L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 9 novembre 2013

Stato dell'arte: il Pd dissangua il popolo italiano togliendo lavoro, diritti politici e sociali facendo fare soldi ai Capitali stranieri


Contro il liberoscambismo di sinistra

Capitolo tratto dal volume di Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa , Il Saggiatore, Milano, 2012.
      
Esiste una via d’uscita dall’incubo di una germanizzazione europea foriera di austerity, deflazione, depressione e mezzogiornificazione delle periferie? E’ giunto il tempo di azzardare una risposta a questo urgente interrogativo politico. Prima di affrontare l’argomento occorre tuttavia fare preliminarmente i conti con un ossimoro tentatore che svariati eredi del movimento operaio novecentesco hanno per lungo tempo considerato parte imprescindibile del loro credo politico.
Non si tratta, beninteso, del cosiddetto “liberismo di sinistra”, che a nostro avviso ha goduto di un successo relativamente superficiale e le cui contraddizioni interne sono sempre state troppo evidenti per immaginare che potesse tramutarsi in effettivo senso comune. In fondo, nel liberismo di sinistra riecheggia l’ideologia del sogno americano, di un ipotetico modello di capitalismo anglosassone temperato nel quale le opportunità possano sostituire le tutele del lavoro. Ma in questo modo il liberismo di sinistra finisce per esaltare le prerogative di una società inesistente. Volendo individuare un alter-ego cinematografico si potrebbe citare La ricerca della felicità, il film di Gabriele Muccino interpretato da Will Smith, padre tenero e responsabile che riesce a compiere una vertiginosa scalata dai sobborghi poveri di San Francisco ai vertici di una importante società finanziaria grazie a un notevole ingegno e a una fede incrollabile nelle proprie capacità. Storia vera e a suo modo struggente, fintamente critica e di fatto apologetica, ma in ogni caso statisticamente priva di qualsiasi rilevanza, considerato che gli Stati Uniti si situano ormai agli ultimi posti nelle classifiche OCSE sul tasso di mobilità sociale (assieme al Regno Unito e all’Italia). Il liberismo di sinistra è in fondo questo: un’apologia raffinata, ma senza agganci con la realtà.
L’ossimoro tentatore che intendiamo qui criticare è allora un altro: si tratta del “liberoscambismo di sinistra”, un concetto storicamente molto più radicato e insidioso, che opera all’interno di faglie logiche profonde, rinvenibili persino nel pensiero del Marx del 1848. Dimostrare che il liberoscambismo di sinistra è un controsenso, come vedremo, costituisce una sfida intellettuale decisiva per determinare il posizionamento degli eredi del movimento operaio novecentesco nella crisi in corso.
Svariate istituzioni, dal Fondo Monetario Internazionale alla Commissione Europea, richiamano da tempo l’attenzione sull’esistenza di un nesso tra l’apertura dei vari paesi ai movimenti internazionali di capitali, di merci e in parte anche di persone, e il corrispondente ridimensionamento degli indici di protezione dei lavoratori e della quota salari sul reddito nazionale. Altri economisti, come Dani Rodrik, si sono spinti oltre, evidenziando l’esistenza di un nesso tra apertura dei mercati e restringimento non soltanto dei diritti sociali ma anche dei diritti politici, vale a dire del perimetro di effettivo esercizio della democrazia.
Tali ricerche non fanno che confermare quel che già si evince dalla cronaca quotidiana. Il caso FIAT è emblematico in tal senso. In questi mesi l’amministratore delegato di FIAT, Sergio Marchionne, ha insistito sul fatto che può ottenere a Detroit o in Serbia un valore del prodotto per ora di lavoro decisamente maggiore rispetto ai più modesti rendimenti degli impianti di Pomigliano o di Mirafiori. Il differenziale, si badi, è reale: esso non dipende dal grado di utilizzo della capacità ma al contrario lo determina. Per questo motivo Marchionne si è detto pronto a spostare le unità produttive all’estero a meno che in Italia non si affermi un nuovo modello di relazioni industriali, fondato sul recesso dai contratti nazionali, sulla eliminazione delle ultime sacche di resistenza sindacale e sulla conseguente possibilità di imprimere un’accelerazione al prodotto per unità di lavoro. Naturalmente Marchionne non è il solo ad adottare questa strategia. La minaccia continua delle delocalizzazioni è un elemento costitutivo dell’attuale regime di accumulazione del capitale, che scuote le fondamenta delle relazioni industriali di moltissimi paesi. La libertà di spostamento dei capitali oltretutto non agisce solo sui salari diretti o sulle condizioni di lavoro, ma anche sul welfare. Basti pensare agli effetti dell’apertura dei mercati sulla concorrenza fiscale tra paesi, e sulla conseguente crisi di finanziamento dello stato sociale. Questo tipo di concorrenza non viene praticata dai soli paradisi fiscali. Molti paesi ricchi la sostengono apertamente: per evitare le fughe di capitale all’estero si elargiscono sussidi alle imprese e sgravi ai possessori di ingenti ricchezze, e si recupera poi tramite i consueti tagli agli investimenti pubblici e alla spesa sociale.
I dati ci dicono insomma che siamo al cospetto di un dumping salariale e fiscale perpetuo, che da tempo alimenta quella che senza retorica può esser definita una “guerra mondiale tra lavoratori”, che nella crisi pare aver trovato un ulteriore fattore di accelerazione. E’ bene chiarire che si tratta di un dumping trasversale, che mette in competizione gli stessi paesi avanzati tra loro e che non può esser sintetizzato nella sola corsa al ribasso tra lavoratori dei paesi ricchi e lavoratori dei paesi poveri. Il caso tedesco, come abbiamo visto, è in questo senso emblematico. La minaccia di trasferire interi spezzoni di produzione all’estero ha favorito le cosiddette “riforme del lavoro” in Germania, rendendo questo paese il centro nevralgico del dumping salariale europeo, con un divario tra produttività del lavoro e retribuzioni tra i più alti del mondo. Ma anche dagli Stati Uniti emergono oggi chiari segnali di compressione salariale e di eliminazione delle già risibili tutele del lavoro esistenti. Basti ricordare che i sussidi del governo federale americano e l’abbattimento del costo del lavoro in Chrysler hanno fortemente contribuito allo spostamento dell’asse strategico di FIAT verso gli Stati Uniti. Tutto ciò sta ad indicare che il dumping salariale e fiscale può partire anche dai paesi più avanzati del mondo.
Gli economisti sono da tempo ben consci di queste tendenze, e del rischio che esse alimentino perniciosi fenomeni di deflazione globale. Per questo motivo, anche all’interno del mainstream, è possibile rintracciare giudizi fortemente critici nei confronti della piena apertura dei mercati: dal giovane Franco Modigliani, a Paul Samuelson, a Paul Krugman, autorevoli studiosi ortodossi hanno sottolineato che in presenza di disoccupazione gli stessi teoremi del paradigma dominante favorevoli al libero scambio perdono qualsiasi rilevanza. Un risultato, questo, che nell’ambito del paradigma alternativo viene ulteriormente rafforzato.
Ebbene, in un simile scenario analitico, è interessante notare che sul piano politico solo il candido movimento di Seattle, pur tra mille contraddizioni e ingenuità, si è posto in questi anni il problema di elaborare un abbozzo di critica della globalizzazione. Al contrario, tra gli eredi della tradizione del movimento operaio sembra prevalere da tempo una sorta di liberoscambismo acritico, talvolta addirittura apologetico. Dopo il crollo dell’URSS questa posizione ha caratterizzato in Europa soprattutto i socialisti, ma ha pure interessato frange della cosiddetta sinistra alternativa, delle realtà di movimento e degli stessi partiti comunisti. In Italia la svolta liberoscambista avvenne anche prima, probabilmente in concomitanza con le conclusioni di Giorgio Napolitano al convegno sul protezionismo ospitato nel 1976 da Rinascita.
Le cause di questa sudditanza verso il dogma liberista della totale apertura dei mercati sono tante, di ordine sia teorico che pratico. Vi sono ad esempio i sostenitori della vulgata secondo cui la libera circolazione dei capitali e delle merci favorirebbe i paesi poveri, mentre le restrizioni e i controlli garantirebbero le posizioni di privilegio dei paesi ricchi. Eppure, i dati segnalano che gli unici paesi in via di sviluppo che nell’ultimo ventennio hanno fatto registrare convergenze significative verso il reddito delle nazioni avanzate sono quelli che hanno realizzato aperture agli scambi graduali nonché sottoposte a rigidi controlli, come la Cina e l’India. Di fronte a evidenze economiche così controverse, i sostenitori del liberoscambismo hanno allora rilanciato sul piano politico, affermando che la totale apertura ai movimenti di capitale e di merci costituirebbe una garanzia per la pace. Ma anche sotto questo aspetto i dati non confortano: basterebbe ad esempio ricordare che la libera circolazione dei flussi finanziari raggiunse livelli eccezionali proprio alla vigilia della prima guerra mondiale.
