L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 31 agosto 2013

La nostra ideologia contrapposta a quella del Pd


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Secondo alcune e alcuni..

di Elisabetta Teghil

Secondo alcuni/e la storia è finita. Questa è la migliore società possibile e l’ideologia e la lotta di classe avrebbero provocato solo disastri.

Pertanto l’unico orientamento nella vita, se mai ce ne fosse uno, sarebbe la democrazia rappresentativa e, per i laici, il pensiero scientifico di cui si tessono acriticamente le lodi.

Le radici della illibertà non sarebbero innestate nel sociale, nello sfruttamento, nella reificazione, come ci dice la lettura marxista della società, ma nel tentativo più o meno riuscito di uscire da questa società, magari di costruirne un’altra.

Quest’area racconta la crisi come crisi del marxismo e i più dogmatici sono come sempre gli spretati/e. Il loro cavallo di battaglia è la fine dell’ideologia, contribuendo così all’ideologia neoliberista. E, da neofiti di quest’ultima, sono i primi/e nel condannare il pensiero e l’esistenza dell’Altro.

Pretendono di annullare la possibilità di soggetti che non intendono piegarsi rassegnati al dominio della merce. Sono i teorici del disincanto. Più realisti del re nascondono la falsa coscienza dietro l’accettazione dell’ideologia dominante che si traduce nel rifiuto opportunistico di ogni responsabilità dietro l’alibi che non si può fare niente e che quello che si è fatto ha prodotto solo macerie. Sono i cantori dell’esistente e delle sue ragioni: se pure storia c’è stata ormai anch’essa non c’è più.

Una dimensione che tracima nel puro e semplice rifiuto della lotta di classe che si traduce nella non volontà di distinguere fra il giusto e l’iniquo e, pertanto, nel rifiuto di collocarsi.

L’indifferenza diventa cinismo quando raccontano le lotte e quelle passate diventano gli “anni più bui della nostra vita” e partoriscono la chiusura familista, quella eurocentrica e l’affermazione ottimistica che in fondo qui e magari solo qui possiamo realizzarci.

Pertanto questa vita è una dimensione che prende il luogo della ricerca della lotta e della libertà. La pretesa di essere non più coinvolti/e, di essere “obiettivi/e”, di non essere più partigiani/e si realizza nell’installarsi al di qua della lotta di classe e della “vetusta e sorpassata” ideologia. Una volta scoperta la nullità delle verità e delle certezze rimane soltanto l’individuo dentro l’omologazione e la ricerca individuale, tra cui non c’è contraddizione sono due poli della stessa dialettica, della realizzazione che coincide spesso con le carriere professionali e trova il suo apogeo in quelle accademiche e nel farsi percepire come intellettuale.

Sicché si spazzano via quelli che una volta erano chiamati teorici reazionari e di destra sostituendoli con una lettura che è identica alla loro, ma con un lessico che si autodefinisce di sinistra e si presenta come “moderno”. Chi si sottrae a tutto questo deve essere tenuto/a a bada e va rinchiuso/a nel recinto della politica intesa come sporca e “vetero”.

Chi non si rassegna, non tollera questo stato di cose e denuncia le oppressioni, viene ghettizzato/a e viene escluso/a dalla vita politica quando non dalla vita tout court.

E, come sempre, gli spretati/e si fanno, di questo, portabandiera.

In questo modo, si racconta la fine di ogni possibilità di liberazione o di invenzione, il refrain vincente è quello “a che serve, a che vale?”, al massimo ci si offre come consiglieri della corona per migliorare l’esistente con la sotterranea speranza, non dissimulata più di tanto, di essere cooptati/e.

La loro vita si trasforma nella partecipazione ad una lotteria nella speranza di pescare il numero giusto. Miopia, perché nella stagione dell’iper-borghesia, lì si entra per nascita e matrimonio. Ma sono anche presuntuosi, si atteggiano, fanno la coda di pavone, non sanno che un funzionario dei Servizi conta più di tutti loro messi insieme.

Partendo dal presupposto che è insormontabile l’orizzonte di questa società, sono di fronte a due possibilità, dire di sì o proporre qualche piccola correzione.

Questo passa attraverso l’abbandono di ogni impegno nella progettualità di rivoluzionare questa società e di uscirne. L’abbandono senza rimorsi degli oppressi al loro destino e della speranza di un’altra società, è la rinuncia a tener conto non solo dell’ingiustizia, ma paradossale per chi si presenta come colto, a tener conto di contraddizioni e differenze. Tutto questo è visto come residuo dell’antico e, pertanto, si traduce in una cosciente o incosciente partecipazione alla repressione.

