L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

venerdì 6 dicembre 2013

7 dicembre a Roma un'altra pietra per costruire il Fronte Unico per uscire dall'Euro

Ci sono 18 milioni di italiani a rischio povertà.

La Nazione italiana soffre come non mai, abbiamo la televisione, la lavatrice, il cellulare, ma siamo senza lavoro e quello che si riesce a creare è solo lavoro precariato.

La comunità italiana è attraversata da mille fili di solidarietà familiare e conoscenze, la classe dirigenziale, la politica, i politici, le istituzioni sono autistici, c'è un abbisso ormai incolmabile tra i bisogni del popolo e quelli che potrebbero, ma non lo fanno non sanno ne vogliono ascoltare le esigenze che nascono dal basso.

Abbiamo una disoccupazione al 12,7%. Il popolo vuole la sicurezza data dal lavoro e la conseguenziale possibilità di costruire sogni per il suo presente, per il suo domani. Questo gli è vietato da Napolitano, Letta, questo Parlamento, questi Partiti, questi politici.

Questi istituti invece di andare incontro a queste esigenze minimali di vivere dignitosamente hanno scelto di servire pedissequamente gli ordini del Capitale Mondializzato.
Il percorso, se vogliamo datarlo è iniziato nel 1981 quando Ciampi e Andreatta hanno deciso di nascosto, col misero sotterfugio di separare la Banca d'Italia dalle dipendenze del Ministero del Tesoro, gli interessi sul debito che pagavamo, che controllati fino a quel momento sono schizzati in alto.

Il capolavoro di Ciampi e Adreatta si è compiuto nel completo silenzio di quel Sistema di Partiti, Istituzioni e Mass Media allora esistenti  che ancora oggi dominano la scena pubblica. Hanno affidato al Dio Mercato il debito e questo si è lanciato come un avvoltoio sul piatto d'argento servito da traditori. Il debito è iniziato a salire e da allora non ha mai finito la sua corsa.

Prodi e Ciampi hanno fatto un ulteriore capolavoro, ci hanno portato nella gabbia di ferro dell'Euro che, con la crisi del 2007/8, mai risolta, ha messo in evidenza tutti i limiti e i difetti di questa costruzione.
Questa costruzione ha fatto arricchire e arricchisce il Capitale finanziario e mercantile tedesco insieme ai Capitali finanziari mondiali in cerca di profitti.

Questi Capitali sono sanguisughe, sono attaccati alla nostra Nazione e finchè ci sarà sangue da succhiare non ci lasceranno andare, noi, il nostro popolo sta morendo. Noi ci stiamo coalizzando,  ci stiamo cercando, perchè abbiamo la voglia, il desiderio, la volontà e la forza di opporci a questo disegno criminale. Siamo diversi ma accomunati dal medesimo sentimento di libertà, indipendenza giustizia prima di tutto per noi e inderogabilmente per quello che amiamo di più: il nostro paese, il nostro popolo.

Il terzo capolavoro è stato compiuto da degli imbecilli che nella trascorsa legislatura hanno messo in Costituzione il Pareggio di Bilancio e ratificato il Fiscal Compact. Imbecilli che ancora siedono in questo Parlamento illegittimo, stanno nel governo illegittimo e hanno la pretesa, direi illusione, di fare provvedimenti che sono illegittimi.

Dal 4 dicembre 2013, dopo l'abolizione delle norme del Porcellum, fatta dalla Corte Costituzionale, ogni italiano ha il diritto di infischiarsene delle leggi e provvedimenti fatti illegittimamente.

Il Pareggio di Bilancio insieme al non superamento della soglia del 3% del deficit/Pil impedisce qualsiasi manovra economica che possa produrre anche larvatamente posti di lavoro.

Una pressione fiscale effettiva al 53,6% dei redditi prima dell'aumento dell'Iva e della legge di (in)Stabilità impossibile da sostenere.

Mettere 90 miliardi anno di pagamento per gli interessi è inattuabile. Nel 2012 ci siamo indebitati di ulteriori 45 miliardi a causa degli interessi.

Bisogna uscire dall'Euro!
 
Nel nostro paese c'è un partito più cialtrone degli altri, è il Pd che è servo, in tutte le sue componenti da Letta, Renzi, Cuperlo, Civati, del Capitale finanziario e mercantile tedesco e succube ed obbediente al Capitale Mondializzato.

