di Costanzo Preve
Questo è un testo filosofico, sconsigliato a chi non ha pazienza e
non legge le cose molte volte fino a che non le ha capite. In realtà
parte da un recente accadim

ento
dell’attualità politica, il fatto che gli ex-comunisti del serpentone
metamorfico-trasformista PCI-PDS-DS-PD siano in questo novembre 2011 i
principali sostenitori del commissariamento economico
ultra-capitalistico dell’Italia da parte di Monti, uomo della Goldman
Sachs. Dal momento però che ho staccato da tempo la spina nel conflitto
drogato e manipolato Destra/Sinistra e del Partito dei B/Partito degli
anti-B, non intendo perdere tempo con sciocchezze leggibili ogni giorno
nel circo mediatico e visibili ogni ora in quello televisivo.
Mi occuperò di un problema di lungo periodo, chiamato dialettica. La
dialettica è al cuore della comprensione filosofica dei processi
storici. Ho così scritto due termini: filosofia e storia, o più
esattamente comprensione filosofica dei fatti storici. Viviamo in un
tempo in cui si dà per scontato che per capire il lato sociale
dell’attualità basti ed avanzi l’economia, integrata dalla letteratura
per quanto riguarda i conflitti psicologici degli individui. Sembra che
la filosofia non abbia nessuno spazio.
Chi scrive la pensa diversamente: la filosofia, se bene usata (se
male usata è una pura perdita di tempo, meglio l’enigmistica, i romanzi
polizieschi e la pesca con la lenza) illumina il presente storico ancora
meglio della letteratura (che pure è meravigliosa) e certamente meglio
dell’economia (che invece è miserabile).
Questo testo filosofico è diviso in quattro parti, rispettivamente:
(1) Introduzione sulla dialettica.
(2) Il capitalismo, la dialettica dell’illimitatezza.
(3) Il comunismo, la dialettica della corruzione.
(4) Conclusioni aperte provvisorie.
Buona lettura. Ma buona lettura soltanto a chi leggerà con mente
aperta, senza ripiegamenti identitari, presunzione di sapere già tutto
(il contrario della “ironia” socratica), isterismi da politicamente
corretto, boria da intellettuali so-tutto.
1. Introduzione alla dialettica
La filosofia, anche quello apparentemente più complicata, parte
sempre e soltanto dalla vita quotidiana. Diffidate da coloro che dicono
che essa si occupa di cose inaccessibili al buon senso e all’intelletto
comune. Costoro sono l’equivalente filosofico dei piazzisti e degli
imbonitori. La filosofia però elabora e sistematizza in linguaggio
necessariamente specialistico (simile in questo alla fisica) questioni
accessibili anche e soprattutto all’intelletto comune. È sufficiente
però che l’intelletto comune non si “chiuda a riccio” , ma accetti
psicologicamente il terreno della possibile comprensione.
La dialettica (risparmio qui al lettore la sua storia, cui io però ho
dedicato un libro apposito) parla di come le cose cambiano e non
restano ferme e sempre uguali nel tempo. Per “cose” si intendono non le
scarpe, i sassi, i pesci, ma i processi, e cioè i processi di sviluppo
dei fenomeni naturali e sociali. Per quanto riguarda i fenomeni naturali
l’applicazione principale della dialettica è la teoria dell’evoluzione,
non solo per quanto riguarda le scienze della vita, ma anche la
geologia e l’astrofisica. Per quanto riguarda i fenomeni sociali, la
dialettica deve tenere conto di un elemento inesistente nei fenomeni
naturali, e cioè la volontà umana, che progetta e modifica il mondo che
si trova davanti “dato”. In filosofia, questo fenomeno si chiama
“prassi”, e non se lo sono certamente inventati Marx e i marxisti (ma
andiamo!), ma il termine c’era già presso gli antichi greci
(particolarmente in Aristotele) e presso i grandi idealisti tedeschi di
inizio ottocento (particolarmente in Fichte).
Quindi, la dialettica parla del cambiamento e del mutamento. Ma ci
sono due tipi diversi di cambiamento. Un primo tipo di cambiamento è
quello che deriva da un’azione esterna di un soggetto su di un oggetto
rimasto passivo (per esempio, il modellare una pietra con uno
scalpello). Il secondo tipo di cambiamento è quello che deriva da un
cambiamento interno alla cosa stessa (per esempio, l’invecchiamento, che
avviene contro la nostra volontà).
La dialettica è la comprensione dei cambiamenti interni di un
processo, comprensione applicata ai processi storici e politici. La
politica, in prima approssimazione, è soltanto lo strato superficiale
della storia. Se si parte dalla politica per capire la storia, non la si
capirà mai. Se invece si parte dalla storia per capire la politica, non
è detto che la si capisca sicuramente, ma almeno ci si può provare.
La dialettica, appunto perché pericolosa per i gruppi storicamente
dominanti, è diffamata in particolare nelle facoltà universitarie di
filosofia, che sono in generale costosi apparati ideologici delle stesse
classi dominanti, e devono far diventare complicate le cose semplici,
in modo che l’intelletto comune non le capisca (come fa, del resto, la
facoltà universitaria di economia).
