L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 26 ottobre 2013

tre macigni sul cammino del Capitale: disoccupazione, debito pubblico, stampa continua di miliardi di dollari

Capitalismo 2013

di Antonio Carlo

Anatomia della politica attraverso l’economia: a) il caso italiano (1945 – 2013); b) la depressione mondiale ed i funerali dell’ “autonomia del politico”


estratto

8) L’epilogo in terra. La depressione mondiale ed i funerali dell’ “autonomia del politico”. L’impotenza senza ritorno degli Stati


Il fatto è che allora il capitalismo si sviluppava sia pure tra tensioni e contraddizioni per cui gli Stati, il potere politico, avevano alternative di scelta tra le varie ipotesi di sviluppo. Oggi non più perché lo sviluppo non c’è più, al massimo si ha un ristagno asfittico con un indebitamento crescente ed insostenibile accompagnato da grandi masse di occupati e sottoccupati. I problemi sul tappeto sono insolubili e nessuno Stato può inventarsi soluzioni di sviluppo inesistenti. In altre parole gli Stati non sanno più che pesci pigliare perché non ci sono più pesci da prendere.


C) Gli USA

Quanto sosteniamo può essere ulteriormente verificato analizzando i principali paesi o le aree dell’attuale capitalismo: ovunque lo Stato è impotente davanti alla “Grande Depressione” che viviamo.

In USA il PIL, come si è visto, ristagna, ed il debito federale cresce in modo esplosivo. Il prof. Roubini osserva che, potenzialmente, il PIL USA potrebbe crescere del 2,5-3% l’anno, ma l’attuale crescita è molto più bassa155; in realtà potrebbe crescere molto di più poiché nel 2011 il PIL USA cala di un -1,3% nel primo trimestre per impennarsi del 4,9% nell’ultimo trimestre, nel 2012 siamo ad un + 3,7% nel primo trimestre cui segue uno striminzito 1,2% nel secondo, nel 2013 siamo a 1,1% nel primo trimestre e a 2,5% nel secondo (dati su base annua). Come si vede l’economia USA può crescere anche del 5% circa in un trimestre, il guaio è che subito dopo il ritmo non tiene e si affloscia, ci troviamo in presenza di tipici rimbalzini da inventario passati i quali si ritorna al grigiore precedente156. Questo implica che il tasso di utilizzo degli impianti rimane inadeguato o basso con conseguente perdita degli investimenti che rimangono improduttivi157.

Quanto alla disoccupazione ad agosto 2013 sarebbe calata al 7,4%, secondo i dati ufficiali che abbiamo poc’anzi criticato considerandoli irreali, ma qui voglio aggiungere ulteriori considerazioni. Frugando tra i miei articoli passati sulla crisi ho scoperto che nel febbraio 2005, in USA, vengono creato 266.000 nuovi posti di lavoro e la disoccupazione cresce dello 0,2%158. Nel 2012 la disoccupazione cala lentamente ma si creano mediamente solo 183.000 posti di lavoro al mese159; nel giugno 2013 si creano 195.000 posti di lavoro e la disoccupazione è ferma al 7,6% il mese dopo 162.000 posti di lavoro e la disoccupazione cala al 7,4%, ad agosto 169.000 nuovi posti e siamo al 7,3%. Dati assurdi e misteriosi formalmente incomprensibili che si spiegano col fatto che gli scoraggiati (“missing men”) che hanno perso il lavoro e non lo cercano più non sono considerati disoccupati ma semplicemente scompaiono dalle statistiche del lavoro USA.

Come dico da anni queste statistiche sono fatte da struzzi per altri struzzi, le persone serie a cominciare dai Nobel Phelps e Krugman (o al prof. Rifkin) le trattano con sovrano disprezzo. C’è di più, i dati di luglio 2013 evidenziano anche che l’orario settimanale è ancora calato in USA si lavora solo per poco più di 34 ore settimanali160, il che significa che mediamente un lavoratore americano lavora per poco più di 4 giorni a settimana, in altre parole c’è chi lavora 44 ore settimanali e chi 20, 22, 25 etc. , la media è poco più di 34 ore, la forza lavoro è sottoutilizzata come sottoutilizzati sono gli impianti e questo avviene nel paese più ricco del mondo con la massima potenza tecnologica esistente.

Parallelamente il debito pubblico si impenna, abbiamo visto il dato del 2012 ma il sig. Lew, nuovo ministro del tesoro USA, dice che a ottobre 2013 raggiungeremo il tetto di 16.700 miliardi di dollari di debito federale, per cui bisognerà chiedere al Congresso una nuova autorizzazione per sforarlo, e questo malgrado Obama abbia fatto negli ultimi anni manovre lacrime e sangue161, l’ultima a febbraio di quest’anno con tagli generalizzati di ogni genere dalle spese militari ai parchi pubblici162.

È accaduto inoltre che in una pubblica manifestazione del 20.9.13 Obama abbia attaccato apertamente i repubblicani ricordando loro che l’America non è una repubblica bananiera che possa andare in default . In realtà varie entità pubbliche (municipalità, contee e sinanche uno Stato, il Minnesota) sono andate in default in USA ed uno Stato che non sia in grado di onorare i propri impegni fallisce, si chiami Nicaragua o USA; ciò che però, Obama voleva dire era che un default degli USA avrebbe conseguenze catastrofiche e si passerebbe da un 1929 strisciante e nascosto ad uno palese e devastante. Se il governo USA non paga più i buoni pasto o le indennità di disoccupazione assieme ai debiti che ha verso i propri fornitori, se taglia drasticamente le commesse che eroga all’industria, le conseguenze sarebbero immediate e disastrose. Il guaio è che in questa contesa i due contendenti hanno contemporaneamente ragione e torto. Ha ragione Obama nel dire che l’America non può fallire, sarebbe un disastro, la fine di un impero con ricadute su tutta l’economia mondiale; ma hanno ragione anche i repubblicani perché un debito di 16.700 miliardi che cresce di anno in anno come un torrente in piena, con un ritmo enormemente più elevato della crescita del PIL, è come un cancro irreversibile le cui metastasi si diffondono anno dopo anno, sicché la vita del paziente è sempre più a rischio.

