L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 23 novembre 2013

se il mio tempo mi vuole avversare, lo lascio fare tranquillamente. Io vengo da altri tempi, e in altri spero di andare

In memoria di Preve

nov 23rd, 2013 | Di  | Categoria: Contributi
  di Diego Fusaro
È scomparso il 23 novembre il filosofo Costanzo Preve. La sua notorietà era inversamente proporzionale alla sua statura intellettuale. Pochi (o comunque non abbastanza), anche tra gli addetti ai lavori, conoscevano il suo nome, il suo pensiero, le sue numerosissime opere. Dopo aver studiato in Francia sotto la guida di Hyppolite, Preve ha vissuto a Torino: città alle cui logiche si è sempre sentito estraneo, vivendo, di fatto, come uno straniero in patria.

La città, probabilmente, non tributerà il degno ricordo al filosofo. Ed è anche per questo che ho deciso di ricordarlo io in questa sede. È per me un dovere, anche se mi costa molta sofferenza. È un dovere perché Costanzo è stato il mio maestro a Torino e perché vi era una profonda amicizia che mi legava a lui fin dal 2007. Non è facile parlarne, come sempre accade quando scompare una persona a noi vicina, a cui volevamo autenticamente bene. Con Costanzo, se ne va anche un pezzo – e non secondario – della mia vita e del mio legame con la città di Torino.
Ricordo quando lo conobbi: in una gelida serata del gennaio del 2007, al bar Trianon, in piazza Vittorio. Si trattava di una serata filosofica dedicata alla presentazione del libro di Giuseppe Bailone, Viaggio nella filosofia europea. Conoscevo già Preve, sia pure indirettamente: avevo letto alcuni suoi lavori su Marx, l’autore a cui Preve ha dedicato la sua vita e di cui si può con diritto riconoscere tra i massimi esperti a livello internazionale. Ma poi avevo già sentito un suo splendido intervento su Marx qualche anno prima, a Torino, all’“Unione Culturale”. Mi colpì profondamente. Quella sera, al bar Trianon, mi avvicinai e lui, con estrema cordialità, mi invitò a passare nei prossimi giorni a casa sua a trovarlo per discutere insieme di filosofia e Marx.
Già l’indomani, con l’impazienza che solo un ventiquattrenne può avere, lo chiamai e presi appuntamento. Da quel momento, iniziò la nostra amicizia. Andavo di continuo a trovarlo, a casa o, più spesso, al bar sotto casa. Ore di discussione filosofica sui temi della filosofia classica e dell’attualità che volavano quasi senza che ce ne accorgessimo: ci trovavamo alle 14 sotto casa sua e ci congedavamo intorno alle 18. Rispetto a tutti i docenti che avevo finora incontrato, Costanzo aveva qualcosa di diverso: non era un professore, era un filosofo. I suoi insegnamenti non si esaurivano nell’aula, ma erano un continuo dialogo con il presente e con l’attualità, con i problemi dell’oggi. Era una figura indubbiamente più simile a Platone e a Spinoza che non ai tanti grigi professori universitari che parlano di tutto e non credono in nulla.
Nella verità filosofica Costanzo credeva profondamente: per lui, la filosofia era una pratica veritativa legata alla dimensione storica e sociale. Il suo pensiero, per chi vorrà approfondirlo, è un grandioso tentativo di coniugare Hegel con Marx, ossia una critica radicale della società frammentata con l’esigenza veritativa della filosofia come ricerca di una sintesi sociale comunitaria degna dell’uomo come zoon logon echon, ossia come animale dotato di ragione, di linguaggio e di giusto calcolo delle proporzioni sociali. Costanzo ha scritto più di quaranta libri, dedicati ai grandi temi della tradizione filosofica occidentale. Riteneva – me lo diceva ancora poco tempo fa al telefono – la sintesi più riuscita del suo pensiero il monumentale volume Una nuova storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia (Petite Plaisance, Pistoia 2013).
È da questo splendido libro – oltre che dai numerosissimi video su “Youtube” – che invito tutti a iniziare a conoscere il pensiero di Costanzo. È un invito che rivolgo anzitutto ai Torinesi, ossia a quelli che più avevano vicino Costanzo, senza saperlo. Le sue condizioni di salute non erano buone da tempo, ma non è per questo che non lo si vedeva presente ai convegni filosofici e alle discussioni pubbliche. Costanzo è stato ingiustamente ostracizzato dal “politicamente corretto” e da quella manipolazione organizzata che controlla millimetricamente cosa si può e cosa non si può dire. Costanzo ha sempre cantato fuori dal coro, preferendo – come amava dire citando Rousseau – il paradosso al luogo comune. Certi pensatori – ha detto Nietzsche – nascono postumi. Costanzo è senz’altro uno di questi.
La sua epoca non l’ha capito, forse perché lui aveva profondamente capito la sua epoca. Le aveva dichiarato guerra. Aveva rinunciato all’adattamento e alla rassegnazione. Non ha mai smesso di combattere, né è passato armi e bagagli al disincantamento, alla rassegnazione e alla santificazione dell’esistente, come hanno fatto miseramente in troppi della sua generazione. È sempre rimasto legato al progetto marxiano di ringiovanimento del mondo e di perseguimento di un futuro meno indecente della miseria presente. Non ha mai rinnegato nulla ed è sempre rimasto all’altezza di se stesso. Non ha accettato compromessi, né scorciatoie. Ha sempre combattuto il presente per quello che è veramente, l’epoca della compiuta peccaminosità di fichtiana memoria. In lui il comunismo non è stato un momento magico quanto effimero della giovinezza, destinato a tradursi nella rassegnata accettazione del presente frammentato: si è, invece, sedimentato in “passione durevole”, in ricerca razionale di un altro fondamento possibile per il legame sociale dell’umanità. Così ha sempre anche inteso il “comunitarismo” (a cui ha dedicato le sue energie teoriche negli ultimi anni), come correzione democratica del comunismo.
Vi è un’immagine in cui, più che in ogni altra, può essere compendiato l’atteggiamento filosofico e intellettuale di Costanzo: immaginate un immenso banco di pesci che nuotano compatti seguendo la corrente; immaginate, poi, un unico pesce che si avventura nella direzione opposta, controcorrente e in solitudine. Costanzo ha sempre nuotato così, controcorrente, seguendo non le mode del momento e le visioni di comodo, collaudate e funzionali al presente: si è sempre opposto al banco di pesci degli intellettuali organici allo status quo. E ha pagato sempre sulla propria pelle le conseguenze della propria dissonanza ragionata e del proprio spirito di scissione: offeso, calunniato, marginalizzato, ridicolizzato, non è mai stato affrontato sul suo terreno, cioè nell’arena della discussione filosofica e del logon didonai. Non cercava il successo, ma la verità; non il riconoscimento, ma un mondo più giusto.
Forse un giorno verrà capito e l’antipatia organizzata contro di lui si convertirà nel giusto riconoscimento per il suo magistero, per la sua lucidità critica e per la sua passione durevole per la filosofia. Ora è troppo presto. Quel che è certo – al di là di ogni retorica a buon mercato – è che con Costanzo se ne va un filosofo, un filosofo vero, uno dei pochissimi che ancora abitavano il mondo. Al dolore causato da ciò, in me si aggiunge quello dovuto al fatto che, con Costanzo, se ne va anche un vero maestro e un vero amico, una persona che mi ha dato più di quanto io non sia stato in grado di dare a lei. Le parole non bastano a esprimere la sofferenza e la nostalgia, i momenti trascorsi insieme e le interminabili discussione filosofiche al bar sotto casa.
Voglio concludere questo mio breve e sentito ricordo personale di Costanzo con i versi di Franz Grillparzer, che Costanzo stesso appose come esergo al suo splendido libro Un’approssimazione al pensiero di Karl Marx, del 2007: “se il mio tempo mi vuole avversare, lo lascio fare tranquillamente. Io vengo da altri tempi, e in altri spero di andare”.
Lo Spiffero

venerdì 22 novembre 2013

l'Euro ha il compito di dare al Capitale tedesco il massimo profitto continuerà a farlo finchè gli sarà possibile

Sebastiano Isaia: Maledetti tedeschi!

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Maledetti tedeschi!

La Germania accerchiata dagli “amici”

