Finalmente! L’atteso ritorno
del nemico principale.
Considerazioni politiche e
filosofiche
di Costanzo Preve
1. Introduzione. Sul nemico principale. Commento di una
recente formulazione di Alain de
Benoist
2. Le mort saisit le vif (Marx).
Il peso inerziale ormai
insopportabile della storia
tricentenaria del profilo
della filosofia politica moderna e della sua variante subalterna
postmoderna
3.Il primato dello struzzo. Lo struzzo come animale
totemico-tribale del passaggio dal
realismo storico-politico al
moralismo ostensivo testimoniale
4. L’imbecillità socialmente organizzata. Per una nuova
teoria degli intellettuali e delle
strutture ideologiche
5. Il nemico principale in economia: il capitalismo e la
società di mercato
6. Il nemico principale in politica: il liberalismo
7. Il nemico principale in filosofia: l’individualismo
8. Il nemico principale nella società: la borghesia
9. Il nemico principale in geopolitica: gli Stati Uniti
d’America
10.Conclusione. Verso un radicale riorientamento
gestaltico nella visione complessiva del
mondo storico e politico
2. Le mort saisit le vif (Marx). Il peso inerziale ormai
insopportabile della storia tricentenaria
del profilo della filosofia
politica moderna e della sua variante subalterna postmoderna
Karl Marx scriveva in
generale in tedesco, ma conosceva bene anche l’inglese e il francese, ed
ogni tanto trovava qualche
felice espressione in queste due lingue. Ad un certo punto esce
nell’espressione francese le mort saisit le vif, che potremmo tradurre,
ampliandola, come «il
morto afferra il vivo e lo fa
prigioniero». Ed il vivo, afferrato dal morto, diventa prigioniero di
come il morto interpreta la
realtà, delle sue categorie culturali, politiche, sociali, economiche,
eccetera. Si tratta
ovviamente non di un morto normale, ricordato, venerato e seppellito, ma di un
vero e proprio zombie del vodoo haitiano, un morto che di
notte lascia il cimitero e percorre le
strade.
Bene, l’attuale situazione
della filosofia politica europea dominante negli ambienti intellettuali,
incorporata nella
megamacchina della imbecillità socialmente organizzata, è esattamente quella
descritta da Marx: le mort saisit le vif. Il fatto è del tutto
intuitivo, e non avrebbe bisogno
neppure di dimostrazione (i
politologi parlano di post-democrazia, dal momento che è del tutto
evidente che la decisione
politica pubblica è stata ridotta ad una totale impotenza dal sovrastare
della riproduzione economica
totalmente autonomizzata). E tuttavia, sia pure in forma sintetica,
ne fornirò qui una breve esposizione
per i (pochissimi) lettori interessati a ripercorre la genesi e lo
sviluppo delle
categorie del pensiero politico moderno. In proposito, due precisazioni preliminari.
In primo luogo, il termine
“moderno” non è che la versione generico-neutrale-universitaria
dell’oggetto storico che Marx
in modo più adeguato connota come «modo di produzione
capitalistico». Certo, la
cosiddetta “modernità” comincia molto prima dell’inizio in Inghilterra
della prima rivoluzione
industriale (1760 circa), e per almeno due secoli è profondamente
intrecciata alla società
feudale-signorile (più esattamente: alla società signorile tardo-feudale e
proto-capitalistica). Ma qui
si parla di un fenomeno più ampio ed articolato, in cui la transizione
in Europa dalla dominanza del
modo di produzione feudale alla dominanza del modo di
produzione capitalistico è
indagata come fenomeno complessivo (e non soltanto economico)dura
alcuni secoli, e precede
ovviamente l’instaurazione della società industriale vera e propria.
Anche qui, come in altri
casi, bisogna rifiutare e respingere il ricatto dell’economicismo, che
vorrebbe imporci la sua
chiave interpretativa della storia generale, vista come successione di
formazioni
tecnologico-economiche.
In secondo luogo, la
comprensione del fatto che la categoria di “modernità” è una categoria
storica, e non solo la
registrazione fattuale di una presenza (modo in latino vuol dire “adesso”,
per cui modernità vorrebbe
unicamente dire ciò che sta adesso, oggi e non ieri), e che quindi la
categoria marxiana di modo di
produzione è migliore, perché più concreta e determinata, porta
subito a rifiutare la
dicotomia che generalmente insorge fra storia del pensiero economico e
storia del pensiero politico.
