Euro, Europa, debito pubblico
Le alternative all’attuale sistema
R. Monacelli intervista Francesco Gesualdi
Ci vuole parlare del Centro Nuovo Modello di Sviluppo?
Il
Centro Nuovo Modello di Sviluppo è
un centro di documentazione nato nel 1985 a Vecchiano, vicino Pisa.
Nel corso del tempo abbiamo affrontato vari temi. Inizialmente siamo
partiti dagli squilibri nord/sud, che ci ha portato a capire le grandi
responsabilità che hanno le imprese, sviluppando il tema del
consumo critico. Poi siamo andati avanti lungo questa strada, occupandoci del tema del
debito
di cui erano vittime i paesi del sud del mondo e, oggi, ci stiamo
rendendo conto che i processi di impoverimento in casa nostra, oltre a
essere provocati dai processi di
globalizzazione, sono provocati anche dall’attuale gestione del
debito pubblico,
tutta orientata soltanto a soddisfare le richieste dei creditori.
Siamo, dunque, una realtà che si occupa di vari temi, ma tutti a
carattere sociale, che chiede ai cittadini di darsi da fare, di reagire
per cercare di superare l’attuale situazione.
Lei è stato allievo di Don Milani. Ce ne vuole parlare? Secondo lei cosa ci ha lasciato e cosa ha da insegnare per il futuro?
Io sono stato a Barbiana per tutta la mia
giovinezza, dai 7 ai 18 anni fino a quando lui non è morto, è stata
l’unica scuola che ho frequentato nel corso della mia vita. Cosa ci ha
lasciato? Secondo me ci ha lasciato dei messaggi che sono
intramontabili, oltre alla denuncia fatta rispetto alla scuola pubblica,
alla scuola classista, alla scuola che non è organizzata secondo lo
spirito della Costituzione che dovrebbe formare dei
cittadini sovrani, ma come tribunale per continuare quella selezione che
già avviene all’interno della società, per cui i ricchi devono
continuare a essere mandati avanti mentre i poveri devono essere
respinti e, in qualche modo, mantenuti ignoranti.
Ma, a parte tutto questo contenuto ne “
Lettera a una professoressa”,
mi pare che vi siano altri messaggi, che hanno un valore dal mio punto
di vista intramontabile, che si trovano nella sua autodifesa per il
processo che ha subito per apologia di reato e che si è anche
trasformato in un libretto che si chiama “
L’obbedienza non è più una virtù”.
Tra questi c’è certamente il richiamo a ogni persona, a ogni
cittadino, a ogni giovane, di sentirsi responsabile di tutto, e dunque
di a
gire come se la responsabilità di come va il mondo dipendesse unicamente dal suo comportamento.
Ecco, se questo agire venisse assunto come comportamento generalizzato
saremmo certi che molti misfatti non succederebbero più. Ovviamente
questo richiede che ci sia un atteggiamento di consapevolezza e di
sovranità. Un grande insegnamento che ci veniva da
Barbiana,
infatti, era che non dobbiamo compiere nessuna scelta se prima non
l’avevamo passata al vaglio del nostro cervello. C’era sempre questo
invito a pensare su tutto ciò che ci veniva chiesto di fare e di
adeguarci soltanto se lo condividevamo e se era in linea con i nostri
valori.
Consapevolezza e assunzione di responsabilità credo siano i due principi guida che ci ha lasciato
Barbiana, e
Milani
in particolare, e che sarebbe ancora estremamente importante che li
utilizzassimo per evitare, così, tutta una serie di catastrofi che sono
di fronte a noi.
Lei è stato uno dei promotori della Rete Lilliput. Come mai quell’esperienza non ha funzionato? E cosa sarebbe da riprendere?
Più che non ha funzionato, direi che la
Rete Lilliput non è riuscita ad avere tutta quell’estensione che ci auguravamo. Perché qual era l’idea di base della
Rete Lilliput?