di Sebastiano Isaia

Essendo la guerra lo stato normale dell’Europa era d’uopo che la Francia si garantisse, diminuendo il territorio e la potenza economica della Germania. Perciò la sola pace possibile era una pace cartaginese
(L. Einaudi, Corriere della Sera, 15 febbraio 1920).
Prima l’ennesimo taglio dei tassi di cambio deciso da Mario Draghi, il nuovo idolo dei «Paesi periferici» (Francia declassata inclusa), poi la procedura di infrazione per il surplus delle partite correnti. Con una terminologia bellica tutt’atro che fuori luogo potremmo dire che i Paesi “amici” della Germania stanno tentando una manovra di accerchiamento ai suoi danni, per costringerla in una posizione dalla quale essa potrebbe venire fuori solo indebolendosi sul piano sistemico. Una manovra che a tutta prima appare  abbastanza azzardata e tutto sommato poco realistica.
L’ultima trovata degli “amici” di Berlino si chiama lotta al nazionalismo economico della Germania. Bruxelles, sulla scia di Washington, accusa il governo tedesco di non fare abbastanza per aiutare i partner dell’eurozona a uscire dalla crisi economica, innescando un circolo vizioso di portata globale. Si imputa al Capitalismo tedesco un eccesso di potenza economica, e si finge di prendere di mira il modello economico della Germania, basato sulle esportazioni e sui bassi salari, dalla prospettiva della costruzione di «una vera Federazione Europea». La Germania, sostengono i Paesi “amici”, non collabora alla riduzione degli squilibri economici (industriali e finanziari) regionali che indeboliscono l’edificio europeo, ma piuttosto fanno di tutto per accentuarli.
«Dov’è finito lo spirito europeista della Germania?» La tanto osannata «economia sociale di mercato» tedesca sembra essere diventata di colpo una mostruosa macchina che semina disoccupazione, precarietà e miseria. «Più che all’Europa, la Germania di oggi sembra appartenere al mondo asiatico». L’ipocrisia degli “europeisti” in questi giorni sta toccando livelli prossimi al parossismo.
Il premier italiano ha colto l’occasione della «sculacciata alla culona» per esternare le solite banalità intorno alle responsabilità politiche che deriverebbero alla Germania dal suo ruolo di locomotiva europea. «Occorre un bilanciamento tra onori ed oneri». Pare che appresa la folgorante battuta lettiana la Merkel si sia prodotta in una teutonica risata che ha surclassato le sue risatine ai tempi di Berlusconi premier. Lo scialbo Hollande non sa che dire, talmente palese è la crisi sistemica nella quale versa la Francia, che trova una puntuale espressione anche nella personale débâcle politica del premier socialista. Solo un raid militare in Africa o in Medio Oriente potrebbe arrestare la sua inesorabile caduta di popolarità nei sondaggi.  Sempre che nel caso tutto fili liscio, beninteso.
Persino un portoghese, che secondo la retorica antitedesca di questi giorni dovrebbe avere il dente particolarmente avvelenato con i tedeschi, è in grado di capire la magagna “europeista”: «Con il rischio di essere accusato di scarso patriottismo, non penso che la soluzione migliore passi attraverso un aumento delle spese in Germania. In primo luogo chi dovrebbe spendere di più: le imprese o lo stato? È difficile, se non impossibile, imporre alle imprese tedesche aumenti salariali che metterebbero in crisi la loro competitività» (A. Costa, Non prendiamocela con le esportazioni tedesche, Diário Ecónomico, 13 novembre 2013). Si pretende dai competitori che non piacciono perché troppo forti che essi gareggino con l’uso di un solo piede e di un solo braccio: troppo comodo, non vi pare? Comunque sia, difficilmente la Germania accetterà di obbedire ai diktat di Washington e di Bruxelles.
«Alcuni economisti sostengono che la riduzione dello squilibrio dovrebbe partire proprio dalla Germania che, a questo punto della storia, dovrebbe aumentare le importazioni verso i paesi dell’area valutaria in difficoltà oppure aumentare i propri salari […] Ma pare che la Germania non stia intraprendendo questa strada. Un recente sondaggio del Wall Street Journal, condotto su 19 blue-chip tedesche industriali attesta che queste stanno spingendo su un trend partito già da tempo: puntare su un mercato di sbocco alternativo a quello europeo, che finora è valso circa la metà del surplus commerciale» (Il Sole 24 Ore, 13 novembre 2013).
Secondo quanto riporta oggi il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung, anche il governo di grande coalizione tedesco in gestazione non prevede per il futuro dell’eurozona alcuna condivisione del debito. In particolare, il rifiuto degli eurobond e dei fondi di riscatto è dato per sicuro. Piegare il «nazionalismo economico tedesco» non sarà un’impresa facile.
Scrive Thilo Sarrazin, un progressista tedesco che non ama l’euro:
«Si sente e si legge spesso la seguente opinione: poiché i paesi del Sud dell’eurozona, così propensi a importare, garantiscono attraverso la loro domanda moltissimi posti di lavoro in Germania, hanno quasi un diritto morale a ottenere dalla Germania anche i mezzi con cui pagare le esportazioni tedesche […] Malgrado la moneta comune, l’interscambio della Germania con l’eurozona si riduce. Paradossalmente una delle cause è proprio la valuta unica, che pure avrebbe dovuto favorire l’interscambio […] Evidentemente l’industria tedesca porta via dai Paesi del Sud Europa una parte delle attività che vi aveva esternalizzato, dato che quei Paesi sono diventati troppo cari, e aumenta la quota di esternalizzazione verso altre aree, per esempio la Cina» (T. Sarrazin, L’Europa non ha bisogno dell’euro, p. 41, Castelvecchio, 2012).
D’altra parte, «L’unione monetaria europea richiede, per funzionare come si deve, che le economie reali e le società di tutti gli Stati membri si comportino, più o meno, secondo gli standard tedeschi. Si tratta di un’impresa mostruosamente ambiziosa e difficile, che molti Paesi toccati dalla crisi vedono, non del tutto a torto, come una forma di arroganza teutonica» (ivi, p. 195). Dal canto suo, la Germania concepisce se stessa come un «facile ostaggio di tutti coloro che, nell’ambito dell’eurozona, dovessero avere bisogno di aiuti economici per qualsiasi motivo». Di qui, per Sarrazin, l’urgenza di ripristinare un sano realismo nella politica estera dei più importanti Paesi del Vecchio Continente, cosa che dovrebbe consigliare ai leader di questi Paesi l’abbandono della moneta unica, almeno in questa fase. «La storia recente, non soltanto tedesca, ci insegna che l’idea che nel lungo periodo sia possibile sostenere un’unione economica e monetaria senza un’unione politica è un’assurdità» (ivi, pp. 6-7). E siccome oggi un’unione politica europea non può non assumere i connotati di una germanizzazione dell’Europa, e non certo di un’europeizzazione della Germania, sarebbe opportuno rimandare sine die la concretizzazione del «sogno europeista». Questo sempre secondo il realista Sarrazin.
Checché ne pensino gli “idealisti” dell’Europa Federale, la Potenza, declinata in ogni modo possibile, gioca come e più di prima un ruolo centrale nei processi storici. Quando Umberto Eco sostiene che l’identità dell’Europa è il dialogo e la cultura, «niente che si possa cancellare malgrado una guerra» (L’Espresso), egli mostra tutti i limiti del pensiero progressista, il quale non riesce a fare i conti con la cattiva realtà di una società lacerata da conflitti d’ogni genere. La riscoperta della dimensione del conflitto sistemico tra le nazioni anche nel cuore del Vecchio Continente ha spiazzato non pochi intellettuali progressisti, i quali faticano sempre più ad arrampicarsi sugli specchi del politicamente – e culturalmente – corretto.
Paul Krugman si è fatto portavoce degli interessi del fronte unico antitedesco:
«I tedeschi sono sdegnati: sdegnati con il dipartimento del Tesoro Usa, che con il suo rapporto semestrale sulle politiche internazionali per l’economia e i tassi di cambio dice cose negative sugli effetti che le politiche macroeconomiche della Germania producono sull’economia mondiale. Esponenti del Governo di Berlino hanno dichiarato che le conclusioni del rapporto sono “incomprensibili”: una definizione un po’ strana, considerando che si tratta di considerazioni assolutamente ovvie. Normalmente ci si aspetterebbe che l’aggiustamento sia più o meno simmetrico, con i Paesi in surplus che riducono l’attivo e i Paesi in deficit che riducono il passivo. Ma la Germania non ha corretto la rotta e il miglioramento delle partite correnti nei Paesi della periferia dell’euro è avvenuto a scapito del resto del mondo. Pessima cosa. Siamo in una situazione mondiale di domanda inadeguata, con il paradosso della parsimonia (le persone risparmiano danneggiando l’economia) che la fa da padrone. Tenendo in piedi un’eccedenza nel saldo con l’estero sproporzionata, la Germania sta penalizzando crescita e occupazione a livello mondiale. Forse i tedeschi lo troveranno incomprensibile, ma è l’Abc della macroeconomia» (P. Krugman, Berlino danneggia l’economia globale, Il Sole 24 Ore, 10 novembre 2013).
Diciamo piuttosto che è l’Abc dell’economia politica keynesiana, la quale, com’è noto, è ossessionata dai meccanismi che regolano la domanda, senza peraltro comprendere l’essenza dell’economia capitalistica, la quale non è un’economia orientata verso il consumo, tanto meno quello “di massa”, ma verso il massimo profitto possibile.  Il sottoconsumismo d’ogni genere deve necessariamente rimanere impigliato nella fitta rete degli effetti, che i sottoconsumisti assumono puntualmente come cause.
Il saggio del profitto come reale regolatore dell’economia capitalistica è un concetto che ai keynesiani deve rimanere necessariamente estraneo, dal momento che la loro attenzione è tutta concentrata sui fenomeni che rigano la sfera della circolazione, da essi concepita come il fondamento dell’economia di mercato.  Di qui il loro disprezzo per le persone che «risparmiando danneggiano l’economia» perché sottrarrebbero al motore dell’«economia reale» il necessario carburante. L’intimo nesso che lega l’investimento di capitali al livello del saggio del profitto rimane escluso dall’orizzonte dei keynesiani; essi non hanno ancora compreso come la stessa quota di domanda generata dalla spesa pubblica dipenda, in ultima analisi, dal livello di redditività del capitale e dalla massa di capitale accumulato sulla scorta di questa redditività. Se la valorizzazione primaria del capitale (ossia la produzione del plusvalore nella sfera industriale) langue, è asfittica o è comunque tale da scoraggiare l’ampliamento della base produttiva ovvero la formazione di nuove iniziative imprenditoriali, la massa di liquidità monetaria messa a disposizione dal sistema creditizio non solo non genera nuovi investimenti produttivi, ma crea piuttosto i presupposti per nuove avventure speculative*.
In un post del 2012 (Scenari prossimi venturi) azzardavo l’«ipotesi politicamente scorretta» che segue: «Si parla tanto della sempre più possibile, e addirittura imminente, uscita della Grecia dall’eurozona, o addirittura dall’Unione europea. E se invece fosse la Germania a dare il ben servito ai suoi partner? “Signori, togliamo il disturbo! Non vogliamo più essere i capri espiatori per governi inetti e corrotti, che non vogliono dire la verità ai loro cittadini. E la verità è che i sacrifici servono a quei paesi per recuperare la competitività perduta da molto tempo. Noi non vogliamo tirarci addosso l’odio dell’opinione pubblica europea, e passare per i soliti nazisti. I tedeschi non vogliono costringere la cicala a trasformarsi in formica. Nessuno obbliga nessuno. Dunque, ogni Paese si regoli democraticamente come ritiene più conveniente e amici come prima. Anzi, meglio!”. Pensate che Angela Merkel non faccia balenare questa inquietante prospettiva nei suoi colloqui con i colleghi dell’Ue? Ragionare su scenari che oggi appaiono inverosimili e bizzarri può forse aiutarci a capire meglio la dimensione della guerra sistemica in corso nel Vecchio Continente, con le sue necessarie implicazioni mondiali, mentre riflessioni basate su una sempre più risibile ideologia europeista (vedere l’editoriale di Barbara spinelli pubblicato ieri da Repubblica e l’editoriale di Marco D’Eramo sul Manifesto di oggi) ci offre un confuso quadro dominato da irrazionalità, cattiverie, inspiegabili «politiche suicide» e futilità concettuali di simile conio. L’ipotesi appena avanzata non ha la pretesa di anticipare i tempi, né di profetizzare alcunché; vuole piuttosto spingere il pensiero su un terreno non recintato da vecchi e nuovi luoghi comuni».
Una riflessione che a quanto pare trova oggi più d’una conferma. Lo ammetto: immaginare il peggio per il futuro dell’Unione europea non è impresa difficile.
Regina d’Europa…
Scrive Bernard Guetta: «La Commissione non sbaglia quando sostiene che la Germania dovrebbe riequilibrare la sua economia per non mettere in pericolo se stessa e il resto dell’Unione, di cui è la prima potenza economica. Come gli altri stati europei e diversi economisti, anche gli Stati Uniti e il Fondo monetario internazionale sottolineano che il rilancio dell’economia mondiale deve passare necessariamente per la Germania, che si trova nella posizione ideale per favorirla perché può permettersi di aumentare i salari, i consumi e le importazioni» (Il cerchio si strige su Angela Merkel, Internazionale, 15 novembre 2013). Notare il necessariamente. La pressione che gli “amici” di Berlino stanno facendo sulla troppo (sic!) parsimoniosa, competitiva ed egoista Germania lascia immaginare una possibile ripresa in grande stile del nazionalismo politico tedesco. Mutatis mutandis, la Questione tedesca (che è una Questione Europea e mondiale) non smette di produrre storia.
Intanto Barbara Spinelli continua a fare il «Processo alla Germania rimasta senza memoria»: «Esattamente come accade oggi, i dottrinari dell’austerità puntarono tutto sulle esportazioni, trascurando i consumi interni. Stremato, il paese che aveva dato a Hitler il 18,3 per cento nel 1930 gliene diede il ’33 nel ’32 e il 43,9 nel ’33, cadendo nelle mani del demagogo che prometteva lavoro, benessere e sangue. Deutschland über alles: la Germania sopra ogni cosa» (La Repubblica, 15 novembre 2013). Un promemoria davvero coi fiocchi per gli “amici” teutonici. Della serie: Paese avvisato… Forse la Spinelli pensa, come Bismarck, che il tedesco non capisce e non può comprendere null’altro fuorché l’intimidazione. La sindrome di Cartagine è sempre in agguato.