Non vi è qui lo spazio, e neppure la necessità, per enumerare in
dettaglio tutte le numerosissime varianti della diffamazione della
dialettica. Ricordo qui solo sommariamente le tre principali (ma ce ne
sono molte altre):
(1) La dialettica è uno strumento dei filosofi, ma la filosofia non è
una conoscenza affidabile del reale. Soltanto la scienza lo è, e la
scienza non utilizza la dialettica, ma soltanto la logica comune,
applicata alla matematica e all’esperimento controllato. In tremila anni
i filosofi non sono mai riusciti a mettersi d’accordo con le loro
chiacchiere interminabili ed indimostrabili, mentre la scienza invece ha
precisi protocolli di verificazione e di falsificabilità delle ipotesi
eventualmente errate.
A questa obiezione si può rispondere che, anche ammesso che la
scienza non utilizzi mai il metodo dialettico (ma insigni scienziati
sostengono che invece lo usa), questo riguarda solo l’oggetto delle
scienze della natura (astronomia, fisica, chimica, biologia, genetica,
geologia, eccetera), mentre nella storia sociale umana interviene la
soggettività progettuali individuale e collettiva, che retroagisce
dialetticamente con altri progetti opposti e/o convergenti.
(2) La dialettica è uno strumento sofistico per giustificare tutto
ciò che avviene, ed in questo modo si può sempre giustificare e spiegare
tutto, compreso il male e la malvagità umana, da Auschwitz a Hiroshima,
da Stalin a Hitler. Se infatti alla storia viene attribuita una
inesorabile necessità storica, allora diventa possibile giustificare
tutto come prodotto di una necessità storica quasi “naturale”.
A questa obiezione si può rispondere che questo sarebbe vero se la
storia fosse una branca delle scienze naturali caratterizzate dalla
categoria modale delle necessità (tipo caduta dei gravi in fisica) ma
questo non è. La dialettica non intende affatto giustificare tutto, al
contrario. La dialettica aiuta semplicemente a capire il perché un certo
processo, partito con certe intenzioni, si è rovesciato alla fine nel
suo esatto contrario. Il grande filosofo italiano Vico ha parlato in
proposito di “eterogenesi dei fini”, ma anche chi non conosce la storia
della filosofia ha sperimentato il fatto quotidiano che spesso ci si
ripropone una cosa o un progetto, e si ottiene l’esatto contrario, che
non avremmo mai voluto.
(3) La dialettica è una forma di religione per intellettuali, che si
inventano un mondo “alienato” a testa in giù da raddrizzare, laddove il
mondo reale non è affatto a testa in giù, e quindi non deve essere
affatto raddrizzata, ma va preso così com’è nel migliore modo possibile.
In particolare la dialettica marxista, presupponendo che il capitalismo
è un mondo alienato da raddrizzare, immagina che ci sia stato un tempo,
all’origine della storia, un mondo diritto, normale, che si tratta di
restaurare. Si tratta della trascrizione in linguaggio filosofico
sofisticato nella concezione religiosa monoteistica per cui c’è stato
all’origine un Paradiso Terrestre, perduto a causa di un Peccato
Originale punito da Dio.
A questa obiezione si può rispondere che la dialettica non si occupa
di una pretesa ed inesistente restaurazione di una Origine nel frattempo
perduta ad opera di un Soggetto demiurgico, che non sarebbe altro che
la manifestazione storico-sociale del Corpo di Cristo, in vista di un
Fine Ultimo della Storia già prefissato (il comunismo, appunto, ma
sarebbe un comunismo per imbecilli), ma di un’analisi degli sviluppi
storici da un punto di vista interno al processo stesso, e non invece
esterno.
Il discorso sarebbe appena cominciato, ma possiamo per ora terminarlo
qui, in quanto verrà “applicato” a due fenomeni, trattati
separatamente, ma in realtà dialetticamente interconnessi, la dialettica
del capitalismo, caratterizzata dalla illimitatezza, e la dialettica
del comunismo, caratterizzata dalla corruzione. Parlo ovviamente del
capitalismo realmente esistente, e non di quella rappresentazione
utopica di esso caratterizzata dalle presunte armonie del mercato e
dalla “mano invisibile” del mercato stesso, e del comunismo realmente
esistito, e non di quella rappresentazione idealizzata presa da Marx.
Impossibile scrivere queste cose senza irritare qualcuno. Ma se il
filosofo si spaventasse per l’eventualità dell’irritazione e del gossip
diffamatorio, tanto varrebbe smettere di filosofare ed aprire una
baracchetta di pop-corn.
2. Il capitalismo: la dialettica dell’illimitatezza.
Prima di essere una società dominata dalla riproduzione di vincoli
economici ben precisi, il capitalismo è un processo storico sociale
caratterizzato da una specifica dialettica. Si tratta della dialettica
della illimitatezza, caratterizzata dalla impossibilità di rispettare un
limite definito in via religiosa, filosofica e politica. Qui diamo per
scontata nel lettore la conoscenza storica della prima globalizzazione
capitalistica mondiale (studiata da Wallerstein) fra il Quattrocento ed
il Seicento, della periodizzazione economica del capitalismo (studiata
da Giovanni Arrighi), della seconda globalizzazione imperialista di fine
Ottocento, e dell’attuale terza globalizzazione capitalista (studiata
in particolare da David Harvey). Mi limiterò invece volutamente al solo
aspetto filosofico-dialettico del problema.