Siamo tanti piccoli gruppi, ognuno dei quali si focalizza su un tema
particolare, dobbiamo prendere la consapevolezza che, pur occupandoci
ciascuno di un tema diverso, siamo tutti però accomunati da un
progetto comune,
che è la volontà di costruire un mondo più giusto, più sostenibile e
più equo. In virtù di questo facciamo in modo, non soltanto di
collaborare, ma anche di iscrivere ogni nostra singola scelta
all’interno di questo progetto più vasto. L’ostacolo più grosso che
abbiamo trovato è stato, innanzitutto, la nostra formazione mentale per
cui siamo ancora ancorati ai nostri piccoli orticelli, sia nel mondo
associativo che nel mondo sindacale che nel mondo politico. Questa è la
prima barriera che ancora non cade perché non abbiamo la chiarezza del
tipo di progetto comune che ci dovrebbe aggregare. Io credo che vi sia
una carenza di pensiero e, non avendo un progetto alto di modello di
società, non capiamo cosa è che aggrega un gruppo che, ad esempio, si
occupa di
commercio equo con chi, invece, si occupa di
finanza etica o con chi si batte, invece, per il
reddito di cittadinanza. Mi pare che manchi un progetto politico di società “
altra” e questo, in qualche maniera,
non ci fa capire l’importanza di essere tutti legati da un filo conduttore
e quindi, alla fine, ci riconcentriamo nel nostro specifico, non
prestando cura alla necessità di tessere le relazioni. Ecco, questa è
una delle ragioni per cui ritengo che dobbiamo tornare assolutamente ad
analizzare il sistema nel suo insieme, capire che purtroppo all’interno
dei suoi meccanismi non troviamo più la soluzione ai gravissimi
problemi sociali e ambientali che abbiamo di fronte a noi e, quindi,
occorre fare uno sforzo di
visione di un’altra società.
Questo dovrebbe essere l’elemento che ci dovrebbe tenere tutti insieme
e che dovrebbe essere l’obiettivo da raggiungere attraverso le piccole
iniziative che ognuno di noi segue quotidianamente, ma con questa
consapevolezza che siamo tutti accomunati da un progetto comune che va
al di là dei singoli impegni di ogni gruppo. Credo che bisognerà
continuare a lavorare su questo e, se riusciremo a fare questo scatto di
consapevolezza, probabilmente l’idea della
Rete Lilliput riuscirà a realizzarsi in una maniera più concreta di quanto non sia successo fino a oggi.
Recentemente è uscito il suo libro “Le catene del debito”, dove critica i “luoghi comuni” a proposito del debito pubblico. Quali sono questi luoghi comuni?
Il primo luogo comune è che
noi siamo indebitati perché siamo un popolo che ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità.
Questo è un luogo comune fondamentale che, poi, ne fa scaturire un
altro, e cioè che non abbiamo nessun altro obbligo se non quello di
pagare e che i sacrifici che ci sono imposti sono
la giusta punizione per i reati commessi.
Questo è il ragionamento che scatta nella testa di ciascuno di noi e
che ci porta a chinare la testa di fronte alle politiche di
austerità
che ci vengono imposte dal governo italiano, dal governo europeo e dal
Fondo Monetario Internazionale. Per riuscire a trovare un’alternativa e
una soluzione al problema del
debito dobbiamo
cominciare a rompere questi luoghi comuni, e il primo luogo comune da
rompere è proprio quello che noi non ci siamo indebitati per aver speso
al di sopra delle nostre possibilità. La verità è un’altra e cioè che,
nel corso del tempo, abbiamo dovuto pagare una montagna di
interessi così alti che, questi sì, non siamo riusciti a pagare nonostante, dal 1992 in poi, abbiamo risparmiato qualcosa come
670 miliardi. Ciononostante, non siamo stati capaci di pagare anno per anno tutti gli
interessi e, a questo punto, è scattato il meccanismo detto di “
anatocismo”:
interessi non pagati sono stati considerati come nuovo prestito, per
cui l’anno successivo sono ripartiti gli interessi da una cifra più alta
e questo, naturalmente, ha fatto sì che il debito crescesse come se
fosse una valanga di neve. E non vediamo ancora come potrebbe essere
fermata poiché nel 2012, nonostante un risparmio di circa
40 miliardi, ci siamo indebitati per altri 45 a causa degli
interessi. E quest’anno succederà la stessa cosa nonostante le varie restrizioni e le leggi di stabilità che si faranno.
Per ogni debitore c’è sempre un creditore. Quali sono i creditori dello stato italiano?
Una prima divisione da fare è quella tra creditori nazionali e creditori esteri.
