L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 2 novembre 2013

gli imbecilli che votano Renzi vogliono privatizzare lo Stato ed eliminare le pensioni

Senza Soste: Renzi, il cioccolataio estremo

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Renzi, il cioccolataio estremo

Senza Soste

Prima di tutto va sciolto un equivoco: Matteo Renzi non è un leader moderato, o un innovatore che guarda sia a destra che a “sinistra”, ma un cioccolataio. Ovvero qualcuno che, per esibirsi nella comunicazione politica, non esita, in pochi mesi, a cambiare proposte politiche sul lavoro in modo anche imbarazzante. L’ha notato anche il solitamente quieto sbilanciamoci.info che ricorda come il Renzi del 2011, quello del contratto di lavoro alla Ichino, aveva lasciato il passo al Renzi della flexicurity, un modello comunque molto diverso, appena una decina di mesi dopo. Troppo poco per un ripensamento reale, abbastanza per capire che in materia di lavoro e di contratti Renzi procede scaricando le app disponibili nello store delle proposte, e delle cordate di potere, non per analisi politica. Estremo perché, essendosi proposto il Renzi come killer application della politica italiana, il cioccolataio in questione non nega soluzioni draconiane ottime per le apparizioni televisive: tracciabilità del contante praticamente fino agli spiccioli, creazione di una mega Equitalia (con altro nome s’intende...) e, audite audite, produrre lavoro precario con i soldi sottratti alle pensioni. Proposta nuova quanto la prima riforma delle pensioni (1995) e destinata, se mai vedesse la luce, a creare pensionati impoveriti, nuovi futuri disoccupati e un’altra voragine nei conti dello stato.Non manca il sottofondo di proposta di liquidazione degli asset pubblici, dall’Eni ai trasporti locali fino agli immobili, giusto per trasferire le risorse ai privati e all’estero. Ma anche nel centrosinistra ad uno così, non molti anni fa, al massimo avrebbero chiesto in quale ambulanza avrebbe preferito accomodarsi. Le renzinomics sono infatti il programma della liquidazione coatta delle risorse di un paese sotto il pretesto del rilancio, la resa ad ogni potere della finanza globale, e l’impoverimento supremo dell’Italia, sotto la retorica dell’innovazione.

Ma come siamo arrivati a questo punto? Il grosso dell’elettorato PD, per quanto in lenta contrazione, si affida a Renzi sentendo parole sulla scuola, sui servizi pubblici, sulla sanità che significano l’esatto contrario di quanto questo elettorato percepisce (Renzi parla di riqualificare i servizi tagliando la spesa pubblica. A questi livelli di crisi significa solo tagliare. Ma la disperazione fa sentire cose solo immaginate). Inoltre, soprattutto, l’elettorato del centrosinistra ha naturalizzato, dopo il terreno preparato da Veltroni, la necessità della leadership di matrice berlusconiana. Non a caso il Renzi della Leopolda di quest’anno è, scenograficamente, sempre più solo e sempre più al centro della scena. Siamo passati dal modello convention, compreso il simulacro di pensatoio, al Matteo Renzi show dove tutto è decorativo rispetto alla presenza del sindaco fiorentino.  Accompagnato da un microfono da idolo delle folle anni ’50 che lo rende più vicino al modello berlusconiano, quello che procede dallo spettacolo alla politica, persino più del Lingotto veltroniano (che racchiudeva un’anima di destra accentuata). Siccome l’uomo, o meglio il cioccolataio estremo, guarda esplicitamente anche a destra non mancano accenti che, nel linguaggio della politica italiana, evocano lontane origini lessicali nel parlato della squadraccia La Disperata: “ve la toglieremo noi questa voglia di proporzionale”. D’altronde lo stratega sindaco pensa in grande: vuole un sistema bipolare quando ormai i due maggiori partiti stentano a raggiungere il 50 per cento assieme. Ci vorrà pure un atto di decisione che rimetta in piedi l’Italia, che diamine. Se poi la “riforma” elettorale del Renzi è persino peggio della legge attuale, trascinando il paese in una sorta di Cambogia della democrazia elettiva prima di Pol Pot, sarà colpa di chi “non ha voluto innovare”. Magari opponendosi allo smantellamento dei residui diritti. Prima costituzionali poi materiali.

Ci sarebbe da ridere, e per molti versi c’è da farlo, di fronte a questo vuoto nulla che parla come un cabarettista ingaggiato per intrattenere i passanti da uno store appena aperto in un grande centro commerciale. Che evoca la parola “primarie” e quella “riforma elettorale”, inutili procedure di voto che non risolveranno mai la sostanza della crisi italiana, come se fosse di fronte ad eventi benedetti dall’alato corso della storia. Solo che i tempi velano la bocca non appena questa accenna a ridere e, nella stampa europea che conta (Il Telegraph), circolano analisi dettagliate sulla spirale tagli-depressioneeconomica-nuovi tagli che nel medio periodo sembra quasi irreversibile per la società italiana. Renzi se diventasse presidente del consiglio, se non fosse fermato in tempo, potrebbe dare il colpo di grazia a questo paese. Le renzinomics porterebbero capitali di rapina in Italia e la fuga di ricchezza all’estero. A suo modo, un capolavoro. Ma quello che rende Matteo Renzi inevitabilmente un minore della politica non è tanto il suo essere un’imitazione vernacolare di Toni Blair, clone di provincia con una visione politica che non arriva alla punta del naso. Quanto che l’8 dicembre, giorno delle primarie che dovrebbero incoronare Renzi, sarà piuttosto il trionfo finale di Silvio Berlusconi. Con una candidata (Marina) che suggella la soluzione dinastica nel futuro di Forza Italia e un segretario del Pd (Renzi) che è il prodotto più berlusconiano della storia del centrosinistra. Grande Matteo, cioccolataio estremo della politica il cui declino, si spera rapido, lo porterà ad aprire capitoli di storia del cabaret politico. Non molto per l’autoproclamatasi salvezza del centrosinistra e del paese.
 