La dialettica della illimitatezza fu già studiata in modo mirabile (e
di fatto filosoficamente completo) dagli antichi greci, che ovviamente
non potevano applicarla ad uno ancora inesistente capitalismo, ma la
applicavano all’accumulazione illimitata di ricchezze monetarie e di
potere politico tirannico e dispotico che minacciava la riproduzione
comunitaria della polis. Il lettore non cerchi di capirci qualcosa con i
consueti manuali di storia della filosofia, costruiti sulla base della
destoricizzazione e della desocializzazione. Sembra che ad un certo
punto alcuni precursori delle facoltà scientifiche abbiano cominciato a
dire che il mondo nasce dall’acqua o dell’aria, che c’è il vuoto oppure
non c’è, che il mondo è stato fatto a caso (dei veri precursori di
Odifreddi!), oppure che è stato fatto da una mente superiore (dei veri
precursori di Ratzinger!). Eccetera, in un’orgia di stupidità.
Sciocchezze. I primi filosofi erano prima di tutto legislatori
comunitari, che per rendersi autorevoli e credibili presso i loro
concittadini in termini di proposte legislative comunitarie (nomoi),
rette da un calcolo sociale della buona distribuzione dei beni (logos),
che per andare incontro alla giustizia (dike) dovevano prima di tutto
applicare la giusta misura (metron), dovevano apparire come conoscitori
della natura (physis), visto che per i greci non esisteva nessun patto
con Dio, e quindi non ci potevano essere profeti e Messia, non importa
se barbuti o rasati, umani o divini.
Partendo dalla natura, appariva chiaro che mentre il limite è un
principio di ordine (taxis), l’illimitato (apeiron) è invece un
principio distruttore ed incontrollabile, e così come lo è in natura,
così lo è anche nella società (e cioè il potere illimitato delle
ricchezze). Non crediate di poter trovare queste cose nei manuali di
filosofia. Li ho adoperati io stesso per 35 anni, ed è come se Galileo
fosse stato costretto a servirsi di un manuale geocentrico e Darwin di
un manuale fissista. Ma cosa non si fa per la pensione!
Pitagora fu il primo a sistematizzare numericamente il principio per
cui il limite è migliore dell’illimitato. Platone non ne fu che un
allievo ateniese passato per il dialogo socratico. Parmenide fu il primo
che con il termine (solo apparentemente astratto, ed è in realtà
concreto) di Essere intese indicare la metafora del mantenimento
permanente “eterno” di una buona legislazione politica pitagorica capace
di impedire l’irruzione distruttiva della ricchezza (metaforizzata
correttamente con il termine di Nulla, che i manuali liceali ed
universitari scambiano per il vuoto pneumatico). E potremo continuare.
Ma ciò che conta è capire che il grande pensiero filosofico greco, di
fronte ai processi di corruzione e di dissolvimento portati dalla
ricchezza monetaria e dalla schiavitù per debiti (esattamente lo stesso
problema cui siamo oggi di fronte, una nuova versione capitalistica
della schiavitù per debiti), aveva già dialetticamente capito che senza
un limite, posto dalla volontà umana ispirata dalla misura, non c’era
modo di fermare e di opporsi (katechon) allo scatenamento delle potenze
distruttive dell’illimitato.
Facciamola corta sulla storia dal Trecento avanti Cristo al Mille e
Settecento dopo Cristo. Dal momento però che in mezzo c’è il
cristianesimo, che è un fenomeno storico grande come l’Himalaya, non
posso “saltare” del tutto il suo “risvolto” filosofico. Per i cristiani
l’unico illimitato ed infinito è Dio, mentre gli uomini per loro stessa
natura sono “finiti”. Ma la gestione simbolica di questa finitezza è
delegata ad un potere particolare, le chiese cristiane (prescindo qui
dalle loro divisioni sanguinose), che commisura questa finitezza ai
rapporti politici di classe che di volta in volta difende, prima
schiavistici, poi feudali, poi signorili, poi assolutisti ed infine
capitalistici. Dio è presupposto “neutrale” rispetto all’economia, ma
guarda caso è quasi sempre a fianco dei dominanti. Dio però è
simbolicamente anche un limite all’illimitata prepotenza dei dominanti
stessi, che infatti a fianco non hanno economisti, ma confessori. Non si
tratta di pura ipocrisia, anche se l’aspetto ipocrita è
provocatoriamente dominante, ed ha sempre nutrito tutti i facili
anticlericalismi “laici” successivi. Il fatto però di credere in Dio era
di per sé un limite, sia pure spesso fragile, alle tendenze alla
illimitatezza del denaro e del potere.