Entrambi , però, hanno torto perché non propongono soluzioni valide al problema sul tappeto, soprattutto sul tema nodale dell’occupazione: la ricetta di Obama è fallita e quella dei repubblicani è la solita minestra riscaldata di stampo monetarista: meno spese pubbliche in modo da dilatare gli investimenti privati che rilanceranno produzione, occupazione e benessere. Romney durante la campagna elettorale del 2012 ha promesso agli americani milioni di posti di lavoro sin dai primi mesi del suo ipotetico governo, e questo più che un libro dei sogni ci sembra un delirio da ospedale psichiatrico: i repubblicani dimenticano che gli investimenti ormai non producono più occupazione ma disoccupazione e sottoccupazione e dimenticano, altresì, che la spesa statale non è uno spreco ma un sostengo all’economia capitalistica: i buoni pasto di 4,45 dollari al giorno e a persona significano domanda e consumi per cifre annue molto consistenti e lo stesso dicasi per le indennità di disoccupazione, se tagli queste spese tagli i consumi e quindi la dinamica dell’economia, lo stesso si può dire per i consumi pubblici come le spese per la scuola che si traducono in stipendi degli insegnanti e quindi in consumi, ed in commesse per le industrie fornitrici. In sostanza i repubblicani propongono una politica che avrebbe gli stessi effetti di un default e che è stata già sperimentata e sconfitta: nel 1981 Reagan cercò di tagliare la spesa ma siccome l’economia non reggeva si convertì, nel 1982, ad una politica opposta di spesa a sostegno dell’economia e come tutti sanno il rapporto debito federale-PIL si impennò dal 31,9% del 1981 al 50,99% del 1988; lo stesso avvenne con G. W. Bush e con Greenspan sotto la cui direzione il rapporto debito federale-PIL passò dal 57,34% del 2001 al 73,31% del novembre 2008163.

Un ulteriore nodo di contraddizioni dell’economia USA si colloca nell’ambito della politica della Fed che è uno dei capisaldi del governo dell’economia in USA. Da anni essa persegue una politica di sostegno che consiste anche nell’acquisto massiccio di bonds pubblici o collegati al mercato dei mutui al fine di sostenere l’economia: in altre parole si stampa carta moneta e si acquistano titoli, siano essi del debito pubblico che di imprese private; in questo modo si garantisce la copertura delle emissioni dei titoli pubblici a prezzi e a rendimenti accettabili e si sostiene l’economia privata in particolare il settore delicato dei mutui. Negli ultimi mesi nella Fed si è delineata una spaccatura tra coloro che intendono continuare il piano di acquisti (fino a 85 miliardi di dollari al mese) e chi vorrebbe contenerlo. In realtà la Fed può continuare ad acquistare i titoli che il mercato non acquisterebbe o acquisterebbe a prezzi molto più bassi, ma avendone già in portafoglio alcune migliaia di miliardi c’è il rischio alla lunga si trovi con un portafoglio titoli non collocabile sul mercato se non a prezzi stracciati. In Italia qualcosa di simile capitò alla Banca d’Italia nel 1931 che , dopo aver acquistato per anni titoli spazzatura , al fine di sostenere l’economia, si trovò con il portafoglio pieno di titoli che erano carta straccia, per cui correva il rischio di essere tecnicamente fallita. Il problema fu risolto con la creazione dell’IRI che acquistò a buon prezzo (per la Banca d’Italia) i titoli in questione, naturalmente qualcuno pagò per l’operazione: il contribuente italiano dalle cui tasche uscirono i soldi per costituire la dotazione dell’IRI. Ma è possibile in USA una soluzione simile alla nostra del 1931?

Assolutamente no. Un simile piano implicherebbe un costo di alcune migliaia di migliaia di dollari che si scaricherebbe sul consumatore americano già oberato di debiti164 e quindi implicherebbe una contrazione dei consumi già poco dinamici, in sostanza un rimedio peggiore del male; inoltre i repubblicani che controllano uno dei rami del Congresso (e condizionano il Senato) farebbero le barricate, ciò che poteva fare Mussolini non può fare Obama.

C’è di più il 20.9.13 la Fed ha spiazzato tutti affermando che il piano di lento e graduale rientro della politica degli acquisti e bonds (che tutti si attendevano) era rinviato a data da destinarsi, evidentemente l’economia americana non può fare a meno di una stampella di sostegno di 85 miliardi di dollari mensili. Questa posizione ha suscitato però le critiche di Warren Buffet famosissimo finanziere che però non è privo di atteggiamenti liberal, il quale ha rilevato che la Fed si comporta come un fondo speculativo ad altissimo rischio: il suo portafogli titoli è passato da 879 miliardi nel 2007 ai 3.600 attuali, ma i titoli in questione potrebbero devalorizzarsi esponendo la Fed a perdite anche di 500 miliardi poiché i tassi di interesse dei bond americani tendono a salire e per contro i loro prezzi tendono a deprimersi165. La preoccupazione di Buffet è tutt’altro che infondata poiché la situazione dell’indebitamento globale dell’economia americana è pesantissima: già nel 2009 tale indebitamento era vicino al 400% del PIL166 e da allora la situazione si è incancrenita, inoltre la concorrenza sul mercato mondiale per accaparrarsi i capitali necessari al finanziamento del debito pubblico dei vari paesi si sta acuendo per cui è prevedibile una crescita della concorrenza tra i paesi fondata sulla crescita dei tassi di interesse, è probabile quindi che titoli con tassi di interesse ritenuti bassi si devalorizzino. Come si vede la situazione dell’economia americana è un intrico di contraddizioni quanto mai esplosivo ed insolubile davanti al quale il governo, l’opposizione e la Fed sono del tutto impotenti, si procede per palliativi perché soluzioni strutturali, ipotesi di sviluppo praticabili non ne esistono.


http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/3116-antonio-carlo-capitalismo-2013.html

venerdì 25 ottobre 2013

La protesta è una cosa seria ma non per gli omuncoli politici italiani


Capitalismo 2013

di Antonio Carlo

Anatomia della politica attraverso l’economia: a) il caso italiano (1945 – 2013); b) la depressione mondiale ed i funerali dell’ “autonomia del politico”

estratto

7) Atto quarto (2008-2013). La fine del cavaliere azzurro e della Lega. Il mancato decollo del PD e del nuovo centro. Ingovernabilità crescente e senza prospettive


A) La mutazione dell’elettorato azzurro e il declino irreversibile del cavaliere
Nel 2008 B. vince le elezioni con una maggioranza umiliante e fa fuori Veltroni come Prodi e Rutelli, se fosse Toro Seduto la sua tenda sarebbe piena di scalpi dei suoi avversari stesi e umiliati. Poi nel 2011 lascia il governo sotto la spinta di uno “spread” che è arrivato a 550, di una impopolarità crescente, sinanche i suoi che senza di lui sono nessuno, sembrano sul punto di mollarlo. Che cosa è accaduto?