venerdì 1 novembre 2013

la Consorteria Guerrafondaia Statunitense conosce solo la forza delle armi

il Muos di Niscemi strumento di guerra del XXI secolo

Di Antonio Mazzeo

Il MUOS (Mobile User Objective System) è il nuovo sistema di telecomunicazioni satellitari che permetterà il collegamento della rete militare USA (centri di comando, controllo e logistici e gli oltre 18.000 terminali militari radio esistenti, tutti gli utenti mobili come droni, cacciabombardieri, unità navali, sommergibili, reparti operativi, missili Cruise, ecc.), accrescendo esponenzialmente la velocità e il numero delle informazioni e dei dati trasmessi nell’unità di tempo e rendendo sempre più automatizzati e disumanizzati i conflitti del XXI secolo. Consentirà inoltre di propagare universalmente gli ordini di guerra convenzionale e/o chimica, batteriologica e nucleare e finanche quelli per manipolare il clima e l’ambiente.
«La nuova costellazione satellitare assicurerà sino al 2030 le comunicazioni in tempo reale audio, video e dati in ultra alta frequenza (Ultra High Frequency UHF) a tutti i sistemi di guerra mobili USA ovunque essi si trovino e sarà pienamente interoperativo con il Joint Tactical Radio System (JTRS), i cui terminali sono in via di sviluppo, e con i sistemi radio odierni», spiega il Comando centrale della marina militare degli Stati Uniti d’America. Il MUOS consentirà inoltre l’accesso ai servizi del Defense Information System Network, condizione che non era possibile con i vecchi apparati di telecomunicazione militare ad altissima frequenza.«Sino ad oggi, con i sistemi satellitari tradizionali, due utenti che vogliono comunicare tra loro devono trovarsi sotto un satellite; con il MUOS cambia tutto», aggiunge il capitano Paul Ghyzel, responsabile del programma di US Navy. «Il Mobile User Objective System consentirà ad ogni singolo utente di rapportarsi con tutti gli altri all’interno dell’area di copertura della costellazione che è globale».
La tecnologia di trasmissione del sistema MUOS sarà quella adattata dalla telefonia cellulare di terza generazione (3G) Wideband Code Division Multiple Access(WCDMA) con una capacità di trasmissione dieci volte superiore a quella degli odierni sistemi satellitari, mentre per i collegamenti dati sarà usato il protocollo internet di ultima generazione IP/4. Il MUOS si affiancherà al sistema UFO (Ultra High Frequency Follow-On), in funzione dal 1993 con undici satelliti (di cui solo otto sarebbero ancora funzionanti), sino a sostituirlo definitivamente entro la fine del decennio. Rispetto all’UFO, il MUOS assicurerà maggiore mobilità, facilità di accesso e migliore qualità dei servizi agli utenti. Il nuovo sistema satellitare può rispondere infatti ad una domanda di traffico di circa 83 chiamate e messaggi al secondo quando invece l’UFO raggiunge il massimo di prestazione approssimativamente in 4 chiamate e messaggi al secondo. «Un servizio dati più rapido riduce i ritardi nel ritrasmettere le informazioni durante le operazioni più critiche», spiegano gli strateghi del Pentagono.
Onde ad altissima frequenza per annientare il nemico
La rilevanza strategica del sistema satellitare è ribadita nei documenti presentati dal Comando di US Navy al Congresso per ottenere i fondi necessari al suo sviluppo. «Il MUOS giocherà un ruolo centrale nella nuova visione NCO (Network-Centric Operations) del Dipartimento della difesa perché è un sistema disegnato per consentire le comunicazioni interoperabili, robuste e network-centriche di cui hanno bisogno i sistemi di guerra per le future operazioni», scrivono i responsabili militari. «Il concetto NCO descrive la combinazione di strategie, tattiche emergenti, tecniche, procedure e organizzazioni che può utilizzare un reparto militare inserito del tutto o parzialmente in rete in modo da ottenere un decisivo vantaggio nelle azioni di guerra». Il nuovo sistema satellitare dovrà inoltre assicurare alle forze armate statunitensi la superiorità assoluta nelle sei aree strategiche definite dal Centro di guerra di US Navy: l’intelligence, la sorveglianza e il riconoscimento; le telecomunicazioni; il Position/Navigation/Timing (PNT); il controllo dello spazio; l’allarme-difesa e la risposta ai missili balistici; la meteorologia e l’oceanografia (METOC).
Le telecomunicazioni in UHF (dai 30 MHz ai 3 GHz) vengono utilizzate da tutte le agenzie delle forze armate e del governo USA per le operazioni tattiche che coinvolgono gli aspetti relativi alle attività C4ISR (Comando, Controllo, Comunicazioni, Computer, Intelligence, Sorveglianza e Riconoscimento). Le trasmissioni satellitari in altissima frequenza supportano i dislocamenti rapidi per via terrestre, aerea e navale delle unità da guerra a livello planetario e hanno un ruolo determinante ed insostituibile, ad esempio, per inviare ordini e informazioni a tutte le unità mobili statunitensi che operano nello scenario di guerra afghano. Durante le fasi iniziali di un’operazione bellica, la prima ondata d’attacco degli strumenti di guerra mobili (cacciabombardieri, droni, missili, ecc.) utilizza principalmente l’UHF per i suoi indiscutibili vantaggi e anche perché non ci sarebbe il tempo di rendere operativi i grandi sistemi di comunicazione in SHF ed EHF (Super High Frequency ed Extremely High Frequency, cioè frequenze super alte ed estremamente alte, con un range compreso tra i 3 e i 300 GHz), che richiedono infrastrutture particolari come grandi antenne e linee di trasmissione o reti a fibre ottiche. Le trasmissioni in banda UHF, oltre ad essere compatibili con il maggior numero di utenti militari, penetrano attraverso il fogliame delle giungle e gli ambienti urbani più facilmenterispetto alle altre frequenze. Grazie ai terminali in UHF, un militare può combattere e comunicare indipendentemente dalle condizioni climatiche ed atmosferiche; di contro, questi sistemi sono più sensibili alle sempre maggiori interferenze artificiali.

Cinque satelliti nello spazio e quattro terminali in terra
L’architettura del MUOS si basa sulla realizzazione di un ponte terra-spazio-terra che comprende quattro satelliti geostazionari (più un quinto satellite in orbita di riserva) e quattro terminali terrestri. I satelliti sono progettati per mantenere in cielo la loro posizione costante in qualsiasi momento nell’arco delle 24 ore a più di 36.000 Km dalla terra. Ogni satellite è mostrato sulla propria rispettiva area di copertura e classificato rispettivamente come Pacific(PAC), Continental U.S. (CONUS), Atlantic (LANT), and Indian Ocean (I.O.). Stando a quanto riferito dal Comando di US Navy, i satelliti saranno posizionati alle seguenti longitudini: il primo a 177° Ovest, incrociando il meridiano che passe per le isole Fiji; il secondo a 100° Ovest (su un meridiano che passa circa a metà degli Stati Uniti d’America); il terzo a 15,5° Ovest (su un meridiano che passa per le isole Canarie), mentre il quarto a 72° Est (su un meridiano che passa per le Maldive e l’India). Tutti i satelliti saranno collegati tra loro mediante link intersatellitari (ISL) da 60 GHz, mentre ognuno di essi si interfaccerà con la stazione terrestre di riferimento geografico o ai ricevitori mobili come un comune telefono cellulare impiegando la banda UHF compresa tra i 300 MHz e i 3 Ghz.
La gestione e il controllo a distanza dei satelliti (incluso il loro lancio nello spazio) saranno realizzati dal Naval Network and Space Operations Command e dal Naval Satellite Operations Center di Point Mugu, California. Le attività prettamente operative dei satelliti saranno invece sotto la responsabilità del MUOS Global Satellite Support Center insediatosi presso il Comando strategico delle forze armate USA (nella base aerea di Offutt, Nebraska), con la collaborazione di diversi centri regionali di comando, supporto e combattimento di US Navy. Il Comando di Offut sovrintende alle funzioni d’intelligence, ricognizione, sorveglianza e “difesa missilistica” e controlla l’intero arsenale nucleare delle forze armate statunitensi.
Le stazioni terrestri del MUOS consentiranno le connessioni ed i controlli interfaccia tra i satelliti MUOS e i network di telecomunicazione del Dipartimento della difesa degli Stati Uniti con base a terra. Questi terminalisono previsti all’interno di quattro infrastrutture nella disponibilità delle forze armate USA: a Chesapeake, nei pressi di Norfolk, Virginia; nella Naval Computer and Telecommunications Area Master Station Pacific di Wahiawa (isole Hawaii); nell’Australian Defence Satellite Communications Ground Station (ADSCGS) di Kojarena, 30 km ad est di Geraldton (Australia); nella Naval Radio Transmitter Facility (NRTF) di Niscemi (Caltanissetta) che si trasformerà così nel più importante snodo delle telecomunicazioni militari USA in Europa, Africa e Medio Oriente. Ogni stazione sarà dotata di tre grandi antenne paraboliche dal diametro di 18,4 metri efunzionanti in banda Ka per le trasmissioni verso i satelliti geostazionari e di due trasmettitori elicoidali di 149 metri d’altezza in banda UHF (tra i 240 e i 315 MHz) per il posizionamento geografico. Le maxi-parabole trasmetteranno con frequenze che raggiungeranno valori compresi tra i 30 e i 31 GHz con una potenza di 1.600 W ciascuna e un guadagno d’antenna massimo di 71,4 db, nella direzione del fascio principale. I due trasmettitori elicoidali, modello TACO H124, opereranno invece con una potenza di 105-200 W ciascuno e un guadagno d’antenna massimo di 16 db. I due trasmettitori avranno cinque diverse possibili direzioni di puntamento.