Insomma, è come se alcuni degli eredi del vecchio internazionalismo operaio avessero completamente stravolto e deformato l’istanza universale delle origini, solidale e pacifista, arrivando a confonderla con l’apertura dei mercati, vale a dire con l’internazionalismo del capitale. Gli apologeti del libero scambio sembrano in questo senso aver dimenticato l’insegnamento di Keynes, che nel 1933 sostenne una tesi esattamente opposta alla loro: «…non sembra logico che la salvaguardia e la garanzia della pace internazionale siano rappresentate da una grande concentrazione degli sforzi nazionali per conquistare i mercati esteri, dalla penetrazione, da parte delle risorse e dell’influenza di capitali stranieri, nella struttura economica di un paese e dalla stretta dipendenza della nostra vita economica dalle fluttuazioni delle politiche economiche di paesi stranieri. Alla luce dell’esperienza e della prudenza, è più facile arguire proprio il contrario». Ma anche Marx, che protezionista non era, ironizzò sulle tesi di chi confondeva libero scambio, pace e fratellanza tra i popoli sostenendo che «chiamare fraternità universale lo sfruttamento a livello cosmopolitico è un’idea che avrebbe potuto nascere solo nella mente della borghesia». Se per Marx il libero scambio andava sostenuto, questa scelta era dovuta piuttosto alla sua forza devastatrice, alla sua capacità di agire da vettore della crisi, dello scontro sociale e della rivoluzione, che nel 1848 egli erroneamente considerava prossima.
La verità, dunque, è che gli attuali liberoscambisti di sinistra confondono globalizzazione del capitale e pace universale in maniera rozzamente pre-analitica, e su queste basi etichettano istintivamente il protezionismo e persino il controllo dei movimenti di capitale come politiche “nazionaliste”, “reazionarie”, “di destra”, foriere in quanto tali di conflitti bellici. Questi “comunisti liberoscambisti”, come talvolta provocatoriamente li abbiamo definiti, alimentano un equivoco colossale che si sta pagando caro, poiché esso impedisce di delineare un autonomo punto di vista del lavoro nello scontro interno agli assetti del capitale, tra fautori del protezionismo e difensori del libero scambio. Dopo la crisi del regime di sviluppo trainato dalla finanza, e fino a quando non si troverà un meccanismo propulsivo alternativo, questo scontro è destinato a durare, modificando profondamente gli assetti della divisione internazionale del lavoro. Di ciò si sono accorti un po’ tutti: i movimenti neo-nazionalisti, così come le leghe. Al contrario i socialisti e i comunisti, e più in generale gli eredi delle tradizionali rappresentanze politiche e sindacali del lavoro, appaiono su questo tema silenti, estraniati dal dibattito. Basti notare, a questo riguardo, che mentre le destre prosperano da anni sulla spregiudicata proposta di “arrestare gli immigrati”, mai nessuna voce a sinistra si è levata per proporre di “arrestare i capitali”, vale a dire per riprendere e aggiornare la politica di controllo dei movimenti internazionali di capitale largamente praticata nel corso della seconda metà del Novecento.
In Italia è forse ancora una volta la vicenda FIAT che appare più sintomatica della crisi delle sinistre al cospetto della globalizzazione. Alcuni intellettuali e politici hanno etichettato Marchionne come “cattivo manager”, che investe poco e punta solo ad abbattere il costo del lavoro. C’è del vero in queste accuse, ma bisogna rendersi conto che esse sono superficiali. In un certo senso potremmo considerarle simmetriche all’affrettato elogio del “capitalista buono” che gli veniva rivolto non moltissimo tempo fa. La verità è che Marchionne non è né buono né cattivo: egli è solo una equazione, è una mera funzione del meccanismo di riproduzione del capitale. Finché a un manager viene concesso, questi minaccerà sempre di effettuare investimenti lì dove le opportunità di sfruttamento del lavoro e i relativi profitti sono maggiori. Anzi, data la storica posizione di debolezza della FIAT nel risiko in atto da tempo all’interno del settore automobilistico, non c’è da meravigliarsi se la strategia di Marchionne sia così rozza e si scarichi in modo così brutale sulle condizioni dei lavoratori.
Il problema quindi non può risolversi semplicemente giudicando il manager, ma andrebbe posto in termini storico-critici, guardando al sentiero di inviluppo del capitalismo nazionale iniziato negli anni Settanta del secolo scorso, e soprattutto andrebbe affrontato in termini politici. Nel luglio 2010, quando Marchionne ha fatto della minaccia di delocalizzazione la sua arma “di ultima istanza” nel confronto che si accingeva ad aprire con il sindacato, l’allora Premier Berlusconi lo ha repentinamente appoggiato sostenendo che «in una libera economia e in un libero Stato, un gruppo industriale è libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione». E in prossimità del referendum di Mirafiori, l’ex Presidente del Consiglio ha aggiunto che se Marchionne non avesse ottenuto dai lavoratori la flessibilità che chiedeva, la FIAT avrebbe fatto bene a spostarsi in altri paesi. Ebbene, è sintomatico di una profonda debolezza strategica che in tanti abbiano manifestato indignazione e sconcerto per le parole dell’ex Premier ma nessuna forza politica abbia indicato una chiara alternativa alla sua netta presa di posizione. Nessuno, per esempio, ha affermato che “un gruppo industriale non deve necessariamente esser lasciato libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione”.
Ma la questione dell’apertura dei mercati non attiene solo ai movimenti di capitale fisico e alla connessa localizzazione degli impianti industriali. Il problema è di ordine generale, e quindi riguarda tutti i tipi di movimenti di capitale, a partire da quelli finanziari. Questi, come è noto, hanno prodotto in varie circostanze veri e propri stravolgimenti nei rapporti di forza interni ai paesi che li subivano. L’Italia, in particolare, è stata più volte bersaglio delle fughe di capitale ed è tornata ad esserlo di recente. Viene in tal senso da domandare: di fronte a nuovi attacchi speculativi contro i titoli italiani e degli altri dei paesi periferici, quale sarebbe la proposta politica delle forze di sinistra? Accetterebbero in di subire passivamente gli effetti di una versione ancor più feroce della crisi valutaria del 1992? O sarebbero piuttosto in grado di evidenziare che l’assetto liberoscambista della Unione europea genera una deflazione competitiva palesemente insostenibile, e che dunque non si può restare al suo interno senza un profondo mutamento del medesimo?
In definitiva, è possibile individuare una proposta che consenta di elaborare un autonomo punto di vista del lavoro nello scontro interno agli assetti del capitale, tra liberoscambisti e protezionisti? E’ ancora possibile colmare l’enorme ritardo delle sinistre di fronte alla possibilità di incunearsi nella crisi dei rapporti intercapitalistici europei e mondiali? La Storia ci insegna che varie opzioni sono state praticate in passato e possono essere in ogni momento riprese, aggiornate e sviluppate nella direzione di una esplicita tutela degli interessi del lavoro. Come vedremo nelle prossime pagine, si possono elevare argini contro le fughe speculative di capitale e si possono vincolare i movimenti internazionali di capitali e di merci al fatto che i vari paesi rispettino un comune “standard”, retributivo e del lavoro. L’apertura dei mercati, in altri termini, può esser condizionata all’adozione preventiva di misure di cooperazione internazionale finalizzate a contrastare la deflazione competitiva. Ma prima di approfondire le questioni tecniche, occorre che maturi una consapevolezza politica: se non si sottopone a critica il “liberoscambismo di sinistra” di questi anni, se non si mette in discussione l’indiscriminata apertura globale dei mercati, la “guerra tra lavoratori” proseguirà indisturbata in Europa e nel mondo, con effetti deflazionistici in grado di distruggere gran parte delle capacità produttive esistenti e di indurre ulteriori regressi democratici.
         
