sabato 21 settembre 2013
la polemica non è un male, è solo una forma di confronto crudo sincero, diciamo tutto quello che pensiamo fuori dai denti, e vediamo se riusciamo a far venir fuori le capacità di cui siamo portatori e spenderle per il Bene Comune. Produrre, organizzare, trovare soluzioni, impegnarci a far rete, razionalizzare e mettere in comune, attingere alle nostre risorse. CUI PRODEST? Pensa cchiu' a chi o' dicè ca' a chello ca' dice
L'albero della storia è sempre verde
L'albero della storia è sempre verde
"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"
sabato 21 settembre 2013
Il Piano di Lavoro, per essere credibile, deve essere affiancato ad un chiarimento sull'Eurozona e un nostro ruolo in Europa
sabato 21 settembre 2013
giovedì 19 settembre 2013
Stop alla Consorteria Guerrafondaia Statunitense

mercoledì 18 settembre 2013
A fare politica si impara con il tempo
I “precari” avranno mai una coscienza di classe?
Il ruolo della scuola pubblica
Christian Raimo
In questo senso penso che queste quattro generazioni della famiglia Raimo rappresentino in maniera molto indicativa l’evoluzione delle condizioni del lavoro, e della cultura conseguente. Il mio bisnonno non ha cambiato occupazione in vita sua, anche con un paio di guerre in mezzo che gli hanno sconvolto la vita. Mio nonno si è riadattato alle condizioni dell’Italia anni Cinquanta: si è spostato dal paese in città, ha scelto un salario in un’azienda in espansione invece di campare col suo piccolissimo laboratorio artigianale. Mio padre ha lavorato per la Technicolor per 38 anni. Io, che ho 38 anni ora, non soltanto ho già cambiato lavoro varie volte in vita mia, ma ad oggi: sono un dipendente di una scuola privata, ho delle collaborazioni continuative con una casa editrice, un mensile, e un settimanale, ho delle collaborazioni saltuarie con vari altri committenti culturali tipo questo giornale online, e in più faccio lo scrittore in modo professionale e quindi posso disporre anche di alcuni anticipi.
domenica 15 settembre 2013
possibili, probabili, imprescindibili implicazioni al crac dell'euro
Le conseguenze del disamore
Mimmo Porcaro
Questo coro di critiche all’Unione (tanto ampio da includere anche studi di provenienza bocconiana: si veda, in Costituzionalismo.it, il recente lavoro di Luca Fantacci ed Andrea Papetti) ci esime, almeno per questa volta, dal tornare sui motivi che le legittimano; così come ci riserviamo di analizzare in seguito le diverse proposte di uscita totale o parziale dalla situazione attuale. Per adesso vorremmo solo indicare alcune conseguenze di questo improvviso “disamore” verso l’euro, ossia alcune implicazioni di quelle proposte, spesso sottovalutate dai loro stessi autori.
Prima implicazione: ogni seria, pur se moderata, riforma della situazione attuale porterebbe alla dissoluzione della zona euro e quindi probabilmente alla fine dell’Unione. E ciò per il semplice fatto che la frazione dominante del capitalismo europeo (quella bancaria) ed il Paese dominante dell’Unione (la Germania) sono certamente convinti fautori dell’euro, ma solo dell’euro così com’è: perché la sua stabilità garantisce i creditori; perché la sua netta sottovalutazione rispetto ai valori dell’economia tedesca (una vera e propria svalutazione stabile) avvantaggia gli esportatori di quel Paese; perché l’impoverimento indotto nei paesi debitori, anche se da una parte fa diminuire la domanda di merci tedesche, dall’altra favorisce nettamente la centralizzazione del capitale nel nucleo forte d’Europa. Quindi questo euro va bene, ma ogni altra forma no. Per conseguenza anche chi non se la sente di proporre decisamente la rottura e pensa piuttosto ad una riforma dei trattati o ad una moneta comune deve prepararsi a gestire, in caso di vittoria, la crisi ed il collasso dell’intera costruzione comunitaria. E se non lo fa è un irresponsabile. Siamo troppo netti, troppo dogmatici? Escludiamo a priori tendenze riformiste nel capitalismo tedesco? No: diciamo soltanto che al momento non si vede nessuna, ma proprio nessuna di queste tendenze (nemmeno, per intenderci, nei socialdemocratici tedeschi), che al momento dalla Germania possono venire solo alcune concessioni tattiche e che una tendenza riformista potrebbe eventualmente mostrarsi solo di fronte ad una decisa posizione dell’Europa del sud, del tipo “O si cambia o ce ne andiamo”. Siamo in grado di fare una proposta del genere, magari anche in sede di elezioni europee?