Verso un superspionaggio stellare
La lunga e controversa storia del MUOS prese avvio nel 1996 quando il Sottosegretariato alla difesa spaziale fu contattato dal Joint Space Management Board (JSMB) per definire la nuova architettura delle comunicazioni satellitari militari statunitensi. L’organo governativo raccomandò di dar vita ad un processo di transizione verso sistemi più avanzati dal punto di vista tecnologico soprattutto per il Dipartimento di US Navy. Dopo alcuni anni di ricerche e progetti nei laboratori delle forze armate e in alcuni importanti centri spaziali universitari fu elaborato il modello guida del Mobile User Objective System.
La realizzazione del programma fu affidata allo Space and Naval Warfare System Command (SPAWAR) di San Diego, California, il maggiore comando di ricerca ed ingegneria di US Navy nel settore dei sistemi di guerra e C4ISR e dello sviluppo dei sistemi spaziali e di sorveglianza sottomarina. SPAWAR è pure uno degli enti militari maggiormente coinvolti nelle operazioni di spionaggio ed intelligence contro obiettivi nazionali ed esteri. Costituito nel maggio 1985 come “Echelon II Command” sotto il controllo della CIA e della National Security Agency – NSA (la più potente centrale di spionaggio planetario USA), il Comando per i sistemi di guerra spaziale e navale di San Diego ha gestito il famigerato sistema “Echelon” che gli Stati Uniti hanno implementato congiuntamente ai servizi segreti militari di Gran Bretagna, Canada, Australia e Nuova Zelanda per intercettare e decodificare conversazioni telefoniche e radio, fax, e-mail, Internet, ecc.. “Echelon” ha potuto contare su una serie di stazioni operative sparse in tutto il mondo, una delle quali è stata proprio la Defence Satellite Communications Ground Station di Kojarena, Australia, che ospiterà uno dei quattro terminali terrestri del MUOS (in Italia ha fatto parte del network di “Echelon” la base d’ascolto di San Vito dei Normanni, in Puglia).


 Il programma MUOS si è sviluppato in più fasi. La prima si è conclusa nel giugno 2001 quando otto dei maggiori gruppi industriali-militari statunitensi (Boeing, Globalstar, ICO/Teledesic, INMARSAT, Orbital Sciences, Lockheed Martin, Raytheon e Spectrum Astro) elaborarono per conto del Dipartimento della difesa la struttura concettuale del sistema satellitare. Nel giugno 2004 lo Space and Naval Warfare Systems Command costituì a Chantilly (Virginia) il PEO-Space Systems Satellite Communications Office (PMW-146) e gli affidò la gestione dei sistemi spaziali già in uso alla US Navy (come ad esempio l’UFO) e l’acquisizione dei satelliti e la predisposizione dei terminali terrestri del MUOS. Il 24 settembre 2004 il PMW-146 sottoscrisse con la Lockheed Martin Space Systems di Sunnyvale (California) un contratto da 2,1 miliardi di dollari per realizzare i primi due satelliti, la piattaforma per il loro trasporto nello spazio e gli elementi predisposti al controllo terrestre. Il committente si riservava l’opzione di assegnare la costruzione di altri tre satelliti per un valore finale complessivo di 3,26 miliardi di dollari.

Sistema-business per i mercanti di morte
La Lockheed Martin Space Systems è una società interamente controllata dalla Lockheed Martin, la principale holding USA del comparto “difesa” con sede centrale a Bethesda (Maryland), 120.000 dipendenti e un fatturato che nel 2012 ha superato i 47,2 miliardi di dollari. Oltre al MUOS, Lockheed Martin è anche la produttrice dei cacciabombardieri F-35 a doppia capacità convenzionale-nucleare che il governo italiano – con un accordo firmato da Silvio Berlusconi nel 2002 e reso operativo da Romano Prodi nel 2007 – si è impegnato ad acquistare con una spesa che alla fine potrebbe sfiorare i 20 miliardi di euro. Grazie ad un multimilionario contratto sottoscritto con il Dipartimento della difesa, Lockheed Martin assicura dal 2010 la gestione delle operazioni aeroportuali delle basi di US Navy di Sigonella e Napoli-Capodichino.
All’affaire MUOS partecipano in qualità di sub-contractor altre importanti società di armamenti rigorosamente con sede negli States: General Dynamics C4 Systems (Scottsdale, Arizona), chiamata ad installare le mega-antenne satellitari e curare il collegamento tra i quattro segmenti terrestri; Boeing Defense Space and Security (El Segundo, California) per la messa in funzione e la verifica di compatibilità del sistema; Harris Corporation (Melbourne, Florida) per la fornitura dei riflettori; SATCOM Technologies (sedi ed impianti in California e Texas) per la costruzione vera e propria delle antenne; la filiale texana della svedese Ericsson per la costruzione di alcune porzioni del segmento integrato terrestre. Al progetto concorrono inoltre con commesse minori le aziende InterDigital, Epsilon e Pinnacle Network System, mentre a partire del luglio 2006 anche l’altra potente corporation del complesso militare industriale USA, Northrop Grumman, è entrata nel MUOS team per progettare e produrre i delicati sistemi di navigazione inerziale dei satelliti. Con sede centrale a Los Angeles (California), Northrop Grumman è la produttrice degli aerei senza pilota “Global Hawk” destinati in buona parte ad operare dalla stazione aeronavale di Sigonella con l’aeronautica e la marina militare statunitense e le forze NATO. Proprio nella base siciliana, Northrop Grumman ha eseguito le operazioni sperimentali, tecnico-logistiche e di manutenzione dei nuovi droni-spia. Nell’aprile 2013, la controllata Northrop Grumman Technical Services di Herndon (Virginia) ha invece ottenuto il contratto per eseguire le operazioni logistiche a supporto dei velivoli da trasporto VIP C-20 “Gulfstream” di US Air Force nelle basi di Sigonella, Remstein (Germania), Andrews (Maryland) e Kanehoe Bay (isole Hawaii).
Sono rimaste fuori dalle plurimilionarie commesse del MUOS le aziende che erano state “sponsorizzate” direttamente dall’allora governatore della Florida, Jeb Bush (figlio dell’ex presidente degli Stati Uniti George W. Bush e fratello dell’altro ex presidente George Bush junior): Raytheon Corporation e Honeywell Space Systems, in gara insieme contro il team guidato da Lockheed Martin Space Systems. Tra gli atti del Congresso compare una missiva a firma della Segretaria di Stato della Florida, Glenda Hood, in data 24 giugno 2004, indirizzata al portavoce della Camera dei Rappresentanti Dennis Hastert, in cui si riportano le richieste del governatore Bush e del Senato della Florida affinché sia attribuito il nuovo programma militare alle due aziende con la creazione di «non meno di un migliaio di posti di lavoro ad alta tecnologia nei distretti di Clearwater, Tampa, Orlando e nel Kennedy Space Center della NASA in Florida».
Nonostante i massicci investimenti del Pentagono e le risorse tecnologiche messe in campo dai contractor,del rivoluzionariosistema di telecomunicazioni satellitari in UHF sino ad oggi si è visto ben poco. A causa di un impressionante numero di errori progettuali, “imprevisti” tecnici e test operativi falliti e l’aggiunta in corso d’opera di soluzioni alternative per le apparecchiature terrestri e spaziali (è stato modificato ad esempio il link con la National Security Agency – NSA), il cronogramma del progetto ha accumulato un ritardo di non meno di quattro anni. In origine, il Comando di US Navy aveva programmato di lanciare i satelliti a partire dalla fine del 2009 per ottenere la loro piena capacità operativa entro il 2013. Prima della fine del 2012 dovevano invece entrare in funzione i quattro terminali terrestri del MUOS. Il lancio in orbita del primo satellite è avvenuto in realtà solo il 24 febbraio 2002 da Cape Canaveral (Florida), ventisei mesi dopo di quanto previsto dal progetto, mentre il secondo satellite è stato lanciato solo il 19 luglio 2013. Secondo le nuove previsioni di SPAWAR gli altri tre satelliti verranno lanciati tra il 2014 e l’ottobre del 2015, mentre tutte e quattro le stazioni di terra saranno completate solo a fine 2013. Stando così le cose la costellazione del MUOS sarà pienamente operativa non prima del 2016. C’è però da credere che i tempi si dilateranno ulteriormente: secondo l’analista Marco Caceres del Teal Group (centro studi sui temi della difesa spaziale con sede a Fairfax, Virginia) il nuovo sistema di telecomunicazioni non potrà entrare in funzione prima del 2018. L’impossibilità di rispettare i tempi fissati dai progettisti era nota già nel marzo 2004 tra gli ufficiali responsabili dello Space and Naval Warfare Systems Command, come è possibile apprendere da un’intervista resa da uno di essi alla rivista specialistica Sea Power. (Hunter C. Keeter, “Despite Delay, Navy Is Committed To Satellite Communication Program”, Sea Power, March 2004, http://www.navyleague.org/sea_power/mar_04_26.php). Ciononostante sei mesi più tardi il PEO-Space Systems Satellite Communications Office di US Navy affidava le commesse del MUOS tranquillizzando il Congresso che il “vitale” programma strategico avrebbe rispettato in pieno il cronogramma. A seguito infine dei notevoli ritardi nell’entrata in funzione del nuovo sistema satellitare, onde non registrare un deficit delle trasmissioni in UHF sempre più rilevanti soprattutto per coordinare le accresciute operazioni belliche dei droni, dal 2009 la Marina USA ha sottoscritto accordi internazionali per accedere al sistema satellitare Leasat della società privata Intelsat General di Bethesda (Maryland), al sistema britannico SkyNet e ai satelliti SICRAL in dotazione alle forze armate italiane.
Parallelamente alla dilatazione dei tempi sono cresciute le spese di progettazione e realizzazione del sistema satellitare, la cui utilità – come per i caccia F-35 di produzione Lockheed Martin – è sempre più messa in dubbio dagli stessi analisti militari. Il costo complessivo finale del MUOS è ignoto anche perché nei bilanci del Dipartimento della difesa le voci ad esso destinate si moltiplicano con gli anni e fare ordine tra i numeri è fatica di Sisifo. Nel febbraio 2010, la prime contractor ha ottenuto una rinegoziazione del contratto originale, che solo per i cambi ingegneristici ha previsto un aumento del 61% di quanto previsto nel settembre 2004. Il Government Accountaibility Office (GAO), l’istituzione statunitense con funzioni omologhe alla nostra Corte dei Conti, in un rapporto del marzo 2011 sui sistemi d’arma in via di acquisizione dal Pentagono ha stimato che alla fine il MUOS comporterà costi non inferiori ai 6 miliardi e 830 milioni di dollari. Cifra che alcuni esperti ritengono ancora del tutto sottostimata. Alla fine infatti la spesa per satelliti e terminali terrestri potrebbe sfiorare i 10 miliardi di dollari.
Scheda preparata dal peace researcher Antonio Mazzeo per conto del Coordinamento dei Comitati No MUOS in occasione dell’incontro nazionale “Muos: Sicilia tra ponte di pace e e avamposto militare, co-promosso con i Parlamentari per la Pace presso la Camera dei deputati, Roma 23 ottobre 2013.