Note. Contrariamente a quel che si potrebbe supporre, la dottrina del libero scambio incontra obiezioni anche tra alcuni dei più autorevoli esponenti del mainstream. Come ricorda Paul Krugman, ad esempio, Paul Samuelson scriveva che «Senza piena occupazione e con un prodotto interno netto sub-ottimale, tutti i deprecati argomenti mercantilisti si rivelano validi» (Theoretical notes on trade problems, in Review of Economics and Statistics, 1964; citato in P. Krugman, “L’impareggiabile Samuelson”, lavoce.info, 16 dicembre 2009). Marcello De Cecco ha inoltre fatto notare che autorevoli economisti italiani di orientamento ortodosso, tra i quali anche il premio Nobel Franco Modigliani, hanno per lungo tempo espresso notevole scetticismo nei confronti dell’apologia del libero scambio (“Gli economisti italiani e l’economia internazionale del Novecento”, Rivista Italiana degli Economisti, 2010). Riguardo poi al potenziale conflitto tra apertura dei mercati ed esercizio della democrazia, si veda Dani Rodrik, La globalizzazione intelligente, Laterza 2011. Sul nesso tra apertura dei mercati e declino delle quote salari, si veda European Commission, Employment in Europe, 2007, cap. 5; e Paul Krugman, “Trade and wages, reconsidered”, Brookings Papers on Economic Activity 2008. Nel campo degli approcci alternativi, una critica del liberoscambismo è contenuta nel volume a cura di Ian Steedman, Fundamental issues in trade theory, Macmillan 1979. Le citazioni di Marx sul tema, riportate nel volume, sono tratte dal Discorso sul libero scambio, Deriveapprodi 2002; le citazioni di Keynes sono tratte dal saggio Autosufficienza nazionale, del 1933. 