Ci sarebbero infatti due storie distinte, una del pensiero economico
(fisiocratici francesi,
Smith, Ricardo, Malthus, eccetera), ed una del pensiero politico (Hobbes,
Locke, Rousseau). Niente di
tutto questo. L’organismo capitalistico è unico, anche se un unico
organismo può chiedere
consulenze differenziate ad un ortopedico ed a un reumatologo.
Traiamone quindi almeno tre
conseguenze preliminari:
(1) La costituzione nel mondo del
modo di produzione capitalistico fra il Cinquecento ed il
Novecento è unica, e deve essere considerata
da un punto di vista gestaltico come
“unica”, sia pure nelle sue
quattro determinazioni acquisitive principali (espropriazione
interna delle comunità
contadine ed artigiane, appropriazione privatistica delle proprietà
comunistico-comunitarie
tribali in Africa, Asia ed America, distruzione dei grandi
dispotismi comunitari
statualmente organizzati (Incas, Cina, India, impero ottomano,
eccetera), ed infine
distruzione del comunismo storico novecentesco, inteso come
esperimento di ingegneria
sociale dispotico-egualitaria sotto cupola geodesica protetta).
Chi non è in grado di contare
fino a quattro, e di vedere l’unità del processo che sta alla
base di queste quattro
superficiali determinazioni, deve essere inesorabilmente respinto
agli esami propedeutici del
primo anno di storia universale comparata del genere umano.
(2) Il modo di produzione
capitalistico coincide in linea generale con ciò che viene
generalmente chiamato
“modernità” in modo pudicamente tautologico. Se il termine
“modernità” venisse inteso
come il solo aspetto culturale specifico della legittimazione
simbolica del modo di
produzione capitalistico, allora potrebbe essere generosamente
accettato con riserva. Ma
così purtroppo non è. Il termine è arrogante ed autoreferenziale,
e vuole essere accettato
senza discussioni come il portato inevitabile dell’avvento di una
divinità idolatrica chiamata
Progresso, di cui gli illuministi, i liberali, gli economisti, i
positivisti e gli scienziati
sarebbero i membri delle cinque principali scuole teologiche di
legittimazione. Ma questa
sfacciata pretesa non deve essere accettata.
(3) Di conseguenza, non bisogna
accettare, neppure in via ipotetica, la separazione fra storia
del pensiero economico
moderno e storia del pensiero politico moderno. Esiste una sola
ed unica
storia, che si divide non certo fra politici ed economisti, ma fra coloro che
accettano questo modello
“moderno” e coloro che lo respingono. Scendiamo ora
brevemente nel dettaglio in
particolare sul primo e sul terzo punto, mentre tralascerò il
secondo, che richiederebbe un
lungo e noioso approfondimento mariologico sulla
liberazione del concetto
marxiano di modo di produzione dalla sua pestifera
interpretazione
riduzionistico-economicistica.
Partiamo dal primo punto. Non
nego che la cosiddetta “modernità” (in Europa occidentale,
almeno) abbia avuto
pittoreschi aspetti culturali positivi: rinuncia al rogo di streghe ed eretici,
liberalizzazione dell’uso del
fazzoletto sui capelli femminili e passaggio all’ostentazione del
piercing nell’ombelico adolescenziale,
buone maniere a tavola anziché suzione del brodo nella
forma dell’idrovora
dell’ippopotamo nel fiume, chiusura della porta se ci si siede sulla tazza del
cesso, eccetera. Tutto questo
è certamente interessante, ma non può essere fatto diventare il
centro dell’universo storico.