Antonio Mazzeo. Giornalista, saggista e ricercatore sui temi della pace, del disarmo e della militarizzazione. E’ autore del volumetto Un EcoMuostro a Niscemi (Sicilia Punto L, Ragusa, 2012).Nel 2010 ha conseguito il Primo premio “Giorgio Bassani” di Italia Nostra per il giornalismo e nel 2013 il secondo premio nazione “Gruppo Zuccherificio” di Ravenna per il giornalismo d’inchiesta con un articolo sulla trattativa Stato-mafia pubblicata nel mensile I Siciliani giovani. Per consultare articoli e pubblicazioni: http://antoniomazzeoblog.blogspot.it/

giovedì 31 ottobre 2013

abbattere l'Euro significa lottare per l'Europa dei popoli liberi e sovrani

Diego Fusaro: Più o meno Europa?

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Più o meno Europa?

di Diego Fusaro

In una lettera recentemente apparsa on line, l’amico e collega Luciano Canova ha mosso delle obiezioni alle mie posizioni sull’euro e sulla necessità di congedarsene il prima possibile. Lo ringrazio fin da ora per le stimolanti riflessioni su temi così nodali. E proverò qui di seguito a elaborare una risposta, sia pure sintetica. In primis, caro Luciano, mi permetto di rettificare due punti: il “cretinismo economico” (Gramsci) non è un’accusa rivolta a te e all’economia in quanto tale, ma, più in generale, all’odierno spirito del tempo, di cui l’economia è espressione quintessenziale. La riduzione dell’essente a quantità calcolabile, sfruttabile e valorizzabile non è forse – come ben sapeva Heidegger – la triste essenza del nostro tempo? Non è forse questo il cretinismo economico di un tempo in cui non si ragiona se non in termini di debiti e crediti, di crescita e di profitto, di austerity e fiscal compact, di spread e di deregulation? Questo è l’orizzonte in cui siamo, e di questo dobbiamo occuparci (né di Marshall, né di Smith): l’economia di cui parla Aristotele è tutt’altro che cretinismo economico, ovviamente; ma quella odierna, elevata dal pensiero unico a teologia della disuguaglianza sociale? L’economia è oggi la teologia del capitale finanziario. I pochi economisti che, come te, si sottraggono a questa follia generale sono i benvenuti e dovrebbero essere i primi a indirizzare i loro strali contro i colleghi organici al sistema finanziario.
Seconda precisazione: a rigore, il paragone tra Hitler e la Merkel che tu mi attribuisci non è mio, ma del conduttore televisivo della trasmissione a cui ho partecipato qualche settimana fa.
Quel che dico e ripeto è che – al di là delle “maschere di carattere” individuali – la Germania sta oggi con successo facendo, tramite la violenza economica del sistema eurocratico, ciò che non era riuscita a fare coi carri armati nel secolo scorso: si veda, ad esempio, l’osceno asservimento del popolo greco.
Anch’io come te rabbrividisco, peraltro come ogni persona di buon senso, al ricordo della shoa: ma non uso la memoria di quella tragedia per distogliere lo sguardo da quelle presenti o, peggio ancora, per pensare che quella sia la sola tragedia nella storia. L’olocausto oggi si ripete in forme nuove, sempre più spesso nella macabra forma dell’olocausto economico: è curioso, ad esempio, che nella tua lettera si ricordi lashoa e non vi sia una parola di ricordo per l’odierno olocausto economico del popolo greco. L’ideologia non è solo quella delle volgari pratiche negazioniste, ma anche quella del ricordo selettivo delle tragedie (con annesso oblio di quelle ritenute discrezionalmente indegne di essere ricordate). La memoria del barbaro sterminio operato dal nazismo non deve forse essere finalizzata, oltre che al giusto ricordo delle vittime, a educare le nuove generazioni affinché non tornino a verificarsi orrori analoghi? Come sapeva Gramsci, la storia insegna ma non ha scolari.
Il punto sta proprio in questo, caro Luciano: nel quadro di un’Europa unita esclusivamente sulle basi della Banca Centrale Europea e della conseguente eurocrazia, si realizza tramite la violenza silenziosa dell’economia l’oppressione dei popoli che nel Novecento era ottenuta mediante il dispiegamento di carri armati e drappelli militari, imponendo agli Stati svuotati di sovranità le quarantott’ore di tempo, come nei classici ultimatum politici, per adottare adeguate misure di crescita. Per questo motivo, il gesto più rivoluzionario che si possa compiere è abbandonare questa follia organizzata (versione finanziaria dell’olocausto!) e tornare nei confini dello Stato nazionale sovrano, per perseguire, a partire da esso, il progetto del comunitarismo cosmopolitico, vuoi anche dell’Europa basata su rapporti tra popoli e Stati liberi e uguali, rispettosi delle differenze culturali e linguistiche. Perché, allora, caro Luciano, ricordare con commozione le tragedie passate e accettare in silenzio quelle presenti?
Non mi stancherò di ripeterlo: poiché l’Europa a cui anche tu, caro Luciano, aspiri – l’Europa kantiana dei popoli e delle nazioni, della libertà e dell’uguaglianza – è l’esatto opposto dell’odierna eurocrazia delle banche e della finanza, dello spread e del debito, dell’asservimento dei popoli e delle “tragedie nell’etico”, è impossibile e, di più, esiziale pensare che la soluzione, come tu dici, sia nel teologumeno “ci vuole più Europa”: tale teologumeno presuppone che l’Europa così com’è non sia un progetto criminale da abbandonare in nome di un’altra Europa, bensì un primo passo, sia pure imperfetto verso la “vera” Europa.
Sbagliato. Ed è sbagliato proprio perché, così com’è, l’Europa non esiste affatto, se non come asservimento dei popoli e come dittatura della finanza: e questo nel quadro di un perverso sistema in cui a decidere non sono parlamenti e popoli sovrani, ma banchieri e finanza, in una oscena oligarchia che non pensa ma solo calcola, ai danni del pianeta e dei popoli. Con i versi di Ezra Pound, when kings quit, the bankers began again: “quando cessarono i re, ricominciarono i banchieri” (The Cantos, 97). Il sogno di Kant è sostituito dall’incubo dell’eurocrazia: pensare di pervenire al primo senza uscire dal secondo è un errore clamoroso, purtroppo largamente egemonico nell’odierno panorama culturale e politico. Ed è su questo delicato punto che ti invito a riflettere serenamente.
Ora, dire al cospetto delle tragedie attualmente generate dall’Europa che la soluzione sarebbe “più Europa” equivarrebbe a sostenere che, al cospetto di un drogato, la terapia adatta sta nel somministrargli più droga. Io credo, invece, che si tratti di eliminare la droga, nel nostro caso di uscire dal folle progetto eurocratico, tornare alla sovranità nazionale e, da lì, perseguire forme di comunità alternative, sempre basate sul riconoscimento tra liberi e uguali, categoria filosofica che, come ben sai, desumo dalla filosofia di Hegel. La vera Europa – di cui l’odierna è la perversa negazione – è un’Europa di popoli liberi e sovrani, con le loro lingue e le loro tradizioni, in cui a decidere sia il popolo e non l’economia, gli uomini in carne e ossa e non le entità “sensibilmente sovrasensibili” – avrebbe detto Marx – del mercato e della finanza.
So bene che non vi è solo il pensiero unico neoliberale e conosco non pochi economisti che eroicamente gli resistono (da Emiliano Brancaccio a Riccardo Bellofiore, per rimanere anche solo in Italia). Essi hanno tutta la mia stima ed è con loro che, dal mio punto di vista, bisognerebbe collaborare. Come sai, per me la filosofia esiste sempre socraticamente nello spazio dialogico tra i saperi ed è vocazionalmente interconfessionale. Quindi, ben venga il dialogo con gli economisti, a patto che non siano semplici duplicatori ideologici dell’esistente.
In conclusione, so bene quanto sia difficile uscire dall’euro (soprattutto perché a gestire l’uscita sarebbe la stessa sciagurata classe politica attualmente insediata al potere): ma so altrettanto bene quali siano i costi del rimanervi. Lacrime e sangue, austerity e spending review (le tragedie sociali si pronunciano oggi sempre e solo in inglese). Respingo, caro Luciano, l’alternativa: l’euro o l’abisso; l’euro è l’abisso, e bisogna salvarsene il prima possibile, prima che inizi la gran notte che non ha mattino. Quale altro abisso maggiore di quello che stiamo patendo sulla nostra pelle? La retorica dell’abisso serve a rendere accettabile quello presente in cui già siamo.
I sacrifici che la follia organizzata del sistema eurocratico ci sta imponendo sono troppo alti: sacrifici in nome di cosa, poi? Della finanza e delle banche, non certo delle generazioni future e dei popoli più deboli. Del resto, sai bene che non abbiamo scelto noi di entrare nell’euro: non è stato democratico l’ingresso, forse può esserlo l’esodo. Con questo, caro Luciano, concludo, ben sapendo che la discussione sarebbe appena cominciata. Ringraziandoti ancora per le osservazioni e salutandoti con amicizia e stima,
Diego