I
creditori esteri rappresentano circa il
40%, anche se va precisato che dentro questo
40% c’è anche una quota di investitori italiani “
estero-vestiti” perché, pur essendo italiani e utilizzando capitale italiano, preferiscono però comprare i titoli di
debito pubblico attraverso agenzie e società estere per ovvi motivi di agevolazione fiscale, un’
elusione fiscale
in piena regola. Quando parliamo di creditori esteri, però, non stiamo
parlando solo di banche estere, soprattutto le banche del Nord Europa
ma anche banche americane, ma anche di fondi d’investimento, di
assicurazioni, senza dimenticare neanche la
Banca Centrale Europea che, pur non potendo acquistare per statuto buoni del tesoro, si riempie però i cassetti di
titoli di debito pubblico italiano attraverso i prestiti che la
BCE
fa alle banche italiane. In cambio dei suoi prestiti la Banca Centrale
Europea chiede, infatti, alcune garanzie, tra le quali ci sono anche i
buoni del Tesoro e, proprio in virtù di questo meccanismo, ha riscosso
dal governo italiano qualcosa come
8 miliardi di interessi.
L’altro 60% è, invece, costituito da soggetti nazionali, in primis le banche italiane con circa il 24%, poi le assicurazioni e i fondi con il 20% e, in terza posizione, le famiglie italiane con il 10%
(tanto per sfatare il mito secondo cui il debito pubblico italiano
sarebbe posseduto prevalentemente dai cittadini) e, infine, abbiamo una
quota minoritaria per il 5-6% che è detenuto dalla Banca d’Italia, anche qui un coordinamento di banche purtroppo anch’esso di natura privata.
Tra le cause della crisi italiana ritiene che vi sia anche la questione del divorzio tra il Tesoro e la Banca d’Italia del 1981?
Questo è stato l’inizio della perdita della nostra sovranità monetaria. Giustamente oggi ci lamentiamo del fatto che, essendo entrati in Europa,
il nostro governo e le nostre autorità politiche hanno perso qualsiasi
tipo di controllo, non solo sull’emissione della moneta ma anche sulla
regolazione del credito. Di fatto, però, noi questa possibilità l’avevamo persa in gran parte già dal 1981, quando ci fu questo nuovo accordo per cui la Banca d’Italia
non avrebbe più comprato i titoli del Tesoro in esubero alle aste
organizzate dal governo per piazzare i titoli di stato. Prima del 1981,
invece, questa era una pratica abituale e veniva fatto anche con
l’emissione di nuova moneta, con un duplice vantaggio: da una parte i
titoli comprati dalla Banca d’Italia erano un “debito non debito” poiché, pur se veniva registrato sui bilanci, la Banca d’Italia non pretendeva la restituzione di quei capitali; dall’altra parte riusciva a calmierare i tassi d’interesse. Quando, però, la Banca d’Italia si è sfilata da questo tipo di operazione le banche hanno preso il sopravvento e sono state loro a imporre le loro regole ed è, infatti, proprio nel 1981 che assistiamo all’aumento dei tassi d’interesse che salgono addirittura al 25%. Questo è stato il punto di partenza di tutta la catastrofe italiana.
Tra le sue proposte vi è quella del “ripudio del debito”. Ritiene, a tale proposito, che sia necessario un audit sul debito pubblico?
È necessario un
audit, per fare delle verifiche di
quali sono state le ragioni per cui ci siamo indebitati, in modo da capire non soltanto le cause – i
privilegi fiscali concessi alle classi agiate, la
corruzione
che in Italia sappiamo essere abbastanza corposa – che hanno
assottigliato le risorse a nostra disposizione per poter pagare gli
interessi, ma anche
le responsabilità da parte degli investitori
che sono riusciti, attraverso processi speculativi, a fare in modo che
i tassi d’interesse si mantenessero a certi livelli. Bisognerà,
dunque, cominciare a chiederci
se un debitore deve continuare a pagare il suo debito per l’eternità, soprattutto se innescato da
anatocismo,
o se a un certo punto bisogna decidere, anche per legge, la cessazione
di qualsiasi tipo di obbligo, proprio per cercare di regolarizzare i
rapporti. Sono dunque d’accordo con un
audit, inteso come un’indagine per cercare di capire come si è formato il
debito e per verificare tutte queste situazioni ma, soprattutto, per mettere in evidenza quali sono le quote di
debito
che si sono create per delle iniziative che non hanno niente a che
vedere con il bene collettivo. E, da questo punto di vista, tutte le
ruberie che sono state commesse si inscrivono in questa logica, così
come le manovre speculative.
