minato tutti i
presupposti semplicistici a proposito dell’integrazione delle classi,
delle imprese e degli stati capitalisti.
La
seconda parte della tua domanda mi sembra molto distante dalla prima.
La distinzione tra microeconomia e macroeconomia è stata introdotta
dalla crisi dell’economia marginale associata ala rivoluzione
keynesiana. Keynes introdusse quella che chiamiamo prospettiva
macroeconomica ma non affrontò il conflitto tra essa e la microeconomia
neoclassica. In altre parole non ampliò la sua “teoria generale
dell’occupazione” a una teoria dell’economia nella sua totalità. Lasciò
pressoché non affrontate le fondamenta della prospettiva neoclassica a
livello microeconomico. Ciò preparò il terreno per la successiva
resurrezione conservatrice nella forma delle dottrine Neo-classiche e
Neo-keynesiane di oggi.
Kalecki,
provenendo dalla tradizione marxiana (in cui fu influenzato in
particolare dall’opera di Rosa Luxembourg) e tuttavia anticipando tutti
gli elementi chiave della teoria generale dell’occupazione di Keynes,
sviluppò la sua analisi su una base più adeguata, in cui non c’era
divisione tra microeconomia e macroeconomia. Essa prese la forma della
sua teoria del capitale monopolistico, sotto quest’aspetto edificando
sulle fondamenta della precedente tradizione marxiana. Il nostro
approccio alla Monthly Review marxiano (o Marxiano-Kaleckiano),
concentrato sull’accumulazione e interpretando l’economia come un
tutto organico. Anche se per comodità si può far riferimento alla
macroeconomia, come opposta alla microeconomia, nell’ottica marxiana non
c’è una vera separazione.
Pare che stiamo assistendo a una svolta storica dei settori di crescita
del capitalismo dai paesi capitalisti avanzati alla parte meno
sviluppata del mondo. Che cosa causa questa svolta e quali sono le
implicazioni di questo sviluppo riguardo alle vecchie contraddizioni
tra Nord e Sud?
Ci
sono molte iperboli al riguardo La quota di occupazione industriale
del Sud Globale è salita dal 51% del 1980 al 73% del 2008, all’epoca
della Grande Crisi Finanziaria. Ma gran parte di questa produzione è
l’esternalizzazione delle imprese multinazionali con sede nel centro. I
tassi di crescita economica di un pugno di economie emergenti sono
stati molti più elevati di quelli delle economie mature della Triade.
Ma parlare un’ascesa del Sud Globale nel suo complesso è un grave
errore. Come abbiamo spiegato nel 2011 Fred Magdoff ed io in What Every Enviromentalist Needs to Know About Capitalism[Quello
che tutti gli ambientalisti devono sapere a proposito del
capitalismo], da 1970 al 1989 il PIL annuo pro capite dei paesi in via
di sviluppo (Cina esclusa) è stato in media solo il 6,1% di quello dei
paesi del G7 (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito,
Italia e Canada). Dal 1990 al 2006 (giusto appena prima della Grande
Crisi Finanziaria) è sceso al 5,6%. Nel frattempo il PIL pro capite
medio annuo dei 48 Paesi Meno Sviluppati (una classificazione dell’ONU)
è sceso dall’1,4% di quello dei paesi del G7 a solo lo 0,96% nel
1990-2006. La disuguaglianza sta crescendo rapidamente in nazioni di
tutta la periferia globale così come nel centro del sistema. Ogni sorta
di trasferimenti economici e di controlli sta contribuendo a perpetuare
il potere imperiale al centro del sistema. Inoltre, nel capitale
finanziario monopolistico di oggi fattori come le risorse, la
tecnologia, le informazioni e il potere militare sono monopolizzati e
controllati in misura considerevole al centro del sistema. La politica
economica (ne è testimone la diffusione dell’austerità neoliberale) è
pure essa dettata dal centro. Sia gli Stati Uniti sia la “NATO Globale”
stanno sempre più attuando interventi militari nella periferia.
L’imperialismo è una realtà in crescita, anche se si sta manifestando in
forme nuove.
Il
fatto che il dissenso di massa stia crescendo in Cina e sia
letteralmente esploso in Brasile e in Turchia nelle settimane recenti
suggerisce che le contraddizioni del sistema si stanno acuendo nelle
economie emergenti in modi non interamente colti dalla nozione
semplicistica di una svolta storica a favore del Sud globale. E’ vero
che ciò presenta nuove sfide al potere nel centro; ne sono testimoni la
rivolta dell’America Latina contro il neoliberalismo e le lotte per un
socialismo del ventunesimo secolo in paesi come il Venezuela e la
Bolivia. Inoltre il potere geopolitico degli Stati Uniti si sta
erodendo. Ma ciò cui stiamo assistendo non è un qualche movimento
unilineare quanto piuttosto un intensificarsi della lotta circa il
futuro dell’imperialismo e l’autodeterminazione delle nazioni.