http://www.sinistrainrete.info/europa/3151-diego-fusaro-piu-o-meno-europa.html

un modello nuovo di sviluppo...


post — 31 ottobre 2013 at 07:21

Petrini: No Tav un’orgogliosa rivendicazione

Carlin-Petrinidi Marta Tondo – Nuovasocietà

Dopo diversi intellettuali e uomini di cultura come Erri De Luca, Ascanio Celestini, Mauro Corona che si sono espressi sulla contrarietà alla linea ad alta velocità Torino-Lione e alla vicinanza, all’appoggio e alla legittimità del movimento, ora anche Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, dice la sua sul Tav e sulla lotta che da vent’anni si oppone a quella ormai nota come “la grande opera inutile”.
«Le proteste No Tav in Val di Susa, al di là delle considerazioni di parte, rappresentano un’orgogliosa rivendicazione in difesa dell’integrità di un territorio, mentre coinvolgono ogni generazione e ceto sociale, quasi sempre in maniera molto civile, benché si tenda a dipingere tutti i contestatori come terroristi». È questa l’analisi che si legge nel suo nuovo libro dedicato ai movimenti di protesta, “Cibo e libertà”.
«E’ comune la richiesta, soprattutto da parte delle giovani generazioni – è l’analisi di Petrini – di un modello nuovo di sviluppo, per governare e gestire le delicate questioni ecologiche e sociali che si vanno imponendo in questo periodo storico, definito come post-moderno».
«Non si può generalizzare e accomunare tutto con facilità, perché si rischia di banalizzare le singole istanze e situazioni, ma certo – prosegue – è che dalla protesta no-global del “popolo di Seattle” durante la riunione del Wto del 1999 i casi si sono moltiplicati con sempre maggiore frequenza. Considerando anche solo gli ultimi anni».
Un viaggio attraverso i movimenti che lottano per creare qualcosa di diverso e di migliore: «Dalla primavera araba, il movimento Occupy, le mobilitazioni pacifiche degli Indignados, che dalla Spagna nel 2011 si sono diffuse nel mondo, e ci metto anche le proteste No Tav in Val Susa». Tutte quelle lotte fatte nel nome della libertà.

http://www.notav.info/post/petrini-no-tav-unorgogliosa-rivendicazione/

martedì 29 ottobre 2013

Letta dice menzogne Grillo ha ragione

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Operazione verità: a che punto è la notte italiana

Questo è un lancio corale: vari siti e blog economici indipendenti, tutti insieme oggi rilanciamo questa operazione di verità sulla vera deriva che in questo contesto dissennato inevitabilmente prenderanno i conti pubblici italiani - e sulla colpevole falsità di chi annuncia una ripresa impossibile che slitta di anno in anno... 

Il post è stato elaborato con la collaborazione di vari autori.


Premessa

In questi anni di crisi, oltre alle tasse e al disagio economico e sociale, c'è stata un'altra grande costante che ha tenuto compagnia alle nostre giornate, ai nostri momenti: la menzogna proferita in modo sistematico dai vari governi e dai politici di turno che, in maniera spudorata e vergognosa, hanno reiteratamente mentito e mistificato (e continuano a farlo) circa l'esatta situazione dell'economia e dei conti pubblici, in costante ed inesorabile deterioramento.

È chiaro che tutto ciò incorpora evidenti elementi di criminalità, proprio perché tende ad alimentare false aspettative da parte degli agenti economici più deboli: i disoccupati con le loro famiglie e le imprese, prime vittime sacrificali di questa crisi.

Proprio per questo, insieme ad altri siti amici, tra i più seguiti in Italia di economia, tutti liberi e senza padroni, abbiamo pensato di lanciare, coralmente, tutti insieme, questo post divulgativo al fine di far ben comprendere l'esatto stato dei conti pubblici e dell'economia.


La menzogna



I grafici che seguono esplicano in maniera esaustiva i clamorosi errori previsionali commessi dai vari governi che si sono alternati negli ultimi 3 anni di crisi, su Deficit Pubblico, Debito pubblico e Pil Nominale.



 




A che punto è la notte italiana


Come noto, appena qualche settimana fa, il governo ha reso pubblica la Nota di Aggiornamento al DEF. Per chi non lo sapesse, il DEF è il documento di economia e finanza che rappresenta il punto nodale nella programmazione della politica economica e di bilancio del paese. Il punto d’incontro tra politica nazionale e l’Unione Europea, che incorpora le variabili macroeconomiche e di bilancio che il governo stima si possano realizzare, stante una crescita presunta del PIL.