Il concetto di modo di produzione di Marx è migliore di quello
generico di “modernità” per
il fatto che permette di pensare concettualmente l’unità di un
processo storico, che
altrimenti si frantumerebbe in briciole e frammenti. E, appunto,
esaminiamo ora quattro
fenomeni storici che i manuali di storia non mettono mai in relazione
reciproca, ma che se non
vengono messi in relazione reciproca appaiono come se non avessero
nessun rapporto l’uno con
l’altro. Ed invece così non è. E per mostrare che così non è
esaminiamoli ancora una volta
analiticamente, anche se li ho già enumerati in precedenza. Sono
quattro, appartengono a
diversi momenti storici, sono inseriti in una “non-contemporaneità” (il
termine è di Ernst Bloch), ma
hanno però, come vedremo facilmente, un minimo comun
denominatore, cioè si
oppongono tutti alla piena affermazione, storica e geografica, del modo di
produzione capitalistico
nella sua forma più pura:
(a) La proprietà privata
capitalistica in Europa è nata e si è sviluppata privando delle loro
proprietà parcellari e/o
comunitarie i precedenti proprietari. Tutto questo è
dettagliatamente dimostrato
da Marx nell’ultima sezione del primo libro del
Capitale(1867). Di tutti i
verbi, il verbo “privare” è il più dialettico nel senso hegelo-
marxiano del termine, in
quanto il suo carattere transitivo produce il suo esito
intransitivo. Del resto, era
già così etimologicamente in latino. I proprietari privati erano
originariamente i plebei,
“privati” dal libero accesso all’ager publicus, la cui
“pubblicità”, comunque, era
la sua dimensione comunitario-tribale delle cosiddette
aggregazioni gentilizie di
carattere tribale (ma in questo l’antica Roma non si differenzia
troppo dall’antica Atene
prima di Solone e di Clistene). La costituzione della proprietà
privata europea di tipo
capitalistico, correttamente definita da Marx in termini di
«accumulazione primitiva del
capitale», è una lunga storia di espropriazione di forme
proprietarie precedenti, in
piccola parte feudali-signorili, ma in parte molto maggiore
“popolari”, in senso
comunitario, contadino ed artigiano. Non entro qui nei dettagli, che
considero noti in tutti
coloro che hanno seguito a scuola un corso di storia generale
medievale, moderna e
contemporanea.
(b) Nella prima espansione
colonialistica europea della seconda metà del Quattrocento
(Portogallo con finanziamento
prima genovese e poi tedesco e fiammingo, Spagna,
Olanda, Francia, Inghilterra,
eccetera) la civiltà europea, fondata sul diritto romano e
sulla conseguente
“naturalità” della proprietà privata, si trovò di fronte a società tribali di
proprietà collettiva e
comune, la cui “primitività”, prima ancora che nei costumi sessuali,
fu individuata nella mancanza
di proprietà privata delle risorse naturali. In proposito (e
rimando qui ai due
illuminanti studi di Giuliano Gliozzi pubblicati dalla Loescher negli
anni settanta) la teoria
della razza e la teoria della proprietà privata si svilupparono
contestualmente
in modo intrecciato: colui che veniva discriminato su basi razzistiche
era, guarda caso, colui che
si poteva legalmente espropriare della sua proprietà, parcellare
o comunitario-tribale. La
complementarietà di questo processo esotico di espropriazione
con il processo interno di
espropriazione non è mai sottolineato dai manuali di storia , che
trattano questi due processi
come se si trattasse di fenomeni separati da un’ideale
muraglia cinese. Ancora una
volta, per parafrasare Marx, le idee dominanti sono quelle
delle classi dominanti.
(c) A fianco delle società
tribali di tipo comunistico primitivo (oppure, se si vuole usare
l’espressione di Hosea Jaffe,
di dispotismo comunitario), l’occidente si trovò di fronte dei
veri e propri dispotismi
statali organizzati, sia di tipo “idraulico” (la Cina di Wittfogel),
sia di tipo diverso (l’impero
musulmano indiano Moghul, l’impero peruviano degli
Incas, le città-stato Maya,
l’impero ottomano, i regni dispotici dell’Indocina e
dell’Indonesia, il regno del
Madagascar, eccetera). In quasi tutti questi casi si era di
fronte ad una proprietà
statale della terra, che apparteneva al despota, e che lasciava però
la massima autonomia alle
comunità produttrici che avevano soltanto obblighi fiscali
(spesso pesanti, talvolta
leggeri, eccetera). L’occidente doveva frantumare questa
proprietà dispotica,
esattamente come doveva frantumare la precedente proprietà
comunistico-comunitaria delle
tribù. Anche in questo caso, i manuali di storia non
permettono di cogliere
l’unità del processo.