Questo partito ha sposato la tesi che bisogna continuare a stare nella gabbia di ferro dell'Euro costi quel che costi e dal momento che è davvero irrealizzabile aumentare le tasse, anche se ci provano nascostamente e cercano di colpire imbrogliando le carte in ogni momento, hanno deciso di vendere  spiagge, Eni, Enel insomma quelle poche aziende che ancora producono profitti. Dobbiamo fargli pagare un prezzo il più alto possibile per queste proposte suicide, pagliacci erano pagliacci confermano di essere, marionette manovrate dagli stranieri.

Questi cialtroni pagliacci stanno svendendo le municipalizzate: trasporti, acque, ecc. ai privati in modo che i costi per questi servizi aumenteranno vertiginosamente perchè questi Capitali vogliono trarre profitti e basta e dei servizi pubblici come scopo di utilità per le comunità non gli interessa.

Dobbiamo uscire fuori dall'Euro!

Non illudiamoci che si possa costruire l'Euro a due velocità o si possa uscire dall'Euro in maniera soft, non sarà così, non potrà essere così. Gli asini non volano.

Se avessimo la forza di imporre un Euro a due velocità o un'uscita controllata avremmo anche la forza di cambiare la natura di questi trattati e saremmo capaci di imporre in primis una Europa-Euro politica con tutte le decisioni, a cascate, di indicazioni economiche non suicide. Non ne abbiamo la forza. Ma abbiamo la forza e la capacità di portare il nostro paese fuori dalle secche.

L'Euro imploderà, basterrà un nonnulla, quello che è più vicino, come possibilità reale, sono i risultati delle elezioni europee del 14 maggio 2014. Potrebbe bastare che il partito di Marine Le Pen prendesse la maggioranza dei voti e puff la costruzione crollerebbe come un soffio.
Ma potrebbe essere le prossime elezioni italiane a febbraio, marzo del 2014.
O qualsiasi altro avvenimento.

Noi abbiamo il diritto, la capacità, la forza, le idee per preparare l'Italia quando l'Euro imploderà o avremo la forza di mandarlo via.

Fronte Unico per uscire dall'Euro.

L'Euro imploderà e non sarà facile la gestione. Alcune cose essenziali si possono cominciare ad enunciare:
Riconquista della Sovranità Nazionale, Politica, Monetaria e Territoriale,
Controllo ferreo della circolazione dei Capitali e delle Merci,
Difesa del potere d'acquisto dei redditi medio bassi,
Ristrutturare il debito,
Nazionalizzare le banche,
Nazionalizzare le aziende se occorre,
Piano Paese con un'attenzione particolare alla produzione/approvvigionamento dell'energia,
Politica estera pragmatica, cerniera Nord Sud, Est Ovest del mondo.

martelun

giovedì 5 dicembre 2013

nel superamento del Capitalismo il fattore economico (autarchico) non verrà superato ma sarà subordinato alla fondazione filosofica ed alla sua derivazione politica

Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale.
Considerazioni politiche e filosofiche
di Costanzo Preve

1. Introduzione. Sul nemico principale. Commento di una recente formulazione di Alain de
Benoist
2. Le mort saisit le vif (Marx).
Il peso inerziale ormai insopportabile della storia
tricentenaria del profilo della filosofia politica moderna e della sua variante subalterna
postmoderna
3.Il primato dello struzzo. Lo struzzo come animale totemico-tribale del passaggio dal
realismo storico-politico al moralismo ostensivo testimoniale
4. L’imbecillità socialmente organizzata. Per una nuova teoria degli intellettuali e delle
strutture ideologiche
5. Il nemico principale in economia: il capitalismo e la società di mercato
6. Il nemico principale in politica: il liberalismo
7. Il nemico principale in filosofia: l’individualismo
8. Il nemico principale nella società: la borghesia
9. Il nemico principale in geopolitica: gli Stati Uniti d’America
10.Conclusione. Verso un radicale riorientamento gestaltico nella visione complessiva del
mondo storico e politico

2. Le mort saisit le vif (Marx). Il peso inerziale ormai insopportabile della storia tricentenaria

del profilo della filosofia politica moderna e della sua variante subalterna postmoderna

Karl Marx scriveva in generale in tedesco, ma conosceva bene anche l’inglese e il francese, ed
ogni tanto trovava qualche felice espressione in queste due lingue. Ad un certo punto esce
nell’espressione francese le mort saisit le vif, che potremmo tradurre, ampliandola, come «il
morto afferra il vivo e lo fa prigioniero». Ed il vivo, afferrato dal morto, diventa prigioniero di
come il morto interpreta la realtà, delle sue categorie culturali, politiche, sociali, economiche,
eccetera. Si tratta ovviamente non di un morto normale, ricordato, venerato e seppellito, ma di un
vero e proprio zombie del vodoo haitiano, un morto che di notte lascia il cimitero e percorre le
strade.