Nel 2007, infatti, l’
Ecuador ha fatto un
audit per tentare di capire da dove derivava tutto il suo
debito e, spulciando tutte le carte, è venuto fuori che una parte del
debito
era stata contratta a tassi esagerati proprio per rendere un favore
alle banche americane e, chiarita la situazione, c’è stata una chiara
posizione da parte del governo dell’Equador che ha detto: “
Noi questa parte di debito non siamo disposti a pagarla”.
In un primo momento le banche coinvolte hanno fatto la voce grossa
dopodiché, secondo la regola per la quale quando il debitore non paga i
problemi non sono del debitore ma del creditore, sono venute a patti e
hanno estinto il debito
riducendolo di circa il 70%. Il
ripudio del debito, dunque, inteso come ripudio di tutta quella parte di
debito
che è stata creata non per rendere un servizio ai cittadini, ma per
favorire la classe politica, le banche, il mondo della finanza e il
mondo dell’economia, è possibile soltanto attraverso una seria indagine,
ossia un
audit pubblico e popolare, il più trasparente possibile e affidato alla sovranità collettiva.
Lei ritiene che il problema che assilla tutta l’Europa sia un problema da debito pubblico o da debito privato?
I due temi sono strettamente collegati fra loro perché, purtroppo,
il debito privato viene assunto dal governo e diventa un debito pubblico. In Italia questa realtà è abbastanza marginale, ha coinvolto il
Monte dei Paschi di Siena con un esborso di
4 miliardi da parte del governo italiano ed era già successo per altre banche minori per un ammontare di circa
altri 4 miliardi. Complessivamente, dunque, il debito pubblico italiano si è accresciuto di
8 miliardi, ma all’estero la cifra è stata molto più alta. La
Spagna, ad esempio si è indebitata con i fondi europei per circa
40 miliardi per salvare le proprie banche; l’
Irlanda ha fatto una fine ancora più impietosa, indebitandosi per circa
80 miliardi. Senza dimenticare la stessa
Germania che ha dovuto costituire un fondo di circa
500 miliardi. C’è una stretta connessione fra
debito privato e
debito pubblico, proprio perché il
debito delle banche induce i governi, in ragione del bene collettivo supremo, a farsi carico dei loro debiti e
il debito privato diventa così debito pubblico.
Questo è il meccanismo, e quando il problema diventa dei governi le
banche, addirittura, passano dall’altra parte della barricata e,
dimenticando il fatto che gli stati si sono indebitati per tirarle fuori
dalla palude, si fanno aguzzini, diventano loro stesse prestatrici di
soldi e, attraverso la speculazione,
pretendono dei tassi d’interesse sempre più alti. Queste sono le assurdità del sistema in cui ci troviamo.
Come mai l’Europa che è stata costruita, l’Unione Europea, è un’unione solo monetaria?
Direi che, più che essere un’unione solo monetaria, è
un’unione mercantile. L’
Unione Europea nasce come
Mercato Comune Europeo, la sua origine è questa, il suo intento non era quello di fare un’”
Europa dei Popoli”, ma di fare
un’Europa dei mercati e delle banche.
Ce l’hanno, ovviamente, sempre presentata come un’altra cosa, perché
sappiamo che se le cose vengono dette in maniera chiara la gente non ci
sta e magari si ribella anche. C’è sempre quest’operazione di
camuffamento delle parole e dei progetti per farli diventare accettabili
e digeribili. Per questo ci hanno sempre presentato quest’
Europa come un’unione politica, mentre storicamente parlando l’
Europa nasce da un altro tipo di esigenza, quella del
mercato comune.
Seguendo l’evoluzione delle imprese ci rendiamo conto, infatti, che
questa è stata una loro necessità, non potendo più rimanere dentro ai
piccoli mercati nazionali ma non essendo ancora pronte per affrontare
il grande mercato globale,
avevano bisogno di uno stato intermedio che era quello dell’
unione doganale
a livello europeo. La possibilità, cioè, di far circolare liberamente
merci e capitali all’interno di un’area più ampia della singola
nazione, ma proteggendosi tutti insieme contro il resto del mondo.