Leggendo il documento licenziato dal governo, la cosa che più lascia perplessi è dover constatare la volgarità della menzogna esercitata dal governo, proprio su talune variabili che risultano manifestamente abbellite, taroccate, per nulla aderenti con la realtà dei fatti, con l'esatta situazione dell'economia italiana e dei conti pubblici. Questi ultimi, appositamente “massaggiati” per offrire un quadro della finanza pubblica migliore rispetto a quello che effettivamente è.

Cerchiamo di andare nel dettaglio.


La menzogna sui conti pubblici


La nota licenziata dal Governo, rispetto al DEF di primavera, con la fine dell'anno ormai alle porte, recepisce ciò che era ormai chiaro da mesi, più o meno a tutti i commentatori di buon senso. Ossia che il Pil, anche quest'anno, diminuirà dell'1.7%, posizionandosi a 1.557,3 miliardi di euro, quindi ben oltre l'1.3% previsto solo a maggio dal governo Monti.

Sul fronte della spesa pubblica, il governo, proprio con l’intento di esporre un deficit migliore rispetto a quello reale, da un lato ha aumentato di un miliardo di euro la spesa corrente (pensioni, stipendi, acquisti); mentre, dall’altro, ha corretto al ribasso la stima della spesa in conto capitale portandola a 807,6 miliardi rispetto agli 810, 6 precedentemente previsti: quindi, 3 miliardi in meno di spese che aiuterebbero (secondo il governo) a far rientrare sotto il 3% lo sconfinamento deficit/Pil.

Ma entrando nel dettaglio del DEF, si scopre che questo (apparente) miglioramento, è determinato da artifici contabili, per cui si differiscono all’anno successivo (cioè al 2014) talune spese in conto capitale originariamente previste nel 2013, nonostante la spesa per investimenti sia stata fortemente ridotta in questi ultimi anni proprio per esigenze di bilancio, non considerando che questa determina anche delle manifestazioni virtuose per il ciclo economico. È ovvio che, se così fosse, questa pratica andrà ad impattare sul fabbisogno del prossimo anno.

Ciò nonostante, analizzando le spese della amministrazioni pubbliche e proiettando al 31 dicembre il consuntivo realizzato nei primi sette mesi dell’anno - dove sono cresciute dell’1.8% rispetto allo stesso periodo del 2012 - si osserva che queste, a fine anno, dovrebbero aggirarsi intorno ai 678.5 miliardi di euro: cioè 6 miliardi in più rispetto ai valori rettificati dal governo nella nota di aggiornamento.

Sul fronte delle entrate, a causa dell’aleatorietà dei pagamenti da parte degli agenti economici, la questione è molto più difficile da interpretare. Anche se i dati disponibili delle entrate tributarie, per i primi 8 mesi dell’anno, registrano una diminuzione dello 0.3% rispetto allo stesso periodo del 2012.

Le entrate contributive, invece, secondo quanto comunicato dalla Ragioneria Generale dello Stato, nei primi sette mesi dell’anno, si sono attestate a circa 124 miliardi di euro, in flessione dello 0.9% rispetto allo stesso periodo del 2012.

Proiettando a tutto il 2013 i dati sulle entrate tributarie e contributive realizzate nei primi 9 mesi, dando per certa una copertura del taglio della seconda rata dell’IMU - in parte assorbito anche dal recente aumento IVA - e, in via del tutto prudenziale, ipotizzando comunque un miglioramento dell’andamento delle entrate, è verosimile ritenere, a fine anno, un minor gettito che oscilli tra +0,1 e +0,4% per le entrate del 2013 sul 2012, ad un valore tra 755 e 757 miliardi di Euro, contro 759 preventivati, con un ammanco tra 2,0 e 4,0 miliardi.

Quindi in estrema sintesi, alla luce di quanto sopra esposto, si potrebbe ritenere del tutto verosimile un deficit, a fine anno, oscillante tra il 3.4% e il 3.6%, cioè dai 4 ai 6 miliardi in più rispetto ai 48.7 miliardi stimati dal governo nella nota di aggiornamento, con un debito pubblico prossimo al 134% contro la stima del governo al 132,9%

In buona sostanza, è questo il quadro di finanza pubblica che, con ogni probabilità, ci attenderà da qui a fine anno, salvo ulteriori manovre correttive o giochi di prestigio per esporre un deficit inferiore al 3%. Ma in uno scenario come quello descritto, nel quale si balla proprio ai limiti, nonostante la manovra di contenimento di 1.6 miliardi di euro varata lo scorso 10 ottobre, molto dipenderà dalla crescita economica dell’ultima parte dell’anno e dalle entrate tributarie degli ultimi mesi, anche se, a parer di chi scrive, i margini di ottimismo sembrano piuttosto ridotti, se non addirittura inesistenti.

Come taroccare le previsioni di spesa per interessi


Ma andando oltre, sempre nel DEF, e sempre a proposito dell’inattendibilità delle stime governative, si scopre che, sul fronte della stima della spesa per interessi, il tandem Letta-Saccomanni, compie una vera e propria manovra di prestigio, degna di Mago Otelma.

Tanto per renderci conto di cosa stiamo parlando, vi propongo questa tabella che riepiloga la stima della spesa per interessi dal 2014 al 2017: sulla prima riga quella effettuata dal Governo Monti, sulla seconda quella del Governo Letta con la nota di aggiornamento al DEF.



 
Come è facile intuire, già dal 2014, fino ad arrivare al 2017, il governo Letta stima un robusto e progressivo risparmio per la spesa per interessi, fino a giungere, nel 2017, appunto, a oltre 16 miliardi di euro, equivalenti ad 1 punto percentuale del Pil. È chiaro che queste presunte economie determinano un miglioramento dei saldi di finanza pubblica.

A questo punto occorrerebbe chiedersi perché il governo stimi una riduzione così significativa del costo per interessi, o secondo quale parametro. Prima di dare una risposta all’interrogativo, è bene precisare che, come giustamente segnala il Prof. Gustavo Piga nel suo blog, ormai da oltre 15 anni a questa parte, o meglio fino all’ultimo DEF dello scorso maggio, le previsioni di stima della spesa per interessi venivano “formulate utilizzando i tassi impliciti nella curva dei rendimenti italiana rilevati a metà marzo 2013….”. In buona sostanza si tratta(va) di un criterio riconosciuto dalla comunità scientifica e finanziaria, che traeva fondamento proprio dall’analisi della curva dei tassi in un determinato periodo temporale.

Con la nota di aggiornamento, il governo cambia paradigma. Infatti, sul documento, la stima della spesa per interessi fonda la sua previsione su una “ipotetica e una graduale chiusura degli spread di rendimento a dieci anni dei titoli di stato italiani rispetto a quelli tedeschi a 200 punti base nel 2014, 150 nel 2015 e 100 nel 2016 e 2017”. Cioè, per dirla in parole più semplici, il costo degli interessi sarebbe destinato a scendere in ragione di una ipotetica diminuzione degli spread.

Siamo quasi al demenziale o, se preferite, al dilettantismo, poiché un'analisi di questo genere è priva di qualsiasi fondamento, non solo scientifico, ma anche logico. Invero, va precisato che un calo dello spread non significa automaticamente una diminuzione dei costi al servizio del debito (interessi). Infatti, lo spread, altro non è che una variabile che misura la differenza tra il rendimento Btp decennale e quello del bund tedesco: anche quest’ultimo soggetto a variare in ragione di una moltitudine di variabili economiche e di mercato.

Ne consegue, in maniera peraltro del tutto ovvia, che se diminuisce lo spread, ma al tempo stesso aumenta il rendimento del bund, l’aumento del titolo tedesco vanifica in tutto o in parte il beneficio prodotto dal ripiegamento dello spread. Da ciò se ne deduce che se ad un eventuale aumento del rendimento del Bund, non si contrappone un calo più che proporzionale dello spread, il costo del debito aumenta anziché diminuire. Questo, banalmente, per significarvi che la stima fatta dal governo per quantificare la spesa per gli interessi, oltre ad essere infondata nel metodo, lo è anche logicamente.