*Scriveva Luigi Einaudi nel 1933 (Riforma Sociale) prendendo di mira il sottoconsumismo e la deriva psicologista di Keynes: «Normalmente, il contatto tra fattori produttivi e desiderio di beni è posto da imprenditori in cerca di profitti […] Ma l’imprenditore opera, ossia rischia, quando vede la possibilità di un profitto […] Oggi il contatto non si opera perché l’imprenditore non spera profitti» (L. Einaudi, cit. tratta da Il mio piano non è quello di Keynes, p. 204, Rubettino, 2012).
 http://www.sinistrainrete.info/europa/3206-sebastiano-isaia-maledetti-tedeschi-.html

giovedì 21 novembre 2013

Napolitano vende il Quirinale e Letta vende Palazzo Ghigi


Privatizzazioni – l’eterno ritorno di una ricetta disastrosa

nov 18th, 2013 | Di | Categoria: Primo Piano

  
 Negli ultimi giorni, dopo un paio di mesi di apparente silenzio sul tema, si è tornati a parlare di privatizzazioni. Il Ministro dell’Economia, alla fine della scorsa settimana, ha dichiarato che entro dicembre verrà annunciato un piano di dismissione del patrimonio pubblico immobiliare e di parte delle partecipazioni azionarie (integrali e non) detenute in alcune imprese (Eni, Enel, Finmeccanica, Rai, Ferrovie, Poste ed altre aziende minori).

Il tono utilizzato nel dibattito corrente è lo stesso di venti anni fa, epoca in cui ebbe inizio la stagione delle gigantesche dismissioni di patrimonio pubblico messa in atto dapprima dai governi tecnici del tempo e poi dalle coalizioni di centro-sinistra e centro-destra che si sono alternate al governo dell’Italia.
Ciò che stupisce oggi, è proprio la persistenza del medesimo, identico tono usato in quel periodo nel dibattito corrente su un tema così rilevante come quello delle privatizzazioni. Come se venti anni di dismissioni non fossero meritevoli di qualche riflessione sul perché siano state realizzate, chi ne abbia beneficiato e quali siano stati i risultati economici di tali politiche.
Con lo stesso “spirito liberista” entusiastico dei “ruggenti” anni ’90, quando privatizzare era diventata una parola d’ordine di gran moda, si ripropongono oggi le stesse identiche argomentazioni di allora: 1- occorre privatizzare per fare cassa e abbattere il debito pubblico; 2- occorre privatizzare perché la proprietà pubblica è per definizione inefficiente ed elefantiaca; 3- occorre privatizzare perché così poi è possibile liberalizzare e senza concorrenza non può esserci efficienza.
La teoria economica dominante ci impone tre narrazioni mai dimostrate che renderebbero la privatizzazione di un’impresa pubblica una ricetta scontata.
La prima narrazione ci racconta che la presenza di un elevato (elevato rispetto a quale parametro non è dato saperlo) debito pubblico è di per sé un problema, che va risolto con la sua riduzione. Pertanto, le privatizzazioni concorrerebbero a fare cassa per ridurre il livello di indebitamento dello Stato. Il Ministro dell’Economia lo ha dichiarato espressamente affermando che: “i proventi delle privatizzazioni non saranno utilizzati per fare spesa, ma per ridurre il debito”. Ebbene non vi è alcuna ragione teorica né tanto meno evidenza empirica che suggerisca l’idea che un particolare livello di debito pubblico possa essere definito astrattamente insostenibile (tema che avremo modo di approfondire prossimamente); pertanto ogni argomentazione sulla necessità di fare cassa utilizzando i metodi più efficaci e veloci (tra cui, oltre alle manovre recessive di taglio della spesa ed aumento della tassazione, figurano in primo piano anche le privatizzazioni) cade automaticamente assieme al suo presupposto.
La seconda narrazione ci racconta che l’impresa pubblica è per definizione inefficiente, poiché senza massimizzazione del profitto come obiettivo preminente mancherebbero gli incentivi per assumere comportamenti efficiente. Questa argomentazione è estremamente debole sul piano teorico poiché non tiene conto dei numerosissimi incentivi che potenzialmente possono agire ed agiscono sul comportamento umano oltre alla massimizzazione del profitto; ed è debolissima sul piano empirico poiché non esiste alcuna verifica effettiva che abbia storicamente dimostrato l’inferiorità (sul piano dell’efficienza, intesa come minimizzazione dei costi a parità di prodotto) di un’impresa pubblica rispetto a una privata. Inoltre la suddetta argomentazione spesso non tiene conto dei fini propri dell’impresa pubblica, considerando come voci di costo elementi che fanno riferimento invece a finalità sociali specifiche che l’impresa persegue (come ad esempio la garanzia di qualità su determinati prodotti) o a norme sociali rispondenti ad equilibri distributivi di certo non catalogabili come costi impropri (come la presenza di vincoli normativi più rigidi sul mercato del lavoro).
La terza narrazione ci dice che senza concorrenza non può esservi efficienza. Qui, si trascurano completamente, in primo luogo, i numerosi vantaggi (verificati peraltro dalla stessa teoria egemone) che il monopolio ha in numerosi contesti frequentissimi nel mercato reale (economie di scala) e in termini di efficienza dinamica (cioè a dire capacità innovativa e di sviluppo di lungo periodo). Inoltre, si attribuisce meccanicamente al solo stimolo competitivo l’esclusività degli incentivi, dimenticando, anche in questo caso, la vastissima gamma di incentivi possibili di carattere non competitivo che hanno sorretto la florida attività produttiva di monopoli pubblici nel corso della storia dello stesso capitalismo (valgano da esempi, su tutti, in Italia, le eccellenti prestazioni economiche delle imprese pubbliche attive nel settore energetico, Eni ed Enel nei decenni del dopoguerra fino agli anni ’80).
Eppure, malgrado le tre narrazioni che “impacchettano” la ricetta delle privatizzazioni presentino evidenti contraddizioni e palesi forzature, si continua a voler presentare tali politiche come panacea di tutti i mali senza tener conto non soltanto delle numerose obiezioni teoriche, ma soprattutto delle esperienze storiche concretamente verificabili. La stagione delle privatizzazioni, in Italia, così come in tutti i paesi dove sono state attuate nell’ultimo trentennio, ha prodotto un fallimento economico-sociale di immense proporzioni e dalle disastrose conseguenze sul piano distributivo, sul piano dell’accessibilità universale ai servizi pubblici e sul piano della sovranità industriale del paese ai fini delle scelte strategiche di politica economica.
Decine e decine di imprese pubbliche sono state vendute (o meglio svendute visti i prezzi particolarmente favorevoli accordati agli acquirenti) a capitalisti privati in fuga dalla manifattura (sempre meno redditizia a causa della crescente concorrenza internazionale) e in cerca di facilissimi profitti garantiti (a rischio zero) in settori spesso di prima necessità o comunque di larghissimo consumo (dove è bassissima l’elasticità della domanda al prezzo e il prodotto è quasi sempre non sostituibile): è il caso dell’energia, delle telecomunicazioni, dei trasporti, dei servizi creditizi (banche) e finanziari (assicurazioni), ma anche di pezzi importanti di industria pesante (acciaio, alluminio, meccanica) e alimentare (catene distributive).
Il risultato è stato il seguente: laddove le imprese pubbliche realizzavano profitti riutilizzabili a fini sociali, si è avuta una drastica perdita di gettito rappresentato da quelli che erano utili reinvestibili in Stato sociale o in piani di sviluppo industriale del Paese. Imprese sane e profittevoli come l’Eni e l’Enel o diverse banche pubbliche sono state in tutto o in parte privatizzate causando la perdita di risorse che venivano dirottate a fini sociali. In cambio, il denaro ottenuto dalla loro vendita è stato utilizzato per tentare inutilmente di ridurre il debito pubblico (che nel frattempo, ironia della sorte, è continuato comunque ad aumentare per tutti gli anni ’90); laddove, invece, le imprese pubbliche producevano servizi universali sotto costo o con la sola copertura del costo (senza profitto) si è avuta una progressiva mercificazione del servizio prodotto a scapito delle fasce di popolazione economicamente più deboli ed a vantaggio dei profitti dei nuovi proprietari dei servizi pubblici privatizzati.
Infine, in tutti i casi, è stata pesantemente erosa la capacità di controllo da parte dello Stato sui settori strategici del sistema produttivo, rinunciando così ad una leva fondamentale per la stabilizzazione del livello della domanda e per l’orientamento delle scelte produttive in chiave di sviluppo industriale e sociale.
Il tutto senza avere mediamente come contropartita alcun aumento verificabile dell’efficienza interna alle imprese, evidenza ammessa dagli stessi fautori del processo di privatizzazione dell’economia pubblica su larga scala (come testimonia il rapporto di Andrea Goldstein sulle privatizzazioni italiane del 2003).
Nonostante questo quadro desolante, la ricetta magica viene oggi riproposta con le stesse argomentazioni insostenibili di un tempo. Del resto, nel lasso di tempo intercorso da allora, l’egemonia della teoria economica dominante e di posizioni politiche sempre più orientate alla pura e semplice difesa dell’interesse di un’esigua minoranza di popolazione ricca – e conseguentemente sempre più ostili alla presenza di elementi di economia pubblica all’interno del capitalismo – è andata via via crescendo. Non c’è quindi da stupirsi se il governo attuale, in continuità con le scelte dei precedenti governi, segua il fulgido cammino della privatizzazione come soluzione privilegiata dei mali dell’economia.
Peraltro, nel contesto dell’attuale profonda crisi economica del capitalismo occidentale trainata e alimentata dalle politiche di austerità di matrice europea, nuove privatizzazioni, oltre a causare i danni già prodotti dal lungo ciclo attuato dal 1992 al 2003, non farebbero altro che aggravare la crisi impattando negativamente sulla domanda pubblica e, indirettamente, sui consumi delle famiglie a seguito dei prevedibili aumenti del livello di prezzi e tariffe.
A fronte di questo, occorre una strategia seria di difesa delle imprese pubbliche e della produzione pubblica. Una strategia che rivendichi il ruolo e rilanci le vere finalità proprie delle imprese che ad oggi permangono in alcuni casi solo formalmente pubbliche, e contestualmente rilanci l’idea di una progressiva rinazionalizzazione di ciò che è stato privatizzato per gli interessi di pochi a danno della stragrande maggioranza della popolazione.


mercoledì 20 novembre 2013

Euro il Mercato aumenta le differenze. Implosione possibile e probabile


Questione meridionale in Europa. Brancaccio "Eurolandia implode"
 