In The Endless Crisis McChesney ed io abbiamo esplorato il processo dell’”arbitraggio del lavoro globale”,
attraverso il quale il capitale è spostato nei paesi industrializzati
[? - così nell’originale; ritengo, anche dato il contenuto del link,
trattarsi di paesi non industrializzati – n.d.t.] per trarre
vantaggio da bassi salari, o più precisamente da costi unitari del
lavoro più bassi. L’intero sistema globale è così indirizzato sempre più
a quello che nella teoria marxista è chiamato scambio disuguale.
Dietro la crescita economica delle economie più povere ed emergenti
c’è perciò un’intensificazione delle relazioni capitalistiche e di
forme estreme di supersfruttamento. Nel nostro libro abbiamo anche
guardato all’esercito globale di riserva,
in base a dati del FMI. Abbiamo scoperto che quella che potremmo
chiamare la “dimensione massima dell’esercito globale di riserva” nel
2011 era rappresentata da 2,5 miliardi di persone, in confronto con 1,4
miliardi nell’esercito del lavoro attivo. In altre parole le
contraddizioni emergenti nel sistema sono immense e il Sud globale si
trova a fronteggiare crescenti linee di faglia sociali, economiche ed
ecologiche, che attraversano il sistema nella sua totalità.
Il neoliberalismo è in ritirata o la sua egemonia resta intatta?
In The Endless Crisis McChesney
ed io sosteniamo che il regime neoliberale è “l’equivalente politico
del capitale finanziario monopolistico”, l’attuale fase del capitalismo.
“Lungi dall’essere una restaurazione del tradizionale liberalismo
economico”, scrivevamo, “il neoliberalismo è … un prodotto del grande
capitale, del grande governo e della grande finanza su una crescente
scala globale”. Riflette il dominio dell’élite del potere finanziario e
della finanziarizzazione come mezzi principali per contrastare la
stagnazione economica. E’ una forma di capitalismo più vorace, mirata a
un’accresciuta disuguaglianza e austerità. Ciò implica un tentativo di
utilizzare lo stato per deviare una quantità sempre maggiore dei flussi
della società, comprese le entrate statali, nei forzieri del capitale
e, specificamente, nel settore finanziario. L’accumulazione del
capitale nella forma tradizionale di investimento in nuova formazione
di capitale all’interno della produzione, anche se tuttora cruciale, è
sempre più secondaria. Le sale del consiglio delle imprese hanno perso
potere rispetto ai mercati finanziari, mentre lo stato sta diventando
più plutocratico nella forma, al servizio del capitale finanziario e
del capitale in generale.
Il neoliberalismo può essere considerato anche come il fallimento ultimo della democrazia liberale. Il liberalismo classico, o “individualismo possessivo”, come lo ha chiamato C.B.Macpherson, era ferocemente antidemocratico (come si può costatare negli scritti di figure come Hobbes e Locke). La democrazia liberale è stata introdotto in seguito (ispirata da figure quali J.S.Mill)
come sistema ibrido in cui l’individualismo possessivo del liberalismo
classico era limitato, per consentire alcune iniziative democratiche,
particolarmente nel settore elettorale. Oggi la tendenza dominante è la
costruzione di uno stato neoliberale, plutocratico, mirato, più
sistematicamente che mai in precedenza, alle necessità del capitale,
cioè al ritorno al liberalismo classico e all’individualismo possessivo,
deprecando la “troppa democrazia”. Ciò si adatta bene al concetto hayekiano
di mercato che si autoregola come base della società e persino dello
stato. La democrazia, anche nella forma limitata in cui è esistita, è
vista come sempre più sacrificabile. Quella che sta scomparendo è ogni
relativa autonomia dello stato rispetto al capitale; la sovranità non è
più quella del popolo bensì quella del capitale. Lo stato è
ristrutturato come non tanto il comitato esecutivo della classe
capitalista, bensì come amministratore del patrimonio finanziario.
Guardando
le cose in quest’ottica, ciò di cui dovremmo parlare non è tanto
l’egemonia del neoliberalismo quanto l’egemonia del capitale finanziario
monopolistico con il suo orientamento strategico neoliberale. In
Grecia la disoccupazione è dell’ordine del 27%. E in tale contesto la
morsa dell’austerità è stretta in continuazione. Perché? La risposta è
che la Grecia è sottoposta a una specie di terapia neoliberale di shock
al fine di promuovere gli interessi specifici del capitale finanziario
monopolistico, cioè l’ordine capitalista finanziarizzato,
monopolistico e imperialistico, in cui, nell’ambito dell’Eurozona,
esiste una linea di divisione tra il centro imperiale e la periferia
(interna).
Non esiste
un’alternativa politica percorribile al neoliberalismo del capitalismo
odierno, precisamente perché il neoliberalismo è un riflesso della
necessità interna dello stesso capitale finanziario monopolistico.