Non certo un ritorno di fiamma del centrosinistra che annega nella sua mediocrità, ma è accaduto che la crisi italiana, pesantissima dal 1990, si è saldata e confluisce nella grande depressione mondiale, che esplode nel dicembre 2007 e determina una situazione insostenibile: il nemico di B. non si chiama Veltroni o Prodi, ma Grande Depressione e per “Silviuccio” sono cavoli amari. Il suo elettorato, che sino ad allora gli aveva chiesto di salvarlo dalle tasse, facendo ricadere il peso delle lacrime e del sangue sui “coglioni comunisti”, davanti ad una situazione devastante gli chiede di intervenire. Il fatto è che lo sport di caricare tutto su salari, stipendi e pensioni sta bloccando i consumi, l’economia italiana è in caduta libera , i salari reali sono erosi, i consumi pure, si torna a livello di 20 anni fa, i negozi sono vuoti e falliscono, non si vendono case e auto e tutto va a rotoli.

Sembra proprio che se i “coglioni comunisti” non consumano anche “lor signori” se la passino male136.

Accade allora che le organizzazioni padronali, dalla Confindustria alla Confcommercio, scoprono che le tasse sul lavoro sono pesantissime e devono calare, assieme ovviamente a quelle delle imprese, dimenticando il piccolo particolare che le imprese evadono sfacciatamente137. Occorre ovviamente che il debito pubblico cali e che l’economia riprenda con tutti i costi che ciò comporta. Naturalmente tutto questo va fatto tenendo i conti in ordine; come dire botte piena, moglie ubriaca e uva nella vigna.

Nel frattempo l’evasione fiscale rimane elevatissima e non si pagano nemmeno le cartelle esecutive: chi ha scassato i conti con la propria evasione insultante, chiede di ridurre le tasse, rilanciare l’economia e salvare gli equilibri di bilancio, richieste che tenendo conto di quello che hanno fatto “lor signori” negli ultimi decenni sa di provocazione. Emblematico è quello che riferisce nel 2013 il quotidiano di Genova “Il Secolo XIX” dell’8/6/13 sul rifiuto del governatore ligure Burlando di andare ad un convegno degli industriali: avrebbe detto “non vado ad ascoltare chi da 20 anni non ha fatto un cazzo”.

Ciò che non è del tutto esatto poiché negli ultimi 20 anni (ed anche prima) qualcosa lor signori hanno fatto: tasse evase, soldi nei paradisi fiscali, imprese delocalizzate, cartelle esattoriali non pagate, tasche dei lavoratori dipendenti vuotate etc. Purtroppo Burlando è l’unico che risponda a costoro come meriterebbero, il centrosinistra dialoga e ascolta come sempre e del resto ha dialogato anche con B. come risulta dall’intervento di Violante nel 2002, la capacità di sdegnarsi, questi signori l’hanno persa da tempo, poiché, come è noto, sarebbe moralismo.

In altre parole il “popolo di Silvio” gli chiede di fare quello che Silviuccio non è mai stato, uno statista a livello di Roosevelt che affrontò la grande crisi; il guaio è che B. è un imprenditore che è entrato in politica solo per fare i fatti suoi e attorno a lui, al posto del “brain trust” che circondava Roosevelt, ha Verdini, Tremonti e la Santanché; inoltre negli anni ’30 una via di uscita dalla crisi era possibile e adesso non si vede. Si noti poi che un recente studio della CGIA di Mestre ha evidenziato che questa crisi è stata, per l’economia italiana, peggiore di quella del 1929, il che significa la peggiore di sempre: nel periodo 1929/34 il PIL cala del 5,1% e gli investimenti del 12,8%, nel periodo 2007-2012 il calo del PIL è del 6,9% e quello degli investimenti del 27,6%, il che significa che “Silviuccio” ed il suo formidabile “brain trust” dovrebbero confrontarsi con questa realtà. Da ridere.

Il poverino affoga, lo “spread” si impenna, forse manovrato, ma le manovre hanno successo sui mercati quando la sfiducia verso un’impresa o un governo sono a mille e nel caso di B. lo sono (o meglio sono solo a 550 il livello massimo raggiunto dallo “spread”).

Silviuccio deve andarsene sostituito da un tecnico nominato senatore a vita ed accolto come un liberatore o il salvatore della patria, di barzellette sulle mele che sanno di culo, di marocchine minorenni, e di politiche economiche fallimentari non se ne poteva più.

Le elezioni del 2013 sanciscono la fine di B.: perderà 6,3 milioni di voti e 16 punti percentuali. La Lega lo appoggia solo a patto che sia chiaro che non è leader della coalizione, ma la stessa Lega passerà dall’8,3% dei voti al 4,1%. Un disastro.

Il cavaliere è bollito , quello che avverrà dopo e che tutti sanno è solo il coronamento dell’opera: condanna definitiva, ineleggibilità etc. mentre all’orizzonte si delineano altri processi da affrontare con la prescrizione lontanissima , per uno di essi rimedia in primo grado una condanna a 7 anni con interdizione perpetua dai pubblici uffici.

La parabola è finita.


B) Il mancato decollo del PD e del nuovo centro

B. , dunque, è finito ma il PD non vince e perde 3 milioni di voti, doveva limitarsi a fare l’avvoltoio cibandosi del cadavere del nemico ma neanche di questo è capace. Se fossi Scalfari direi che nel PD prosperano gli allocchi, ma sarebbe ingiusto: il gruppo dirigente di quel partito brilla per mediocrità ed ignoranza, ma il problema vero, l’ho detto un istante fa, è che nel capitalismo attuale via di uscita dalla crisi non ce ne sono , e questo favorisce l’emergere di una classe dirigente di incapaci e di mediocri, non si può essere all’altezza del compito quando il compito, cioè l’uscita dalla crisi, è impraticabile, e questo accade anche a livello mondiale, dove di Roosevelt in giro non se ne vede neanche uno.

Analogo discorso per il nuovo centro di Monti, partito con l’obiettivo del 20% alle elezioni del 2013, calato al 15% , poi al 12% per finire ad un modesto 10% dei consensi elettorali, in un paese dove un terzo circa dell’elettorato non si esprime.