Il capitalismo non può nascere, soprattutto filosoficamente, sulla
base di una limitazione esterna all’economia stessa. Esso nasce quindi
come filosoficamente illimitato in via di principio. L’accumulazione del
capitale deve pensarsi come teoricamente illimitata, sia pure in
presenza dei limiti ecologici della natura e dei limiti dovuti alla
moralità umana. Bisogna quindi prestare attenzione alla nascita
filosofica del nuovo tipo di limitatezza del capitalismo.
Intorno al Settecento circa (risparmio qui le pur interessanti
promesse del rapporto fra capitalismo e calvinismo, a mio avviso
largamente sopravvalutate) i tre “limiti” teorici al dominio
incontrollato dell’economia erano nell’ordine un limite religioso (Dio),
un limite filosofico (il diritto naturale, o giusnaturalismo) ed un
limite politico (il contratto sociale, o contrattualismo). Perché
l’economia politica potesse autofondarsi su se stessi integralmente,
senza alcun bisogno di fondazione esterna che la limitasse, bisognava
disfarsi dell’ordine di Dio, del diritto naturale e del contratto
sociale. Chi compì questa notevole impresa fu una coppia di scozzesi,
David Hume ed Adam Smith. In questa sede, non posso scendere nei
particolari, e devo accontentarmi del cuore del problema.
Ripeto: il cuore del problema è l’autofondazione dell’economia
politica su se stessa, senza dipendenze (e cioè senza “limiti”) da parte
di fattori esterni all’economia stessa, come Dio (religione), diritto
naturale (filosofia) o contratto sociale (politica). Perché l’economia
possa avere un potere simbolico assoluto, non deve essere limitata da
niente di “esterno”, ed apparire come completamente autosufficiente e
sovrana su se stessa. Si tratta di un totalitarismo concettuale che
persino le religioni non hanno mai osato sostenere in questa forma (Dio è
infatti sempre un “limite” per i comportamenti umani). Qui lascio
perdere i nomi, e giungo al nocciolo del ragionamento.
L’economia è sovrana, perché si basa sulla natura umana, che viene
vista come portatrice di una tendenza spontanea e di un’abitudine innata
allo scambio fra le attese del venditore e quelle del compratore.
Questo meccanismo spontaneo non ha bisogno di nessuna fondazione
esterna, che sia Dio, il diritto naturale o il contratto sociale.
Seguiamo il ragionamento. Per quanto riguarda Dio, l’economia politica è
scettica, e non atea o materialistica. Non c’è nessun bisogno di
affermare che Dio non esiste, e che i preti sono sciamani e stregoni che
approfittano delle superstizioni degli ignoranti. Questo gli economisti
lo lasciano ai laicisti fanatici, ed alla loro versione plebea e
stracciona posteriore, i comunisti atei che al posto di Dio mettono un
altro Dio ancora più inesistente, la Storia intesa come fatalità
irreversibile del progresso. Basta dire che Dio non può interferire
nelle armonie economiche, e deve accontentarsi al massimo del regno
della morale individuale, particolarmente sessuale. E’ veramente il
massimo dell’idolatria pensare che Dio, con tutte le cose che
presumibilmente ha da fare, debba occuparsi prioritariamente ed
esclusivamente di scopate extra-matrimoniali (il cui aspetto etico di
rilevanza non puramente e esclusivamente “privata” non mi sogno comunque
di negare). In ogni caso, ciò che conta è che Dio non ficchi il suo
naso ultraterreno nei meccanismi economici.
Per quanto riguarda la filosofia (a quei tempi il diritto naturale, e
poi successivamente il sistema idealistico tedesco, la teoria
dell’alienazione di Marx, il delirio superomistico di Nietzsche, il
pessimismo di Heidegger, fino al disincanto pessimistico di Adorno,
Lyotard, Sloterdijk, eccetera), è noto che essa non può dimostrare
empiricamente niente di quanto afferma, e quindi è meglio che non rompa
le scatole su cose serie come l’economia. Hume consiglia addirittura di
bruciare tutti i libri di filosofia che pretendano di parlare della
“verità”, ed in effetti se la sola verità è il PIL ed il giudizio dei
mercati, a che serve parlare dell’Essere, che è del tutto
indimostrabile? In quanto al contratto sociale, Hume ritiene che molti
credono che esso sia “causato” dal diritto naturale, “causi” la società
umana e ne sia una interpretazione (di “destra”, Hobbes, di “centro”,
Locke, o di “sinistra”, Rousseau), ma la causalità non esiste neppure,
ed in ogni caso non si può fondare la società economica sulla base di
una premessa indimostrabile ed inesistente, come la filosofia (la
filosofia?Ha-ah-ah!). Come se questo non bastasse, non si può neppure
postulare una soggettività stabile preliminare, in quanto ciò che viene
chiamato “soggetto” non è che un flusso mutevole di sensazioni e di
impressioni (Nietzsche, su questa base, sostenne un secolo dopo che il
soggetto non era che un flusso energetico di volontà di potenza, e solo
un baffuto allucinato poteva pensare di essere così anche
anti-borghese!).
Il lettore respiri profondamente. In questo modo, il capitalismo è
fondato su di una illimitatezza potenziale assoluta, perché non esistono
“limiti” esterni, come la religione, la filosofia e la politica.