IL DENARO – sabato 16 novembre 2013
Dopo la questione meridionale quella mediterranea. Un economista del Sud avverte che sussistono serie probabilità che l’Eurozona imploda a causa delle insanabili divergenze economiche con cui è stata concepita. Emiliano Brancaccio, docente di Fondamenti di Economia politica e di Economia del Lavoro all’Università del Sannio, lancia l’allarme: “E’ in atto la ‘mezzogiornificazione’ dei Paesi periferici europei. L’esito finale di questo processo potrebbe essere l’implosione stessa di tutto il sistema di Eurolandia”.
Lei parla di ‘mezzogiornificazione’ dell’Europa: di che cosa si tratta?
L’espressione ‘mezzogiornificazione’ è stata coniata dall’economista americano Paul Krugman, ma il suo significato profondo può esser fatto risalire ad alcuni economisti italiani, tra cui Augusto Graziani. Essa indica che il dualismo economico che ha caratterizzato i rapporti tra il Nord e il Sud Italia si sta riproponendo oggi, su scala allargata, nei rapporti tra i Paesi ‘centrali’ e i Paesi ‘periferici’ di tutta l’Unione monetaria europea.
La ‘mezzogiornificazione’ è in atto o è terminata con l’unificazione europea?
La ‘mezzogiornificazione’ è tuttora in atto. La nascita della moneta unica europea l’ha accentuata e la crisi iniziata nel 2008 le ha impresso un’ulteriore accelerazione. Basti guardare la forbice che si è venuta a creare tra gli andamenti dell’occupazione: mentre l’Italia, la Spagna, l’Irlanda, il Portogallo e la Grecia negli ultimi cinque anni hanno perso oltre 6 milioni di posti di lavoro, la Germania ha visto crescere l’occupazione di un milione emezzo di unità. Lo stesso dicasi per le insolvenze delle imprese: tra il 2008 e il 2012 sono aumentate in Spagna del 200 per cento e in Italia del 90, mentre in Germania sono addirittura diminuite del 3 per cento. Si tratta di divergenze colossali, che dal Dopoguerra non hanno precedenti storici.
Colpa di quel profilo ‘liberista’ dei Trattati dell’Unione europea che denunciavate nella “Lettera degli Economisti” del 2010?
L’Ue è stata edificata su basi competitive, conflittuali. Il livello di coordinamento politico tra i suoi Paesi membri è ridotto ai minimi termini. Quasi tutto è affidato ai meccanismi del mercato, che in genere tendono ad accentuare i divari, non certo a ridurli. I Governi nazionali oggi non possono usare le tradizionali leve della politica economica, come il bilancio pubblico, la politica monetaria o la politica del tasso di cambio. Molti si sono augurati che questa sorta di ‘vincolo esterno’ imposto dai Trattati europei costringesse l’Italia e gli altri Paesi periferici dell’Unione a realizzare le riforme necessarie a modernizzare i loro apparati produttivi, in modo da renderli competitivi con quelli dei Paesi centrali. Ma questa speranza si è rivelata una mera illusione. Anziché creare convergenza fra i Paesi europei, il ‘vincolo esterno’ alle politiche nazionali ha favorito la divergenza, accentuando i divari economici che già sussistevano prima della nascita dell’euro.
Le autorità della Germania possono essere considerate responsabili di questi andamenti?
Le autorità di Governo tedesche si sono dimostrate incapaci di assumere un vero ruolo di leadership europea. La Germania, gigante economico, si comporta tuttora come un nano politico. La pretesa tedesca è di continuare a crescere al traino di altri Paesi, sfruttando la domanda di beni e servizi proveniente dall’estero. Ieri erano i Paesi periferici dell’eurozona a trainare la Germania, oggi le autorità tedesche sperano di trovare altre locomotive, situate all’esterno dei confini dell’Unione.
Quindi?
La conseguenza è che il Paese più forte dell’Ue, anziché espandere la domanda interna e fungere da volàno per lo sviluppo economico dell’intero Continente, preferisce attuare politiche di deflazione interna per ridurre le proprie importazioni e aumentare le esportazioni. Come abbiamo segnalato anche di recente nel “monito degli economisti” pubblicato il 23 settembre scorso sul Financial Times, questa strategia non è sostenibile. Ogni guadagno della Germania corrisponde a una perdita più che proporzionale per i Paesi periferici. La conseguenza è che l’Unione, nel suo complesso, continua a registrare un calo dell’occupazione, con effetti distruttivi sull’unità europea.
Su queste colonne avevamo già comparato la crisi dei Paesi mediterranei europei a una ‘questione meridionale’ ampliata a livello continentale: che potenzialità presenta questo modello interpretativo della crisi europea?
Tra i Paesi in crisi ve ne sono anche di extra-mediterranei, come ad esempio l’Irlanda. E alcuni paesi del ‘centro’ dell’Unione non se la passano benissimo, come ad esempio l’Olanda. In generale, però, l’idea di cogliere su scala europea una riproposizione del problema storico delle divergenze tra Nord e Sud Italia mi sembra corretta. Per lungo tempo il ‘meridionalismo’ è stato considerato una teoria polverosa, antiquata, superata dagli eventi. Stimati studiosi avevano addirittura suggerito di ‘abolire il Mezzogiorno’ dalle categorie interpretative delle vicende economiche nazionali.
E oggi?
Oggi invece possiamo cogliere dalla questione meridionale nuovi spunti per l’analisi del presente. Penso che se oggi recuperassimo la questione meridionale e la riproponessimo in chiave aggiornata e su scala continentale, potremmo fornire un’interpretazione della crisi europea molto più pregnante di quelle che vanno per la maggiore. Inoltre, conoscere la storia dei rapporti travagliati tra Nord Italia e Mezzogiorno aiuterebbe anche a indagare sui possibili sviluppi politici della crisi europea.
Noi meridionali dovremmo cioè farci carico di una previsione politica?
Essendo ben consapevoli di quelli che sono stati gli effetti deleteri di un irrisolto dualismo economico tra Nord e Sud Italia, noi meridionali in effetti abbiamo più elementi di altri per lanciare un allarme sui possibili effetti politici delle enormi divergenze economiche in atto: proseguendo di questo passo, i Paesi periferici dell’Unione potrebbero a un certo punto vedersi costretti ad abbandonare l’eurozona per cercare di contrastare gli attuali processi di desertificazione produttiva.
(intervista di Lauro Amendola)

martedì 19 novembre 2013

gli iscritti al Pd sono andati a votare: animali al macello. Non avevano il coraggio di guardarti negli occhi

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Октябрь

di Nico Macce


In questi tempi di trasformismo osceno, dove l’onestà intellettuale non è meno bassa di quella morale, della Rivoluzione d’Ottobre nessuno ne parla. Nessuna forza politica che non si richiami direttamente al Comunismo.
Eppure in quell’Ottobre del 1917 (secondo il nostro calendario) si compiva un evento storico che avrebbe cambiato il mondo, aperto a nuove lotte di emancipazione sociale, a nuove visioni. Le classi popolari dell’epoca erano avvolte nell’analfabetismo e nell’ignoranza, in una vita dura e abbruttita, in ogni angolo d’un’Europa in cui lo sviluppo del capitalismo andava formando un proletariato insieme ai processi di industrializzazione e al formarsi dei paesi moderni.

La Rivoluzione d’Ottobre rappresentò tante cose. Ne voglio citare alcune. Fu l’apice di una straordinaria lotta dei movimenti socialisti dell’epoca a livello internazionale, che elevavano con la coscienza di sé milioni di operai e contadini. La cultura non era più appannaggio della borghesia e il mondo si poteva cambiare, lo potevano trasformare semplici manovali, sarte, minatori, braccianti, se solo si univano. Fu quindi la prima rivoluzione socialista e proletaria, della classi popolari subalterne che si compì. E da allora il mondo fu diverso.

Nei decenni successivi il socialismo, nel bene come nel male, rappresentò un contrappeso alle peggiori tendenze del capitalismo, alla predazione e allo sfruttamento, alla guerra, all’oppressione in genere. Il popolo sovietico diede un tributo di milioni di morti tra civili, partigiani e soldati dell’Armata Rossa contro il nazismo e il fascismo. Questa grande idea di affrancamento dalla schiavitù salariata e dal totalitarismo echeggiava giù per Monte Sole nei “viva Stalin” dei partigiani della Stella Rossa. E così era per i garibaldini della Valdossola, delle Langhe come per i maquis francesi, per i partigiani iugoslavi di Tito.
Il resto è storia.

Ma dalla visione del socialismo e da questa forza, nel dopoguerra i movimenti operai in Europa e nelle società a capitalismo maturo disegnarono nuovi rapporti di forza e fu l’epoca dello stato sociale e dei diritti sul lavoro e come cittadini. Da questa grande idea di uguaglianza e di governo popolare, i comunisti si affiancarono ai Parri, ai Calamandrei come padri della Costituzione, una delle più progressiste nel mondo capitalista, questo era…
La Rivoluzione d’Ottobre fu presente come idea, insieme di teorie della rivoluzione sociale (fecondandone di nuove), nelle lotte di liberazione dei popoli. Altro che integralismo islamico! Il Movimento Palestinese, per esempio, rappresentava una forza di popolo laica nei paesi dell’Islam. E poi Cuba, il Cile di Allende, di Corvalan e del MIR, il Nicaragua Sandinista, e quanti altri che non menziono neppure. I frutti dell’Ottobre Sovietico.

E i frutti di oggi, in un’America Latina che sta rinascendo: Lenin, Bolivar, Gramsci.

E’ uno schifo e una vergogna che in questo paese, coloro che in un modo o in un altro sono appartenuti alla storia di quegli eventi, non  ne parlino, che non lo si celebri l’Ottobre, al di là di quello che si possa pensare dell’esperienza di socialismo che ha prodotto. Un silenzio che rappresenta un’immane opera di rimozione di un percorso, di radici, di valori. I nani della politica che vedo attorno al grande cadavere della loro storia vivono in apparenza una farneticante babele di luoghi comuni e retorica, ma in realtà parlano una sola lingua: quella del pensiero unico neoliberale. Senza l’Ottobre non sarebbero neppure stati “sperma”, figuriamoci soggetti della politica.

I mentecatti non riescono neppure a immaginare mentre mandano, via prefettura, dai rettorati la polizia contro gli studenti e dalle “cooperative” i carabinieri contro gli operai migranti della logistica, cosa sarebbe stato il mondo senza l’Ottobre, quanto peggiore sarebbe stato nella barbarie quotidiana ed epocale.

Ma chi lo celebra questo lo sa. E sa anche quanto sia attuale oggi più di ieri, l’Ottobre, in questa nuova fase di neoliberismo selvaggio e di attacco del capitalismo finanziario e delle multinazionali ai poteri e alle Carte Costituzionali, ai diritti fondamentali, ai beni comuni, al lavoro, a tutto ciò che fa la differenza tra una società civile e una darwiniana e selvaggia, tra una cittadinanza e una sudditanza.