Capitolo tratto dal volume di Emiliano Brancaccio e Marco Passarella, L’austerità è di destra. E sta distruggendo l’Europa , Il Saggiatore, Milano, 2012. La riproduzione è consentita citando la fonte.

http://www.emilianobrancaccio.it/2013/11/08/contro-il-liberoscambismo-di-sinistra/ 

venerdì 8 novembre 2013

Rivoluzionario è un'alleanza stretta con eguali con lo scopo di ottenere Giustizia, liberare Euridice

di Erri De Luca
Euridice alla lettera significa trovare giustizia. Orfeo va oltre il confine dei vivi per riportarla in terra. Ho conosciuto e fatto parte di una generazione politica appassionata di giustizia, perciò innamorata di lei al punto di imbracciare le armi per ottenerla. Intorno bolliva il 1900, secolo che spostava i rapporti di forza tra oppressori e oppressi con le rivoluzioni. Orfeo scende impugnando il suo strumento e il suo canto solista. La mia generazione e scesa in coro dentro la rivolta di piazza. Non dichiaro qui le sue ragioni: per gli sconfitti nelle aule dei tribunali speciali quelle ragioni erano delle circostanze aggravanti, usate contro di loro.
C’è nella formazione di un carattere rivoluzionario il lievito delle commozioni. Il loro accumulo forma una valanga. Rivoluzionario non è un ribelle, che sfoga un suo temperamento, è invece un’alleanza stretta con uguali con lo scopo di ottenere giustizia, liberare Euridice.
Innamorati di lei, accettammo l’urto frontale con i poteri costituiti. Nel parlamento italiano che allora ospitava il più forte partito comunista di occidente, nessuno di loro era con noi. Fummo liberi da ipoteche, tutori, padri adottivi. Andammo da soli, però in massa, sulle piste di Euridice. Conoscemmo le prigioni e le condanne sommarie costruite sopra reati associativi che non avevano bisogno di accertare responsabilità individuali. Ognuno era colpevole di tutto. Il nostro Orfeo collettivo e stato il più imprigionato per motivi
politici di tutta la storia d’Italia, molto di più della generazione passata nelle carceri fasciste.
Il nostro Orfeo ha scontato i sotterranei, per molti un viaggio di sola andata. La nostra variante al mito: la nostra Euridice usciva alla luce dentro qualche vittoria presa di forza all’aria aperta e pubblica, ma Orfeo finiva ostaggio.
Cos’altro ha di meglio da fare una gioventù, se non scendere a liberare dai ceppi la sua Euridice? Chi della mia generazione si astenne, disertò. Gli altri fecero corpo con i poteri forti e costituiti e oggi sono la classe dirigente politica italiana. Cambiammo allora i connotati del nostro paese, nelle fabbriche, nelle prigioni, nei ranghi dell’esercito, nella aule scolastiche e delle università. Perfino allo stadio i tifosi imitavano gli slogan, i ritmi scanditi dentro le nostre manifestazioni. L’Orfeo che siamo stati fu contagioso, riempì di sé il decennio settanta. Chi lo nomina sotto la voce “sessantotto” vuole abrogare una dozzina di anni dal calendario. Si consumò una guerra civile di bassa intensità ma con migliaia di detenuti politici. Una parte di noi si specializzò in agguati e in clandestinità. Ci furono azioni micidiali e clamorose ma senza futuro. Quella parte di Orfeo credette di essere seguito da Euridice, ma quando si voltò nel buio
delle celle dell’isolamento, lei non c’era.
Ho conosciuto questa versione di quei due e del loro rapporto, li ho incontrati all’aperto nelle strade. Povera è una generazione nuova che non s’innamora di Euridice e non la va a cercare anche all’inferno.

giovedì 7 novembre 2013

dobbiamo, possiamo costruire il Partito Rivoluzionario, confrontarsi con il Capitale su tutti i campi

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Continuons le combat

Dopo il 18 e il 19 ottobre. Partito e organizzazione di massa

di Collettivo “Noi saremo tutto” Genova

Tutti gli uomini sognano, ma non allo stesso modo. Coloro che sognano di notte nei ripostigli polverosi delle loro menti, scoprono, al risveglio, la vanità di quella immagine: ma quelli che sognano di giorno sono uomini pericolosi, perché può darsi che recitino il loro sogno ad occhi aperti, per attuarlo. (Th. E. Lawrence, I sette pilastri della saggezza)
Il crollo della socialdemocrazia

Dalle mobilitazioni di ottobre un primo dato emerge con chiarezza: la socialdemocrazia è un fetido cadavere e lo è, esattamente, nei termini in cui lo avevamo descritto e preannunciato nell’articolo a questo precedente. Il sostanziale flop a cui è andata incontro la manifestazione del 12 ottobre, a fronte dell’imponenza della giornata del 19, anticipata dalla non secondaria mobilitazione del sindacalismo di base del 18, conferma, attraverso un dato empirico denso di contenuti, quanto da tempo abbiamo posto all’ordine del giorno: l’impossibilità storica di una reiterazione di quel patto socialdemocratico attraverso il quale, per un’intera arcata storica, le classi dominanti insieme ai loro agenti attivi nel campo delle classi sociali subalterne hanno scongiurato l’irrompere dello spettro comunista sulla scena politica europea. A stento, il 12 ottobre, le varie anime della socialdemocrazia sono state in grado di portare in piazza diecimila persone. Se pensiamo che, tra gli organizzatori della manifestazione, vi era la FIOM, l’ARCI, SEL, il variegato mondo dell’Associazionismo, qualche pezzo del Pd e del M5S, la sponsorizzazione aperta de «Il fatto quotidiano» e quella “sotto copertura” de «La Repubblica» oltre ovviamente ai vari «Il manifesto» e «l’Unità» il fatto non è certo cosa da poco. Un flop, si può dire, senza precedenti che va assunto in tutta la sua importanza e conseguentemente analizzato.

Dobbiamo chiederci, in altre parole, che cosa ha ridotto a una sommatoria di contenitori sostanzialmente vuoti tutto un insieme di realtà, sociali ancora prima che politiche, le quali, per anni, avevano rappresentato non solo la base di massa della socialdemocrazia ma un insieme di strutture operative in grado di rappresentare la legittimazione sociale di quote non secondarie di subalterni. Una legittimazione che, se da un lato poggiava per intero su corpose aree di aristocrazia operaia e sulle micro quote di potere che queste potevano vantare, dall’altro riusciva a catturare , almeno in parte, le aspettative e le aspirazioni di un segmento della “nuova composizione di classe”, e in particolare di tutta quell’area sociale ascrivibile al mondo del neoproletariato intellettuale, che la fase imperialista globale ha repentinamente ascritto al mondo dell’esclusione e della marginalizzazione sociale. Andando al sodo, dobbiamo comprendere il dato strutturale che ha annichilito la socialdemocrazia.
A svuotare, almeno a livello di massa, la prospettiva socialdemocratica, infatti, non è stato una presa di coscienza, se non nelle sue punte più avanzate, da parte delle masse proletarie e subalterne. Al momento non vi è, e sarebbe non solo illusorio ma estremamente stolto pensarlo, una radicalizzazione cosciente a sinistra di gran parte della classe bensì, da parte di questa, l’obiettiva presa d’atto che l’era della mediazione sociale e quindi degli istituti predisposti a praticarla è giunta al capolinea. Ciò che il 12 ottobre ha rappresentato è stata l’oggettiva scollatura tra i vari ceti politici socialdemocratici e quelle masse che per anni i primi sono stati in grado tanto di rappresentare quanto di ingannare. Nella mesta piazza del 12 ottobre erano presenti, nella quasi totalità, dirigenti, piccoli funzionari insieme alla loro fitta schiera di portaborse. In poche parole tutti coloro i quali con la socialdemocrazia hanno vissuto e prosperato sia sotto il profilo monetario, sia attraverso la gestione di quote più o meno ampie di potere sociale e amministrativo.
Certo, sarebbe stolto non riconoscerlo, un qualche rapporto con le masse i burocrati socialdemocratici sono ancora in grado di esercitarlo. Ciò è vero, in particolare, per la FIOM e il mondo dell’Associazionismo. Due ambiti che, in fabbrica e nella società, possono vantare tuttora qualche presa, tanto da condizionare alcune quote di proletariato. Va riconosciuto, infatti, che dentro questi mondi vi sono segmenti operai e proletari onesti. Proletari e operai che, in molti casi, esplicano una militanza di base senza egoismi e carrierismi di sorta. Sarebbe stupido regalarli al nemico. Nei loro confronti va sempre lasciata una porta aperta ma, e su questo occorre essere estremamente chiari e privi di tentennamenti, questo diventa possibile solo se nei confronti della socialdemocrazia e dei suoi dirigenti non vi è alcuna sorta di cedimento. Tutto l’apparato socialdemocratico, tutte le linee politiche e conseguenti azioni pratiche della socialdemocrazia devono essere poste continuamente sotto scacco dall’iniziativa comunista. Nessun burocrate socialdemocratico deve avere la benché minima legittimità dentro i territori proletari. L’unico fronte possibile con la socialdemocrazia è il fronte che nasce dal basso. È il fronte che nasce dentro la lotta. Nessun settarismo verso la pur residuale base di massa della socialdemocrazia ma la più feroce intransigenza nei confronti dei suoi capi, grandi e piccoli. Se, di fronte a ciò, qualcuno griderà che siamo a classe contro classe non bisogna avere timore di rispondergli: Sì. La nostra politica nei confronti dei cani da guardia della socialdemocrazia è esattamente classe contro classe. Fatta questa doverosa e necessaria precisazione torniamo ad occuparci del tema che ci sta particolarmente a cuore: la frattura tra masse e socialdemocrazia.
Di ciò, negli ultimi tempi, se ne sono avuti molteplici sentori a partire da quello che, a ragion veduta, può considerarsi il grado minimo di consenso che le classi subalterne mostrano nei confronti delle classi dominanti: la partecipazione elettorale. Votare significa pur sempre riconoscere alle classi dominanti il diritto di governare e, da parte delle classi subalterne, di essere governate. Da tempo osserviamo come, all’incirca, il cinquanta per cento della popolazione, per lo più appartenente al mondo dei subalterni, abbia preso congedo dalcretinismo parlamentare, mentre una fetta consistente di essi riversa una qualche aspettativa nel M5S il quale, in virtù della sua demagogia populista antisistemica, riesce – ancora per quanto? – a catturare il consenso di tutti quei settori sociali spuri pesantemente colpiti dalla crisi sistemica del modo di produzione capitalista. Un dato che, senza troppi rigiri di parole, evidenziano gli stessi istituti specializzati in sondaggi. Ciò che la stessa borghesia ha riconosciuto è come, nel mondo attuale, le classi dominanti, per giunta profondamente divise al loro interno, possano contare sull’appoggio di circa un terzo della popolazione, mentre i due terzi hanno perso ogni tipo di legame con il Paese formale.  Tutto ciò non deve stupire poiché, quanto i nudi e freddi dati statistici raccontano, non sono altro che l’esatta fotografia degli effetti cha l’attuale grande trasformazione ha prodotto nella ridefinizione dei rapporti tra le classi. Il “cuore politico” di questa ridefinizione è dato esattamente dalla non rappresentabilità di gran parte della popolazione.
Se, in un’epoca ormai trapassata, la borghesia non poteva governare senza avere dalla sua parte la maggioranza della popolazione – di qua la necessità oggettiva di mettere a regime il “patto socialdemocratico” – oggi, tutto ciò, è stato abbondantemente superato. La borghesia governa in quanto minoranza poiché, questo il succo della questione, gli operai, i proletari e i subalterni sono stati posti ai margini della società e, in virtù di ciò, deprivati di ogni ipotesi di rappresentanza politica. Con ciò l’eclissi della socialdemocrazia la quale, come nel caso del 12 ottobre, non può fare altro che mettere in scena un insieme di tristi rituali i quali, più che a Come eravamo, rimandano a Viale del tramonto anche se, non ce ne vogliano gli attuali protagonisti, la regia di Rodotà non è comparabile a quella di Billy Wilder e Landini non regge il confronto con la Swanson.
La crisi della socialdemocrazia, la cui funzionalità era il frutto soprattutto di un contesto geopolitico delineatosi in seguito agli esiti del Secondo conflitto mondiale, ha origini strutturali poiché, per il modello produttivo inaugurato dal capitalismo globale, la forza lavoro deve essere pura e semplice appendice del ciclo di valorizzazione del capitale, ovvero la sua dimensione deve iniziare e concludersi in quella di capitale variabile tout court, senza alcun altro tipo di valenza. Dentro il ciclo del capitalismo globale la forza lavoro deve essere deprivata non solo della sua prospettiva storica ma persino la dimensione “economicista” – quella sulla quale a lungo aveva fatto leva la politica opportunista e riformista socialdemocratica – deve essere espunta dal suo orizzonte.
Insieme al partito politico anche la semplice organizzazione economica dei lavoratori non deve più avere una qualche funzione per le masse salariate e subalterne. Gli stessi sindacati di regime, giorno dopo giorno, vedono corposamente ridimensionata la loro funzione tanto che, in un futuro neppure troppo lontano, non è impensabile la loro trasformazione, almeno per quelle piccole quote che riusciranno a sopravvivere a se stesse, in semplici apparati polizieschi deputati al controllo e al governo dispotico della forza lavoro. Ciò a cui assistiamo è l’affermarsi di un modello economico e sociale che per funzionare a pieno regime e senza ostacoli deve annichilire ogni forma di identità della classe, deprivarla di ogni vincolo collettivo e solidale, trattandola come un magma senza volto. Per questo, la condizione degli attuali dannati della metropoli ha non poche affinità con quella dei dannati della terra. Tuttavia non sempre le ciambelle riescono con il buco. Se questo è lo scenario prefigurato dal “piano del capitale” tra le masse aleggia tutto tranne che apatia e rassegnazione.
Una parte di queste masse, come proveremo ad argomentare in seguito, ha iniziato a guardare con interesse le diverse realtà che animano la sinistra comunista e anticapitalista iniziando a porsi concretamente il problema, qui e ora, dell’organizzazione di massa, mentre la sua maggioranza sembra rimanere, almeno per il momento, ancora alla finestra. Il che, in fondo, è quanto mai comprensibile. La fiducia delle masse non è qualcosa che si conquista e acquisisce con qualche colpo di mano mediatico bensì attraverso un costante, tenace e testardo lavoroquotidiano in grado di dare risposte concrete a questioni concrete ma non solo. La fiducia delle masse si conquista solo se si è in grado di porre parole d’ordine chiare, nette e precise ma, ed è questo è il cuore della questione, soprattutto ponendo una netta linea di divisione tra noi e il nemico. Solo individuando con chiarezza chi è il nemico è possibile conquistare in maniera non effimera la fiducia delle masse. Solo offrendo loro una prospettiva di potere è possibile costruire, in maniera non occasionale, la forza proletaria pronta a dare l’assalto al cielo. In questa direzione si sono mosse le giornate del 18 e del 19 ottobre.
Il modo in cui il governo imperialista e la sua stampa si sono presentate all’appuntamento meritano di essere osservate con una qualche attenzione poiché, quanto non accaduto, è in grado di raccontarci qualcosa di non secondario sugli scenari politici che le manifestazioni del 18 e 19  hanno contribuito a delineare con fermezza. Soprattutto il 19 è stato il vero banco di prova di tutto ciò.