Questo è il peccato originale di quest’Europa
ed è chiaro che, a un certo punto, per cercare di portare avanti
questo tipo di processo, soprattutto le grandi imprese hanno sentito il
bisogno di andare anche verso un’
unione monetaria,
perché questo gli avrebbe garantito un mercato molto più ampio che non
rimanere ciascuno con la propria moneta nazionale. Il fatto che si usi
la stessa moneta, dal Belgio fino alla Sicilia, questo facilita ancora
di più la circolazione delle merci, dei servizi e dei capitali. Per
questo, non deve stupire il fatto che l’
Europa ha
raggiunto l’unione monetaria ma non l’unione politica. Del resto, lo
vediamo dal fatto che gli organi politici europei attribuiscono delle
funzioni insignificanti e ridicole al
Parlamento europeo, che è ben lungi dall’avere una funzione legislativa e l’organo di governo europeo è un organo di “
tecnici”, nominato dai governi e con un potere enorme senza che nessuno l’abbia eletto.
Siamo ben lontani da un’unione politica
come andrebbe concepita secondo un ordine democratico, siamo ben
lontani da un’unione sociale, siamo ben lontani da un’unione fiscale,
perché tutto questo non conviene e anzi andrebbe contro le esigenze
delle grandi imprese. Le cose stanno così e nessuno ce lo dice perché se
ce lo dicessero la gente si ribellerebbe. Ma questo non vuol dire
voler tornare ciascuno ai piccoli nazionalismi, ma significa cercare di
riformulare il progetto della creazione di
un’Europa su altre basi
per difendere gli interessi dei cittadini, in particolare gli
interessi dei più deboli. Tutto dovrebbe essere cambiato in funzione di
questo.
Nel suo libro afferma che “la sovranità monetaria non è sufficiente, ma è fondamentale anche quella politica”. Ci vuole spiegare meglio questo concetto?
La
sovranità monetaria è
un passaggio necessario, ma non sufficiente, soprattutto pensando al livello di
debito che abbiamo raggiunto. La
sovranità monetaria ci farebbe recuperare
la possibilità di poter stampare moneta e, quindi, di poter utilizzare la moneta come uno strumento al servizio dei governi, soprattutto per raggiungere
finalità sociali. Oggi questo tipo di esigenza è molto pressante, poiché abbiamo qualcosa come
6 milioni di disoccupati in Italia, che corrispondono al
24%, e sono contento che anche
Saccomanni lo abbia finalmente riconosciuto. Fino a poco tempo fa, invece, si parlava del tasso di disoccupazione al
12,5%
della forza lavoro, ma questo dato è un inganno, perché si continua a
prendere come riferimento soltanto coloro che cercano attivamente
lavoro, mentre sappiamo che c’è un numero altrettanto grande di
disoccupati che vorrebbe lavorare, ma ormai il lavoro non lo cercano
neanche più perché è scoraggiato. La cifra vera, dunque, è
sei milioni uguale al 24% della forza lavoro e, in una situazione di questo genere, si continua a dire che la crescita ci salverà, pensando che
i posti di lavoro li debbano creare soltanto le imprese private.
Questo, purtroppo, è il nostro vizio, il baco che abbiamo nella testa,
mentre dobbiamo cominciare a dire che i posti di lavoro possono e
devono essere creati
soprattutto dalla struttura pubblica per il soddisfacimento di tutti i bisogni collettivi che abbiamo, che vanno dai servizi come la
Sanità e l’
Istruzione
fino alla difesa e alla ristrutturazione dei territori che sono stati
degradati. Abbiamo una quantità di bisogni enorme e,
contemporaneamente, un’enorme quantità di disoccupati. Non utilizziamo
però i disoccupati che abbiamo per risolvere i problemi perché non
abbiamo quei stramaledetti miliardi di euro da mettere in circolazione
per chiudere il cerchio.