Chi lo celebra, sa che non ci sono altre strade, che le scarpe sono rotte, eppure bisogna andare.

lunedì 18 novembre 2013

Sovranità Nazionale, Politica, Monetaria e Territoriale. Ristrutturare il debito

Euroscetticismo per non farsi macellare

di Eugenio Orso, Anatolio Anatoli e il compagno pollpot

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I commissari europei hanno pesantemente criticato la cosiddetta legge di stabilità proposta dal direttorio Letta-Napolitano, che ha il compito di veicolare e applicare nel paese i diktat euroglobalisti. Troppo poco, secondo Olli Rehn, potente commissario europide per gli affari economici. Si “invita” l’Italia a prendere le misure necessarie per rispettare i target stabiliti (imposti) con il patto di stabilità. Non si può violare il patto di stabilità e crescita, che è l'ennesimo capestro messo al collo del paese (la crescita, poi, qui non centra proprio nulla). Ci vuole di più. In particolare, con il pretesto del debito pubblico, è necessario accelerare la più importante controriforma strutturale, cioè l’annichilimento dell’apparato statale, la fine delle partecipazioni pubbliche (con conseguente distruzione di posti di lavoro), il taglio dei costi che hanno riflesso sul sociale e la svendita delle proprietà pubbliche. I massacratori dell’unione europoide esigono che i loro servi subpolitici italiani calchino la mano con la spending review. Infatti, si richiede imperiosamente di perseguire il pareggio di bilancio – sapendo che questo castrerà ancor di più produzione e occupazione – con aggiustamenti strutturali, nel 2014, di almeno 0,5% del pil. L’incarico dato a un funzionario del fondo monetario internazionale per tagliare spesa e servizi pubblici va bene, ma è prioritario, per gli agenti neocapitalistici, mettere in vendita – e in fretta – ciò che rimane dell’Italia, tagliare ancora i redditi da lavoro e le pensioni, creare ancor più disoccupazione e ridimensionare la struttura produttiva nazionale. Solo così l’anno prossimo si potrà approssimare meglio il pareggio di bilancio, da conseguire nel medio periodo. Gli “impegni presi in sede europea” non si possono mettere in discussione, si rispettano come ordini piovuti dall’alto, costi quel che costi al paese. Ordini e non “impegni”, o meglio, ordini mascherati da impegni.
L’astuto vigliacchetto Letta e i suoi ministruncoli hanno guaito un poco, dopo la bocciatura commissariale. Non si tratta di una bocciatura, secondo loro, perché la legge di stabilità è buona e non dovrà essere ripresentata. Ma la Voce del Padrone si è fatta sentire – chiara, imperiosa e spietata – e se loro non eseguiranno senza discutere (l’Italia è pur sempre un paese occupato, prigioniero nell’eurolager) il potere esterno li caccerà, sostituendoli con altri della stessa, miseranda specie. Eletti o non eletti che siano. Le elezioni liberaldemocratiche, infatti, sono soltanto una ritualità sistemica, un formalismo, un comodo schermo che nasconde i veri meccanismi di potere, saldamente nelle mani dei dominanti.
Il gioco dovrebbe essere ormai chiarissimo. A tutti, anche ai bimbi. Tutti dovrebbero aver compreso che è l’unione europoide, neoliberista, monetaria e finanziaria, a condannarci alla schiavitù, se non alla morte, senza possibilità d’appello. Per ragioni che ben poco centrano con la necessità “di agganciare la ripresa”, di “creare nuovi posti di lavoro”, specie per i giovani, di “tenere a posto i conti pubblici” a beneficio del paese. Le decisioni irrevocabili, per quanto riguarda l’Italia, non le prende un italiano che tuona, nell’ora decisiva, da un balcone con vista su Piazza Venezia, oppure un ristretto CAF (Craxi, Andreotti e Forlani) travolto dagli scandali giudiziari con impatto mediatico, ma le prendono gli agenti del grande capitale finanziario, mascherati da “Europa”. Si realizza così il sogno (molto meglio l’incubo) spinelliano e spinellato del manifesto di Ventotene, scritto nel lontano 1941. Uno stato occupato, come il paese tutto, privo di sovranità, “devoluta” con l’inganno e il ricatto agli organi europidi della mondializzazione neoliberista, dietro lo schermo posticcio della democrazia liberale e della “concordia” fra i popoli europei. In attesa di un super-governo mondiale, dopo gli “stati uniti d’Europa”, che farà finire la storia e cristallizzerà per sempre le posizioni sociali, ma in un ordine neofeudale. Niente più guerre! Solo stragi di popoli, condotte quotidianamente chiudendo i rubinetti del lavoro, del reddito e dei diritti, e abbondanti saccheggi privati di risorse collettive. Infatti, le guerre tradizionali distruggono le strutture, oltre ad annientare gli uomini fisicamente e psicologicamente, mentre queste devono restare intatte, accessibili e disponibili, fino a saccheggio completato. Così si rispettano i famigerati “diritti umani” e si diffonde, radicandola, la democrazia ancella politica del mercato e della finanza, contro i presunti dispostismi avversi, i populismi sgraditi, gli stati nazionali un po’ troppo sovrani (per i gusti delle aristocrazie nuovo-capitalistiche). Così si difende “il progetto europeo” che si fa credere senza alternative, indipendentemente da ciò che vogliono i popoli d’Europa. 
Nel disgustoso e ipocrita linguaggio sistemico, sia coloro che si oppongono alla macelleria sociale neoliberista e europoide, sia coloro che criticano solo a parole l’euro e i trattati unionisti in periodo elettorale, sono definiti indiscriminatamente “euroscettici”. Noi tre, personalmente, siamo contro l’unionismo, siamo per il muro contro muro, siamo per la lotta armata di Liberazione, se necessario, e non semplicemente scettici sulle “virtù” terapeutiche e salvifiche dell’euro. Convinti fino in fondo che è questo il primo problema italiano e di molte nazioni europee, la nostra opposizione all’unione europoide non può essere che integrale. Anche sul piano del linguaggio. Nonostante questo, accettiamo per una volta l’espressione “euroscettici”, cercando di stabilire alcuni gradi di euroscetticismo, di seguito, per fare un po’ di chiarezza sulla questione. Partiamo dal grado più basso per arrivare a quello più alto:
1)    Euroscetticismo elettoralistico. Questo è il grado più basso, ovviamente, perché l’opposizione alla dittatura dell’unione europoide e a quel meccanismo di morte che è la moneta unica privata è fatta a parole, avendo in mente, per prima cosa, i quozienti elettorali del cartello (e del leader) che ha scelto la propaganda euroscettica, nonché i seggi e i voti che si possono ottenere seguendo questa via propagandistica. In Italia, abbiamo gli esempi qualificanti di Berlusconi e della lega. Berlusconi e lega non si sono mai opposti vigorosamente alle imposizioni delle eurocrazie dominanti, fin dall’entrata in circolazione della moneta unica, ma hanno usato argomenti euroscettici (con una certa moderazione, beninteso) cercando di ottenere vantaggi in termini di consensi. E’ chiaro che si tratta di un euroscetticismo all’acqua di rose, in cui la prospettiva di uscita dall’euro è volutamente sfumata, come una vaga minaccia futura, avendo come vero scopo, i furbetti in questione, quello di aumentare il bottino in termini di voti e non di uscire dall’euro se non saranno accolte, in sede europoide, le loro richieste. Gli “euroscettici elettoralistici” sono politici liberaldemocratici inseriti nel sistema, non intenzionati a mettersi in rotta di collisione suicida con i centri di potere e di dominio europidi, ma che danno un po’ di fastidio alle aristocrazie euroglobaliste, ponendo in discussione il tabù inviolabile dell’euro. Per questo i potentati esterni talora li puniscono, com’è accaduto a Berlusconi, sostituito per le vie brevi con Monti e ridimensionato di molto seguendo la via giudiziaria. Per quanto riguarda la lega, un po’ discola e (fintamente) critica nei confronti della falsa Europa unionista, osserviamo che oggi, colpita dagli scandali e dalle inchieste giudiziarie, si sta pericolosamente avvicinando alla più completa irrilevanza, fino a rischiare l’estinzione. 

2)    Euroscetticismo (esclusivamente) monetario. In tal caso si vuole sinceramente uscire alla moneta unica restando, però, “in Europa”, all’interno delle altre istituzioni europoidi. E’ una grossa sciocchezza, perché l’effetto non potrebbe che essere quello di passare dal cerchio più interno dell’eurolager al cerchio esterno. Come passare da un girone infernale dantesco ad un altro, in cui si suppone che le sofferenze, per il popolo dannato, saranno minori, e i demoni un po’ più misericordiosi. Ammesso che sia volontariamente possibile uscire dall’unione monetaria (cosa che noi non crediamo), prima e non dopo la spolpatura del paese fino all’osso, l’uscita non potrà avvenire che alle condizioni del più forte – l’eurocrazia onnipotente dei parametri di Maastricht – e penalizzanti per il più debole, cioè per il paese che vuole tornare alla propria moneta. Non vi sarebbe in tal caso una vera e definitiva Liberazione e la discesa, in termini di redditi popolari, posti di lavoro disponibili, qualità e accessibilità dei servizi sociali, continuerebbe mietere vittime, a causa di una sovranità monca e della permanenza all’inferno, sia pur in un altro girone. Infatti, la sovranità monetaria è la precondizione per la giustizia sociale, ma da sola può non  bastare per salvarci. E’ necessario riacquisire la piena sovranità politica e realizzare un salutare cambio di alleanze, a livello internazionale.
  
3)    Euroscetticismo totale. Questo è il vero nemico irriducibile delle élite europoidi, dei loro lacchè politici e dei loro cani da guardia giornalistici, accademici, intellettuali. L’opposizione è totale e la frattura irriducibile. Non basta un’uscita pianificata dall’euro, a condizioni presumibilmente sfavorevoli per il paese che la chiede e favorevoli per le aristocrazie euro-globali, ma è necessaria la piena Liberazione, cioè l’uscita dall’unione europoide e da tutte le cosiddette “alleanze occidentali”. Per paesi come l’Italia non si tratterebbe, a questo punto, soltanto di una diversa visione politica, economica, etica, di una scelta diversa in tema di relazioni internazionali, ma di garantirsi la sopravvivenza come nazione e come popolo. Per paesi come l’Italia sarebbe urgente buttare a mare i collaborazionisti che in questo momento sono al governo (per conto terzi) e riacquisire la piena sovranità politica, oltre che monetaria, cambiando completamente rotta. Niente più “spending review”, vendita di aziende pubbliche, lotta al “socialismo dei comuni”, ma nazionalizzazioni e difesa delle produzioni nazionali, dazi doganali, boicottaggio dei prodotti cinesi e tedeschi. Chi ha detto che il debito pubblico deve essere ad ogni costo rimborsato alle banche internazionali, con tanto d'interessi usurai, facendo il gioco delle aristocrazie finanziarie? Si può non farlo, se si riacquisiscono sovranità monetaria e politica, denunciando il debito e non rimborsandolo. Chi ha detto che è necessario “onorare gli impegni europei”, presi da collaborazionisti e vigliacchi (il pd, il centro, buona parte del pdl), talora da incoscienti che pensano solo al loro tornaconto (come Berlusconi), su ordine dei poteri esterni e contro gli interessi del popolo italiano? Fuori dall’unione europoide e fuori dalla nato, non soltanto dalla moneta unica, perché solo così vi è una possibilità di salvezza – e di rinascita – per l’Italia e per molti altri paesi europei. L’”euroscetticismo” vero, quello che mette in pericolo il potere degli euroglobalisti, o è totale o non è.
Una precisazione. Non abbiamo volutamente considerato, in questo breve excursus dedicato ai vari gradi di “euroscetticismo”, i pubblici auspici e le suppliche in “sede europea” per trasformare l’unione da cosa monetaria, finanziaria e elitista in “cosa democratica”, che simuli meglio un’unione fra i popoli “dal basso”. Infatti, queste cose le dicono e le scrivono, in Italia, i mercenari subpolitici dell’infame pd, miglior servo delle aristocrazie euroglobali. Per quali motivi? Non certo per migliorare le prospettive delle nuove generazioni, visto che ciò è impossibile a causa dell’euro, delle regole europee, del dominio dei mercati e del neoliberismo. Essenzialmente per imbonire un elettorato idiota e fingere che vi sia, all’interno del lager dell’eurozona, speranza futura di cambiamento.
Concludendo il discorso, rileviamo che i gradi 1 e 2 di “euroscetticismo” sono purtroppo quelli più diffusi. O si è euroscettici a parole, per pura convenienza elettorale e di bottega (come Berlusconi), o si crede ingenuamente, oltre alla fata turchina e alla pelosa carità di Bergoglio, alla possibilità di uscire dall’euro volontariamente, pacificamente e a condizioni non da strozzo, restando però “in Europa” e “in occidente”. Quasi non c’è traccia di quello che abbiamo definito “euroscetticismo totale”, di cui al punto 3, il solo a poter coagulare una vera opposizione al dominio delle eurocrazie globaliste. Eppure, la lotta contro il neocapitalismo, in Italia e in Europa, non può che essere integralmente euroscettica, puntando sulla riconquista della piena sovranità dello stato e sullo sfascio dell’eurozona.