Bene, l’attuale situazione della filosofia politica europea dominante negli ambienti intellettuali,
incorporata nella megamacchina della imbecillità socialmente organizzata, è esattamente quella
descritta da Marx: le mort saisit le vif. Il fatto è del tutto intuitivo, e non avrebbe bisogno
neppure di dimostrazione (i politologi parlano di post-democrazia, dal momento che è del tutto
evidente che la decisione politica pubblica è stata ridotta ad una totale impotenza dal sovrastare
della riproduzione economica totalmente autonomizzata). E tuttavia, sia pure in forma sintetica,
ne fornirò qui una breve esposizione per i (pochissimi) lettori interessati a ripercorre la genesi e lo
sviluppo delle categorie del pensiero politico moderno. In proposito, due precisazioni preliminari.

In primo luogo, il termine “moderno” non è che la versione generico-neutrale-universitaria
dell’oggetto storico che Marx in modo più adeguato connota come «modo di produzione
capitalistico». Certo, la cosiddetta “modernità” comincia molto prima dell’inizio in Inghilterra
della prima rivoluzione industriale (1760 circa), e per almeno due secoli è profondamente
intrecciata alla società feudale-signorile (più esattamente: alla società signorile tardo-feudale e
proto-capitalistica). Ma qui si parla di un fenomeno più ampio ed articolato, in cui la transizione
in Europa dalla dominanza del modo di produzione feudale alla dominanza del modo di
produzione capitalistico è indagata come fenomeno complessivo (e non soltanto economico)dura
alcuni secoli, e precede ovviamente l’instaurazione della società industriale vera e propria.
Anche qui, come in altri casi, bisogna rifiutare e respingere il ricatto dell’economicismo, che
vorrebbe imporci la sua chiave interpretativa della storia generale, vista come successione di
formazioni tecnologico-economiche.

In secondo luogo, la comprensione del fatto che la categoria di “modernità” è una categoria
storica, e non solo la registrazione fattuale di una presenza (modo in latino vuol dire “adesso”,
per cui modernità vorrebbe unicamente dire ciò che sta adesso, oggi e non ieri), e che quindi la
categoria marxiana di modo di produzione è migliore, perché più concreta e determinata, porta
subito a rifiutare la dicotomia che generalmente insorge fra storia del pensiero economico e
storia del pensiero politico. Ci sarebbero infatti due storie distinte, una del pensiero economico
(fisiocratici francesi, Smith, Ricardo, Malthus, eccetera), ed una del pensiero politico (Hobbes,
Locke, Rousseau). Niente di tutto questo. L’organismo capitalistico è unico, anche se un unico
organismo può chiedere consulenze differenziate ad un ortopedico ed a un reumatologo.
Traiamone quindi almeno tre conseguenze preliminari: 

(1) La costituzione nel mondo del modo di produzione capitalistico fra il Cinquecento ed il
      Novecento è unica, e deve essere considerata da un punto di vista gestaltico come
      “unica”, sia pure nelle sue quattro determinazioni acquisitive principali (espropriazione
      interna delle comunità contadine ed artigiane, appropriazione privatistica delle proprietà
      comunistico-comunitarie tribali in Africa, Asia ed America, distruzione dei grandi
      dispotismi comunitari statualmente organizzati (Incas, Cina, India, impero ottomano,
      eccetera), ed infine distruzione del comunismo storico novecentesco, inteso come
      esperimento di ingegneria sociale dispotico-egualitaria sotto cupola geodesica protetta).
      Chi non è in grado di contare fino a quattro, e di vedere l’unità del processo che sta alla
      base di queste quattro superficiali determinazioni, deve essere inesorabilmente respinto
      agli esami propedeutici del primo anno di storia universale comparata del genere umano.

 (2) Il modo di produzione capitalistico coincide in linea generale con ciò che viene
     generalmente chiamato “modernità” in modo pudicamente tautologico. Se il termine
     “modernità” venisse inteso come il solo aspetto culturale specifico della legittimazione
     simbolica del modo di produzione capitalistico, allora potrebbe essere generosamente
     accettato con riserva. Ma così purtroppo non è. Il termine è arrogante ed autoreferenziale,
     e vuole essere accettato senza discussioni come il portato inevitabile dell’avvento di una
     divinità idolatrica chiamata Progresso, di cui gli illuministi, i liberali, gli economisti, i
     positivisti e gli scienziati sarebbero i membri delle cinque principali scuole teologiche di
     legittimazione. Ma questa sfacciata pretesa non deve essere accettata.