Keynes ce l’ha insegnato già nel 1930: questo problema si risolve semplicemente
dando ordine alla Banca Centrale di stampare nuova moneta
per pagare i salari che servono, poi una volta superata la crisi si
può anche pensare a come ritirarla se ce ne sarà bisogno, ma questo è
un problema tecnico che verrà dopo. Questo per dire che va
assolutamente recuperata la
sovranità monetaria innanzitutto per una questione di carattere sociale, ma poi anche per riuscire ad avviare un processo di
risanamento del debito pubblico, cominciando a stampare soldi freschi per pagare i tassi d’interesse anno per anno.
La sovranità monetaria, però, non è sufficiente, perché quando parliamo di debito pubblico pensiamo sempre agli interessi, ma non pensiamo mai alla montagna di capitale che dobbiamo rimborsare, circa 2.000 miliardi. Non possiamo pensare di restituire 2.000 miliardi
di capitale semplicemente stampando nuova carta moneta perché, se
questo fosse attuato a livello europeo, vorrebbe dire stampare qualcosa
come 10.000 miliardi di euro e questo, certamente, avrebbe un
grave effetto inflazionistico. Se vogliamo evitare certi processi,
dobbiamo anche pensare a entrare in rotta di collisione con i creditori,
dicendogli semplicemente che attuiamo il Giubileo, smettiamo di pagarli
perché non è ammissibile che, in nome degli interessi privati, si
debba mettere in croce un popolo intero. Recuperiamo, dunque, la sovranità monetaria ma, nel contempo, dovremmo accettare di entrare in un conflitto aperto con i creditori per cominciare a pensare a delle operazioni quantomeno di ristrutturazione del nostro debito che, inizialmente, possono avviarsi con delle operazioni di congelamento del pagamento dei capitali.
Non ritiene che il mantenimento di questa Europa sia una delle
principali cause dell’insorgere dei nazionalismi in Europa, come la Le
Pen in Francia o Alba Dorata in Grecia?
Sì lo è, perché l’
Europa si è trasformata in un
gigantesco gendarme al servizio dei creditori per accertarsi che i
singoli governi gestiscano i propri bilanci avendo come priorità
soltanto il pagamento degli interessi.
Quest’Europa è diventata un nemico proprio a causa di questo tipo di meccanismo. Se invece cominciassimo a cambiare l’atteggiamento dell’
Europa, dicendo che l’
Europa
non deve tenere più in considerazione l’interesse dei creditori, ma
deve invece iniziare a considerare i diritti, i beni comuni, la
possibilità di emancipazione, soprattutto delle fasce più deboli, allora
automaticamente verrebbe vista come un’alleata e una grande amica. Non
è l
’Europa come tale il problema, ma il tipo di
obiettivo che ci sta ponendo. Dobbiamo ribaltare questa concezione e
credo che se tutti i popoli cominciassero a mettere a fuoco che questo è
il problema riusciremmo a costruire un altro tipo di
Europa
e forse metteremmo anche uno stop ai vari partiti di destra e di tipo
nazionalistico. Sappiamo bene, inoltre, che questi partiti fanno finta
di essere dalla parte della gente, ma in realtà
per tradizione sono dalla parte del capitale, delle banche, della finanza
e che, addirittura, sono disposti a utilizzare la forza per reprimere
con la violenza tutti i vari tipi di rivolta, la Storia ci ha insegnato
questo. È un grande inganno e la gente ci cade perché non ha più gli
strumenti per capire come funzionano le cose e si avvicina al primo “
Unto del Signore”
che passa per strada e gli racconta che il nemico è l’immigrato, senza
andare oltre. La gente non pensa più e non ha neanche più gli
strumenti per riuscire a valutare la complessità e, quindi, non valuta
il fatto che il grande rischio che tutti corrono è quello di tornare a
una
Grecia che se ne sta rinchiusa dentro ai propri
confini, ma che da un punto di vista economico continuerebbe
probabilmente a funzionare dentro un mercato globale con gli stessi
problemi che abbiamo attualmente in
Europa. Bisognerebbe dire chiaro e tondo alla gente che vogliamo tornare a una
Francia che, non soltanto esce fuori dall’
Europa, ma che diventa
protezionista. Io posso anche essere d’accordo di cominciare a mettere in atto una certa forma di
protezionismo per difendere i posti di lavoro, ma questo significa
fare una scelta di classe ben precisa:
si smette di avere come obiettivo la difesa delle grandi imprese e del
grande capitale e si comincia, invece, ad avere come obiettivo
la difesa dei disoccupati e delle fasce più deboli.