Il sangue dei vinti
Subito dopo la manifestazione del 19 abbiamo assistito a uno spettacolo tanto indecoroso quanto esplicativo da parte degli organi di stampa di regime e dei loro innumerevoli pennivendoli. Con ogni probabilità, infatti, editoriali e articoli di cronaca erano già, nella loro cornice generale, belli che confezionati. Ciò che da questi articoli doveva grondare era il sangue degli antagonisti vinti insieme al loro essere parte del tutto trascurabile dello scenario pubblico. Un’esigua minoranza, senza alcun legame reale con le masse, facilmente rubricabile come pura e semplice questione di ordine pubblico. Una questione di polizia risolta, senza andare troppo per il sottile, con metodi polizieschi o nel suo esatto corollario: la medicalizzazione del conflitto.
Questo scenario, la cui messa in forma gli stessi media avevano contribuito a preparare da tempo, era l’esatta cornice che Stato padroni avevano cercato di delineare. Uno scenario che, almeno sino al 18 sera, tutta la stampa di regime aveva abbondantemente contribuito a costruire come realtà oggettiva. Ma qual era il piano predisposto dalle varie agenzie della borghesia? Un piano semplice e lineare. Attraverso il terrorismo mediatico fare in modo che, alla fine, la profezia si auto-avverasse. Il 19 ottobre Roma doveva essere la pietra tombale di ogni “dissenso” organizzato alle politiche imperialiste della filiale locale della BCE. Con ogni mezzo necessario il numero dei manifestanti romani doveva essere assottigliato. Ai più doveva essere inibito l’accesso alla Città Eterna in modo che, alla fine della fiera, in piazza riuscissero ad arrivare solo coloro i quali, da tempo, erano stati etichettati come “professionisti della guerriglia”. A quel punto il gioco era fatto. Le forze dell’ordine avrebbero avuto mano libera nel massacrare i “soliti noti”, la magistratura, meglio se di matrice democratica, avrebbe potuto esercitare a pieno il suo giustizialismo senza essere accusata di ledere le libertà democratiche di alcuno, giornali e tv, insieme agli immancabili programmi raffinati di approfondimento, avrebbero potuto fare il pieno. I pennivendoli di «Repubblica» e dell’«Unità» si leccavano già i baffi, mentre i vari showman democratici, da Fazio a Santoro, avevano sicuramente già predisposto qualche “inserto speciale” con l’immancabile presenza di un ben addestrato pool di specialisti: sociologi, politologi e opinionisti di provata fede “democratica e progressista”, al fine di commentare e analizzare le drammatiche vicende consumatesi per le vie di Roma e non vi è dubbio che, nel frangente, i cani da guardia avrebbero svolto al meglio il loro ruolo.
Ascritti, con tutte le retoriche del caso, al mondo del degrado, della devianza e/o del malessere sociale sarebbero stati velocemente ascritti al mondo del patologico, il quale, come è noto, è sempre alle prese con una catalogazione in grado di rinverdirne la tassonomia. Con ogni probabilità, sia in virtù della sua intelligenza giornalistica sia per la frazione di borghesia che rappresenta, dal coro si sarebbe distaccato Mentana il quale, di quella giornata, avrebbe pur sempre cercato di spiegarne le origini strutturali piuttosto che accodarsi agli esegeti del malessere e/o del nichilismo diffuso.
La borghesia imperialista è pur sempre la frazione più avanzata del fronte borghese e non è certo un caso che, nel mefitico panorama giornalistico nostrano, La 7 e il «Sole 24 Ore» risultino gli organi mediatici più “oggettivi” o, per lo meno, poco proni alla riduzione semplicistica della politica o, cosa che nel nostro Paese è all’ordine del giorno, allo scandalismo infarcito da gossip. Non per caso, solo per citare un esempio in grado di raccontare molto sul tenore del “nostro” ceto giornalistico, mentre tutti i giornali focalizzano, assolutizzandola, l’attenzione sulle vicende giudiziarie di Berlusconi, come se questo fosse l’ombelico del mondo, il «Sole 24 Ore» si soffermava sulla “bolla del dollaro” e le sue ricadute globali. Chiusa questa sintetica ma necessaria parentesi sulle amenità del giornalismo nostrano proseguiamo.
Domandiamoci che cosa è successo a Roma e per quali motivi l’intero progetto governativo è andato in fumo. Una prima non secondaria risposta la forniscono i numeri. Senza alcuna esagerazione in piazza, il 19 ottobre, vi erano almeno 120mila persone. 120mila persone che, a differenza di altre volte, non avrebbero potute essere divise in buoni e cattivi. In piazza, questa volta, non c’erano gli Agnoletto o i Casarini di turno e neppure, perché avevano già tristemente sfilato il 12, le varie appendici della socialdemocrazia. In poche parole quel corteo non poteva essere politicamente diviso. Si parte insieme, si torna insieme! Un modo di fare non semplicemente di dire. Nonostante i non secondari sforzi e accorgimenti messi in atto dal governo non è stato possibile limitare più di tanto la partecipazione alla manifestazione. Questo il primo dato.
In seconda battuta un ruolo sicuramente importante lo ha svolto il carattere militante del corteo. Tutti i partecipanti sapevano di non andare incontro né a una scampagnata né, tanto meno, a un pranzo di gala. La possibilità di un pesante attacco da parte delle forze dell’ordine era tutto tranne che un’ipotesi accademica. Ancora poche ore prima della manifestazione ciò era quanto aleggiava nell’aria e alcune operazioni ad hoc condotte dalla polizia la sera precedente andavano esattamente in tale direzione. Per quanto non politicamente omogeneo il corteo ha mostrato di essere in toto in grado di reggere la sfida. La manifestazione sarebbe stata difesa, senza se e senza ma. Tutto questo non poteva che far saltare l’intero programma governativo il quale, per togliersi d’impaccio, ha dovuto ricorrere a un escamotage: Lasciamoli giocare, che, buffoneria a parte, mostrava quanto la quantità e la qualità della manifestazione avessero mandato in corto circuito l’intera cornice predisposta per la giornata.
Certo, nessuno si fa illusioni, sotto il profilo militare il corteo avrebbe anche potuto essere battuto ma, ed è questo il punto, per farlo si sarebbe dovuto spostare di molto in avanti l’asticella della forza repressiva. In altre parole si sarebbe dovuto velocemente declinare verso un modello non distante dalla Turchia o dall’Egitto, con tutte le ricadute politiche del caso tra le quali la non secondaria possibilità che, sulla base di quell’esperienza, le masse avrebbero compiuto un ulteriore passo avanti, un ulteriore decisiva esperienza nel loro processo di radicalizzazione. Il che non è certo quanto un governo delegittimato a livello di massa – la coalizione governativa è di poco superiore al trenta per cento del corpo elettorale –  profondamente spaccato al suo interno e, aspetto decisivo, incapace di risolvere uno qualunque dei problemi che lo attanagliano, può augurarsi. Un governo che sta in piedi con lo sputo e il cui reale collante è la paura dei deputati e dei senatori di perdere i loro scranni parlamentari, non può permettersi grandi cose. Neppure imitare Erdogan. E con ciò arriviamo al vero nocciolo della questione o più esattamente al “cuore politico” di quanto il 19 ottobre ha messo in forma tanto da far fare marcia indietro alle strategie repressive e poliziesche del governo.
A nostro avviso a essere determinante, ancor prima del numero e della determinazione militante della piazza, è stata la composizione sociale che, nella giornata del 19, ha trovato un significativo momento di coesione non fittizia. L’aspetto importante del 19 è stato un enorme e determinato corteo militante formato, però, non da soli militanti. Può sembrare un gioco di parole ma non è così. In piazza, accanto e uniti ai militanti politici che hanno organizzato e trainato le lotte, vi erano interi pezzi di società. Il popolo della Val Susa, insieme al popolo siciliano, i movimenti per la casa insieme agli immigrati, i rifugiati politici insieme ai vigili del fuoco, gli operai dei trasporti insieme agli studenti precari, i dipendenti pubblici insieme ai facchini e con loro vi erano quell’insieme di realtà sociali che hanno fatto sì che, da un lato, il 18 ottobre non fosse il semplice rituale di una testimonianza antagonista ma l’inizio di un possibile fronte di massa organizzato, dall’altro che il 19 ottobre non si trasformasse nella mattanza sperata e organizzata bensì la concreta messa in forma di un movimento politico in grado di porre sotto assedio le politiche imperialiste della BCE e dei suoi vassalli locali.
In piazza non vi erano solo le avanguardie politiche ma un’avanguardia di massa espressione di lotte e tensioni sociali particolarmente forti e radicate soprattutto sul territorio e in misura minore dentro gli ambiti lavorativi. Questa presenza, assolutamente non prevista, è all’origine della forzosa marcia indietro governativa. “Lasciateli giocare”. Ma chi dovevano lasciar giocare? Questo, ovviamente, non sono stati in grado di spiegarlo. Dovevano lasciar giocare i migranti, i rifugiati, gli occupanti delle case? Oppure i facchini, i vigili del fuoco o gli abitanti della Val Susa? E giocare con chi e con che cosa? Forse ciò che il governo non ha capito è che è esattamente finito il tempo dei giochi. È finito il tempo dei bancomat e delle vetrine infrante. Ciò che, pur con tutta la cautela del caso, sembra possibile affermare è che il 18 e il 19 ottobre l’adolescenza, che per sua natura si porta appresso sempre qualche vena di nichilismo, del movimento antagonista e di classe è terminata. All’orizzonte se ne prefigura la giovinezza la quale, se da un lato porta con sé quella “spensieratezza”, sempre necessaria per poter “dare una spinta alla Storia”, guarda alla sua adolescenza con occhi ormai adulti. Non è qualche vetrina di lusso o la momentanea dismissione di pochi bancomat che ci interessa. Abbiamo la presunzione di lavorare per qualcosa di più. La costruzione del partito rivoluzionario, l’organizzazione di massa del proletariato, la sua costituzione in classe e la sua dittatura rivoluzionaria sono il nostro programma. Il terrore rosso, nel caso, il nostro strumento. Dalla borghesia e da Robespierre qualcosa abbiamo imparato. E lo abbiamo fatto per bene! Ma torniamo sul pezzo.
Un capitale enorme, per ora forse più sociale che politico, si è mostrato nel corso delle due giornate di ottobre. Senza entusiasmi di troppo ma con la lucida consapevolezza delle enormi praterie che si sono oggettivamente aperte per il movimento comunista, dobbiamo metterci immediatamente al lavoro e dobbiamo farlo partendo esattamente dalle indicazioni che le due giornate hanno posto all’ordine del giorno. Si tratta, in poche parole, di cogliere il tipo di indicazioni strategiche che, in potenza, il movimento di massa ci ha fornito. Per le avanguardie rivoluzionarie, oggi, il tempo degli alibi è finito. Il crollo della socialdemocrazia insieme alla sua obiettiva difficoltà a tornare in gioco lasciano libero campo alle forze comuniste. I presìdi socialdemocratici e le loro casematte sono saltate, solo le forze comuniste possono diventare il reale punto di riferimento delle masse. Questo vale in primo luogo per quella formidabile avanguardia di massa della quale le giornate del 18 e del 19 ottobre ne sono state la sintesi cristallina senza dimenticare, però, che il vero obiettivo strategico del movimento comunista non può essere altro che la conquista di quei milioni di subalterni che, oggi, si limitano a stare alla finestra. Attraverso l’organizzazione dell’avanguardia di massa della classe dobbiamo arrivare esattamente a loro. Oggi non solo Bisogna sognare! Ma è possibile vincere. L’epoca del forzato minoritarismo sembra essere giunta al termine. Con Lenin: “Abbiamo un mondo da conquistare”, con Jim Morrison: “Vogliamo il mondo e lo vogliamo adesso!”.
Andiamo a lezione dalle masse e cominciamo a ragionare sui compiti immediati che ci aspettano.