L’austerità neoliberale è così un prodotto delle contraddizioni
dell’intera fase attuale del capitalismo. La sola risposta delle forze
di opposizione è spingersi oltre la logica del sistema al fine di creare
un nuovo “sistema metabolico sociale”, un sistema, come lo chiama Istvàn Mészaròs, di “uguaglianza sostanziale”, cioè il socialismo.
Anche se il marxismo resta per molti aspetti lo strumento più potente
per capire e analizzare gli sviluppi socioeconomici capitalisti, sul
fronte politico le cose sono in declino almeno dagli anni ’70: il
lavoro, nelle nazioni capitaliste avanzate, è disorganizzato, i partiti
socialisti o comunisti radicali sono piccoli ed emarginati, e, cosa
più importante, la classe lavoratrice, per la maggior parte, ha voltato
la schiena alla tradizione della politica rivoluzionaria. Consideri il
riemergere del marxismo come una forza politica potente nel futuro
prossimo?
L’intero sistema
del capitale finanziario monopolistico globale è preso in una profonda
crisi strutturale che sta generando nuovi processi storici e nuove
forme di lotta. In tale contesto il socialismo riemerge inevitabilmente
come la sola alternativa concepibile all’ordine distruttivo
capitalista. Non sorprende, perciò, che stiamo assistendo a una nuova
epoca di rivolte, in America Latina, in Medio Oriente, nell’Africa del
nord, nell’Europa meridionale, in parti dell’Asia meridionale, anche,
per certi versi, in Cina (il jolly più grosso di tutti). In America
Latina i paesi all’avanguardia di questa nuova era rivoluzionaria hanno
sollevato la bandiera di un “socialismo per il ventunesimo secolo”.
E c’è una chiara logica storia in questo. Non c’è assolutamente alcuna
possibilità che le diffuse rivolte popolari cui stiamo oggi assistendo
possano avere successo di fronte all’attuale crisi strutturale del
capitale se non prendendo una direzione decisamente socialista. Anche
negli Stati Uniti il movimento Occupy ha sollevato la questione dell’1%,
prendendo un’esplicita posizione radicale nell’attaccare la classe
capitalista. Nel contesto dell’attuale crisi strutturale ci sono forti
prove di un’emergente rinascita dell’analisi marxista.
Ho due
avvertimenti al riguardo. Primo: se il marxismo deve costituire oggi una
prospettiva rivoluzionaria vitale, quelle cui assisteremo saranno
forme rinnovate e più dinamiche di materialismo storico, riflettenti i
movimenti rivoluzionari emergenti principalmente nel Sud, ma sempre
più, in questa crisi strutturale, anche nel Nord. Il marxismo assumerà
così molte forme che necessariamente si fonderanno con i gerghi
rivoluzionari e le condizioni storiche delle società in cui la lotta di
classe/sociale sarà più intensa. Non si può definire meno che genio
ciò che ha indotto Chàvez a collegare la teoria marxiana al movimento
rivoluzionario bolivarista, con il suo linguaggio distintivo, dando nuova vita a entrambi. Mentre in Bolivia stiamo assistendo a una sintesi di idee socialiste e indigene.
Secondo:
il socialismo e il marxismo oggi saranno necessariamente trasformati
dall’emergenza ecologica planetaria, la maggiore sfida che la civiltà
abbia mai affrontato. Come ho sostenuto nel mio libro del 2000 Marx’s Ecology
[L’ecologia di Marx], la classica critica socialista di Marx offre la
dialettica più unificata del cambiamento e della lotta
sociale-ecologica. E’ costruita sulle fondamenta stesse della sua
critica del capitalismo. Dobbiamo prendere da ciò. Inoltre oggi ci
confrontiamo non tanto con la scelta “socialismo o barbarie” della
Luxembourg, quanto con una scelta ancor più grave tra “socialismo e sterminismo”,
per adattare un termine impiegato da E.P.Thompson. Proseguendo
nell’attuale “normalità” siamo oggi sulla via dell’estinzione della
maggior parte delle specie del pianeta, inclusa, con molta probabilità,
la nostra. Dobbiamo operare una forte svolta a sinistra. Il socialismo,
credo, è la sola salvezza dell’umanità, poiché è solo in un mondo di
uguaglianza sostanziale e di sostenibilità ecologica che c’è una vera
speranza per il futuro.
John Bellamy Foster è direttore della Monthly Reviewe professore di sociologia all’Università dell’Oregon. Il suo libro più recente, scritto con Robert McChesney, è The Endless Crisis: How Monopoly-Finance Capital Creates Stagnation and Upheaval from the USA to China[La crisi infinita: come il capitale finanziario monopolistico crea stagnazione e rivolte dagli USA alla Cina] (New York, Monthly Review Press, 2012).
C.J.
Polychroniou è associato di ricerca e membro per la politica del Levy
Economics Institute del Bard College e intervistatore e opinionista del
giornale greco a distribuzione nazionale Eleftherotypia della
Domenica. La presente è la versione completa, parti della quale saranno
pubblicate sul giornale greco.