Da qui l’abbandono del territorio in cui si dislocava la lotta di classe che era quello del soggetto e del progetto. Secondo questi/e non ci sarebbe né più soggetto, né progetto possibile, neppure per l’ideologia e la lotta di classe c’è più spazio.

Ne deriva il vuoto e lo spaesamento e il non luogo in cui si è precipitati e la cooptazione nelle foto di famiglia di personaggi e di temi impresentabili.

Ma da qui anche per noi la necessità di segnare le distanze dall’accettazione rassegnata,anche malgrado loro che ci vogliono negare ogni virtuoso ottimismo.

Continuiamo ad impegnarci per infrangere la rappresentazione vincente di questa società e continuiamo a ricercare i punti di possibile rottura a partire dalla violenza, dall’ingiustizia in cui annegano le oppresse e gli oppressi.

Siamo legate all’esigenza di narrare e di progettare altro. Questo è il senso di muoverci senza smarrirci nella metropoli del capitale. Questo è il senso del nostro impegno che è anche il nostro tempo.

Questa dimensione ci consente di collegarci con pratiche politiche ancora presenti a cui con un’operazione, questa sì violenta, viene tolta ogni valenza politica.

La lotta al neoliberismo passa attraverso pratiche politiche critiche e creative, attraverso la denuncia del dominio e le forme date del potere e ancora, resistenza e solidarietà, produzione di soggettività e di progettualità.

In definitiva , al di là delle nebbie e delle schermature, i problemi nodali sono quelli della libertà e dell’oppressione dei/delle più, problemi che non vogliamo eludere. I riformisti/e, i socialdemocratici/che, comunque vogliamo chiamarli/e, coagulano la cultura del distanziare e del rinnegare.

Senza illusioni diciamo no e affidiamo la nostra vita insieme ad altre/i alla nostra capacità di inventare. Nulla è scontato, né dato una volta per tutte. E’ il forte desiderio di spingerci altrove, in altre direzioni, scelta che si configura, paradossalmente, come obbligatoria nella stagione neoliberista nella quale la legittimazione dei rapporti di dominio si disvela nella quotidianità, nei loro caratteri di violenza e di terrorismo.

Non c’è nessuna crisi, è lo stadio a cui è arrivato il capitalismo nel suo processo di autovalorizzazione, perciò non siamo rassegnate e produciamo la critica dell’esistente e delle regole in cui ci vogliono imbrigliare, comprese quelle del gioco politico.

Dal negare le identità già sempre presupposte e presentate come inevitabili noi riaffermiamo le nostre differenze, le nostre pratiche di vita, il nostro immaginario:narrare e pensare.

Qui e ora intravediamo un’altra politica possibile, un’altra società, siamo calate nel presente e lo vediamo con gli occhi del futuro.

Gli anni del nostro impegno sono stati anche quelli di tante sconfitte, ma di un desiderio felice, lungo il cammino abbiamo trovato anche le anticipazioni del nuovo.

E’ questo legame che non vogliamo recidere, vogliamo andare avanti nella strada del rifiuto del dominio, nella valorizzazione delle soggettività, nel desiderio e nelle pratiche per costruire un’altra società, contro la colonizzazione borghese patriarcale e autoritaria del quotidiano, contro il nuovo oscurantismo e la vecchia e mai abbandonata pretesa di dominio dell’essere umano sull’essere umano, riaffermiamo il nostro senso di libertà, di solidarietà e lotta.

Camminiamo in avanti e lo sguardo alle sconfitte del passato ci appartiene senza condanna, è il fiume carsico da cui prendiamo linfa.

lunedì 26 agosto 2013

Invadere la Siria vuol dire uccidere uomini donne bambini

Siria la demonizzazione preventiva

L’opera di demonizzazione preventiva è sempre la stessa. La si ritrova, ugualmente modulata, su tutti i quotidiani e in tutte le trasmissioni televisive, di destra come di sinistra. In quanto totalitario, il sistema della manipolazione organizzata e dell’industria culturale occupa integralmente la destra, il centro e la sinistra. Il messaggio dev’essere uno solo, indiscutibile. Armi chimiche, armi di distruzione di massa, violazione dei diritti umani: con queste accuse, la Siria è oggi presentata mediaticamente come l’inferno in terra; per questa via, si prepara ideologicamente l’opinione pubblica alla necessità del bombardamento, naturalmente in nome dei diritti umani e della democrazia (la solita foglia di fico per occultare la natura imperialistica delle aggressioni statunitensi).