L’attuale e fatale “giudizio dei mercati”, cui si sono sottomessi i
vari “comunisti” (ad eccezione di piccoli gruppi marginali di credenti
fondamentalisti), non è che uno sviluppo dialettico di questa premessa
autofondata.
Il capitalismo non è quindi per nulla “conservatore”, come lo ha
creduto per un secolo l’emulsione intellettuale più stupida del sistema
solare, e cioè la cultura di sinistra. Al contrario, esso è una forza
rivoluzionaria, che definirò però un rivoluzionarismo nichilista. È bene
comprendere questa connotazione, perché essa delimita concettualmente i
confini teorici della sua comprensione. Esso è rivoluzionario, come
aveva già capito Marx, perché è rivoluzione e distrugge tutti i sistemi
ideologici, economici, politici e sociali precedenti, in quanto non si
ferma davanti a niente, non importa se sia un residuo feudale,
proletario o borghese (l’errore più stupido della tradizione di sinistra
è sempre stato quello di identificare la borghesia con il capitalismo, e
cioè una soggettività storica collettiva con un processo anonimo
riproduttivo impersonale), in quanto la sua sola finalità è
l’allargamento “infinito” ed indeterminato (apeiron) della forma di
merce a tutti gli ambiti possibili di vita individuale o associata e
comunitaria. Esso è nichilista, perché il semplice allargamento
illimitato della forma di merce è esattamente ciò che nella filosofia
greca, a partire da Parmenide, era connotato come il Nulla. I
capitalisti, infatti, oggi non sono più neppure “borghesi”, anche se un
tempo lo erano. Oggi sono solo delle “maschere di carattere” (Marx), dei
ruoli sociali, degli agenti strategici della riproduzione
capitalistica, meccanismo anonimo ed impersonale che nella filosofia
contemporanea ha già avuto molti nomi (gabbia d’acciaio in Weber,
dispositivo tecnico in Heidegger, eccetera). Lo studioso italiano che lo
ha capito meglio (e per questo è stato silenziato dalla “sinistra”
politicamente corretta) è stato Gianfranco La Grassa, e conviene
leggerlo, se si riesce a superare il senso di ripugnanza delle sue
espettorazioni contro la filosofia e l’umanesimo, residuo di depositi
ideologici estremistici degli anni Sessanta del Novecento.
Attualmente siamo in preda alla dinamica dell’illimitatezza. I vari
Lagarde, Monti, eccetera, non sono che fantocci, maschere di carattere.
La dialettica permette di capire bene questo processo. Ci vuole,
ovviamente, un “limite”, ma soffriamo di questa mancanza. Non mi
raccontino che sono “limiti” i grotteschi movimenti impotenti,
testimoniali e filosoficamente analfabeti (pacifismo, altermondialismo,
indignati, eccetera). Costoro non potrebbero limitare neppure il bollire
dell’acqua per il caffè. Lo stesso si può dire dei movimenti sindacali,
la cui impotenza si manifesta plasticamente nei tamburi e nei
fischietti dei loro riti deambulatori. Il movimento del comunismo
storico novecentesco (1917-1991), oggi defunto da almeno un ventennio
come fattore storico mondiale, è invece stato un limite vero (katechon),
sia pure debolissimo. Non parlo ovviamente dei ciarlatani snob dei
salotti di sinistra, ma proprio degli Stati comunisti ad economia
pianificata ed a estensione geopolitica.
Ma questi sono finiti. Per tradimento? Ma non diciamo sciocchezze!
Sono finiti per una dialettica interna, che cercherò sommariamente di
descrivere adesso.
3. Il comunismo: la dialettica della corruzione.
Esiste un modo consueto per esorcizzare il problema della corruzione
interna dialettica del comunismo, e cioè la distinzione tra “veri
comunisti”, quelli soggettivamente rimasti tali, (fra i quali, se
vogliamo usare questo termine trogloditico, ci sono anch’io) e “falsi
comunisti”, o ex-comunisti (tipo Gorbaciov, Eltsin, D’Alema, Veltroni,
Napolitano, eccetera). In questo modo, il problema della corruzione
irreversibile del comunismo come fenomeno storico viene continuamente
rinviato, per non scandalizzare gli ultimi babbioni credenti, che devono
essere continuamente rassicurati con la teoria del tradimento
soggettivo dei traditori (equivalente ateo della teoria del peccato e
della debolezza della carne per i credenti). Io invece sceglierò
un’altra strada. Da un punto di vista strettamente filosofico, io sono
sempre “comunista”, e lo sono anzi molto più che in gioventù, perché ora
il mio comunismo è “purificato”, e non è mescolato con le stupidaggini
di “sinistra” con cui l’avevo nutrito per decenni. Ma qui intendo
muovermi su di un piano strettamente dialettico, che riguarda soltanto
la dinamica processuale del comunismo “concreto”, quello storico,
lasciando perdere per ora le grandi idealità filosofiche, di cui sono
soggettivamente un cultore (ricordo che la mia interpretazione di Marx
ne fa un umanista ed un idealista).