(d) La storia novecentesca, in
particolare nel secolo breve 1917-1991, ha visto una quarta ed
ultima (per ora) modalità di
espropriazione capitalistica rivolta ad una società non
capitalistica. Nonostante
alcune valutazioni di tipo settario (Bordiga, Bettelheim,
eccetera), ritengo che il
modello di comunismo storico novecentesco realmente esistito,
da non confondere
assolutamente con il modello astratto di comunismo-utopico-
scientifico di Marx (in
proposito, l’ossimoro è volontario ed intenzionale), sia stato un
esempio di proprietà
collettivo-comunitaria di tipo non capitalistico, anche se ovviamente
deformata da rapine
burocratiche di vario tipo. Al netto di crimini e di errori, che non
posso certo discutere qui, si
è trattato non certo dell’applicazione di un modello
precedente di Marx cui
“riaccostarsi” oppure “discostarsi” (questa è stata soltanto
l’immagine fantasmatica della
falsa coscienza necessaria degli intellettuali creduloni
autodefinitisi “marxisti” in
assenza della smentita di Marx, che sarebbe stata possibile
soltanto attraverso
l’evocazione dell’anima del Defunto Fondatore), ma di un gigantesco
esperimento di ingegneria
sociale sotto cupola geodesica protetta. Questo esperimento, ad
un certo punto, è finito con
una restaurazione capitalistica di tipo selvaggio, attuato
attraverso una maestosa
controrivoluzione delle classi medie sovietiche. Ma di questo
fenomeno è impossibile
parlare ulteriormente qui per ragioni di spazio.
Ciò che conta, invece, è
cogliere concettualmente l’unitarietà profonda di questi quattro
fenomeni. Se la si coglie (ma
in proposito il mio pessimismo è molto forte, perché so quanto è
difficile acquisire un simile
riorientamento gestaltico), allora si è in grado di cogliere la seconda
tappa del nostro
ragionamento, l’unitarietà profonda del pensiero economico e del pensiero
politico del capitalismo, che
tutti i manuali separano metodologicamente, appunto perché questa
unitarietà non venga colta.
Ed in cosa consiste questa
una unitarietà? In estrema sintesi, consiste nella comprensione,
difficile ma non impossibile,
per cui il fondamento politico della società capitalistica
si basa a
sua volta su di un altro
fondamento più importante, la costituzione autonoma del mercato e dello
scambio
attraverso appunto un’autofondazione integrale, del tutto svincolata sia da
premesse
filosofiche (il diritto
naturale), sia da premesse politiche (il contratto sociale).
Ma cerchiamo di spiegarci
meglio, attraverso alcuni rapidi ed essenziali passaggi. Sulla base di
una deduzione sociale delle
categorie del pensiero a partire dall’essere sociale che ne fa da base
di riferimento, i concetti
filosofici risultano quasi sempre (non sempre) essere delle metafore di
rapporti sociali. Ad esempio,
il concetto greco di infinito-indeterminato (l’apeiron di
Anassimandro) appare essere
la proiezione astratta di un fatto sociale reale, il pericolo di
dissoluzione comunitaria
provocato dalla dinamica di infinitezza e di indeterminatezza del potere
del denaro e della proprietà
privata, non frenata dalla ragione e da un giusto equilibrio armonico
delle proprietà (il logos calcolistico di Pitagora, di
cui il sistema politico di Platone è solo una
formulazione ateniese
altamente coerentizzata e passata attraverso il filtro della razionalità
dialogica di tipo socratico).
Per fare un secondo esempio, la categoria idealistica di concetto (il
Begriff di Hegel) appare essere il
conseguimento della libera autocoscienza da parte di una
soggettività matura ed
autonoma. La manualistica dossografica, che si spaccia per storia della
filosofia e ne è lontana come
i ghiacci eterni dai mari equatoriali, crede che termini come
apeiron, logos, e Begriff siano semplici ed opinabili
contenuti di coscienza. In questo modo ogni
accesso alla conoscenza è sbarrato.
E questa vale anche e soprattutto per il pensiero politico
moderno, o più esattamente
per la fondazione economica del pensiero politico moderno, che
sorge dopo, e non prima,
l’autonoma fondazione su se stessa, senza alcun rimando esterno
precedente, della società
capitalistica.
A proposito della natura
dell’empirismo, molte storie della filosofia impostano scorrettamente la
questione, presentandolo come
una delle tante possibili teorie della conoscenza, più plausibile di
altre in quanto rinuncia al
presupposto indimostrabile della rivelazione divina e delle cosiddette
“idee innate”. Ma non è così.