Il centro non decolla e non esalta e questo perché puoi governare un paese al centro se c’è lo sviluppo (la DC degli anni ’45-’70) , se lo sviluppo è finito e la situazione economica è marcescente (più che nel resto d’Europa) ci vogliono soluzioni nuove e radicali che vadano al di là di un sistema ingovernabile, cosa che è al di fuori delle possibilità di un economista tradizionale ed ottocentesco che esprime la vecchia classe dirigente. Monti nel suo anno di governo ha fatto le stesse cose degli ultimi 20 anni: lacrime e sangue senza sviluppo, con provvedimenti a volte ridicoli come le srl costituite dai giovani con un solo euro di capitale, che avrebbero dovuto aprire il mercato alla concorrenza battendosi con le IM presenti in Italia, i cui AD avranno passato notti insonni davanti al nuovo pericolo creato dal professor Monti; stendiamo poi un velo pietoso sulla gaffe vergognosa e drammatica degli esodati138.

L’uomo poi (il prof. Monti) è la negazione vivente di un leader, dice cose banali in un modo soporifero, cerca (durante la campagna elettorale del 2013) di essere accattivante ed è semplicemente ridicolo, come quando si fa regalare un cagnolino durante una trasmissione de LA7. Due persone intelligenti come Vittorio Zucconi e Carlo Freccero sghignazzeranno su di lui durante una trasmissione televisiva, ma il problema per Monti come per il PD è sempre e solo lo stesso: non hanno nulla da proporre contro la crisi perché, all’interno del sistema, non c’è nulla da proporre139.

Chi guadagna dalle sconfitte altrui è il M5Stelle, che ha un programma elettorale non meno penoso degli altri140, con l’unica connotazione originale di un forte accento sull’economia verde. Il movimento non critica radicalmente il capitalismo, ma il sistema italiano dei partiti, qualificato con la realtà sordida e putrescente, davanti alla quale esplode in una gigantesca pernacchia che sembra evocare la celebre battuta “una risata vi seppellirà”141.

Un quarto degli italiani che va ancora alle urne , stanchi della vacuità della sinistra, del conformismo surgelato di Monti e delle barzellette orripilanti di B., decide di votarli. Un voto di protesta certo, ma la protesta è una cosa seria, gabellarla come qualunquismo è da imbecilli o da struzzi che non vogliono vedere la frana che rovina a valle. Un capitalismo ingovernabile produce un sistema politico ingovernabile gestito da omuncoli e mezze tacche.


http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/3116-antonio-carlo-capitalismo-2013.html

giovedì 24 ottobre 2013

il Pd è servo dell'Euro e dei Capitali stranieri

Letta e la fine del Ventennio

Scritto da Diego Fusaro

“Si è chiuso un ventennio”: è quanto sostenuto dal premier Enrico Letta non molti giorni addietro, durante l’intervista di Maria Latella su Skytg24. Purtroppo Letta si sbaglia: e si sbaglia perché lui stesso e il suo partito sono pienamente organici – in senso gramsciano – alla stessa visione del mondo di Berlusconi e del suo schieramento. Più precisamente, portatrici della stessa visione ultracapitalistica del mondo, destra e sinistra accettano oggi in maniera ugualmente remissiva la sovranità irresponsabile di organismi economici sistemici (dal Fondo monetario Internazionale alla Banca Europea), che svuotano interamente la decisione politica, costretta a una funzione meramente ancillare. Nella forma della pura gestione dell’esistente, la politica e la democrazia non fanno altro che ratificare quanto viene autonomamente deciso dalla sapienza infallibile degli economisti, dalle multinazionali e dal mercato divinizzato.
Quale ventennio, dunque, sarebbe finito? Quello di Silvio Berlusconi come uomo politico? Può darsi. Non certo lo spirito del tempo neoliberale, giacché di esso si sostanziano in egual misura Berlusconi e il partito di Letta, ossia il tragicomico serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD, che dalla lotta per l’emancipazione di tutti è oggi passato armi e bagagli a difendere le ragioni del capitale finanziario globalizzato.
La cultura della sinistra è da tempo il luogo di riproduzione simbolica del capitale: nichilismo, relativistico, distruzione dei retaggi borghesi, difesa dei diritti civili per rimuovere la difesa di quelli civili, ecc. Da Carlo Marx alla signora Dandini, da Antonio Gramsci a Massimo D’Alema: la parabola sta tutta qui. Farebbe ridere se non facesse piangere: è, come già più volte ho ricordato su queste pagine, una tragedia politica e sociale di tipo epocale.
Nella sua vera essenza di protesi di manipolazione simbolica del consenso e di addomesticamento organizzato del dissenso, la dicotomia tra destra e sinistra occulta oggi – con buona pace di Letta – il totalitarismo del mercato, che le forze inerziali della simulazione tra le due fazioni non nominano nemmeno più, metabolizzandolo come dato naturale-eterno. La sopravvivenza virtuale della dicotomia nell’epoca dell’identità in atto di destra e sinistra ricopre, in sede politica, la stessa funzione che, nell’ambito dei mass media, è svolta dalla simulazione mediatica: quest’ultima – Debord docet – crea una realtà virtuale che non solo non intrattiene alcun rapporto con la “realtà reale”, ma che, di più, la occulta e la rende programmaticamente invisibile.
Si è liberi di scegliere tra gruppi, schieramenti, partiti e fazioni che hanno preventivamente aderito al dogma della “gabbia d’acciaio” (Max Weber), ossia alla supina adesione all’integralismo economico presentato come destino intrascendibile e alternativloss, “senza alternative” (la formula preferita da Angela Merkel): la scelta è libera e, insieme, fittizia, poiché, quale che sia, si risolve nella vittoria dello stesso, frammentato in molteplicità organizzata.
Oggi il monoteismo del mercato risulta letteralmente invisibile nel proliferare ipertrofico delle dicotomie ingannatorie; di più, può agevolmente contrabbandarsi come pur sempre preferibile rispetto agli estremismi che hanno popolato un secolo breve, ma più di ogni altro denso di tragedie. Essere antifascisti in assenza completa del fascismo o anticomunisti a vent’anni dall’estinzione del comunismo storico novecentesco costituisce un alibi per non essere anticapitalisti, facendo slittare la passione della critica dalla contraddizione reale a quella irreale perché non più sussistente.
Forse che l’adesione cadaverica al nomos dell’economia e all’ordine neoliberale non si ritrova, in forma uguale, a destra come a sinistra? Letta e Berlusconi si rivelano, in ciò, a egual titolo “maschere di carattere” – come avrebbe detto Marx – della produzione capitalistica.
Può darsi che sia finito il ventennio di Berlusconi, ma il suo spirito continua a vivere negli “eroi” del centro-sinistra, che di Berlusconi sono da anni i più preziosi alleati. La differenza tra i sinistri e i destri – nell’epoca dell’identità in atto di destra e sinistra – sta solo nel fatto che i primi fanno finta di non essere berlusconiani, disapprovando sempre e solo gli aspetti folkloristici del Cavaliere (Arcore, Olgettina, Ruby, ecc.), ma condividendo in toto l’idea perversa della politica come continuazione dell’economia con altri mezzi e il disinteresse totale e conclamato per la questione sociale e per i diritti degli esclusi dal sistema. Se la sinistra smette di interessarsi a questi temi, occorre allora smettere di interessarsi alla sinistra.