Il comunismo moderno che conosciamo, in particolare nella variante di
Marx e del marxismo, non trova assolutamente la sua origine in un
movimento spontaneo delle classi popolari. Chi cerca questo movimento
spontaneo può trovarlo piuttosto nel sindacalismo inglese e nel
federalismo francese (Proudhon, Sorel, eccetera). Il comunismo moderno
(prescindo qui dalla trasformazione della teoria del valore-lavoro di
Smith fatta da Marx) ha invece avuto due matrici genetiche, entrambe
borghesi al cento per cento ed al mille per mille: l’elaborazione della
teoria hegeliana della coscienza infelice della borghesia ed il mito
borghese del progresso. Le esamino separatamente, ma sia ben chiaro che
si tratta di un’operazione scolastica, perché sono in realtà unite.
La borghesia, intesa come classe generale, e non solo come portatrice
anonima ed impersonale dei rapporti capitalistici di produzione,
distribuzione e consumo, è una classe contraddittoria, e quindi
dialettica. Da un lato, pensa se stessa ideologicamente come classe
universale, portatrice di benessere, ricchezza e progresso per tutti, e
dall’altro è consapevole di essere una classe sfruttatrice, che estorce
un pluslavoro da altri, e questo indipendentemente dal modo in cui lo
giustifica a se stessa ed ai suoi dominati. Questo spazio dialettico
contraddittorio lo chiamo “coscienza infelice” della borghesia, e mi
permetto di utilizzare senza il loro consenso le grandi anime di Hegel e
di Marx. In particolare il comunismo di Marx non ha assolutamente
nessun rapporto con le visioni spontanee del mondo delle classi popolari
del tempo, ma deriva linearmente da una geniale coniugazione dialettica
della teoria smithiana e poi ricardiana del valore e della teoria
hegeliana dell’alienazione. Tutti i discorsi sull’origine popolare e
proletaria del marxismo, ivi compreso quello originario di Marx, sono
aggiustamenti ideologici posteriori e mitologie di giustificazione e di
legittimazione.
Questo è particolarmente chiaro se si riflette sulla bovina ed
animalesca adesione del marxismo alla ideologia borghese del progresso,
assolutamente inesistente presso gli antichi greci, che erano riusciti a
pensare la giustizia, l’eguaglianza, la democrazia e la solidarietà
senza bisogno di questo grottesco e mitologico succedaneo. È vero che
anche alcuni “marxisti” (faccio qui solo i nomi del francese Georges
Sorel e del tedesco Walter Benjamin) stroncarono queste infondata
credenza, ma il grande corpaccione della sinistra, luogo storico di
coltivazione secolare del marxismo, si definì sempre come
“progressista”, in antinomia ed opposizione con il capitalismo,
tendenzialmente connotato come “conservatore e reazionario”. Il mondo
alla rovescia. In realtà il cosiddetto “progresso”, chiamato anche
“modernizzazione”, era sempre e soltanto l’approfondimento sociologico
ed ideologico dell’estensione della forma di merce “liberalizzata” (a
partire dal cosiddetto “costume liberalizzato” dell’individualismo
estremo), per cui la cultura di sinistra negli ultimi decenni, almeno
dopo il mitico, mefitico e demenziale Sessantotto, fu sempre l’ala
marciante della modernizzazione capitalistica, essenzialmente
post-borghese, e non certo soltanto post-proletaria.
L’ideologia del progresso si basava su di una concezione
sostanzialmente lineare della storia, vista come uno spazio simbolico in
cui si è Avanti, e non si può andare Indietro. Naturalmente la storia
reale non ha nulla a che fare con quest’immagine da asilo infantile.
Un’automobile sull’autostrada può andare avanti o indietro, ma il tempo
storico non è né ciclico né lineare, non gira in circolo con un “eterno
ritorno”, ma neppure va avanti. Se invece si adotta questa stupida
religione della storia, più falsa ed assurda del paradiso dei testimoni
di Geova, in cui tigri e leoni giocano con i bambini nel giardino di
famiglie americane rigorosamente monorazziali (Geova infatti pratica
l’apartheid, mentre il Dio cattolico ed ortodosso ha accettato, sebbene
da poco ed a malincuore, persino i matrimoni misti-quelli gay invece no,
o almeno non ancora, anche se il politicamente corretto preme
istericamente), la storia diventa il teatro dei vincitori, per cui i
perdenti (in questo caso i comunisti) devono immediatamente sostituire
le loro divinità perdenti con altre vincenti, e cioè nella fattispecie
la Dittatura del Proletariato con il Fondo Monetario Internazionale,
l’Eurocomunismo con la Banca centrale europea, Gramsci con Draghi e
Monti, eccetera.
Vorrei insistere che qui non abbiamo a che fare con il tradimento, o
almeno non solo con il tradimento. Si tratta di dialettica, della severa
ed implacabile dialettica di una teoria che ha come fondamento il
Nulla, anche se è un nulla diverso (ma convergente) con il Nulla della
Merce. Il solo progresso che esiste, infatti, è il Progresso della
Merce. Questo spiega molto dell’adattamento dei comunisti a questo
processo capitalistico.