L’empirismo è l’unica teoria filosofica realmente
affine ed
omogenea alla produzione
capitalistica generalizzata, perché la sola esperienza realmente
verificabile (in campo
sociale, ovviamente), è lo scambio mercantile. Non esistono infatti altre
esperienze sociali
sperimentabili, in una società capitalistica astrattamente considerata nella
sua
purezza idealtipica, al di
fuori dello scambio mercantile. Tutto il resto, ma proprio tutto il resto,
è soggettivo, opinabile,
relativo, diversamente valutabile ed interpretabile. Soltanto lo scambio
mercantile, e null’altro, è
infatti possibile in forma scientificamente quantitativa, sul modello
delle leggi di natura, e non
è un caso che Adam Smith abbia considerato come fondamento
quantitativo della società
capitalistica la cosiddetta legge del valore-lavoro, per cui le merci si
scambiano secondo i vari
tempi di lavoro sociale astratto medio contenuti in esse. Qui
l’empirismo, e cioè
l’esperienza dello scambio mercantile, diventa “scienza”, sulla base della
teoria del valore-lavoro. La
critica dell’economia politica di Marx, in poche parole, si basa sul
rovesciamento dialettica
dell’empirismo (di Locke) in idealismo (di Hegel), attraverso l’identità
di valore e di alienazione, e
cioè attraverso l’identità contraddittoria del concetto economico di
valore e del concetto
filosofico di alienazione. Chi non comprende che tutto il tessuto concettuale
della critica marxiana
dell’economia politica si basa sul rovesciamento dialettico dell’empirismo
mercantile capitalistico in
idealismo comunitario comunista non può che restare tristemente al di
fuori di essa.
La critica di Locke all’idea
“metafisica” di sostanza è generalmente considerata come
un’intelligente posizione di
teoria della conoscenza. Non è affatto così. Questa è l’apparenza,
non l’essenza. In realtà, la
sostanza è sempre stata, fin dai tempi antichi, la metafora della base
sociale comunitaria su cui si
fondavano i rapporti umani. Il precedente teorico del concetto di
sostanza, infatti, è il
concetto di Essere di Parmenide, che
presumibilmente esprime in forma
metaforica la stabilità e la
permanenza eterna nel tempo del modello della buona legislazione
pitagorica dei rapporti
politici della polis (in questo caso, della polis di Elea), che a sua volta è
il
presupposto del concetto di Idea di Platone, che
presumibilmente esprime in forma metaforica lo
stesso contenuto dell’Essere parmenideo, e cioè la
perfezione ideale insuperabile del modello
politico di
convivenza comunitaria. In Aristotele, teorico della sostanza, l’universalità
in senso
pieno è propria non del
genere ma della specie, e più esattamente della specie Uomo, inteso
come animale sociale,
politico e comunitario (politikòn zoon) e come animale dotato di
ragione,
linguaggio, capacità di
persuasione politica e capacità di calcolo sociale delle corrette
proporzioni della ricchezza e
del potere (zoon logon echon).
La pensabilità sociale della
nuova società capitalistica è impossibile su basi aristoteliche. Per
primo Hobbes colpisce al
cuore la teoria aristotelica della natura umana, contrapponendole una
natura bellicosa e
proprietaria. La negazione di Locke della teoria della sostanza mira a negare
che al di sotto dello scambio
mercantile ci sia qualcosa che sia irriducibile ad esso (una
“sostanza”, appunto), per cui
la società intera è ricostruita pensandola come una rete di scambi
mercantili individuali. Ma
l’individuo è appunto un Robinson, che fonda il suo diritto alla
proprietà nell’isola deserta
sulla base del suo lavoro (e del resto Defoe e Locke vivono negli
stessi anni). Si tende in
genere a presentare Kant come un avversario dell’empirismo, e questo è
certamente vero nel campo
della pura teoria della conoscenza, ma dal punto di vista della morale
sociale Kant è individualista
esattamente come Locke.