Ma questo non è assolutamente nella tradizione della destra e dei
movimenti nazionalistici che vanno, invece, a braccetto con i potenti e
usano la violenza per mettere a tacere qualsiasi forma di ribellione.
Se vogliamo evitare che si continui ad andare avanti per questa deriva,
dobbiamo assolutamente cambiare la prospettiva all’
Europa altrimenti, lo abbiamo già visto negli anni
’30,
quanto più tu metti i popoli a ferro e a fuoco, quanto più questi si
affidano al primo che passa e che gli fa credere che la soluzione sia
quella di tornare a una situazione chiusa e dove ci poniamo come nemici
del resto del mondo. Questo è l’
humus dove crescono i
populisti, perché la gente “
abbocca”
e si fa infatuare, ritenendo che finalmente verranno difesi i suoi
interessi, non sapendo che invece verrà utilizzato il suo consenso per
costruire qualcosa di totalmente diverso. E in Italia l’abbiamo visto
con
Berlusconi, che ci ha fatto credere che avrebbe
tutelato i nostri interessi e invece i suoi provvedimenti hanno
arricchito lui e impoverito la gente.
Detto questo, io sono assolutamente contro questo tipo di ordine economico mondiale che si chiama “Globalizzazione”
e sono assolutamente convinto che dobbiamo cercare di riscrivere le
norme a livello mondiale per cercare di favorire l’economia locale, ma
all’interno di un sistema che sia capace di mettere in atto
contemporaneamente quella solidarietà che ci consenta di collaborare per
poter aiutare anche i nostri vicini a superare i loro problemi.
Ritiene che attualmente vi siano le condizioni e i rapporti di forza
per pensare a un’Europa diversa e cosa pensa, invece, delle proposte di
Bruno Amoroso e Luciano Vasapollo di un’Europa del Nord e del Sud?
Il principale ostacolo, che abbiamo non soltanto in
Europa ma anche in Italia, è
la mancanza di partecipazione
perché, nonostante tutti i nostri problemi, abbiamo dei parlamenti e
dei governi che hanno la faccia rivolta verso il passato e che sono
terribilmente ammanicati con i poteri forti. Questa è la drammaticità
del momento che stiamo vivendo, che stiamo mandando dei parlamenti a
fare gli interessi nostri quando invece fanno gli interessi degli altri,
e lo possono fare perché stiamo entrando in una dimensione di
indifferenza e di disaffezione dalla partecipazione. Per recuperare la
possibilità di costruire un’altra
Europa bisogna
recuperare la partecipazione e la consapevolezza e, prima ancora della
consapevolezza dei meccanismi tecnici, dobbiamo recuperare
la consapevolezza degli obiettivi e dei valori.
Questo è quello che assolutamente ci manca. Noi dopo due secoli di
mercantilismo spinto abbiamo assimilato totalmente i concetti del
mercato. Da questo punto di vista dovrei mutuare la definizione di
Latouche:
noi abbiamo lasciato che il nostro immaginario venisse colonizzato da
tutta una serie di visioni a carattere mercantilista. Noi siamo qui a
cercare di costruire un’
Europa nuova quando, invece, siamo “
i vecchi”
che appartengono al vecchio mondo, e con la vecchia visione non la
costruiremo mai. È un problema serio, non so come riusciremo e da dove
cominciare, forse ci vorrà l’azione combinata dei gruppi che hanno
questo tipo di consapevolezza e che dalla base fanno un lavoro per far
nascere un nuovo pensiero, e forse anche di dirigenze illuminate, ma che
ahimè non ne vediamo all’orizzonte, che comincino ad assumere un ruolo di
leader
classico, che non vuol dire essere il pastore che guida le pecore, ma
essere qualcuno che lancia delle nuove sfide e che mette a fuoco quali
sono i problemi, facendo anche intravedere delle soluzioni alternative
rispetto a quelle abituali. Queste sono le condizioni per riuscire a
costruire un’altra
Europa, ma
se mi chiede se queste condizioni ci sono le rispondo: no, oggi non ci sono.