Naturalmente, abbiamo anche a che fare con le vecchie “tentazioni”
del moralismo classico (piacere, ricchezza, potere, onori). Non intendo
affatto negarlo. Ma la spiegazione non può essere così banale. Al di là
di alcuni “asceti della rivoluzione”, statisticamente minoritari, la
maggioranza dei “comunisti” da me conosciuti in mezzo secolo è composta
di presuntuosi e cinici opportunisti senza Dio, che regnavano su
babbioni del tutto privi di spirito critico (i trinariciuti di
Giovannino Guareschi, buonanima). Ma non voglio perdermi in particolari
grotteschi di costume. Meglio tornare al severo processo della
dialettica corruttiva.
Ho fatto notare come l’abbattimento di Dio, sostituito da un connubio
di Scienza e di Storia, dà luogo ad un esito nichilistico integrale.
Per quanto concerne la Scienza, essa è effettivamente un’ideazione
conoscitiva e pratica di enorme valore, motore di un “progresso”
tecnologico che sarebbe sciocco negare e sottovalutare (e che
personalmente non nego e non sottovaluto assolutamente), ma questo vale
soltanto, ed è già molto, per la conoscenza della natura e per le
applicazioni tecniche e mediche, ma nessuna “mentalità scientifica”
arriverà mai a distinguere il Bene dal Male (scritti maiuscoli,
ovviamente). In quanto alla storia, la sua divinizzazione finisce con il
perdere tutte le conquiste etiche della vecchia religione, che magari
postulava una divinità trascendente antropomorfizzata non esistente, ma
conteneva giganteschi tesori espressivi non solo artistici, ma anche
storici, morali e politici.
E tuttavia, Marx pensava a se stesso non come un filosofo
(erroneamente, pensava di aver abbandonato il terreno della filosofia
fino dal 1845, all’età di ventesette anni!), ma come uno scienziato
sociale previsionale. Le due tesi fondamentali su cui aveva costruito la
sua idea di comunismo erano entrambe errate. Niente di grave, la
scienza procede per prove ed errori, e nessuno è perfetto. Ma le due
ipotesi di Marx erano entrambe non solo un po’ sbagliate, ma molto
sbagliate. Si trattava dell’errata convinzione della presunta incapacità
della borghesia capitalistica di sviluppare le forze produttive, in
primo luogo, e dell’errato convincimento sulla capacità rivoluzionaria
della classe operaia, salariata e proletaria, in secondo luogo. E
trattiamole separatamente.
Come è venuto in mente a Marx che da un certo punto in poi la classe
borghese-capitalistica (da Marx non distinta nei suoi due elementi) si
sarebbe rivelata incapace di continuare a sviluppare le forze
produttive? Non lo so, ma posso ipotizzare che si sia trattato di
un’errata analogia storica. Le analogie storiche sono ancora più
ingannatrici dei miraggi del deserto. Dal momento che le classe dei
padroni schiavistici, dei signori feudali e dei dominanti asiatici si
erano effettivamente mostrate ad un certo punto dello sviluppo economico
incapaci di sviluppare le forze produttive, Marx ne inferì (tipico caso
di induzione) che lo stesso sarebbe successo anche per la borghesia
capitalistica. Previsione errata. La borghesia capitalistica non è una
classe come le precedenti, ma un agente storico anonimo della produzione
per la produzione, e cioè per la produzione illimitata. E pensare che
in altre parti della sua opera Marx sembra accorgersene. Se ne accorge,
ma poi non ne tira le conseguenze.
In quanto alla capacità rivoluzionaria inter-mortale della classe
operaia, salariata e proletaria, va detto che in realtà Marx non ha mai
parlato di essa, ma della formazione di un lavoratore collettivo
cooperativo associato, dal direttore all’ultimo manovale. Ma all’atto
pratico l’intero “marxismo” veramente esistito di fatto ha ignorato
questa tesi marxiana (nascosta nel Capitolo VI del Capitale, e non a
caso “inedito”), e per soggetto rivoluzionario ha sempre inteso la
classe degli operai salariati di fabbrica. Ora, chi li ha conosciuti (ed
abitando a Torino non si poteva non conoscerli!) sa che la classe
operaia senza mediazione dei partiti, sindacati ed apparati tecnici non
potrebbe gestire neppure una bocciofila o una società di pesca con la
lenza, e questo non a caso. Mentre infatti gli artigiani ed i contadini
sono padroni delle tecniche produttive autonome della loro professione,
gli operai lavorano sulla base di un processo produttivo a loro
completamente estraneo e di cui non posseggano le “chiavi” per la
autogestione autonoma (salvo irrilevanti eccezioni).
Ora, è terribile fondare la propria causa sulla base di tre
presupposti tutti e tre inesistenti: (1) il mito del progresso, che non
esiste; (2) l’incapacità della borghesia capitalistica di sviluppare le
forze produttive, che non esiste; (3) la capacità rivoluzionarie della
classe operaia, salariata e proletaria, che non esiste.
Le ragioni della dialettica corruttiva del comunismo sono queste, e
non certo Gorbaciov che ambisce a pubblicizzare le borse Vuitton e la
pizza Hunt o D’Alema che vuole pavoneggiarsi su di una barca a vela,
come ogni buon capitalista o primario d’ospedale qualsiasi. Questo è
solo folklore per straccioni. Ma il tema deve ancora essere
approfondito, per poter avere della “corruzione” una comprensione
dialettica, e non solo l’illusione moralistica per subalterni
irrecuperabili.