Detto ciò, con ogni probabilità, ciò che induce il governo a ritenere un ripiegamento dello spread nei confronti del titolo tedesco, verosimilmente, risiede proprio nelle previsioni di crescita del PIL, dal 2014 al 2017, a parer di chi scrive, fin troppo ottimiste, o meglio non realizzabili.

Il perché dovrebbe esser chiaro. Infatti tanto più la crescita si dimostrerà (almeno sulla carta) vigorosa, tanto più i conti pubblici si stabilizzeranno verso sentieri di maggiore sostenibilità (sempre sulla carta) e, di conseguenza, aumenterà anche la fiducia degli investitori nei titoli del debito pubblico, determinando anche un ripiegamento dello spread, magari allineandosi (??) alle previsioni elaborate dal governo nel DEF. Quindi, un rientro dello spread a 100 punti base, in ragione della crescita esponenziale del PIL esposta nel DEF, potrebbe essere verosimile. Ma ciò che non lo è, sono le previsioni sul PIL.


A proposito delle previsioni fantasiose sulla crescita

Ecco, il punto è proprio la crescita economica.

È proprio qui che il governo commette una vera e propria indecenza, proiettando stime che, non senza difficoltà e fantasia, potrebbero semmai essere ospitate nel libro dei sogni, nonostante, nel corso degli ultimi 14 anni ed oltre, il PIL dell’Italia sia cresciuto mediamente ad un livello ben inferiore (oltre 1%) rispetto alla media UE27.




Ad ogni buon conto, la Nota di Aggiornamento al DEF si fonda su una dinamica di tassi di crescita del Pil dal 2014 al 2017 decisamente ottimista:

    2014 +1,0%;
    2015 +1,7%;
    2016 +1.8%;
    2017 +1.9%.

Cioè, una crescita molto più robusta di quella mediamente prodotta negli ultimi 13/15 anni, ascrivibile, secondo il DEF, all'impatto (positivo) che dovrebbero produrre le riforme varate dai governi negli ultimi anni. Che poi, quali sarebbero queste riforme, sfugge del tutto.

In pratica, una crescita ben superiore a quella prevista da altre istituzioni finanziarie internazionali (es FMI) che appaiono comunque fuori dalla portata dell'Italia, almeno nel contesto che andremo tra poco a chiarire.

È chiaro che gonfiare ad arte una previsione di crescita per i prossimi anni, in visione prospettica, rende il quadro di sostenibilità delle finanze pubbliche assai più roseo rispetto a quello che altrimenti sarebbe. Per il semplice fatto che ampliare la base imponibile (maggiore PIL) ha come ovvia conseguenza anche un aumento delle entrate fiscali, determinando un miglioramento dei deficit, senza che ciò derivi da un inasprimento delle aliquote.


E questo favorirebbe anche un maggior interesse nell'acquisto del debito italiano anche da parte degli investitori, che comunque sanno (o meglio dovrebbero sapere) che si tratta di previsioni di crescita del tutto irrealizzabili. Anche perché, se fosse lo stesso governo a disegnare una quadro di sostenibilità delle finanze pubbliche a tinte fosche (cioè più verosimile alla realtà), chi mai avrebbe interesse ad investire sul debito pubblico italiano, se non con un rendimento che incorpori anche un maggior premio di rischio?

Quindi, banchieri compiacenti, ancorché conoscano (o quantomeno lo sospettino) che i dati sulla crescita siano del tutto inverosimili, acquistano ugualmente il debito pubblico. Perché sanno che il governo, all'occorrenza e in caso di necessità, in virtù dell'autorità che ha di imporre tasse -nelle forme più fantasiose possibili, patrimoniali comprese- sarà sempre disponibile ad intermediare ricchezza (quella degli italiani, nello specifico) e ripagare il debito nei confronti degli investitori.

Ma siccome il Governo ben sa che i dati sono del tutto dissociati dalla realtà e che si tratta di ipotesi irrealizzabili, destinate a naufragare aprendo buchi nel bilancio dello stato, anticipa gli eventi. Quindi vara una nuova manovra in modo che, quando ci si accorgerà del naufragio delle previsioni di crescita, tutto sarà già più o meno sotto controllo. Perché, è chiaro: le clausole di salvaguardia servono proprio a questo. Salvo ulteriori manovre e quindi altre tasse.

Ed è quello che, in buona sostanza, è stato fatto nei giorni scorsi varando la Legge di Stabilità, della quale parleremo più diffusamente in prossimo articolo.

Ma tornando al fattore crescita economica, vorrei proporvi un breve ragionamento, di buon senso, per farvi ben comprendere quanto siano infondate le previsioni di crescita formulate dal governo. Ragionamento che, per certi versi, esula dalla solita prospettiva approcciata dagli economisti su tali tipi di analisi. Nulla di complesso e particolarmente difficile.

Per comprende di cosa stiamo parlando, è bene fare un breve excursus su ciò che è stata la crescita italiana negli ultimi 13 anni, ossia dall’introduzione dell’euro. Ragioneremo in termini nominali. Cioè non considerando l’effetto inflazione che si è manifestata nel periodo considerato e che, comunque, giova ricordare, è stata di circa il 30% dal 2000 al 2013.



*banda celeste: Pil nominale secondo le previsioni del DEF



Come è facile osservare, in tutto il periodo considerato, l’Italia è cresciuta in maniera del tutto asfittica: certamente non in sintonia con le proprie necessità, e, mediamente, come evidenziato in precedenza, ben oltre un punto percentuale annuo in meno rispetto alla media dei pausi UE27. Nel frattempo, il debito italiano ha conosciuto ritmi di crescita molto più sostenuti, con una drammatica accelerazione proprio dal 2008 in poi. Ossia con l'esplosione della crisi che ha determinato, ad esempio, un maggior esborso da parte dello Stato per sussidi di disoccupazione, o per la partecipazione ai vari piani di salvataggio condotti nel contesto europeo.




Tant'è che, dal 2000 in avanti, il debito pubblico non è mai sceso sotto il 103% del Pil -quando i parametri di Maastricht lo vorrebbero confinato al 60% del prodotto lordo- con un'accelerazione vertiginosa proprio nell'ultimo quinquennio.

Fino a giungere, alla fine del 2013, a ridosso del 134% del Pil. Circa 2090 miliardi di euro, a fronte dei un PIl appena sopra ai 1550 miliardi di euro.

Tanto per offrirvi l'idea dell'accelerazione subita dal debito pubblico, giova ricordare che, da fine 2011 ad oggi, il debito è cresciuto di circa 170 miliardi, ossia oltre l'8% dello stock totale.

Arrivati a questo punto, è il caso di ricordare che dal 2015, l'Italia, in applicazione del Fiscal Compact, per i prossimi 20 anni, dovrà procedere ad una riduzione del debito pubblico di 1/20 all'anno in ragione del PIl, al fine di confinare il debito entro il 60% imposto da Maastricht. Per sostenere l'abbattimento del debito pubblico in un percorso così impegnativo, la condizione necessaria è che il PIL nominale cresca di almeno il 3% per i prossimi 20 anni. In modo tale che -confida il governo- una volta stabilizzato, il debito possa rientrare in maniera quasi automatica. Questa condizione imprescindibile, benché sulle previsioni del governo sia soddisfatta, appare del tutto irrealizzabile, almeno per i prossimi anni.

Ritornando alla dinamica del PIl dal 2000 in avanti, giova segnalare che questo è passato dai 1191 miliardi dell'anno 2000, fino ai 1567 miliardi del 2008. Per poi flettere ai 1520 miliardi con la recessione del 2009, e riprendersi nel 2011, fino a giungere ai 1580 miliardi e per poi flettere nuovamente nel 2012 e 2013, fino ad attestarsi, secondo le stime DEF, ai 1557 miliardi del 2013. Da ciò se ne deduce che il PIl, negli ultimi 14 anni (comprendendo anche in dato del 2013, indicato nel DEF a 1557 miliardi) è cresciuto di appena 366 miliardi di euro nominali: ossia solo del 30.74%, appena poco sopra il livello di inflazione cumulata nello stesso periodo. Ossia, non è cresciuto in termini reali.