Alla demonizzazione preventiva come preambolo del “bombardamento etico” siamo abituati fin dall’inizio di questa “quarta guerra mondiale” (cfr. C. Preve, La quarta guerra mondiale, All’insegna del Veltro, Parma 2008). Successiva ai due conflitti mondiali e alla “guerra fredda”, la presente guerra mondiale si è aperta nel 1989 ed è di ordine geopolitico e culturale: è condotta dalla “monarchia universale” – uso quest’espressione, che è di Kant, per etichettare la forza uscita vincitrice dalla guerra fredda – contro the rest of the world, contro tutti i popoli e le nazioni che non siano disposti a sottomettersi al suo dominio.
Iraq 1991, Jugoslavia 1999, Afghanistan 2001, Iraq 2004, Libia 2011: queste le principali fasi della nuova guerra mondiale come folle progetto di sottomissione dell’intero pianeta alla potenza militare, culturale ed economica della monarchia universale.
La Siria è il prossimo obiettivo. L’apparato dell’industria culturale si è già mobilitato, diffamando in ogni modo lo Stato siriano, in modo da porre in essere, a livello di opinione pubblica, le condizioni per il necessario bombardamento umanitario. Il presidente statunitense Obama non perde occasione per presentare la Siria come il luogo del terrorismo e delle armi di distruzione di massa, in modo che l’opinione pubblica occidentale sia pronta al bombardamento del nemico.
La provincia italiana – colonia della monarchia universale – ripete urbi et orbi il messaggio ideologico promosso dall’impero. È uno spettacolo vergognoso, la prova lampante (se ancora ve ne fosse bisogno) della subalternità culturale, oltre che geopolitica, dell’Italia e dell’Europa alla potenza mondiale che delegittima come terrorista la benemerita resistenza dei popoli e degli Stati che non si piegano al suo barbaro dominio.
Il primo passo da compiere, per legittimare l’invasione imperialistica camuffata da interventismo umanitario, resta la reductio ad Hitlerum di chi è a capo degli Stati da invadere, non a caso detti rogue States, “Stati canaglia” (in una totale delegittimazione a priori della loro stessa esistenza): da Saddam Hussein a Gheddafi, da Chavez ad Ahmadinejad, la carnevalata è sempre la stessa. Vengono ridotti a nuovo Hitler e a nuovo nazismo tutte le forze che non si pieghino al nomos dell’economia di cui è alfiere la monarchia universale.
Del resto, l’invenzione mediatica di sempre nuovi Hitler sanguinari si rivela immancabilmente funzionale all’attivazione del “modello Hiroshima”, ossia del bombardamento legittimato come male necessario. Dove c’è un Hitler, lì deve esserci anche una nuova Hiroshima. L’ideologia della pax romana costituisce una costante del corso storico. Ogni impero qualifica come pace la propria guerra e delegittima come terrorismo e barbarie quella dei resistenti. Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant: il vecchio adagio di Tacito non è mai stato tanto attuale.
La reductio ad Hitlerum si accompagna pressoché sempre all’impiego ideologico del concetto di umanità come titolo volto a giustificare – come già sapeva Carl Schmitt (cfr. Il concetto del politico) – l’ampliamento imperialistico. La guerra che si autoproclama umanitaria serve non solo a glorificare se stessa, ma anche a delegittimare il nemico, a cui è negata in principio la qualità stessa di uomo. Contro un nemico ridotto a Hitler e a essere non umano, il conflitto può allora essere spinto fino al massimo grado di disumanità, in una completa neutralizzazione di ogni dispositivo inibitorio di una violenza chiamata a esercitarsi in forma illimitata. Vale la pena di leggere il profetico passo di Schmitt: «Un imperialismo fondato su basi economiche cercherà naturalmente di creare una situazione mondiale nella quale esso possa impiegare apertamente, nella misura che gli è necessaria, i suoi strumenti economici di potere, come restrizione dei crediti, blocco delle materie prime, svalutazione della valuta straniera e così via. Esso considererà come violenza extraeconomica il tentativo di un popolo o di un altro gruppo umano di sottrarsi agli effetti di questi metodi “pacifici”».
È questa l’essenza dell’odierna “quarta guerra mondiale”, puntualmente dichiarata contro i popoli che aspirano a sottrarsi all’imperialismo statunitense (e subito dichiarati terroristi, assassini, nemici dei diritti umani, “Stati canaglia”, ecc.).