Assedio
Assedio è stata la parola d’ordine che ha unificato le giornate del 18 e del 19 ottobre. Intorno a questa occorre ragionare. Iniziamo, intanto, con il porre in evidenza grandezza e limiti di ciò che si è prodotto nelle due giornate. Partiamo, soprattutto, dalle parzialità obiettive che in quella piazza si sono date appuntamento. Sicuramente, e non avrebbe potuto essere altrimenti, tra gli attori sociali protagonisti era assente un discorso politico unitario. Questo per almeno due buoni motivi. Il primo di natura esclusivamente politica. Nessuna forza organizzata poteva vantare un ruolo egemone nelle mobilitazioni. Il che non deve stupire. L’organizzazione politica, il partito, non è qualcosa che può darsi attraverso un artifizio. Il partito è ed è sempre stato il frutto di un processo storico. È un’operazione “materiale” che non può essere elusa attraverso sommatorie posticce di ceti politici in via di esaurimento o tramite la rimessa in circolo di qualche vestale delcredo comunista.
Il partito è sempre il frutto di una condizione materiale storicamente determinata che dalle masse torna alle masse. Parte cosciente della classe, il partito, non può che vivere in unità dialettica con questa. Tutto il resto, dal trasformismo bertinottiano al dogmatismo bordighista, è pura schermaglia intellettualistica esterna ed estranea alla materialità della lotta di classe. Laforma partito e lo stesso suo programma non possono essere altro che la sintesi delle contraddizioni di classe e delle contraddizioni di una determinata fase di un modo di produzione storicamente determinato. Il programma e la tattica del partito sono obbligati, pena l’archiviazione nel museo della Storia, a misurarsi costantemente con il divenire.
Impadronirsi della fabbrica, instaurare i Consigli operai e porsi il problema di governare quel tipo di produzione, portando le forze produttive al massimo grado di sviluppo, era e non poteva essere altrimenti il programma operaio interno a un determinato contesto storico. Di pari grado l’alleanza con i contadini medi e poveri era l’asse strategico intorno al quale, anche nei Paesi imperialisti, si dava la concreta possibilità di portare l’assalto al cielo. Operai e contadini, una volta posto saldamente tra le loro mani il potere politico, erano fortemente cointeressati a gestire e sviluppare quel modello di produzione fino a diventare direttamente competitivi con i Paesi capitalistici più progrediti e avanzati. Sotto tale profilo l’URSS ne ha rappresentato l’elemento paradigmatico. In poco più di dieci anni, a partire dal 1926, l’URSS recupera cento anni di arretratezza. Questo enorme balzo le consente di presentarsi con tutte le carte in regola all’appuntamento topico con la Storia. Sono i dieci anni di industrializzazione “forzata” che le consentono, eroismi a parte, di annientare il nazifascismo. Ma questa è la storia di ieri.
Torniamo al presente. È minimamente realistico pensare, tanto per fare un esempio non proprio quantitativamente irrilevante, che i lavoratori dei call center possano trovare sensata l’idea di porre sotto il loro controllo il loro luogo di lavoro? Difficile dare una risposta affermativa. Quanti sono, nei nostri mondi, i proletari e gli operai impiegati in produzioni vagamente strategiche? Una quota assolutamente minima se non irrisoria. Se, come i dati statistici raccontano, gran parte della forza lavoro salariata è impiegata in attività produttivi e di servizio di basso profilo, per ogni operaio industriale vi sono due operai pizzaioli, quale interesse possono avere queste masse a prendere tra le loro mani questo tipo di produzione? Possiamo immaginare la fase di transizione al socialismo attraverso il controllo operaio di pizzerie, bistrot, call center ecc? Evidentemente no. Possiamo pensare la transizione al socialismo attraverso la gestione in prima persona da parte dei salariati del modello produttivo esistente? Ma, soprattutto, tutto ciò sta nelle corde delle masse subalterne e salariate contemporanee? Può, il partito, pensare di porre tutto ciò tra parentesi? Evidentemente no. O il partito è espressione di queste masse o il partito non è nulla. Allora, se quanto argomentato è vero, non deve stupire che, nel presente, nessuna organizzazione politica può fregiarsi del titolo di partito. Nella migliore delle ipotesi, nel presente, è possibile e pensabile che, volta per volta, singole realtà possano agire da partitoben sapendo, però, che agire da partito è ben distante dall’essere partito nel senso pieno del termine. Inutile non riconoscere questo limite. I limiti, per poter essere superati, vanno presi per le corna, non ignorati.
Ma la parzialità politica è soprattutto il frutto di una parzialità sociale ed è esattamente ciò che le giornate del 18 e del 19 ottobre ci raccontano. In piazza nessun blocco sociale presente poteva vantare una qualche pretesa egemonica sugli altri. Suggestioni a parte, i valsusini, non potevano vantare un surplus di rappresentanza rispetto a coloro che hanno portato avanti le lotte per la casa così come, a loro volta, questi non potevano vantare qualcosa in più rispetto ai lavoratori della logistica e così via. In quella piazza tutti potevano vantare lo stesso grado di legittimazione. In altre parole non vi era una figura sociale, il metalmeccanico tanto per citare l’esempio noto ai più, la quale, a partire dalla propria forza organizzata, era in grado di dirigere e governare l’insieme delle lotte sociali. Bisogna riconoscere, il che non è né un bene né un male ma un semplice dato obiettivo, che oggi tutte le lotte rivestono, grosso modo, lo stesso grado di importanza. Una, sicuramente, è in grado di alimentare l’altra ma nessuna è in grado di tirare la volata alle altre. In nessun contesto, oggi, è pensabile di trovare quell’accumulo di potere operaio concentrato, tra gli anni Sessanta e Settanta, a Mirafiori. Tutto ciò ha conseguenze non irrilevanti per la messa a punto della tattica.
In un’altra epoca, sfondare a Mirafiori significava portare lo scompiglio tra le fila nemiche. Le lotte di Mirafiori aprivano prima e scompaginavano poi, al pari di veri e propri reparti corazzati, il fronte nemico il quale, in piena ritirata, poteva essere facile preda anche dei reparti leggeri della classe. Difficile pensare, infatti, a una qualche conquista da parte degli addetti al commercio senza le unità corazzate dei metalmeccanici. Difficile pensare a un contratto di lavoro minimamente decente da parte degli addetti alla ristorazione senza la presenza dell’artiglieria pesante dei siderurgici. In un’altra epoca, proprio in virtù delle gerarchie che un determinato modello produttivo stabiliva anche dentro alla classe, la lotta di alcuni settori diventava strategica e, intorno a quelle battaglie, poteva e doveva darsi tutta la tattica dei reparti proletari meno agguerriti o, più semplicemente, esterni ed estranei alla centralità del processo produttivo. Di tutto ciò, oggi, non vi è sentore e sarebbe del tutto privo di senso andare alla ricerca di qualcosa o qualcuno in grado di, pur sotto altra forma, reiterare un simile modello. Nessuna lotta sembra in grado di aprire un varco entro il quale, attraverso un processo a cascata, tutti gli altri possano infilarsi con profitto. Tutto ciò non va teorizzato ma, molto più prosaicamente, assunto nella sua freddezza analitica.
Per non incorrere in possibili malintesi, ai quali le argomentazioni sopra esposte potrebbero condurre, è bene spendere qualche parola su quanto sostenuto. Riconoscere il venir meno di una figura sociale egemone, il che rimanda all’assenza di un “cuore produttivo”, non significa cadere nell’indistinto o nell’occasionalismo. Non significa, sulla scia di alcune ipotesi manifestatesi tra la fine degli anni Settanta e primi anni Ottanta del secolo scorso, considerare conclusa l’era del “politico”, a fronte di un’epoca puramente plasmata sul sociale. Così come sostenere il venir meno di una figura sociale centrale, non significa, in automatico, trasferire il conflitto, in maniera indeterminata, all’interno di ogni rapporto sociale deprivato di una qualunque valenza politica. In altre parole né le derive deleuziane dell’ultima Prima linea, né leGocce di sole del Partito guerriglia né la loro sistematizzazione teorica e disarmata delpostoperaismo rientrano nel nostro orizzonte teorico, politico e organizzativo. L’obiettivo che realmente ci poniamo, sulla base del marxismo e del leninismo, è la costruzione del partito comunista all’interno della fase imperialista globale. Il partito storicamente determinato dalle condizioni materiali del presente, non la sua Epifania. Per questo, come tutte le rivoluzioni proletarie, guardiamo al futuro e non al passato. Nessuna Repubblica romana può illuderci e/o ingannarci. La grandezza di Robespierre, Marat e Sant Just potevano e dovevano guardare allevirtù di Roma ma non così funzionano le cose per il proletariato. Lo sappiamo, teoricamente, dalla Ideologia tedesca, praticamente dai giorni della Comune.
Torniamo, pertanto, alla parola d’ordine dell’assedio provando a decifrarne il contenuto strategico alla luce delle considerazioni fino a ora argomentate.
Chiediamoci innanzitutto in che modo deve essere praticato l’assedio. Classicamente ci troviamo di fronte a un bivio. Si può ipotizzare l’assedio della principale fortezza avversaria poiché, una volta conquistatala, il nemico non ha più, dietro di sé, un solo metro di territorio sicuro. In questo caso tutte le principali forze vanno raccolte intorno alla fortezza nemica la quale deve ritrovarsi nell’impossibilità di muovere un solo passo. In tale scenario la finalità dell’assedio non può che essere l’espugnazione della cittadella fortificata. Conquistata quella, le truppe possono dilagare. Uno scenario che, palesemente, oggi non è possibile ipotizzare poiché in nessun luogo è possibile concentrare una simile forza strategica. Nessuna armata dei metalmeccanici, o chi per essi, può essere mobilitata a tale fine. Così come nessuna artiglieria siderurgica può coprire l’avanzata delle truppe d’assalto. Quel modello di assedio, fondato sulla stabilizzazione delle forze, non è realisticamente praticabile. Non solo mancano le truppe ma è del tutto assente la cornice entro cui quel modello bellico era messo in forma.
Allora, se parliamo di assedio, dobbiamo farlo avendo a mente un altro modo di belligeranza. Ed è esattamente qua che alcuni nodi strategici si pongono. In particolare dobbiamo chiederci se, dentro lo scenario attuale, non sia necessario far ricorso a quel modello di combattimento inaugurato da Lawrence d’Arabia nella guerra nel deserto il quale, per molti versi, può considerarsi la prima organica sistematizzazione della guerra asimmetrica. Un modello che, per svariate ragioni, sembra essere la forma di combattimento ideale per le classi subalterne contemporanee.
Dobbiamo chiederci, insomma, se praticare l’assedio oggi non significhi altro che, dentro un contesto metropolitano, far sì che mille punture di insetto facciano crollare il rinoceronte imperialista. Dobbiamo far sì che le lotte non diano tregua al nemico e che questi si trovi ad affrontare un assedio in qualunque contesto. Ma questo non è qualcosa che si improvvisa o che può essere delegato alla spontaneità delle masse. Esattamente qua, nell’organizzazione delle lotte, si dà il primo passaggio della costruzione del partito. Dobbiamo, se vogliamo essere realmente un’avanguardia in grado di agire da partito, essere in grado di organizzare il più ampio fronte di lotta possibile. Dobbiamo essere in grado di mobilitare le immense forze di classe che oggi sono alla ricerca di un reale punto di riferimento. Ma dobbiamo farlo mettendo al centro della nostra iniziativa la lotta per il raggiungimento, qui e ora, di obiettivi materiali e concreti, insieme a una prospettiva di potere diverso e distante dalle stalle d’Augia  del parlamentarismo e della democrazia imperialista. Dobbiamo dire, forte e chiaro, che tra noi e le istituzioni putrefatte della democrazia imperialista vi è un solco incolmabile. Per questo non dobbiamo confonderci, ma anzi dobbiamo rimarcare continuamente, nella teoria e nella prassi, la distanza da qualunque “partito degli assessori”. Dobbiamo sognare non rimettere in circolo un qualche incubo del passato.
Tutto questo in un contesto storico in cui la tendenza alla guerra si manifesta senza inibizioni di sorta. Ovviamente ciò non è, e neppure lo può essere, immediatamente chiaro ed evidente ai movimenti di massa. Spetta alle avanguardie comuniste, non solo spiegare quanto sta accadendo, ma modellare lotte e organizzazione avendo costantemente a mente lo scenario oggettivo, quindi non sovvertibile, entro il quale le donne e gli uomini saranno obbligati a fare,indipendentemente dalle rappresentazioni che la falsa coscienza può continuare a fornir loro.