Non ho, dunque, la risposta di come si possa realizzare, posso
soltanto dire che io cerco di dare il mio contributo e di organizzare
tutti coloro che hanno raggiunto un certo tipo di consapevolezza, ma
niente di più. Se tutto questo sarà sufficiente o non sarà sufficiente,
questo sarà la storia a dirlo.
Per quanto riguarda, invece, le proposte di
Amoroso e Vasapollo di un’Europa del Nord e del Sud, ritengo che possa essere, da un punto di vista tecnico, una mossa intelligente perché l
e monete uniche possono funzionare soltanto tra economie omogenee, oppure puoi usare una
moneta unica
ma mettendo in atto tutta una serie di misure che cerchino di superare
gli squilibri che comunque esistono. Una delle ragioni per cui noi
dall’
Euro abbiamo avuto dei problemi di carattere economico, al di là della questione
debito, è stata questa
disparità di forze tra un paese come la
Germania e un paese come l’
Italia. E, prima ancora che essere una disparità di forze sul piano economico, era una disparità di regole per quanto riguarda la
normativa del lavoro. Nel 2002, infatti,
Schröder comprese
che, se voleva cercare di conquistare il mercato europeo, doveva
cercare di rendere i prodotti tedeschi più competitivi rispetto a quelli
degli altri paesi europei e, per questo, anticipò le mosse di
riforma del mercato del lavoro.
Per cui o si è capaci di mettere in atto delle misure per cercare di
riequilibrare gli squilibri economici e sociali che ci sono fra i
diversi paesi che usano la stessa moneta, oppure l’alternativa è che i
Paesi che hanno economie simili facciano loro un corpo a sé, con la
possibilità di poter svalutare nei confronti del resto del mondo,
compresa la Germania, come modo per
riuscire a compensare lo svantaggio che hanno sul piano della produttività. La ritengo, dunque, una mossa assolutamente intelligente che potrebbe avere un buon effetto anche per la soluzione del
debito pubblico,
perché se certe prese di posizione sono assunte da un solo governo può
essere impallinato, ma se le stesse posizioni di sfida ai mercati sono
assunte anche da una Spagna, da una Grecia o da un’Irlanda, diventa
già molto più difficile. Se si cominciasse a orientarci verso due
diverse unioni monetarie, questo potrebbe rafforzare delle alleanze
politiche per una soluzione alternativa al problema del
debito.
Ritiene, infine, che non vi siano alternative all’Euro? E cosa pensa di chi, come l’economista Emiliano Brancaccio o l’associazione “Bottega Partigiana”, pensa sia possibile un’uscita “da sinistra” dall’Eurozona?
Certo che c’è un’alternativa all’euro: la proposta di
Amoroso è una di queste, la proposta di
Lordon e
Sapir di una “
moneta comune” è un’altra, anche se non so se potrebbe funzionare poiché
qualcuno ha sollevato alcuni dubbi. Da un punto di vista tecnico c’è, comunque, questa possibilità e poi, certo,
c’è sempre la possibilità di poter tornare alle nostre monete nazionali, che io stesso nel mio libro vedo come “
ultima ratio”. Se, cioè, ci rendessimo conto che tutti i tentativi per avere un’
Europa gestita in maniera diversa non funzionano, allora potremo anche accettare di
tornare alla nostra lira.
In quel caso, però, dobbiamo anche chiederci che tipo di Italia
vogliamo costruire, perché se vogliamo costruire un’Italia che ragiona,
dal punto di vista degli obiettivi sociali, esattamente come l’
Europa allora sarebbe
una vittoria di Pirro. Avremmo semplicemente la nostra lira con possibilità di
svalutazione,
che non è certo la panacea di tutti i mali perché ha colpi e
contraccolpi, ma da un punto di vista sociale non avremmo modificato di
molto la situazione. La proposta di
Brancaccio di uscita dall’euro “
da sinistra”
credo che rientri in questa logica. Dovremmo, cioè, avere la
consapevolezza di quale tipo di lira vogliamo costruire, al servizio di
chi e, soprattutto, quale tipo di programma politico vogliamo
raggiungere una volta che siamo tornati alla nostra
sovranità monetaria. Questa, secondo me, è l’uscita dall’
euro “
da sinistra”.
http://www.sinistrainrete.info/europa/3188-francesco-gesualdi-euro-europa-debito-pubblico.html