domenica 17 novembre 2013

con la Nuova Lira potremmo cambiare il modo di produrre

Francesco Gesualdi: Euro, Europa, debito pubblico

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Euro, Europa, debito pubblico

Le alternative all’attuale sistema

R. Monacelli intervista Francesco Gesualdi

Ci vuole parlare del Centro Nuovo Modello di Sviluppo?
Il Centro Nuovo Modello di Sviluppo è un centro di documentazione nato nel 1985 a Vecchiano, vicino Pisa. Nel corso del tempo abbiamo affrontato vari temi. Inizialmente siamo partiti dagli squilibri nord/sud, che ci ha portato a capire le grandi responsabilità che hanno le imprese, sviluppando il tema del consumo critico. Poi siamo andati avanti lungo questa strada, occupandoci del tema del debito di cui erano vittime i paesi del sud del mondo e, oggi, ci stiamo rendendo conto che i processi di impoverimento in casa nostra, oltre a essere provocati dai processi di globalizzazione, sono provocati anche dall’attuale gestione del debito pubblico, tutta orientata soltanto a soddisfare le richieste dei creditori. Siamo, dunque, una realtà che si occupa di vari temi, ma tutti a carattere sociale, che chiede ai cittadini di darsi da fare, di reagire per cercare di superare l’attuale situazione.

Lei è stato allievo di Don Milani. Ce ne vuole parlare? Secondo lei cosa ci ha lasciato e cosa ha da insegnare per il futuro?
Io sono stato a Barbiana per tutta la mia giovinezza, dai 7 ai 18 anni fino a quando lui non è morto, è stata l’unica scuola che ho frequentato nel corso della mia vita. Cosa ci ha lasciato? Secondo me ci ha lasciato dei messaggi che sono intramontabili, oltre alla denuncia fatta rispetto alla scuola pubblica, alla scuola classista, alla scuola che non è organizzata secondo lo spirito della Costituzione che dovrebbe formare dei cittadini sovrani, ma come tribunale per continuare quella selezione che già avviene all’interno della società, per cui i ricchi devono continuare a essere mandati avanti mentre i poveri devono essere respinti e, in qualche modo, mantenuti ignoranti.
Ma, a parte tutto questo contenuto ne “Lettera a una professoressa”, mi pare che vi siano altri messaggi, che hanno un valore dal mio punto di vista intramontabile, che si trovano nella sua autodifesa per il processo che ha subito per apologia di reato e che si è anche trasformato in un libretto che si chiama “L’obbedienza non è più una virtù”. Tra questi c’è certamente il richiamo a ogni persona, a ogni cittadino, a ogni giovane, di sentirsi responsabile di tutto,  e dunque di agire come se la responsabilità di come va il mondo dipendesse unicamente dal suo comportamento. Ecco, se questo agire venisse assunto come comportamento generalizzato saremmo certi che molti misfatti non succederebbero più. Ovviamente questo richiede che ci sia un atteggiamento di consapevolezza e di sovranità. Un grande insegnamento che ci veniva da Barbiana, infatti, era che non dobbiamo compiere nessuna scelta se prima non l’avevamo passata al vaglio del nostro cervello. C’era sempre questo invito a pensare su tutto ciò che ci veniva chiesto di fare e di adeguarci soltanto se lo condividevamo e se era in linea con i nostri valori. Consapevolezza e assunzione di responsabilità credo siano i due principi guida che ci ha lasciato Barbiana, e Milani in particolare, e che sarebbe ancora estremamente importante che li utilizzassimo per evitare, così, tutta una serie di catastrofi che sono di fronte a noi.

Lei è stato uno dei promotori della Rete Lilliput. Come mai quell’esperienza non ha funzionato? E cosa sarebbe da riprendere?
Più che non ha funzionato, direi che la Rete Lilliput non è riuscita ad avere tutta quell’estensione che ci auguravamo. Perché qual era l’idea di base della Rete Lilliput? Siamo tanti piccoli gruppi, ognuno dei quali si focalizza su un tema particolare, dobbiamo prendere la consapevolezza che, pur occupandoci ciascuno di un tema diverso, siamo tutti però accomunati da un progetto comune, che è la volontà di costruire un mondo più giusto, più sostenibile e più equo. In virtù di questo facciamo in modo, non soltanto di collaborare, ma anche di iscrivere ogni nostra singola scelta all’interno di questo progetto più vasto. L’ostacolo più grosso che abbiamo trovato è stato, innanzitutto, la nostra formazione mentale per cui siamo ancora ancorati ai nostri piccoli orticelli, sia nel mondo associativo che nel mondo sindacale che nel mondo politico. Questa è la prima barriera che ancora non cade perché non abbiamo la chiarezza del tipo di progetto comune che ci dovrebbe aggregare. Io credo che vi sia una carenza di pensiero e, non avendo un progetto alto di modello di società, non capiamo cosa è che aggrega un gruppo che, ad esempio, si occupa di commercio equo con chi, invece, si occupa di finanza etica o con chi si batte, invece, per il reddito di cittadinanza. Mi pare che manchi un progetto politico di società “altra” e questo, in qualche maniera, non ci fa capire l’importanza di essere tutti legati da un filo conduttore e quindi, alla fine, ci riconcentriamo nel nostro specifico, non prestando cura alla necessità di tessere le relazioni. Ecco, questa è una delle ragioni per cui ritengo che dobbiamo tornare assolutamente ad analizzare il sistema nel suo insieme, capire che purtroppo all’interno dei suoi meccanismi non troviamo più la soluzione ai gravissimi problemi sociali e ambientali che abbiamo di fronte a noi e, quindi, occorre fare uno sforzo di visione di un’altra società. Questo dovrebbe essere l’elemento che ci dovrebbe tenere tutti insieme e che dovrebbe essere l’obiettivo da raggiungere attraverso le piccole iniziative che ognuno di noi segue quotidianamente, ma con questa consapevolezza che siamo tutti accomunati da un progetto comune che va al di là dei singoli impegni di ogni gruppo. Credo che bisognerà continuare a lavorare su questo e, se riusciremo a fare questo scatto di consapevolezza, probabilmente l’idea della Rete Lilliput riuscirà a realizzarsi in una maniera più concreta di quanto non sia successo fino a oggi.

Recentemente è uscito il suo libro “Le catene del debito”, dove critica i “luoghi comuni” a proposito del debito pubblico. Quali sono questi luoghi comuni?
Il primo luogo comune è che noi siamo indebitati perché siamo un popolo che ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità. Questo è un luogo comune fondamentale che, poi, ne fa scaturire un altro, e cioè che non abbiamo nessun altro obbligo se non quello di pagare e che i sacrifici che ci sono imposti sono la giusta punizione per i reati commessi. Questo è il ragionamento che scatta nella testa di ciascuno di noi e che ci porta a chinare la testa di fronte alle politiche di austerità che ci vengono imposte dal governo italiano, dal governo europeo e dal Fondo Monetario Internazionale. Per riuscire a trovare un’alternativa e una soluzione al problema del debito dobbiamo cominciare a rompere questi luoghi comuni, e il primo luogo comune da rompere è proprio quello che noi non ci siamo indebitati per aver speso al di sopra delle nostre possibilità. La verità è un’altra e cioè che, nel corso del tempo, abbiamo dovuto pagare una montagna di interessi così alti che, questi sì, non siamo riusciti a pagare nonostante, dal 1992 in poi,  abbiamo risparmiato qualcosa come 670 miliardi. Ciononostante, non siamo stati capaci di pagare anno per anno tutti gli interessi e, a questo punto, è scattato il meccanismo detto di “anatocismo”: interessi non pagati sono stati considerati come nuovo prestito, per cui l’anno successivo sono ripartiti gli interessi da una cifra più alta e questo, naturalmente, ha fatto sì che il debito crescesse come se fosse una valanga di neve. E non vediamo ancora come potrebbe essere fermata poiché nel 2012, nonostante un risparmio di circa 40 miliardi, ci siamo indebitati per altri 45 a causa degli interessi. E quest’anno succederà la stessa cosa nonostante le varie restrizioni e le leggi di stabilità che si faranno.

Per ogni debitore c’è sempre un creditore. Quali sono i creditori dello stato italiano?
Una prima divisione da fare è quella tra creditori nazionali e creditori esteri.
I creditori esteri rappresentano circa il 40%, anche se va precisato che dentro questo 40% c’è anche una quota di investitori italiani “estero-vestiti” perché, pur essendo italiani e utilizzando capitale italiano, preferiscono però comprare i titoli di debito pubblico attraverso agenzie e società estere per ovvi motivi di agevolazione fiscale, un’elusione fiscale in piena regola. Quando parliamo di creditori esteri, però, non stiamo parlando solo di banche estere, soprattutto le banche del Nord Europa ma anche banche americane, ma anche di fondi d’investimento, di assicurazioni, senza dimenticare neanche la Banca Centrale Europea che, pur non potendo acquistare per statuto buoni del tesoro, si riempie però i cassetti di titoli di debito pubblico italiano attraverso i prestiti che la BCE fa alle banche italiane. In cambio dei suoi prestiti la Banca Centrale Europea chiede, infatti, alcune garanzie, tra le quali ci sono anche i buoni del Tesoro e, proprio in virtù di questo meccanismo, ha riscosso dal governo italiano qualcosa come 8 miliardi di interessi.
L’altro 60% è, invece, costituito da soggetti nazionali, in primis le banche italiane con circa il 24%, poi le assicurazioni e i fondi con il 20% e, in terza posizione, le famiglie italiane con il 10% (tanto per sfatare il mito secondo cui il debito pubblico italiano sarebbe posseduto prevalentemente dai cittadini) e, infine, abbiamo una quota minoritaria per il 5-6% che è detenuto dalla Banca d’Italia, anche qui un coordinamento di banche purtroppo anch’esso di natura privata.