E tuttavia, il pensiero
politico specificatamente capitalistico nasce in Scozia, con il binomio
Hume-Smith. Bisogna
comprendere fino in fondo che tutta la filosofia politica del capitalismo si
basa su di un solo ed unico
fondamento rigidamente monoteistico, l’autofondazione
dell’economia su se stessa,
senza alcun precedente intervento filosofico (il diritto naturale)
oppure politico (il contratto
sociale). Questa egemonia durerà fino a quando (e non è ancora
successo) essa verrà
sostituita da un paradigma alternativo per cui lo scambio economico dovrà
essere legittimato, e quindi
anche di fatto limitato, da una decisione politica a sua volta fondata
su basi filosofiche (e cioè
una teoria del Male Sociale). Il fattore economico, ovviamente, non
scomparirà affatto, ma verrà
subordinato alla fondazione filosofica ed alla sua derivazione
politica. Si tratta della maggiore
eredità della tradizione greca classica, e chi ci si ricollega potrà
essere tranquillamente
definito un pensatore tradizionalista (così io interpreto, ad esempio,
Averroé, Tommaso, Spinoza,
Hegel e Marx).
Facciamola corta. Noi
ereditiamo quindi almeno trecento anni di filosofia politica, la cui corrente
principale è solo falsamente
e fintamente “politica”, perché accetta il presupposto della auto
fondazione dell’economia su
se stessa. Il migliore teorico di questa auto fondazione
dell’economia su se stessa è
stato David Hume, per cui bisogna prima di tutto liberarci dalla
ingannevole nozione di
causalità. La società si autofonda senza alcuna causalità sulla semplice
abitudine allo scambio, e non
c’è ovviamente nessun bisogno di ipotizzare una “causazione”
politica da parte di un
inesistente contratto sociale. A sua volta, se non esiste un contratto sociale,
non esistono neppure i suoi
presupposti filosofici indimostrabili, che sono le (inesistenti) norme
del diritto naturale. Il
modello metafisico di Hume si fonda su tre pilastri negativi (inesistenza di
Dio, inesistenza del diritto
naturale, inesistenza del contratto sociale) e di conseguenza su di un
solo pilastro positivo che
può sfuggire al suo “scetticismo”, e cioè lo scambio mercantile. Al di
fuori dello scambio
mercantile, non si può e non si deve dimostrare proprio nulla.
Empirismo, scetticismo,
individualismo, ecco la trinità materialistica della nuova fondazione
capitalistica. Il fatto che
per alcuni secoli la società capitalistica abbia ampiamente utilizzato le
tradizioni religiose della
masse, insieme con la complicità degli apparati sacerdotali (di tutti
indistintamente gli apparati
sacerdotali, cattolico, protestante, ortodosso, ebraico, musulmano,
eccetera) ha fatto pensare ai
rivoluzionari che abolita la religione si sarebbe anche aperta la
strada concettuale per il
superamento della società capitalistica. Errore. Errore comprensibile, ma
sempre errore. Lo spirito del
capitalismo non sopporta a lungo termine un principio che gli sia
superiore (Dio infatti, se
esiste, è certamente un principio di legittimazione superiore alla
semplice auto fondazione
economica capitalistica). Ed infatti oggi lo sbaraccamento simbolico
della religione, tollerata
soltanto come agenzia caritativa di assistenza ai migranti, ai marginali
ed ai
poveracci, è sotto gli occhi di tutti. Fa eccezione, ma è una eccezione
soltanto apparente, la
religione eccezionali
stico-messianica dell’impero USA, ma non si tratta più di una religione,
quanto di un culto imperiale
di dominio.
I manuali di storia
dell’oligarchia dominante presentano gli ultimi due secoli come lo scenario di
una progressiva felice
fusione fra il liberalismo e la democrazia, con la finale mescolanza ben
riuscita del principio
liberale delle tutele dell’individuo e del principio democratico della
sovranità popolare. Si tratta
di una tragicomica mistificazione, che alla luce del presente (2010)
permette di illuminare meglio
il modo in cui ci hanno mentito nella interpretazione globale degli
ultimi due secoli. La
sovranità popolare è qualcosa che avrebbe senso soltanto in un contesto di
sovranità della politica
sull’economia, o più esattamente della decisione politica comunitaria sui
meccanismi ciechi ed anonimi
dell’economia (ed era infatti così che intendevano la democrazia
gli antichi greci, che solo
un ignorante e/o un mascalzone possono indicare come nostri
predecessori in
“democrazia”). In quanto al primato dell’individuo, vi è oggi certamente una
speciale attenzione al
primato del consumatore (sia pure manipolato dalla pubblicità e dai
modelli coattivi di
conformismo consumistico), ma all’individuo è stato tolto addirittura il
fondamento della sua
consistenza sociale, la stabilità a lungo termine del lavoro. È quindi in un
certo senso vero che il
liberalismo e la democrazia si sono fusi in liberaldemocrazia, purché si
aggiunga che la
liberaldemocrazia è un involucro vuoto, in cui una concezione individualistica
ed anomica del liberalismo
prevale sullo svuotamento integrale della decisione democratica
sovrana.