martedì 22 ottobre 2013

Dobbiamo essere capaci di interpretare le esigenze e le aspettative comuni. Dobbiamo portarle a sintesi

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Sono pronti. E noi?

di Elisabetta Teghil

La manifestazione del 19 ottobre è andata molto bene sia per i numeri sia per la volontà che ha espresso, ma, soprattutto, è stata utile.

Intanto ha sancito l’impossibilità da parte del PD di strumentalizzare le lotte per fini propri, come era accaduto in occasione della manifestazione del 14 dicembre 2010, e poi ha ratificato quello che era emerso nella manifestazione del 15 ottobre 2011, vale a dire l’irreversibile rottura tra il movimento e i partitini della così detta sinistra radicale.

Questi ultimi, da anni, non hanno più la consistenza per indire manifestazioni e come paguri si attaccavano al movimento, usandone i numeri e la capacità di mobilitazione.

I loro leader si limitavano a presentarsi in piazza e a farsi fotografare, forti del fatto che i media avrebbero dato risalto alla loro fugace apparizione, salvo, poi, prendere le distanze nei confronti dei così detti “violenti” avallando ogni forma di repressione poliziesca, giudiziaria e mediatica.

Il PD, più raffinato, usava dei cavalli di troia, sigle di volta in volta coniate per nascondere il ruolo di burattinaio che tirava le fila dietro le quinte. L’ultima di queste operazioni è stata quella di “Se non ora quando”.

Il movimento, con la manifestazione del 19 ottobre, ha dato una prova di maturità affrancandosi da questi padrini/e interessati/e.

E’ stata, infatti, una mobilitazione indetta dal movimento sui temi propri del movimento e nessuno/a ha potuto strumentalmente metterci il cappello.

Poi, sono stati definitivamente smascherati i meccanismi di controllo mediatici che il sistema mette in atto con le stesse modalità da tanti anni a partire dal ’68 e che in questa occasione si sono mostrati nella loro forma più compiuta.

I media, nessuno escluso, hanno dimostrato che siamo in un regime dando una lettura assolutamente univoca della manifestazione sia nella presentazione che nel racconto. Le bugie, le manipolazioni sono state e sono così grossolane e così trasversali che non possono essere imputate a questo o a quel giornalista improvvido o superficiale e neanche a questa o a quella testata giornalistica e/o televisiva.

Ed è stata evidente la lontananza di chi ancora si attarda a presentare questa o quella testata come autorevole, obiettiva e, magari, di sinistra.

Giornali e testate televisive hanno coperto l’informazione utilizzando in maniera strumentale soprattutto corrispondenti giovani e possibilmente ragazze, i quali e le quali, non sprovveduti/e, perché sapevano bene la ragione per cui erano state scelti/e, si sono prestati/e con un entusiasmo gregario a raccontare e a diffondere le veline del regime.

Infine, la modalità con cui le così dette “forze dell’ordine” hanno gestito e affrontato la piazza è il frutto e la sintesi di anni di sperimentazioni.

I giorni precedenti sono stati caratterizzati da una atmosfera di propaganda terroristica che si è tradotta nella creazione di una vera e propria “zona rossa” intorno al percorso della manifestazione, zona in cui è stata vietata la sosta delle macchine con grande disagio per gli abitanti delle aree interessate, disagio che fa parte chiaramente della volontà di creare paura intorno all’evento. E’ il risultato di una strategia attuata già a Genova nel 2001.

I negozi erano quasi tutti chiusi sul percorso della manifestazione, frutto di una campagna di pressione che ci ricorda le intimidazioni attuate dalle “forze dell’ordine” nei riguardi dei negozianti per indurli a chiudere in occasione della commemorazione degli attentati dell’11 settembre alle Torri Gemelle.

Il controllo diffuso e generalizzato di tutte le forme di comunicazione internet e telefoniche che è arrivato fino alla ventilata minaccia di interrompere qualsiasi tipo di collegamento nelle aree interessate dalla manifestazione, viene direttamente dalla pretesa che è avvenuta nell’indifferenza dei più, richiesta a gran voce dalla sinistra socialdemocratica e riformista, di controllare comunicazione, conti correnti, transazioni economiche e finanziarie per “prevenire” il terrorismo e “combattere” l’evasione fiscale. Ora ci troviamo nella condizione che nulla di quello che diciamo, neppure nel chiuso della nostra casa, possiamo essere sicure/i che non sia ascoltato e trascritto.

I pullman dei/delle manifestanti che venivano da fuori Roma, dal sud come dal nord, sono stati bloccati e gli occupanti schedati e i mezzi e le persone perquisiti. Con un meccanismo usato e collaudato nei confronti dei tifosi in trasferta. Gli ultras hanno fatto da cavie, nell’indifferenza, anzi nel plauso generale.

Prendendo a pretesto situazioni presentate all’opinione pubblica, precedentemente condizionata e manipolata, come pericolose, il neoliberismo fa passare forme di controllo sociale forti e serrate. L’isolamento e il rastrellamento di interi quartieri, come è successo a Roma a San Basilio e al Pigneto, sono stati giustificati con la caccia agli spacciatori.

L’ultimo pretesto in ordine di tempo è la violenza perpetrata sulle donne, e la legge sul femminicidio non è altro che l’ultimo pacchetto sicurezza.

Sono stati fermati e accompagnati alla frontiera, il giorno prima, semplicemente con un provvedimento amministrativo, alcuni cittadini stranieri, senza nessun motivo, con lo stesso meccanismo con cui i migranti vengono rinchiusi nei Cie ed espulsi.