mercoledì 6 novembre 2013

il Pd servo dell'Euro e dei Capitali stranieri e del Sistema Mafioso Tav

No Tav violenti per Fassino? Risponde l’assessore Galliano di Sant’Ambrogio

No Tav violenti per Fassino? Risponde l’assessore Galliano di Sant’Ambrogio
novembre 05
19:30 2013
Non sono andate giù le parole pronunciate dal sindaco di Torino Piero Fassino, in visita istituzionale a New York, sul movimento che da vent’anni lotta contro la linea ad alta velocità Torino-Lione. Un giudizio con cui il primo cittadino ha bollato i No Tav come «estremisti e violenti».
Parole dure che oggi ricevono una risposta tra il serio e il faceto, da un assessore di Sant’Ambrogio in Val di Susa, Mauro Galliano, che si rivolge direttamente a Fassino: «Ho letto le sue parole pronunciate da New York in merito al movimento No Tav. Io molto più sommessamente le rispondo da Sant’Ambrogio di Torino dove sono Amministratore».
«E’ molto grave che un politico della sua statura (fisica) – spiega l’amministratore valsusino – continui a screditare e generalizzare milioni di persone che in tutta Italia simpatizzano e solidarizzano con il movimento No Tav riconducendo il tutto alle azioni violente, nella maggioranza dei casi né rivendicate né attribuite al movimento, senza mai essere capace di entrare nel merito del problema con dati e numeri».
Non usa mezzi termini Galliano nella sua risposta, dura come dure sono state le parole di Fassino: «E’ come se un politico della mia statura (1 metro e 80, quindi molto più basso di lei) sostenesse che il suo partito ha subito un cambiamento dopo che si è accorto di “avere una banca” o più recentemente di avere una nota esponente invischiata negli scandali legati al Tav o di tesserare indiscriminatamente a destra e a manca per far cambiare rotta».
Ovviamente i riferimenti, per nulla velati, sono allo scandalo della Banca Monte dei Paschi di Siena, a quello dell’ex presidente della Regione Umbria, Maria Rita Lorenzetti, presidente di Italferr, la società delle Ferrovie che opera nel ramo dell’Alta Velocità, accusata dalla procura di Firenze di corruzione, abuso d’ufficio e associazione per delinquere, e anche alla “generosità” del tesseramento nel Partito Democratico in queste ultime settimane di pre-Congresso.
Un ragionamento che vuole far comprendere al primo cittadino del capoluogo piemontese quanto siano state infelici le sue esternazioni in merito alla lotta pacifica che un’intera valle.
E infatti Galliano chiude il sue pensiero dicendo: «O credo che solo una piccola minoranza insignificante del partito democratico ha voluto, goduto e subito in silenzio questi “cambiamenti”. Il resto è fatto da molte persone per bene che si dannano l’ anima dalla sera alla mattina».
Brutta piega e strada sbagliata l’aveva definita Fassino la strada “violenta”, secondo lui, intrapresa dai No Tav: «Ognuno è libero di scegliersi la propria “brutta piega” o “strada sbagliata” che vuole. Dal mio punto di vista la brutta piega e la strada sbagliata la stanno percorrendo chi come lei è tra i principali responsabili del dirottamento di denaro pubblico a favore del Tav o dell’acquisto dei cacciabombardieri sottraendolo alla sicurezza nelle scuole, alla ricostruzione delle aree terremotate, alla messa in sicurezza del territorio e alla prevenzione dalle calamità, alla sanità, alla ricerca, al trasporto pubblico ecc.». E chi si oppone alla Torino-Lione, dicono dalla Val di Susa, chiede proprio questo: che i soldi non vengano sprecati per costruire quella che è stata definita la grande opera inutile invece di investire utilmente il denaro pubblico nella sanità, nei trasporti, nel riassetto idorgeologico, nella ristrutturazione di quegli edifici, come gli istituti scolastici, che cadono a pezzi.
Galliano chiude poi con un invito al presidente dell’Anci, gli chiede di sposare fino in fondo la causa del Sì al Tav, candidandosi a sindaco in qualche comune della Val di Susa: «Se ritiene che il Tav rappresenta la salvezza del Piemonte e dell’Italia intera, per il bene di tutti, sacrifichi la sua carriera e il suo prestigio da Sindaco di Torino e presidente dell’Anci. Una sua vittoria in qualche comune (ora no tav) sarebbe un bel colpo mediatico e darebbe una bella spinta in avanti al progetto. Se proprio ci tiene! Metta però subito in conto che non farà più le trasferte a New York!».

http://www.nuovasocieta.it/torino/no-tav-violenti-per-fassino-risponde-lassessore-galliano-di-santambrogio/

lunedì 4 novembre 2013

la produttività e la competitività siedono sulla schiavitù, questa è la Germania e l'Euro



Sulle tracce della nuova schiavitù

Arrivano dalla Romania e dalla Bulgaria e lavorano con salari da fame in condizioni di semi-schiavitù: è il nuovo boom del lavoro nero legalizzato. I mattatoi, i cantieri e i fornitori di servizi ne approfittano, la Germania è sempre più competitiva. Il salario minimo per legge servirà a qualcosa? Da FAZ.net
Per Adrian Galea la felicità ha un luogo: Rheda-Wiedenbrück. Nel centro dell'industria della macellazione tedesca c'è il lavoro alla catena. A casa sua in Valacchia manca addirittura la corrente. Con la lavorazione della carne in Germania si può sfamare l'intera famiglia rimasta in Romania. Con lo stipendio tedesco si può finanziare l'acquisto di una casa di proprietà: "Ci siamo guadagnati il rispetto dei colleghi tedeschi".

Le lodi per la Germania suonano un po' strane di questi tempi, proprio mentre la Cancelliera vorrebbe regolare ogni contratto d'opera utilizzato per dare lavoro alla nuova ondata verso l'ovest: lavoratori migranti dall'Europa dell'est verso i macelli e i cantieri tedeschi - occupati con stipendi da fame. Pochi giorni fa il re dei mattatoi tedeschi Clemens Tönnies si è trovato a discutere di salario minimo, anche il ministro del lavoro del Nord Rhein Westfalia era presente: fra i lavoratori migranti ci sono "condizioni simili a quelle del primo capitalismo", ha denunciato il politico della SPD. Ora Tonnies vorrebbe introdurre un salario minimo e "condizioni minime per gli alloggi, i servizi di consulenza e integrazione come per i risarcimenti dovuti ai lavoratori impiegati con un contratto d'opera".

Vivere in un alloggio di fortuna

Diversamente dai turchi e dai greci arrivati negli anni '60, i lavoratori in arrivo dalla Romania e dalla Bulgaria vorrebbero restare solo per un periodo limitato. Considerando la situazione in cui vivono e lavorano, la discussione sul salario minimo di 8.5 € l'ora per loro appartiene ad un altro pianeta. I rumeni scoperti questa estate nei boschi vicino a Cloppenburg vivevano sotto ripari di fortuna fatti con rami, teli di plastica e coperte. Le autorità li hanno fatti sgomberare, come è accaduto in decine di ristoranti dove i lavoratori migranti erano ospitati in maniera illegale. Per i due rumeni impiegati con un contratto d'opera al cantiere navale di Papenburg, carbonizzati da un incendio nel loro alloggio di fortuna, le forze dell'ordine purtroppo sono arrivate troppo tardi.

Il piu' grande mattatoio d'Europa è Tönnies, con sede a Rheda-Widenbrück, e 4.9 miliardi di Euro di fatturato. Due terzi degli occupati sono forniti dagli appaltatori esterni.

Un contratto d'opera si ha quando un'impresa acquista da un'altra impresa una determinata prestazione. Una determinata quantità di carne pulita e tagliata, ad esempio, che deve essere fornita in un determinato periodo di tempo. Che il lavoro sia fatto da mille macellai oppure da un centinaio, secondo la legge, per il committente è indifferente, come del resto il salario pagato. Per i lavoratori impiegati è responsabile il subappaltatore. E secondo quanto racconta la lavoratrice Petronela in un programma televisivo trasmesso dall'emittente rumeno MDI, TV rumena partecipata da Nimbog SRL, subfornitore di Tonnies, per i rumeni la Westfalia sarebbe il vero paese dei sogni.

„Deutsche gut, Rumänen scheiße“

Chi si mette in cerca delle tracce dei lavoratori migranti e delle loro storie di moderna schiavitù, ne troverà ovunque in Germania: stranieri, la cui situazione è così precaria, che con le loro forze non riescono a difendersi dalle attività criminali di persone che non raramente sono anche loro connazionali. „Deutsche gut, Rumänen scheiße“, dice Andrej, rumeno 45enne, nel caffè della stazione di Rheda-Wiedenbrück, e sorride educatamente. Clemens Tönnies, il re dei mattatoi e presidente del club calcistico Schalke, Andrej l'ha visto solo una volta. Una delegazione lo ha guidato attraverso la fabbrica, dice Andrej, e guarda preoccupato verso la porta. L'uomo ha paura di perdere il lavoro. Ha 45 anni e non vuole che si scriva il suo vero nome: "non so per quanto tempo restero' ancora". Non vuole lasciarsi fotografare: "Tra i lavoratori ci sono delle spie".

Non si parlava di sorveglianza e spionaggio quando un amico gli ha consigliato il lavoro in Westfalia. Il salario è buono e arriva puntuale, dicevano. Queste erano le belle storie raccontate in televisione. Quell'emittente Andrej non lo guarda più. L'amicizia nel frattempo è terminata.