(3) Di conseguenza, non bisogna accettare, neppure in via ipotetica, la separazione fra storia
     del pensiero economico moderno e storia del pensiero politico moderno. Esiste una sola
     ed unica storia, che si divide non certo fra politici ed economisti, ma fra coloro che
     accettano questo modello “moderno” e coloro che lo respingono. Scendiamo ora
     brevemente nel dettaglio in particolare sul primo e sul terzo punto, mentre tralascerò il
     secondo, che richiederebbe un lungo e noioso approfondimento mariologico sulla
     liberazione del concetto marxiano di modo di produzione dalla sua pestifera
     interpretazione riduzionistico-economicistica.

Partiamo dal primo punto. Non nego che la cosiddetta “modernità” (in Europa occidentale,
almeno) abbia avuto pittoreschi aspetti culturali positivi: rinuncia al rogo di streghe ed eretici,
liberalizzazione dell’uso del fazzoletto sui capelli femminili e passaggio all’ostentazione del
piercing nell’ombelico adolescenziale, buone maniere a tavola anziché suzione del brodo nella
forma dell’idrovora dell’ippopotamo nel fiume, chiusura della porta se ci si siede sulla tazza del
cesso, eccetera. Tutto questo è certamente interessante, ma non può essere fatto diventare il
centro dell’universo storico. Il concetto di modo di produzione di Marx è migliore di quello
generico di “modernità” per il fatto che permette di pensare concettualmente l’unità di un
processo storico, che altrimenti si frantumerebbe in briciole e frammenti. E, appunto,
esaminiamo ora quattro fenomeni storici che i manuali di storia non mettono mai in relazione
reciproca, ma che se non vengono messi in relazione reciproca appaiono come se non avessero
nessun rapporto l’uno con l’altro. Ed invece così non è. E per mostrare che così non è
esaminiamoli ancora una volta analiticamente, anche se li ho già enumerati in precedenza. Sono
quattro, appartengono a diversi momenti storici, sono inseriti in una “non-contemporaneità” (il
termine è di Ernst Bloch), ma hanno però, come vedremo facilmente, un minimo comun
denominatore, cioè si oppongono tutti alla piena affermazione, storica e geografica, del modo di
produzione capitalistico nella sua forma più pura:

  (a) La proprietà privata capitalistica in Europa è nata e si è sviluppata privando delle loro
      proprietà parcellari e/o comunitarie i precedenti proprietari. Tutto questo è
     dettagliatamente dimostrato da Marx nell’ultima sezione del primo libro del
     Capitale(1867). Di tutti i verbi, il verbo “privare” è il più dialettico nel senso hegelo-
     marxiano del termine, in quanto il suo carattere transitivo produce il suo esito
     intransitivo. Del resto, era già così etimologicamente in latino. I proprietari privati erano
    originariamente i plebei, “privati” dal libero accesso all’ager publicus, la cui
    “pubblicità”, comunque, era la sua dimensione comunitario-tribale delle cosiddette
    aggregazioni gentilizie di carattere tribale (ma in questo l’antica Roma non si differenzia
    troppo dall’antica Atene prima di Solone e di Clistene). La costituzione della proprietà
    privata europea di tipo capitalistico, correttamente definita da Marx in termini di
    «accumulazione primitiva del capitale», è una lunga storia di espropriazione di forme
    proprietarie precedenti, in piccola parte feudali-signorili, ma in parte molto maggiore
    “popolari”, in senso comunitario, contadino ed artigiano. Non entro qui nei dettagli, che
    considero noti in tutti coloro che hanno seguito a scuola un corso di storia generale
    medievale, moderna e contemporanea.