Sono state/i fermate/i compagni/e che venivano in macchina da fuori Roma, è stato loro comminato con un provvedimento amministrativo il foglio di via, con il divieto di entrare a Roma per tre anni. Questa pratica è sistematicamente usata nei confronti di chi va a lottare in Val di Susa, in aperta violazione dell’art.16 della Costituzione

Ma è successo qualcosa di più.

Tante e tante persone sono state bloccate preventivamente, molto prima della manifestazione, la sera prima, la mattina prima, mentre camminavano normalmente per le strade di Roma per i fatti loro, messe con la faccia al muro, perquisite e schedate, portate perfino in commissariato.

Le istituzioni in divisa hanno mandato un messaggio forte, hanno dimostrato che sono pronte.

Si da per scontato che la platea dei poveri, dei disperati, delle famiglie che non mangiano, che vivono per strada aumenterà a dismisura, coinvolgendo strati sempre più larghi della popolazione e per tenerli a bada non servirà l’esercito perché le così dette forze dell’ordine in tutte le loro articolazioni si sono preparate e sono in grado di gestire malcontento, proteste e ribellione.

Il messaggio è chiaro: potete solo suicidarvi. Dietro questa imponente organizzazione repressiva c’è questa cinica soluzione, l’unica che, secondo loro, gli oppressi/e possono percorrere.

E le strutture repressive, come premio, ricevono benefit di ogni natura: salvaguardia ed aumento dei loro stipendi, nuove assunzioni, brillanti carriere, immunità e impunità e, per i vertici, l’entrata dalla porta principale e il sedersi nel salotto buono della borghesia, il tutto corredato da incarichi di prestigio e accompagnato dall’introduzione della pena di morte extra-legem per i cittadini/e

La Grecia ce lo ha insegnato, il sistema non vuole una soluzione fascista tradizionale, ma una soluzione autoritaria, nascosta dietro parole tanto nobili quanto inconsistenti, e non ha bisogno di ricorrere all’esercito, gli bastano le forze dell’ordine.

Ai fascisti nostalgici il ruolo di manovalanza.

Se siamo arrivati a questa situazione le responsabilità maggiori sono della socialdemocrazia che, fattasi destra moderna, sponsorizzata e sostenuta dalle multinazionali anglo-americane, ha criminalizzato ogni forma di opposizione, ha giustificato la distruzione dello Stato sociale, l’annullamento di tutte le conquiste di tanti anni di lotte e l’imbarbarimento della società, distruggendo tutte le forme di resistenza al neoliberismo. Da qui l’uso strumentale, fuorviante e disonesto dei richiami alla legalità, alla supremazia della legge, alla meritocrazia, all’efficienza del privato, allo spreco nel pubblico. Ed ancora i feticci del mercato, dello spread, del debito.

L’iper-borghesia o borghesia imperialista, nel suo processo di auto-valorizzazione, ha attaccato a fondo le condizioni di vita di una platea sempre più larga che non abbraccia soltanto le figure tradizionali degli oppressi, ma anche la piccola e media borghesia, i lavoratori cognitivi, i dipendenti pubblici e parastatali, i lavoratori autonomi, i liberi professionisti, i commercianti al dettaglio… Questa è una svolta epocale che ha fatto sì che la nostra società sia contemporaneamente ottocentesca per le condizioni di vita e per il ritorno alle guerre coloniali, nazista per l’impostazione di uno Stato etico e per la tendenza al governo diretto degli organismi sovranazionali non espressione del voto ma solo dei potentati economico-finanziari, medioevale per la delega alle corporazioni della tutela delle frazioni della società per non dire della difficoltà e quasi impossibilità di mobilità sociale.

Da dove cominciare? Dal leggere la società, i ruoli e i protagonisti per quello che sono, compito facile sulla carta, ma difficile se non siamo in grado di raccontare la natura della manifestazione del 19 ottobre, della lotta dei valsusini….. dell’aggressione alla Jugoslavia, alla Libia, alla Siria…e ci facciamo irretire da letture tanto colte quanto fuorvianti…”sono tutti imperialismi...”…”a noi interessa solo la classe operaia”… tutti germi di corruzione del discorso di classe che aiutano, in definitiva, la perpetuazione dello stato di cose presenti. Si accettano le truppe di occupazione nel terzo mondo e ne scaturisce l’assuefazione ai militari in Val di Susa, si toglie ogni valenza politica alla resistenza dei popoli aggrediti e per trascinamento si fa la stessa operazione a casa nostra.

Non si tratta di alzare il livello dello scontro, non è sufficiente collegare le lotte, ma portarle a sintesi. E’ necessaria una ricomposizione di classe che unisca tutti i segmenti della società e le realtà che sono uscite con le ossa rotte dalla realizzazione del progetto neoliberista. Nessuna classe o frazione di classe può avere in partenza la pretesa di essere egemonica in questo processo. A determinarlo sarà dialetticamente chi sarà capace di interpretare le esigenze e le aspettative comuni.

lunedì 21 ottobre 2013

richiesta di casa e reddito è un ripiegamento. Noi chiediamo e pretendiamo lavoro per tutti