Tra le cause della crisi italiana ritiene che vi sia anche la questione del divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia del 1981?
 
Questo è stato l’inizio della perdita della nostra sovranità monetaria. Giustamente oggi ci lamentiamo del fatto che, essendo entrati in Europa, il nostro governo e le nostre autorità politiche hanno perso qualsiasi tipo di controllo, non solo sull’emissione della moneta ma anche sulla regolazione del credito. Di fatto, però, noi questa possibilità l’avevamo persa in gran parte già dal 1981, quando ci fu questo nuovo accordo per cui la Banca d’Italia non avrebbe più comprato i titoli del Tesoro in esubero alle aste organizzate dal governo per piazzare i titoli di stato. Prima del 1981, invece, questa era una pratica abituale e veniva fatto anche con l’emissione di nuova moneta, con un duplice vantaggio: da una parte i titoli comprati dalla Banca d’Italia erano un “debito non debito” poiché, pur se veniva registrato sui bilanci, la Banca d’Italia non pretendeva la restituzione di quei capitali; dall’altra parte riusciva a calmierare i tassi d’interesse. Quando, però, la Banca d’Italia si è sfilata da questo tipo di operazione le banche hanno preso il sopravvento e sono state loro a imporre le loro regole ed è, infatti, proprio nel 1981 che assistiamo all’aumento dei tassi d’interesse che salgono addirittura al 25%. Questo è stato il punto di partenza di tutta la catastrofe italiana.

Tra le sue proposte vi è quella del “ripudio del debito”. Ritiene, a tale proposito, che sia necessario un audit sul debito pubblico?
È necessario un audit, per fare delle verifiche di quali sono state le ragioni per cui ci siamo indebitati, in modo da capire non soltanto le cause – i privilegi fiscali concessi alle classi agiate, la corruzione che in Italia sappiamo essere abbastanza corposa – che hanno assottigliato le risorse a nostra disposizione per poter pagare gli interessi, ma anche le responsabilità da parte degli investitori che sono riusciti, attraverso processi speculativi, a fare in modo che i tassi d’interesse si mantenessero a certi livelli. Bisognerà, dunque, cominciare a chiederci se  un debitore deve continuare a pagare il suo debito per l’eternità, soprattutto se innescato da anatocismo, o se a un certo punto bisogna decidere, anche per legge, la cessazione di qualsiasi tipo di obbligo, proprio per cercare di regolarizzare i rapporti. Sono dunque d’accordo con un audit, inteso come un’indagine per cercare di capire come si è formato il debito e per verificare tutte queste situazioni ma, soprattutto, per mettere in evidenza quali sono le quote di debito che si sono create per delle iniziative che non hanno niente a che vedere con il bene collettivo. E, da questo punto di vista, tutte le ruberie che sono state commesse si inscrivono in questa logica, così come le manovre speculative.
Nel 2007, infatti, l’Ecuador ha fatto un audit per tentare di capire da dove derivava tutto il suo debito e, spulciando tutte le carte, è venuto fuori che una parte del debito era stata contratta a tassi esagerati proprio per rendere un favore alle banche americane e, chiarita la situazione, c’è stata una chiara posizione da parte del governo dell’Equador che ha detto: “Noi questa parte di debito non siamo disposti a pagarla”. In un primo momento le banche coinvolte hanno fatto la voce grossa dopodiché, secondo la regola per la quale quando il debitore non paga i problemi non sono del debitore ma del creditore, sono venute a patti e hanno estinto il debito riducendolo di circa il 70%. Il ripudio del debito, dunque, inteso come ripudio di tutta quella parte di debito che è stata creata non per rendere un servizio ai cittadini, ma per favorire la classe politica, le banche, il mondo della finanza e il mondo dell’economia, è possibile soltanto attraverso una seria indagine, ossia un audit pubblico e popolare, il più trasparente possibile e affidato alla sovranità collettiva.

Lei ritiene che il problema che assilla tutta l’Europa sia un problema da debito pubblico o da debito privato?
I due temi sono strettamente collegati fra loro perché, purtroppo, il debito privato viene assunto dal governo e diventa un debito pubblico. In Italia questa realtà è abbastanza marginale, ha coinvolto il Monte dei Paschi di Siena con un esborso di 4 miliardi da parte del governo italiano ed era già successo per altre banche minori per un ammontare di circa altri 4 miliardi. Complessivamente, dunque, il debito pubblico italiano si è accresciuto di 8 miliardi, ma all’estero la cifra è stata molto più alta. La Spagna, ad esempio si è indebitata con i fondi europei per circa 40 miliardi per salvare le proprie banche; l’Irlanda ha fatto una fine ancora più impietosa, indebitandosi per circa 80 miliardi. Senza dimenticare la stessa Germania che ha dovuto costituire un fondo di circa 500 miliardi. C’è una stretta connessione fra debito privato e debito pubblico, proprio perché il debito delle banche induce i governi, in ragione del bene collettivo supremo, a farsi carico dei loro debiti e il debito privato diventa così debito pubblico. Questo è il meccanismo, e quando il problema diventa dei governi le banche, addirittura, passano dall’altra parte della barricata e, dimenticando il fatto che gli stati si sono indebitati per tirarle fuori dalla palude, si fanno aguzzini, diventano loro stesse prestatrici di soldi e, attraverso la speculazione,  pretendono dei tassi d’interesse sempre più alti. Queste sono le assurdità del sistema in cui ci troviamo.

Come mai l’Europa che è stata costruita, l’Unione Europea, è un’unione solo monetaria?
Direi che, più che essere un’unione solo monetaria, è un’unione mercantile. L’Unione Europea nasce come Mercato Comune Europeo, la sua origine è questa, il suo intento non era quello di fare un’”Europa dei Popoli”, ma di fare un’Europa dei mercati e delle banche. Ce l’hanno, ovviamente, sempre presentata come un’altra cosa, perché sappiamo che se le cose vengono dette in maniera chiara la gente non ci sta e magari si ribella anche. C’è sempre quest’operazione di camuffamento delle parole e dei progetti per farli diventare accettabili e digeribili. Per questo ci hanno sempre presentato quest’Europa come un’unione politica, mentre storicamente parlando l’Europa nasce da un altro tipo di esigenza, quella del mercato comune. Seguendo l’evoluzione delle imprese ci rendiamo conto, infatti, che questa è stata una loro necessità, non potendo più rimanere dentro ai  piccoli mercati nazionali ma non essendo ancora pronte per affrontare il grande mercato globale, avevano bisogno di uno stato intermedio che era quello dell’unione doganale a livello europeo. La possibilità, cioè, di far circolare liberamente merci e capitali all’interno di un’area più ampia della singola nazione, ma proteggendosi tutti insieme contro il resto del mondo. Questo è il peccato originale di quest’Europa ed è chiaro che, a un certo punto, per cercare di portare avanti questo tipo di processo, soprattutto le grandi imprese hanno sentito il bisogno di andare anche verso un’unione monetaria, perché questo gli avrebbe garantito un mercato molto più ampio che non rimanere ciascuno con la propria moneta nazionale. Il fatto che si usi la stessa moneta, dal Belgio fino alla Sicilia, questo facilita ancora di più la circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali. Per questo, non deve stupire il fatto che l’Europa ha raggiunto l’unione monetaria ma non l’unione politica. Del resto, lo vediamo dal fatto che gli organi politici europei attribuiscono delle funzioni insignificanti e ridicole al Parlamento europeo, che è ben lungi dall’avere una funzione legislativa e l’organo di governo europeo è un organo di “tecnici”, nominato dai governi e con un potere enorme senza che nessuno l’abbia eletto. Siamo ben lontani da un’unione politica come andrebbe concepita secondo un ordine democratico, siamo ben lontani da un’unione sociale, siamo ben lontani da un’unione fiscale, perché tutto questo non conviene e anzi andrebbe contro le esigenze delle grandi imprese. Le cose stanno così e nessuno ce lo dice perché se ce lo dicessero la gente si ribellerebbe. Ma questo non vuol dire voler tornare ciascuno ai piccoli nazionalismi, ma significa cercare di riformulare il progetto della creazione di un’Europa su altre basi per difendere gli interessi dei cittadini, in particolare gli interessi dei più deboli. Tutto dovrebbe essere cambiato in funzione di questo.

Nel suo libro afferma che “la sovranità monetaria non è sufficiente, ma è fondamentale anche quella politica”. Ci vuole spiegare meglio questo concetto?
La sovranità monetaria è un passaggio necessario, ma non sufficiente, soprattutto pensando al livello di debito che abbiamo raggiunto. La sovranità monetaria ci farebbe recuperare la possibilità di poter stampare moneta e, quindi, di poter utilizzare la moneta come uno strumento al servizio dei governi, soprattutto per raggiungere finalità sociali. Oggi questo tipo di esigenza è molto pressante, poiché abbiamo qualcosa come 6 milioni di disoccupati in Italia, che corrispondono al 24%, e sono contento che anche Saccomanni lo abbia finalmente riconosciuto. Fino a poco tempo fa, invece, si parlava del tasso di disoccupazione al 12,5% della forza lavoro, ma questo dato è un inganno, perché si continua a prendere come riferimento soltanto coloro che cercano attivamente lavoro, mentre sappiamo che c’è un numero altrettanto grande di disoccupati che vorrebbe lavorare, ma ormai il lavoro non lo cercano neanche più perché è scoraggiato. La cifra vera, dunque, è sei milioni uguale al 24% della forza lavoro e, in una situazione di questo genere, si continua a dire che la crescita ci salverà, pensando che i posti di lavoro li debbano creare soltanto le imprese private. Questo, purtroppo, è il nostro vizio, il baco che abbiamo nella testa, mentre dobbiamo cominciare a dire che i posti di lavoro possono e devono essere creati soprattutto dalla struttura pubblica per il soddisfacimento di tutti i bisogni collettivi che abbiamo, che vanno dai servizi come la Sanità e l’Istruzione fino alla difesa e alla ristrutturazione dei territori che sono stati degradati. Abbiamo una quantità di bisogni enorme e, contemporaneamente, un’enorme quantità di disoccupati. Non utilizziamo però i disoccupati che abbiamo per risolvere i problemi perché non abbiamo quei stramaledetti miliardi di euro da mettere in circolazione per chiudere il cerchio. Keynes ce l’ha insegnato già nel 1930: questo problema si risolve semplicemente dando ordine alla Banca Centrale di stampare nuova moneta per pagare i salari che servono, poi una volta superata la crisi si può anche pensare a come ritirarla se ce ne sarà bisogno, ma questo è un problema tecnico che verrà dopo. Questo per dire che va assolutamente recuperata la sovranità monetaria innanzitutto per una questione di carattere sociale, ma poi anche per riuscire ad avviare un processo di risanamento del debito pubblico, cominciando a stampare soldi freschi per pagare i tassi d’interesse anno per anno.
La sovranità monetaria, però, non è sufficiente, perché quando parliamo di debito pubblico pensiamo sempre agli interessi, ma non pensiamo mai alla montagna di capitale che dobbiamo rimborsare, circa 2.000 miliardi. Non possiamo pensare di restituire 2.000 miliardi di capitale semplicemente stampando nuova carta moneta perché, se questo fosse attuato a livello europeo, vorrebbe dire stampare qualcosa come 10.000 miliardi di euro e questo, certamente, avrebbe un grave effetto inflazionistico. Se vogliamo evitare certi processi, dobbiamo anche pensare a entrare in rotta di collisione con i creditori, dicendogli semplicemente che attuiamo il Giubileo, smettiamo di pagarli perché non è ammissibile che, in nome degli interessi privati, si debba mettere in croce un popolo intero. Recuperiamo, dunque, la sovranità monetaria ma, nel contempo, dovremmo accettare di entrare in un conflitto aperto con i creditori per cominciare a pensare a delle operazioni quantomeno di ristrutturazione del nostro debito che, inizialmente, possono avviarsi con delle operazioni di congelamento del pagamento dei capitali.