L'uomo arriva dalla campagna rumena. Nel suo paese è autista di camion, ma lo stipendio non era sufficiente per il vitto e l'alloggio. "Il cibo in Romania costa quasi quanto in Germania", dice Andrej. Ha una moglie e 2 bambini oltre l'età della scuola elementare. Spedisce 600 € al mese a casa, 300 € gli restano per la vita in Germania. Vuole rientrare a casa il più presto possibile. Teme per la sua salute.

Straordinari non pagati non sono una rarità

Un anno fa è atterrato a Dortmund con un volo low cost, ora prenderebbe il volo di ritorno molto volentieri, se non fosse per la speranza di ottenere prima o poi il denaro per il mantenimento dei figli. All'inizio lavorava le salsicce, ora taglia i pezzi di maiale. Ha portato con sé la busta paga. Se si considera una settimana di 40 ore, il salario orario supera gli 8 € lordi. Andrej ci dice che il suo datore di lavoro non ha le schede per timbrare l'ingresso e l'uscita e che lo fanno lavorare anche fino a 12 ore al giorno, invece delle 8 ore promesse in Romania, senza straordinari pagati. Ci dice che nei primi mesi ha avuto una retribuzione di 4.5 € lordi all'ora. Il datore di lavoro non è raggiungibile. Ma il gruppo Tönnies smentisce al loro posto, sebbene non siano responsabili per gli stipendi dei dipendenti assunti dai subappaltatori: "un salario di 4.5 € lordi sarebbe in contraddizione con le nostre regole. Ci risulta dalle analisi fatte da società di revisione indipendenti che il salario minimo in questa impresa sia decisamente superiore ai 4.5 € lordi l'ora".

4.5 € lordi l'ora, per chi arriva da un paese in cui il salario medio è di 500 € lordi, sono pochi o molti? Che cos'è un salario da fame?

Molto più a sud della Westfalia, nella bavarese Murnau, il lavoratore edile Gheorghe Pavel è davanti alla sua abitazione spartana e sta calcolando quanto ha ricevuto fra agosto, settembre e ottobre per lavorare all'allargamento della clinica per gli infortuni di Murnau. Gheorghe Pavel è il suo vero nome. Si lascia fotografare, anche di fronte, insieme ad altri tre colleghi. I rumeni non hanno alcuna paura di farsi licenziare da questo cantiere, se ne vogliono andare al più presto. 

Affidare il lavoro ai subfornitori è più conveniente.

Pavel arriva da un villaggio nei pressi di Bucarest. Fa il muratore da 30 anni. Ha 45 anni. Insieme ai suoi 3 colleghi è stato assunto da un'impresa ungherese, guidata da un rumeno.

A Murnau è arrivato con un pulmino. L'impresa committente nel cantiere di Murnau è la tedesca Riedel Bau di Schweinfurt, ma la maggior parte dei costruttori tedeschi affida il lavoro a dei subappaltatori perché è più conveniente. All'una di notte il loro superiore rumeno ha avvisato Pavel e colleghi che il mattino seguente se ne sarebbero potuti andare. Che cosa ha fatto negli ultimi 3 mesi e mezzo, oltre a mangiare e dormire? Per i mesi di agosto, settembre e ottobre Pavel si è annotato 415 ore di lavoro. Ha già lavorato nel cantiere della  Elbphilharmonie di Amburgo e presso la Audi di Ingolstadt. La clinica per gli infortuni di Murnau è ugualmente famosa, chiunque sulle Alpi abbia un incidente viene portato qui. Pavel nelle 415 ore lavorate ha tirato su' pareti interne dalle 7 del mattino fino alle 7 di sera.

Fino ad oggi ha ricevuto 254 € in contanti dal suo capo. Vale a dire un salario orario di 61 centesimi.

Niente soldi per il cibo, l'elettricità e il gas

Diversamente da quanto accade nei mattatoi, nei cantieri tedeschi è previsto un salario minimo per legge, che ogni impresa deve pagare, anche se è straniera e se impiega lavoratori stranieri. E' pari a 13.7 € l'ora lordi. Il subappaltatore Radu Bau ci dice che i 4 colleghi avrebbero ricevuto senza eccezione "il salario minimo". 

Il collega di Pavel, Florin Bazan, ci dice che la moglie dal suo paese nei pressi di Bucarest l'ha chiamato: rischia il taglio dell'elettricità e del gas per tutta la famiglia. Pavel ci dice che si è fatto prestare denaro dai parenti, perché non aveva più denaro per comprarsi qualcosa da mangiare a Murnau. Se le cifre fornite da Pavel sono esatte, l'espressione "salario da fame" per il cantiere di Murnau è perfetta.

14 metri quadrati per 1070 €

Il portavoce dell'impresa Riedel Bau al telefeono è agitato. Essere un contractor nei cantieri è molto diverso dall'esserlo nell'industria della carne, dove non c'è alcun salario minimo. Se Riedel Bau fosse a conoscenza del fatto che nei cantieri non viene pagato il salario minimo, potrebbe essere pericoloso. Axel Siebrandt ci dice che il rispetto dei salari minimi è stato documentato con delle certificazioni: "non abbiamo alcun pagamento in sospeso nei confronti dell'appaltatore". 

Pavel e i suoi colleghi si sono rassegnati a condividere questi 14 metri quadrati con 4 letti in ferro. Guardano la TV rumena, il corridoio fuori dalla porta è lungo e buio, e accanto a loro c'è un impianto per il trattamento dei rifiuti. Sulle pareti serpeggiano i cavi elettrici. Il datore di lavoro per il mese di settembre gli ha detratto 267.6 € dallo stipendio. La camera costa 1.070 €. Pavel e i suoi colleghi sono arrabbiati. C'è anche un'altra detrazione da 308.8 € che non sanno per quale motivo sia stata fatta. Non hanno idea di cosa potrà loro accadere. Non hanno i soldi per tornare in Romania, e i familiari in patria hanno bisogno del loro denaro.

Il bulgaro Dimcho lavora a Coblenza e non è così coraggioso come i rumeni di Murnau: non vuole fare il nome dell'impresa per cui consegna pacchi. "Se lo facessi avrei dei problemi". Lui dice di essere bravo, in magazzino gli basta vedere da lontano una scatola per sapere se deve andare al quinto piano. L'altro giorno c'erano 3 casse da 8 bottiglie di vino ciascuna. Quinto piano di un vecchio palazzo, ovviamente senza ascensore. "Era scontato", dice Dimcho.

Una poesia per gli ispettori

Conduce un mezzo per un subappaltatore di un grande gruppo. Lo hanno registrato come lavoratore autonomo. Ovviamente è una sciocchezza, è un dipendente dell'azienda. I dipendenti devono suonare una sola volta all'indirizzo del destinatario, e se la porta non si apre, possono riportare il pacco al magazzino. Per Dimcho ci sono altre regole. Non può tornare con dei pacchetti. Deve suonare ai vicini di casa. Il distretto postale che gli hanno assegnato è molto grande, a volte il giro dura 14 ore. Alle 10 di sera deve suonare ai vicini di casa. Dimcho ha paura che prima o poi qualcuno una sera finisca per menarlo.

Mihan Balan parla tedesco e rumeno. Aiuta i lavoratori migranti. Balan ci racconta dei documenti in bianco che i rumeni devono firmare, altrimenti il datore di lavoro non paga. Così sarà in grado di dichiarare che viene corrisposto un salario minimo. Se gli ispettori dovessero poi presentarsi sul cantiere, gli operai devono recitare la solita poesia: "io ricevo 13.70 € lordi all'ora". 

Lo sfruttamento dei lavoratori migranti ha una sua logica. Il contractor rumeno e il lavoratore rumeno formano un cartello: l'appaltatore non vuole far lavorare l'operaio al salario minimo - che quindi accetta il dumping salariale, ma che alla fine è sempre più di quanto potrebbe guadagnare in Romania.

La via della giustizia è senza speranza

Almeno nella maggior parte dei casi. L'avvocato del lavoro di Offenbach Frederic Raue ha segnalato un centinaio di casi in cui i lavoratori migranti per mesi non hanno visto un soldo. Chi si ribella perde il letto di ferro ed è costretto a prendere la via di casa. Chi riesce ad andare dall'avvocato invece non parte da una buona posizione. Se Raue cita in giudizio il contraente generale, l'avvocato avversario risponde in forma scritta formulando dei dubbi. La guerra a colpi di carte bollate richiede tempo, e prima o poi il querelante deve tornare a casa. Che in nessun'altro paese UE ci siano così pochi accessi ad internet come in Romania, rende poi il processo ancora più difficile.

In considerazione di tali pratiche, fra i sindacalisti ci sono già dei dubbi: un salario minimo non aiuterebbe i lavoratori migranti. Un modo per aggirarlo lo si troverebbe sempre. Ma l'avvocato del lavoro di Munster Peter Schüren vede le cose in maniera diversa. Il professore sta attualmente preparando per il ministero del lavoro del Nord Rhein Westfalia uno studio sulle modalità di protezione dei lavoratori migranti - fondato sul salario minimo e la rigida applicazione della legge: "chi non paga un salario minimo o non versa interamente i contributi sociali oppure non rispetta la legge in qualsiasi altro modo, allora è necessario che sia colpito da dure conseguenze economiche che lo scoraggino seriamente dall'intraprendere tali comportamenti".

Un salario minimo - a qualsiasi livello - potrebbe rafforzare il potere contrattuale dei lavoratori, ci dice il professore di diritto del lavoro di Monaco Volker Rieble. Non riusciremo mai tuttavia a mandare la polizia in ogni mattatoio e in ogni cantiere.

I lavoratori edili di Murnau, in ogni caso, nel frattempo sono tornati in Romania.