La crisi come problema politico

∫connessioni precarie

La crisi sta finendo. O forse no. Non bisogna credere a chi, come se nulla fosse successo, ricomincia lentamente a celebrare le sorti progressive e magnifiche del capitalismo. Non si deve però nemmeno essere indulgenti verso chi prova quasi fastidio di fronte a questa eventualità, affidando al protrarsi della crisi la speranza di improvvisi rivolgimenti politici. È invece importante interrogarsi sulle novità di questa crisi, su come nei suoi esiti attuali le carte siano ridistribuite, insomma, sulla modificazione profonda dei processi sociali e sulle possibilità politiche che si aprono. Grazie alla crisi si sono determinate trasformazioni radicali nei rapporti di potere e nelle relazioni di dominio. Non si è trattato evidentemente di un processo a senso unico. La gestione della crisi non è stata per niente semplice per chi l’ha scatenata, ma essa ha aperto possibilità fino a poco tempo fa impensate. Ci sono state esplosioni che hanno mostrato l’esistenza di processi di lungo periodo che nella loro contraddittorietà non permettono giudizi univoci. Le rivolte sociali in Grecia e in Spagna, le rivoluzioni arabe, le insurrezioni in Turchia e in Brasile non possono essere lette né come esplosioni occasionali e locali più o meno sconfitte, né come reazioni meccaniche a situazioni di bisogno più o meno drammatico. Nemmeno gli attuali ripiegamenti dovrebbero essere letti come il segno di una sconfitta definitiva. Ci sono processi che non si esauriscono nelle esplosioni di massa, ma continuano nonostante le repressioni e le restaurazioni. Queste ultime non sono chiaramente indifferenti, ma leggere ogni evento nel tempo breve della rivolta impedisce spesso di coglierne le reali possibilità. Ciò vale tanto per le esplosioni soggettive quanto per le risposte alla crisi e alle trasformazioni da essa imposte.
Se quella che abbiamo di fronte è la prima crisi globale della società-mondo, è da questo che dobbiamo partire. Questa crisi è globale nel senso più proprio del termine, ovvero non perché investe allo stesso modo tutto il sistema sociale, ma perché si presenta come prima crisi del capitalismo globalizzato. Ciò significa che essa produce effetti differenti al punto che in Europa essa annuncia la crisi quasi strutturale di un modello, mentre altrove si sono prodotte e si producono nuove possibilità di «sviluppo». La crisi genera e legittima un mutamento decisivo nella geografia del capitalismo e, coerentemente con le modalità precarie e frammentate di accesso al lavoro, si affermano modi corrispondenti di accesso al salario e al reddito.
La grande crisi del 1929 si era trovata di fronte barriere politiche che ne avevano differenziato gli effetti. Con l’avvento dello Stato globale questa possibilità è radicalmente mutata. Il tremolio dello Stato diviene ambiente specifico non solo sul piano internazionale, ma anche per esempio nella gestione del welfare come strumento politico. Il welfare non è più erogato per corrispondere a una posizione soggettiva giuridico-politica (il cittadino lavoratore), ma per le necessità di tenuta del sistema economico. Nell’Unione europea lo Stato diventa il garante dei processi di accumulazione, riducendo drasticamente gli spazi di contrattazione o di stabilizzazione dei risultati conseguiti. Ciò significa anche che le vertenze e le lotte operaie portate avanti per far fronte alle specifiche situazioni emergenziali prodotte dalla crisi si sono trovate imbrigliate all’interno di un sistema tecnico-funzionale di pacificazioneIl confine tra l’azione sindacale e una nuova forma di corporazione stile s.p.a. – grazie alla quale solo chi partecipa al processo gode del beneficio «sindacale» – diventa sempre più sottile, mentre la precarizzazione, la frammentazione e la perdita di capacità di contrattazione da parte della forza lavoro sono indicate come una conseguenza necessaria della difficile «situazione generale».
Di certo non si tratta di una situazione eccezionale o semplicemente congiunturale. Forse la crisi economica è in fase di risoluzione, ma i suoi effetti politici rischiano di durare molto a lungo. L’altra faccia dei dati relativi alla produzione a cui i tecnici politici si appellano per indicare un trend in ripresa è infatti il livello stabile, quando non l’ulteriore aumento, del numero di inoccupati e disoccupati. Il primo effetto visibile della crisi – almeno in Italia – sembra quindi essere che essa si risolve con un risparmio netto di lavoro. La nuova composizione del lavoro vivo di cui tanti parlano avrà prima di tutto questa caratteristica. Il risparmio di lavoro non stabilisce le condizioni per la costituzione di un esercito di riserva, ma di un rapporto generalizzato e continuo con un lavoro che deve essere «conquistato». Vista dall’altro punto di vista, ciò significa che si possono imporre le condizioni, i tempi e il salario per un lavoro presentato come «scarso». In altri termini, non significa che pochi lavorano, ma che moltissimi lavorano male e con un basso salario. D’altra parte, è questo modello di sfruttamento del lavoro che ha permesso in Germania tanto la tenuta durante la crisi, quanto l’attuale ripresa.Si tratta, però, di un modello che non ruota attorno al nesso lavoro/diritti ma, al contrario, è fondato sulla loro definitiva sconnessione. Il vantaggio dei cosiddetti mini-jobs tedeschi – quello di garantire un inserimento flessibile nel mercato del lavoro seppure a bassi livelli salariali – è solo l’altra faccia di uno sgravio contributivo a vantaggio dei padroni che, come sottolineano gli analisti più avveduti, è destinato a far saltare il sistema di welfare ancora esistente nel passaggio di generazione. Mentre s’invoca l’abbattimento dei costi del lavoro come ciò che magicamente dovrebbe garantire l’incremento dei livelli occupazionali non si fa altro che sancire questa sconnessione definitiva. Essa è d’altra parte il segno distintivo dei recenti rapporti OCSE ripresi dal ministro del lavoro Giovannini. Il ministro ha sostenuto che il problema non è più il rapporto tra occupazione e disoccupazione, ma un principio di «occupabilità», che scarica completamente sugli individui la capacità di garantire la propria riproduzione attraverso la conquista del lavoro. Si tratta di un mutamento non compreso dai sindacati, non solo quelli confederali, le cui azioni finiscono così per sconfinare in una forma corporativa il cui unico spazio di manovra risiede nella cogestione del capitale umano, integrando le relazioni pubbliche aziendali. Quella che in Italia è una dequalificazione del lavoro a cui si associa un welfare ormai conferito esclusivamente alla povertà, quella che in Germania è una costante che fa strada a una compiuta individualizzazione dei rapporti sociali si presenta da altre parti del globo come la conquista di un accesso al salario e alla mobilità, uno sviluppo che non corrisponde però a una conquista di diritti e di reddito, ma a un incremento di profitti fondato sulla sconnessione tra salario, diritti e reddito. Di questo parlano le lotte portate avanti inBrasile per il prezzo dei trasporti.