Non ritiene che il mantenimento di questa Europa sia una delle principali cause dell’insorgere dei nazionalismi in Europa, come la Le Pen in Francia o Alba Dorata in Grecia?
Sì lo è, perché l’Europa si è trasformata in un gigantesco gendarme al servizio dei creditori per accertarsi che i singoli governi gestiscano i propri bilanci avendo come priorità soltanto il pagamento degli interessi. Quest’Europa è diventata un nemico proprio a causa di questo tipo di meccanismo. Se invece cominciassimo a cambiare l’atteggiamento dell’Europa, dicendo che l’Europa non deve tenere più in considerazione l’interesse dei creditori, ma deve invece iniziare a considerare i diritti, i beni comuni, la possibilità di emancipazione, soprattutto delle fasce più deboli, allora automaticamente verrebbe vista come un’alleata e una grande amica. Non è l’Europa come tale il problema, ma il tipo di obiettivo che ci sta ponendo. Dobbiamo ribaltare questa concezione e credo che se tutti i popoli cominciassero a mettere a fuoco che questo è il problema riusciremmo a costruire un altro tipo di Europa e forse metteremmo anche uno stop ai vari partiti di destra e di tipo nazionalistico. Sappiamo bene, inoltre, che questi partiti fanno finta di essere dalla parte della gente, ma in realtà per tradizione sono dalla parte del capitale, delle banche, della finanza e che, addirittura, sono disposti a utilizzare la forza per reprimere con la violenza tutti i vari tipi di rivolta, la Storia ci ha insegnato questo. È un grande inganno e la gente ci cade perché non ha più gli strumenti per capire come funzionano le cose e si avvicina al primo “Unto del Signore” che passa per strada e gli racconta che il nemico è l’immigrato, senza andare oltre. La gente non pensa più e non ha neanche più gli strumenti per riuscire a valutare la complessità e, quindi, non valuta il fatto che il grande rischio che tutti corrono è quello di tornare a una Grecia che se ne sta rinchiusa dentro ai propri confini, ma che da un punto di vista economico continuerebbe probabilmente a funzionare dentro un mercato globale con gli stessi problemi che abbiamo attualmente in Europa. Bisognerebbe dire chiaro e tondo alla gente che vogliamo tornare a una Francia che, non soltanto esce fuori dall’Europa, ma che diventa protezionista. Io posso anche essere d’accordo di cominciare a mettere in atto una certa forma di protezionismo per difendere i posti di lavoro, ma questo significa fare una scelta di classe ben precisa: si smette di avere come obiettivo la difesa delle grandi imprese e del grande capitale e si comincia, invece, ad avere come obiettivo la difesa dei disoccupati e delle fasce più deboli. Ma questo non è assolutamente nella tradizione della destra e dei movimenti nazionalistici che vanno, invece, a braccetto con i potenti e usano la violenza per mettere a tacere qualsiasi forma di ribellione. Se vogliamo evitare che si continui ad andare avanti per questa deriva, dobbiamo assolutamente cambiare la prospettiva all’Europa altrimenti, lo abbiamo già visto negli anni ’30, quanto più tu metti i popoli a ferro e a fuoco, quanto più questi si affidano al primo che passa e che gli fa credere che la soluzione sia quella di tornare a una situazione chiusa e dove ci poniamo come nemici del resto del mondo. Questo è l’humus dove crescono i populisti, perché la gente “abbocca” e si fa infatuare, ritenendo che finalmente verranno difesi i suoi interessi, non sapendo che invece verrà utilizzato il suo consenso per costruire qualcosa di totalmente diverso. E in Italia l’abbiamo visto con Berlusconi, che ci ha fatto credere che avrebbe tutelato i nostri interessi e invece i suoi provvedimenti hanno arricchito lui e impoverito la gente.
Detto questo, io sono assolutamente contro questo tipo di ordine economico mondiale che si chiama “Globalizzazione e sono assolutamente convinto che dobbiamo cercare di riscrivere le norme a livello mondiale per cercare di favorire l’economia locale, ma all’interno di un sistema che sia capace di mettere in atto contemporaneamente quella solidarietà che ci consenta di collaborare per poter aiutare anche i nostri vicini a superare i loro problemi.

Ritiene che attualmente vi siano le condizioni e i rapporti di forza per pensare a un’Europa diversa e cosa pensa, invece, delle proposte di Bruno Amoroso e Luciano Vasapollo di un’Europa del Nord e del Sud?
Il principale ostacolo, che abbiamo non soltanto in Europa ma anche in Italia, è la mancanza di partecipazione perché, nonostante tutti i nostri problemi, abbiamo dei parlamenti e dei governi che hanno la faccia rivolta verso il passato e che sono terribilmente ammanicati con i poteri forti. Questa è la drammaticità del momento che stiamo vivendo, che stiamo mandando dei parlamenti a fare gli interessi nostri quando invece fanno gli interessi degli altri, e lo possono fare perché stiamo entrando in una dimensione di indifferenza e di disaffezione dalla partecipazione. Per recuperare la possibilità di costruire un’altra Europa bisogna recuperare la partecipazione e la consapevolezza e, prima ancora della consapevolezza dei meccanismi tecnici, dobbiamo recuperare la consapevolezza degli obiettivi e dei valori. Questo è quello che assolutamente ci manca. Noi dopo due secoli di mercantilismo spinto abbiamo assimilato totalmente i concetti del mercato. Da questo punto di vista dovrei mutuare la definizione di Latouche: noi abbiamo lasciato che il nostro immaginario venisse colonizzato da tutta una serie di visioni a carattere mercantilista. Noi siamo qui a cercare di costruire un’Europa nuova quando, invece, siamo “i vecchi” che appartengono al vecchio mondo, e con la vecchia visione non la costruiremo mai. È un problema serio, non so come riusciremo e da dove cominciare, forse ci vorrà l’azione combinata dei gruppi che hanno questo tipo di consapevolezza e che dalla base fanno un lavoro per far nascere un nuovo pensiero, e forse anche di dirigenze illuminate, ma che ahimè non ne vediamo all’orizzonte, che comincino ad assumere un ruolo di leader classico, che non vuol dire essere il pastore che guida le pecore, ma essere qualcuno che lancia delle nuove sfide e che mette a fuoco quali sono i problemi, facendo anche intravedere delle soluzioni alternative rispetto a quelle abituali. Queste sono le condizioni per riuscire a costruire un’altra Europa, ma se mi chiede se queste condizioni ci sono le rispondo: no, oggi non ci sono. Non ho, dunque, la risposta di come si possa realizzare, posso soltanto dire che io cerco di dare il mio contributo e di organizzare tutti coloro che hanno raggiunto un certo tipo di consapevolezza, ma niente di più. Se tutto questo sarà sufficiente o non sarà sufficiente, questo sarà la storia a dirlo.
Per quanto riguarda, invece, le proposte di Amoroso e Vasapollo di un’Europa del Nord e del Sud, ritengo che possa essere, da un punto di vista tecnico, una mossa intelligente perché le monete uniche possono funzionare soltanto tra economie omogenee, oppure puoi usare una moneta unica ma mettendo in atto tutta una serie di misure che cerchino di superare gli squilibri che comunque esistono. Una delle ragioni per cui noi dall’Euro abbiamo avuto dei problemi di carattere economico, al di là della questione debito, è stata questa disparità di forze tra un paese come la Germania e un paese come l’Italia. E, prima ancora che essere una disparità di forze sul piano economico, era una disparità di regole per quanto riguarda la normativa del lavoro. Nel 2002, infatti, Schröder comprese che, se voleva cercare di conquistare il mercato europeo, doveva cercare di rendere i prodotti tedeschi più competitivi rispetto a quelli degli altri paesi europei e, per questo, anticipò le mosse di riforma del mercato del lavoro. Per cui o si è capaci di mettere in atto delle misure per cercare di riequilibrare gli squilibri economici e sociali che ci sono fra i diversi paesi che usano la stessa moneta, oppure l’alternativa è che i Paesi che hanno economie simili facciano loro un corpo a sé, con la possibilità di poter svalutare nei confronti del resto del mondo, compresa la Germania, come modo per riuscire a compensare lo svantaggio che hanno sul piano della produttività. La ritengo, dunque, una mossa assolutamente intelligente che potrebbe avere un buon effetto anche per la soluzione del debito pubblico, perché se certe prese di posizione sono assunte da un solo governo può essere impallinato, ma se le stesse posizioni di sfida ai mercati sono assunte anche da una Spagna, da una Grecia o da un’Irlanda, diventa già molto più difficile. Se si cominciasse a orientarci verso due diverse unioni monetarie, questo potrebbe rafforzare delle alleanze politiche per una soluzione alternativa al problema del debito.

Ritiene, infine, che non vi siano alternative all’Euro? E cosa pensa di chi, come l’economista Emiliano Brancaccio o l’associazione “Bottega Partigiana”, pensa sia possibile un’uscita “da sinistra” dall’Eurozona?
Certo che c’è un’alternativa all’euro: la proposta di Amoroso è una di queste, la proposta di Lordon e Sapir di una “moneta comune” è un’altra, anche se non so se potrebbe funzionare poiché qualcuno ha sollevato alcuni dubbi. Da un punto di vista tecnico c’è, comunque, questa possibilità e poi, certo, c’è sempre la possibilità di poter tornare alle nostre monete nazionali, che io stesso nel mio libro vedo come “ultima ratio”. Se, cioè, ci rendessimo conto che tutti i tentativi per avere un’Europa gestita in maniera diversa non funzionano, allora potremo anche accettare di tornare alla nostra lira.
In quel caso, però, dobbiamo anche chiederci che tipo di Italia vogliamo costruire, perché se vogliamo costruire un’Italia che ragiona, dal punto di vista degli obiettivi sociali, esattamente come l’Europa allora sarebbe una vittoria di Pirro. Avremmo semplicemente la nostra lira con possibilità di svalutazione, che non è certo la panacea di tutti i mali perché ha colpi e contraccolpi, ma da un punto di vista sociale non avremmo modificato di molto la situazione. La proposta di Brancaccio di uscita dall’euro “da sinistra” credo che rientri in questa logica. Dovremmo, cioè, avere la consapevolezza di quale tipo di lira vogliamo costruire, al servizio di chi e, soprattutto, quale tipo di programma politico vogliamo raggiungere una volta che siamo tornati alla nostra sovranità monetaria. Questa, secondo me, è l’uscita dall’euroda sinistra”.

http://www.sinistrainrete.info/europa/3188-francesco-gesualdi-euro-europa-debito-pubblico.html