Seconda implicazione: è ora che il nostro Paese ripensi radicalmente la propria collocazione internazionale, affrancandosi dal rapporto servile con l’occidente neoliberista e rivolgendosi all’area mediterranea ed ai Brics, Paesi che per amore o per forza devono puntare su economie semi-regolate e sulla limitazione di quella libera circolazione dei capitali che ha distrutto la forza dei lavoratori. Altrimenti passeremmo dalla padella dell’Ue alla brace della zona atlantica di libero scambio, divenendo terreno di conquista del capitale Usa. L’uscita da sinistra dall’euro richiede l’uscita dalla subordinazione atlantica e dunque anche dalla Nato: ogni diversa soluzione sarebbe peggiorativa. Quello che si prospetta è insomma un tornante assai serio e pericoloso, ma ineludibile. E, per coloro che sventolano la bandiera rossa, è una grande occasione per superare le condizioni strutturali che hanno reso impossibile, in Italia, ogni seria ipotesi socialista. Ma anche per coloro che si attestano sulla difesa della Costituzione la scelta è inevitabile, giacché i più grandi insulti alla Carta fondamentale sono venuti proprio dall’alleanza atlantica, con la guerra, e dall’Unione europea che eliminando la sovranità nazionale ha distrutto il presupposto elementare della democrazia e della Costituzione stessa. Saremo consapevoli della necessità e della durezza della scelta? Sapremo costruire la forza politica ed il consenso popolare necessari a gestire questo passaggio davvero epocale?
Terza implicazione: come i preti che, per tener buoni borghigiani e villici, facevano affrescare le chiese medievali con truculente immagini dell’inferno, i fanatici dell’euro ci terrorizzano con l’elencazione delle infauste conseguenze della rottura, ossia svalutazione galoppante, crollo di tutti gli indicatori interni, salari falcidiati, miseria, fame. Si tratta di palesi esagerazioni contro le quali è doveroso polemizzare sempre, senza però cadere in una opposta e colpevole faciloneria. L’uscita dall’euro implicherebbe davvero, in un primo momento, seri problemi, ed è anche per questo che il Paese sceglierà questa soluzione solo quando sarà disperato. Tali problemi potrebbero essere risolti o attenuati solo da misure di tipo semi-socialista: la limitazione dei movimenti del capitale, la protezione dei salari, la nazionalizzazione delle imprese strategiche e soprattutto delle banche (che altrimenti sarebbero facile preda di acquisizioni ostili in quanto colpite dalla rivalutazione del loro debito con l’estero); la centralizzazione della politica industriale. Insomma: una pur parziale prospettiva socialista non è più un pio desiderio di alcuni di noi ma una necessità imposta dalle esigenze di sopravvivenza del Paese. Il che ci costringe a fare sul serio e a non parlare più solo di diritti e reddito, ma anche di proprietà e di organizzazione della produzione. Ne saremo capaci?
Quarta implicazione: tutto quello che si è detto sopra presuppone un significativo ampliamento e mutamento del nostro fronte sociale. Bisogna prendere atto che i lavoratori stabilmente occupati, anche se sono un elemento essenziale per la trasformazione del Paese, sono al momento alleati col capitale europeista e che le strutture sindacali e politiche a cui essi fanno normalmente riferimento sono vere e proprie cinghie di trasmissione dei desideri di quel capitale. Questa frazione di lavoratori non può più, almeno per adesso, essere considerata come la guida del nostro fronte, ed il rapporto col mondo del lavoro non può risolversi tutto nella relazione con questo o quel sindacato maggioritario, fosse anche quello più “di sinistra”. Pur continuando la nostra battaglia politica all’interno del lavoro stabile e dentro/contro i sindacati maggioritari, la nostra principale cura deve essere quella di aggregare lavoratori precari, atipici ed autonomi, e comunque tutti coloro che sono costretti a proporre soluzioni radicali della crisi attuale. E deve essere quella di sfondare il blocco sociale della destra aggregando (oltre a parti non irrilevanti della piccola-media impresa esportatrice) le frazioni più deprivate del proletariato e i piccoli imprenditori già berlusconiani attorno ad un programma che, pur mantenendo fermo il valore della lealtà fiscale, rimandi il pieno recupero della piccola evasione ad una futura fase di ripresa economica, e riduca sensibilmente le sanzioni attuali. In un primo momento i soldi non vanno rastrellati tra i (numerosi) piccoli evasori, ma presi ai grandi evasori e alle banche (nazionalizzazione) e sottratti capitale finanziario internazionale (ridefinizione del debito e nuovo ruolo della Banca d’Italia). Solo dopo si potrà procedere ad una graduale regolarizzazione fiscale e ad un graduale superamento delle arretratezze della piccola impresa. Sapremo uscire dalle vecchie abitudini mentali ed immaginare un fronte sociale davvero nuovo, capace di farci divenire, potenzialmente, forza maggioritaria nel Paese?
Se risponderemo positivamente a tutte queste domande la fine dell’euro segnerà la nascita di una vera e nuova sinistra italiana, inevitabilmente orientata al socialismo. Altrimenti sarà gestita da qualche capopopolo avventurista o rimandata sine die dall’ineffabile PD: in ogni caso la conseguenza sarà la rovina dell’Italia.