Secondo le previsioni riportate nel DEF, già dal 2014 il Pil salirà a 1602 miliardi, per poi passare a 1660 nel 2014, 1718 nel 2016 e 1779 nel 2017.

Cioè ben 222 miliardi in più rispetto ai livelli di fine 2013 (quasi il 15% in più), che rappresentano circa il 60% della crescita realizzata negli ultimi 13 anni. Tutto questo è riscontrabile dal grafico (1) sopra esposto, dove dal 2014 in poi, secondo le previsioni del DEF, si assiste ad un irripidimento della curva del PIL nominale, che incorpora tassi di crescita medi nel quadriennio di oltre il 3% annuo.

A questo banale ragionamento, si potrebbe obiettare che è sostanzialmente insensato paragonare la crescita del PIL nominale in due periodi temporali differenti, senza considerare gli effetti inflattivi acquisiti, che hanno comunque contribuito ad una maggiore crescita dal PIL nominale. Vero: osservazione ineccepibile. Ma che non cambia di molto le previsioni troppo ottimistiche fatte dal governo, atteso che le previsioni sull’inflazione sembrano anch’esse fuori dalla realtà, stante anche la persistente debolezza dei consumi che si protrarrà anche nei prossimi anni, spingendo al ribasso anche le previsioni sull’inflazione. Di conseguenza, con un inflazione che verosimilmente sarà destinata a rimanere al disotto delle previsioni, la performance del PIL nominale appare ben al disopra di ogni ragionevole previsione.


Condizioni economiche opposte

A conferma dello scenario sopra evidenziato e di quanto siano inverosimili le previsioni di crescita del PIL elaborate dal Governo, giova ricordare che nel periodo considerato, almeno fino al 2007, si sono verificate eccellenti condizioni di crescita nelle aree economiche più importanti del mondo, che, indubbiamente, hanno trainato la crescita italiana con un export particolarmente dinamico.

In questo periodo, al netto delle distorsioni prodotte, si è assistito anche ad un'abbondanza di credito che è stato riversato nell’economia, determinando una fase virtuosa del ciclo economico.

La facilità di accesso al credito ha consentito agli operatori economici il finanziamento delle proprie attività e dei propri bisogni: le imprese hanno potuto investire in opifici, capannoni, immobili, attrezzature, macchinari e ricerca. Mentre le famiglie ed i privati, nell’acquisto di case, automobili, o altri beni durevoli. È evidente che dinamiche di questo tipo abbiano avuto un enorme impulso sullo sviluppo economico del periodo considerato, determinando fenomeni virtuosi anche nella disoccupazione, che ha conosciuto livelli minimi proprio nel 2007, al 6.1%.

È fuori da ogni dubbio che queste condizioni abbiano contribuito significativamente alla crescita del PIL che, tuttavia, ricordiamo, è stata ben al disotto della media europea e delle necessità del paese.

Ad oggi sembra di vivere in un altro mondo.

Le desertificazione economica prodotta dalla crisi e dalle politiche di austerity è sotto gli occhi di tutti, soprattutto nella monotonia delle tasche degli italiani.

La disoccupazione è doppia (oltre il 12%) rispetto ai tassi minimi del 2007, mentre quella giovanile ha superato la soglia del 40%, con punte ben superiori al 50% in alcune zone del sud. Tuttavia, il tasso di disoccupazione indicato dalle statistiche oltre il 12%, non racconta affatto l'esatta drammaticità della piaga della disoccupazione, poiché non tiene conto di chi ha smesso di cercare lavoro o di chi è sottoccupato.

Non tiene neanche conto delle centinaia di migliaia di persone che ancora godono della cassa integrazione e che sono in forza ad aziende che non avranno mai la possibilità di riemergere da questa situazione. Se di considerassero anche queste variabili, il dato sarebbe proiettato ben oltre la soglia del 20%.

Inoltre, rispetto al periodo che potremmo chiamare “delle vacche grasse” (2000-2007, n.d.r.), il reddito procapite reale è precipitato a livelli che non si vedevano da oltre un quindicennio. La capacità di spesa della famiglie, anche a causa dell'inasprimento fiscale di questi ultimi anni, ha subito un drammatico tracollo. Decine di migliaia di imprese hanno cessato la loro attività, hanno chiuso i battenti o si sono delocalizzate in aree geografiche ove risulta più conveniente fare impresa.

La pressione fiscale ha raggiunto livelli record, ben superiori a quelli conosciuti fino al 2007.

Ancora: le banche sono alle prese con sofferenze record che si attestano ad oltre quota 140 miliardi di euro. Queste, sono almeno quelle ufficiali. Poi ci sarebbero anche quelle non ancora emerse, che le banche cercano di mantenere latenti il più a lungo possibile. Stante la fragilità del sistema bancario (solo per usare un eufemismo), appare del tutto improbabile che le banche possano tornare ad allargare i cordoni della borsa e sostenere un ciclo economico, ancorché trainato da altre economie mondiali che comunque, pur mostrando segnali di maggior ottimismo, sono ben lontane dai fasti del periodo “delle vacche grasse”.

Nel contesto europeo, invece, giova segnalare che molte economie sono alle prese con percorsi di rientro dai deficit che chiaramente impattano sul ciclo economico di quelle nazioni e, conseguentemente, anche sulla componente export del PIL italiano.

Queste sono solo alcune delle variabili economiche fortemente deteriorate che non possono che aggravare le previsioni di crescita per il prossimo futuro, rendendo gli sforzi previsionali del governo del tutto inattendibili.

È chiaro che queste variabili - che costituiscono solo una minima parte di quelle che si potrebbero considerare ai fini della nostra analisi e che confermerebbero comunque il nostro ragionamento -, stante la persistente fragilità, non potranno contribuire alla crescita del PIL, come invece avvenuto in passato nel periodo di crescita economica.

Eppure, questo ragionamento sembra sfuggire del tutto al governo, che ipotizza previsioni di crescita fuori da ogni logica di buon senso.

Di conseguenza non si comprendono le ragioni per cui il PIL, nei prossimi 4 anni, debba cresce in maniera così esponenziale come, invece, prevede il governo.

Per dirla in maniera prosaica, potremmo chiederci: ALLA LUCE DELLA DEVASTAZIONE ECONOMICA INTERVENUTA, PERCHE MAI L’ECONOMIA ITALIANA, NEI PROSSIMI 4 ANNI, DOVREBBE CRESCERE IN MANIERA BEN PIU’ SOSTENUTA RISPETTO A QUANTO AVVENUTO NEI PRIMI 8 ANNI DEL SECOLO, IN CONDIZIONI IMPARAGONABILI RISPETTO ALLE ATTUALI?

La risposta è semplice. Ossia non esiste nessun elemento che possa confermare i livelli di ottimismo profusi dal governo, posto il fatto che, l’Italia, in questa crisi, ha perso anche una buona parte della capacità di reazione ad agganciare cicli economici favorevoli, ancorché indotti da altre economie trainanti.

In altre parole, a parer di chi scrive, l’Italia si trova a vivere un’epoca di declino economico e sociale di lungo periodo, dalla quale uscirne non sarà affatto facile, se non impossibile, permanendo simili condizioni.

In una situazione come quella descritta, con un cambio non rappresentativo dei caratteri di debolezza strutturale dell’economia italiana, un'inversione di tendenza, verosimilmente, sarà del tutto improbabile.

Nella condizione attuale, l’ipotesi che appare più verosimile è quella secondo la quale l’Italia si troverà ad alternare periodi recessivi, con periodi di bassa crescita (stagnazione), in un percorso altamente allarmante e distruttivo che determinerà:

  •     Declino inarrestabile del sistema produttivo manifatturiero italiano;
  •     Aumento della disoccupazione e crescita del paese impensabile per molto tempo;
  •     Impoverimento continuo delle famiglie, della classe media e poi anche degli altri;
  •     Collasso del welfare attuale perché insostenibile.