In coerenza con la destoricizzazione tipica del nostro presente, l’epoca che si colloca sotto lo slogan dell’end of history, la dimensione storica viene sostituita, a livello di prestazione simbolica, ora dallo scontro religioso tra il Bene e il Male (identificati rispettivamente con l’Occidente a morfologia capitalistica e con le aree del pianeta che ancora resistono), ora dal canovaccio della commedia che, sempre uguale, viene impiegato per dare conto di quanto accade sullo scacchiere geopolitico: il popolo compattamente unito contro il dittatore sanguinario (Assad in Siria), il silenzio colpevole dell’Occidente, i dissidenti “buoni”, cui è riservato il diritto di parola, e, dulcis in fundo, l’intervento armato delle forze occidentali che donano la libertà al popolo e abbattono il dittatore mostrando con orgoglio al mondo intero il suo cadavere (Saddam Hussein, Gheddafi, ecc.).
Seguendo penosamente l’ideologia dominante, la sinistra italiana continua a rivelare, anche in questo, una subalternità culturale che farebbe ridere se non facesse piangere: da “L’Unità” a “Repubblica” l’allineamento con l’ideologia dominante è totale (ed è, per inciso, un’ulteriore prova a favore della tesi circa l’ormai avvenuta estinzione della dicotomia tra una destra e una sinistra perfettamente interscambiabili, composte da nietzscheani “ultimi uomini”). La parabola che porta dall’immenso Antonio Gramsci a Massimo D’Alema è sotto gli occhi di tutti e si commenta da sé.
Secondo questa patetica commedia, tutti i mali della società vengono imputati al feroce dittatore di turno (sempre identificato dal circo mediatico con il nuovo Hitler: da Saddam a Gheddafi, da Ahmadinejad a Chávez), che ancora non si è piegato alle sacre leggi di Monsieur le Capital; e, con movimento simmetrico, il popolo viene mediaticamente unificato come una sola forza che lotta per la propria libertà, ossia per la propria integrazione nel sistema della mondializzazione capitalistica.
Come se in Siria o a Cuba vi fossero solo dissidenti in attesa del bombardamento umanitario dell’Occidente! Come se la libertà coincidesse con la reificazione planetaria e con la violenza economica di marca capitalistica! Tra i molteplici esempi possibili, basti qui ricordare quello della blogger cubana Yoani Sánchez, ipocritamente presentata dal circo mediatico come se fosse l’unica voce autentica della Cuba castrista, la sola sostenitrice dell’unica libertà possibile (quella della società di mercato) dell’intera isola cubana!
L’aggressione imperialistica della monarchia universale può trionfalmente essere salutata come forma di interventismo umanitario, come gloriosa liberazione degli oppressi, essi stessi presentati come animati da un’unica passione politica: l’ingresso nel regime della produzione capitalistica e la sottomissione incondizionata alla monarchia universale.
La Siria, come si diceva, è uno dei prossimi obiettivi militari della monarchia universale. È, al momento, uno dei pochi Stati che ancora resistono alla loro annessione imperialistica all’ordine statunitense. E questo del tutto a prescindere dalla politica interna siriana, con tutti i suoi limiti lampanti, che nessuno si sogna di negare o anche solo di ridimensionare.
Con buona pace di Norberto Bobbio e di quanti, dopo di lui, si ostinano a legittimate le guerre “umanitarie” occidentali, la sola guerra legittima resta, oggi, quella di resistenza contro la barbarie imperialistica. Per questo, con buona pace del virtuoso coro politicamente corretto, addomesticato e gravido di ideologia, senza esitazioni occorre essere solidali con lo Stato siriano e con la sua eroica resistenza all’ormai prossima aggressione imperialistica.
La Siria, come Cuba e l’Iran, è uno Stato che resiste e che, così facendo, insegna anche a noi Occidentali che è possibile opporsi all’ordine globale che si pretende destinale e necessario. Diventa, allora, possibile sostenere degli Stati resistenti quanto Fenoglio, nel Partigiano Johnny, asseriva a proposito dei partigiani (anch’essi eroi della resistenza, come oggi i rogue States): “ecco l’importante: che ne restasse sempre uno”.
Fonte: Lo Spiffero