Ricordo ancora una volta (ma non devo stancarmi, perché vado
controcorrente contro il senso comune, e pretendo una “conversione”
radicale qualitativa della mentalità corrente, che è antropomorfica ed
antropomorfizzata) che uso il termine “corruzione” nel senso dialettico
di un processo interno a una dinamica storica. Dicendo che il comunismo
si è corrotto dall’interno intendo connotare un processo storico, non
certo diffamare l’idea marxiana di comunismo (io stesso, a sessantotto
anni di età, mi dichiaro “comunista”, ed è improbabile che cambi
connotazione nel tempo che ancora mi resta da vivere). Questa dialettica
di corruzione si è storicamente intrecciata con la dialettica di
illimitatezza del processo di allargamento del capitalismo. Possiamo
così definire il senso filosofico intimo e profondo dell’ultimo
trentennio di storia dell’umanità: per ora l’illimitatezza è uscita
vincitrice della corruzione.
E adesso?
4. Conclusioni aperte provvisorie. Dal mondo delle illusioni al mondo della comprensione.
Le illusioni sono state socialmente necessaria nella storia,
dall’illusione dell’avvento prossimo del regno di Dio (Paolo di Tarso)
all’illusione della vittoria sicura del socialismo sul capitalismo
(Lenin). Occorre capirlo, e non solo fare sorrisini di disincanto. Ma il
tempo della coltivazione delle illusioni mi sembra ormai passato
irreversibilmente. D’ora in avanti bisogna sostituire alla dialettica
delle illusioni la dialettica della comprensione.
Presa nel suo insieme, al di là di alcuni rari punti alti, l’eredità
che ci lascia un secolo e mezzo di marxismo è ormai obsoleta. Non si
passa dall’idealismo, sia pure radicalmente modificato da Marx, al
positivismo di Engels senza doverne pagare il prezzo. C’è chi crede che
l’attuale tendenza al capitalismo globalizzato, anziché essere un
momento del suo sviluppo illimitato, sia stata soltanto una “risposta”
al ciclo delle lotte rivendicative per la distribuzione della classe
operaia fordista negli anni Sessanta del Novecento. C’è chi continua a
pensare che le crisi capitalistiche siano soltanto dovute alla caduta
tendenziale del saggio di profitto, oppure a squilibri fra
sovrapproduzione e sottoconsumo. Questi aspetti sono certamente presenti
e rilevanti, ma sono aspetti di superficie, perché la “profondità” non è
questa, ma la tendenza alla illimitatezza dell’estensione della forma
di merce.
La comprensione parte a mio avviso dai due punti discussi in
precedenza, la piena assimilazione concettuale delle due dinamiche
dialettiche della illimitatezza del capitale e della corruzione del
comunismo (inteso ovviamente non come idea comunista, nella quale mi
riconosco pienamente, ma come comunismo storico novecentesco realmente
esistito). Una volta assimilati questi due punti, non si è ancora
risolto assolutamente nulla, ma almeno la strada è sgomberata dai
detriti, ed un veicolo può passarci senza restare incagliato o
impantanato.
La comprensione dialettica dell’oggetto e dell’oggettività (in questo
caso la dialettica capitalistica dell’illimitatezza), è ciò che si
chiama l’oggetto scientifico (in tedesco Objekt). Ma per trasformare
questo “oggetto” in materiale di trasformazione attraverso una prassi
storica adeguata (in tedesco Gegenstand, termine usato anche dal giovane
Marx, il concetto che i sostenitori del carattere unicamente
“scientifico” del marxismo non capiranno mai, non più di quanto le
cartomanti possano capire la metafisica) ci vuole un modo radicalmente
diverso di concepire la soggettività, il soggetto ed i soggetti
potenzialmente rivoluzionari, e soprattutto che cosa significa oggi
“cultura critica al capitalismo”.
La situazione attuale è rovinosa. Per motivi storici che ho già
ampiamente avuto modo di analizzare, oggi si crede che la cultura
anticapitalistica sia in definitiva la “cultura di sinistra”
sedimentatasi nell’ultimo cinquantennio nei paesi occidentali, laddove
questa cultura (tolte alcune eccezioni, che confermano la regola) è
proprio il risultato dialettico della individualizzazione
modernizzatrice della tendenza illimitata del moderno capitalismo
post-borghese. La situazione, quindi, è per ora ancora peggiore di
quanto possano sospettare le correnti più pessimistiche, perché senza
potersi socialmente e collettivamente sbarazzarci di questa cultura, o
almeno dei suoi aspetti dominanti, non si può neppure cominciare a porre
il problema.
Ma questo non comporta in me un pessimismo radicale. L’umanità
sopravvive sempre agli idioti che ne vogliono monopolizzare
l’interpretazione. Peccato, però, non esserci più quando questo avverrà.
Costanzo Preve,
Torino novembre 2011
http://www.comunismoecomunita.org/?p=2941