Per questa ragione la
cosiddetta “liberaldemocrazia”, essendo appunto inesistente, non presenta
alcun interesse teorico.
L’inesistente fa parte dell’invenzione letteraria ed artistica, non della
riflessione filosofica. Il
solo “esistente”, per quello che ci interessa, è il tentativo storico di
rovesciare la vera “legge di
Hume” (non certo la fallacia naturalistica, del tutto inesistente e cibo
per imbecilli), e cioè la
totale auto fondazione dell’economia su se stessa senza presupposti
filosofici e politici.
Nell’ottocento si è trattato di quel vario e meraviglioso fenomeno chiamato
“socialismo”, di cui il
marxismo è stato soltanto un episodio, e neppure il più importante (anche
se Marx continua a godere di
una certa superiorità teorica sugli altri pensatori, almeno a mio
parere). Dal momento che il
socialismo, globalmente inteso, si fondava sulle classi popolari,
proletarie ed operaie che
fronteggiavano la borghesia liberale, si deve purtroppo arrivare alla
triste e sconsolata
conclusione, in sede di bilancio storico privo di geremiadi moralistiche di
accompagnamento, che la
borghesia nel suo complesso è una Signora Classe, immensamente più
performativa ed abile del
Volenteroso ma anche Penosissimo e Confuso Proletariato.
Questa può sembrare una
formulazione aristocratica, superomistica e di “destra”. Neppure per
sogno. Si tratta
semplicemente di una libera e pittoresca sintesi del pensiero di Lenin. La
teoria
del partito comunista di
Lenin ha come sua premessa (spesso taciuta per motivi di politicamente
corretto retroattivo) il
bilancio storico secolare della totale impotenza ed incapacità strategica
delle classi popolari intese
nella loro immediatezza culturale e sociologica. Del resto, il 1976-
1978 in Cina ed il 1989-1991 in URSS lo hanno ampiamente
dimostrato. Eliminato il partito, o
meglio corrotto fino alle
midolla (cambiato di colore, nel lessico di Mao), le classi popolari sono
tornate ad essere volgo
disperso ed esercito industriale di riserva. Senza Lenin, Stalin, Mao,
Castro, eccetera, le classi
popolari sono ridotte a battere penosamente i tamburi delle sfilate dei
metalmeccanici.
Il comunismo storico
novecentesco realmente esistito, pur avendo poco o nulla a che fare con il
modello teorico
utopico-scientifico di Marx (l’ossimoro è come sempre intenzionale), è però
storicamente stato qualcosa
di meraviglioso, e da rivendicare totalmente in tutti i suoi aspetti,
positivi e negativi (incluso
ovviamente Stalin e Mao). Si è trattato di un maestoso esperimento di
ingegneria sociale di tipo positivistico
sotto cupola geodesica protetta, rovesciato alla fine da una
altrettanto maestosa
controrivoluzione dei ceti medi. Ma di questo ho già parlato. La ripetizione
serve soltanto
a non far mancare l’occasione di dire che è stato una cosa meravigliosa, e la
sua
fine è stata la più grande
catastrofe storica del novecento.
E tuttavia la fine del
comunismo storico novecentesco ci costringe a cambiare decisamente il
nostro scenario politico di
orientamento. Ma qui appunto le mort saisit le vif. E le mort saisit le vif
perché tutte le strutture
ideologiche ereditate dal novecento vogliono inchiodarci ai
contenziosi simbolici dello
scenario novecentesco, prima fra tutti la dicotomia Fascismo-
Antifascismo. Dicotomia che
ha naturalmente avuto un’importanza centrale in Europa fra il 1919
ed il 1945, ma che oggi non
esprime più un contrasto reale, ma funziona da semplice protesi
manipolatoria di
legittimazione simbolica. Ed è questo allora il problema. Quanto tempo ancora
deve passare perché si possa
dire che
le mort ne saisit plus le vif, per dirla con Marx?