Il cambiamento costante nella composizione materiale di classe a causa delle migrazioni e della continua mobilità per la conquista del lavoro muta anche la possibilità di rispondere alla crisi e ai suoi effetti, come pure la pretesa di vedere nel reddito e nei servizi, in una comune misura del bisogno, la risposta all’individualizzazione che la crisi ha definitivamente affermato. Questa composizione mobile e sfuggente, mentre mette in ridicolo l’assunto che le lotte si diano sul punto di massimo sfruttamento – come se il fatto di non avere nulla da perdere faccia automaticamente strada all’insorgenza rivoluzionaria – mette anche in questione che il punto più alto dello sviluppo sia il punto di attacco da cui partire. Se così fosse si dovrebbe ironicamente ammettere che ampie regioni dell’Europa sono oggi un Terzo mondo rispetto ad altre regioni sviluppate dell’Asia. Non c’è un punto più alto dello sviluppo, perché quel punto continuamente si sposta e spesso coincide proprio con il massimo sfruttamento, come avviene in Cina. Dove, peraltro, la massiccia concentrazione di forza lavoro in stabilimenti come quelli di Foxconn non nega i regimi di mobilità sui quali si fonda l’organizzazione globale dello sfruttamento, ma al contrario se ne alimentaIl tempo dello sviluppo non è lineare e non stabilisce le condizioni più favorevoli per contrapporre forza a forza.
La crisi ci impone di fare i conti con questa mobilità. Lo ha capito persino il presidente del consiglio a tempo Enrico Letta che, commentando l’affare Telecom, ha affermato che i capitali non hanno passaporto. La forza lavoro, al contrario, di passaporti ne ha molti. E non tutti sono emessi da qualche Stato. Questo é un fatto, e con i fatti occorre fare i conti, oppure li si subisce. Su questa differenza il capitale ha costruito uno degli assi portanti della sua forza pervasiva e organizzatrice. Questa è la differenza che è stata continuamente riprodotta, non soltanto attraverso il brutale regime dei confini che quotidianamente perpetra le sue stragi politiche di migranti, né solo attraverso la gestione organizzata dei permessi di soggiorno. Se per i migranti l’attraversamento dei confini dell’Europa e dei suoi Stati si paga al prezzo dello sfruttamento, ora per tutti è il confine da attraversare per la conquista del lavoro che ne impone la continua svalorizzazione.
Non si tratta soltanto di una svalorizzazione economica, della necessità di accettare qualunque condizione imposta pur di accedere a un salario. Si tratta di una svalorizzazione politica che inavvertitamente è sancita anche da chi, dopo aver invocato per anni l’introduzione di barriere per la libertà del capitale, scende in piazza per difendere la Costituzione come ultimo e disperato tentativo di fare sì che si tenga conto degli operai. Chi oggi imbocca ora la strada maestra della Costituzione lo fa perché un progetto è stato sconfitto. Nonostante le sentenze celebrate come una restituzione dei diritti negati, Marchionne ha vinto. In questione non è la fede nella Costituzione di onesti e coerenti giuristi, delle associazioni di volontariato, dell’evanescente società civile e della bizzarra schiera di neocostituzionali che li accompagna. Lasciamo ad altri le condanne morali e la caccia ai traditori. A noi interessa rilevare il fallimento del progetto di fare della Fiom una sorta di movimento tra i movimenti, di aggregare intorno alla resistenza operaia le istanze più diverse per costituire un fronte unico contro la crisi. Nell’impossibilità di costituire un’opposizione sociale attorno al lavoro, il gruppo dirigente della Fiom ripiega ora su un’altra Costituzione. Qualche anno fa, sempre da parte sindacale, era stato proposto un modello di cittadinanza dei diritti completamente sganciato dai regimi materiali di erogazione del lavoro e dalle loro ricadute in termini di scomposizione della cittadinanza. Oggi il lavoro dovrebbe essere il perno sul quale riaffermare il primato di una Costituzione che, però, da parte sua è oramai pienamente e irrimediabilmente svincolata dal lavoro. Le forme materiali in cui esso è sfruttato rendono impossibile la sua costituzionalizzazione. Il sospetto più che fondato è che il feticcio della costituzione occupi il posto del feticcio della cittadinanza. Questa oscillazione, sempre fuori tempo proprio rispetto a quel lavoro che pretende di rappresentare, pare essere lo stigma complessivo del sindacato del nostro tempo. La stagione delle grandi mobilitazioni e degli scioperi generali appare in ogni caso definitivamente chiusa, e con essa la possibilità del movimento di attraversarli nella prospettiva, più o meno illusoria, di radicalizzarne i contenuti.
Sarebbe bene allora prendere atto del fatto che il lavoro ha perso ogni funzione regolativa come canale di accesso ai diritti, rendendo impossibile affermarne la centralità politica. Rimane come problema non avendo più nemmeno il nome politico di precarietà, poiché quest’ultima non indica e non fa più la differenza, ma è una caratteristica globale di tutto il lavoro. Questa registrazione non risolve però la questione, perché la coazione materiale del lavoro e la minaccia molto reale dell’occupabilità pesano in maniera violenta sull’esistenza di migliaia di uomini e di donne. Rimane il riferimento a uno sciopero senza lavoro, che diventa sociale solo perché si ferma sulla soglia di ciò che non riesce ad aggredire e si nutre di quello che già dovrebbe esserci come le lotte sui territori. Di fronte a questa realtà, rifugiarsi in un nuovo universalismo «dei bisogni», rivendicando casa e reddito, appare più che altro un ripiegamento di fronte all’incapacità di aggredire i rapporti che davvero stabiliscono il dominio sociale sulla vita degli individui dopo la crisi. Che cosa significa dire a milioni di persone che ogni giorno sono costrette a fare i conti con il dominio sociale del denaro che la risposta è un reddito indeterminato e una casa da occupare? Mentre sono indicate come il nemico da assediare, le istituzioni sono così implicitamente riconosciute come la controparte chiamata a dare risposte in termini di diritti, come se questi esistessero fuori dal sistema giuridico che li riconosce e anche fuori dalla condizione materiale di chi li rivendica. Chi vuole il reddito vuole anche la burocrazia destinata ad amministrarlo, calcolarlo, distribuirlo. Chi vuole diritti deve anche preoccuparsi di indicare il quadro giuridico in cui dovrebbero inscriversi. Vale allora la pena chiedersi se reddito e diritti non finiscano per svolgere un ruolo accessorio nello Stato globale dei confini.
Gli effetti dello sfaccettato regime dei confini sono decisivi e le lotte che li attraversano sono lotte contro la pretesa più alta del capitale: regolare e istituire rapporti sociali di potere, differenze e gerarchie da sottoporre in modo elastico e variabile allo sfruttamento. Per questo i migranti sono politicamente così centrali. Non perché siano particolarmente oppressi, o vittime da offrire alla pubblica commiserazione, ma perché ripropongono costantemente la sconnessione tra lo sfruttamento del lavoro e una figura sociale incompatibile con i confini dello Stato globale dei territori e delle gerarchie sociali. Milioni di altre persone, anche quelle che non sono mai migrate, vivono la stessa condizione. Oltre tutte le legittime scadenze autunnali, la crisi lascia per noi un problema aperto: come valorizzare politicamente le sconnessioni tra comportamenti sociali e rapporto di capitale, sapendo che proprio perché non è più la matrice regolativa dell’ordine, il lavoro torna a essere da un punto di vista soggettivo un rapporto da aggredire e non solo da rifiutare.