  (b) Nella prima espansione colonialistica europea della seconda metà del Quattrocento
      (Portogallo con finanziamento prima genovese e poi tedesco e fiammingo, Spagna,
      Olanda, Francia, Inghilterra, eccetera) la civiltà europea, fondata sul diritto romano e
      sulla conseguente “naturalità” della proprietà privata, si trovò di fronte a società tribali di
      proprietà collettiva e comune, la cui “primitività”, prima ancora che nei costumi sessuali,
      fu individuata nella mancanza di proprietà privata delle risorse naturali. In proposito (e
      rimando qui ai due illuminanti studi di Giuliano Gliozzi pubblicati dalla Loescher negli
      anni settanta) la teoria della razza e la teoria della proprietà privata si svilupparono
      contestualmente in modo intrecciato: colui che veniva discriminato su basi razzistiche
      era, guarda caso, colui che si poteva legalmente espropriare della sua proprietà, parcellare
      o comunitario-tribale. La complementarietà di questo processo esotico di espropriazione
      con il processo interno di espropriazione non è mai sottolineato dai manuali di storia , che
      trattano questi due processi come se si trattasse di fenomeni separati da un’ideale
      muraglia cinese. Ancora una volta, per parafrasare Marx, le idee dominanti sono quelle
      delle classi dominanti.

  (c) A fianco delle società tribali di tipo comunistico primitivo (oppure, se si vuole usare
      l’espressione di Hosea Jaffe, di dispotismo comunitario), l’occidente si trovò di fronte dei
      veri e propri dispotismi statali organizzati, sia di tipo “idraulico” (la Cina di Wittfogel),
      sia di tipo diverso (l’impero musulmano indiano Moghul, l’impero peruviano degli
      Incas, le città-stato Maya, l’impero ottomano, i regni dispotici dell’Indocina e
      dell’Indonesia, il regno del Madagascar, eccetera). In quasi tutti questi casi si era di
      fronte ad una proprietà statale della terra, che apparteneva al despota, e che lasciava però
      la massima autonomia alle comunità produttrici che avevano soltanto obblighi fiscali
      (spesso pesanti, talvolta leggeri, eccetera). L’occidente doveva frantumare questa
      proprietà dispotica, esattamente come doveva frantumare la precedente proprietà
      comunistico-comunitaria delle tribù. Anche in questo caso, i manuali di storia non
      permettono di cogliere l’unità del processo.

  (d) La storia novecentesca, in particolare nel secolo breve 1917-1991, ha visto una quarta ed
      ultima (per ora) modalità di espropriazione capitalistica rivolta ad una società non
      capitalistica. Nonostante alcune valutazioni di tipo settario (Bordiga, Bettelheim,
      eccetera), ritengo che il modello di comunismo storico novecentesco realmente esistito,
      da non confondere assolutamente con il modello astratto di comunismo-utopico-
      scientifico di Marx (in proposito, l’ossimoro è volontario ed intenzionale), sia stato un
      esempio di proprietà collettivo-comunitaria di tipo non capitalistico, anche se ovviamente
      deformata da rapine burocratiche di vario tipo. Al netto di crimini e di errori, che non
      posso certo discutere qui, si è trattato non certo dell’applicazione di un modello
      precedente di Marx cui “riaccostarsi” oppure “discostarsi” (questa è stata soltanto
      l’immagine fantasmatica della falsa coscienza necessaria degli intellettuali creduloni
      autodefinitisi “marxisti” in assenza della smentita di Marx, che sarebbe stata possibile
      soltanto attraverso l’evocazione dell’anima del Defunto Fondatore), ma di un gigantesco
      esperimento di ingegneria sociale sotto cupola geodesica protetta. Questo esperimento, ad
      un certo punto, è finito con una restaurazione capitalistica di tipo selvaggio, attuato
      attraverso una maestosa controrivoluzione delle classi medie sovietiche. Ma di questo
      fenomeno è impossibile parlare ulteriormente qui per ragioni di spazio.

Ciò che conta, invece, è cogliere concettualmente l’unitarietà profonda di questi quattro
fenomeni. Se la si coglie (ma in proposito il mio pessimismo è molto forte, perché so quanto è
difficile acquisire un simile riorientamento gestaltico), allora si è in grado di cogliere la seconda
tappa del nostro ragionamento, l’unitarietà profonda del pensiero economico e del pensiero
politico del capitalismo, che tutti i manuali separano metodologicamente, appunto perché questa
unitarietà non venga colta.

Ed in cosa consiste questa una unitarietà? In estrema sintesi, consiste nella comprensione,
difficile ma non impossibile, per cui il fondamento politico della società capitalistica si basa a
sua volta su di un altro fondamento più importante, la costituzione autonoma del mercato e dello
scambio attraverso appunto un’autofondazione integrale, del tutto svincolata sia da premesse
filosofiche (il diritto naturale), sia da premesse politiche (il contratto sociale).

Ma cerchiamo di spiegarci meglio, attraverso alcuni rapidi ed essenziali passaggi. Sulla base di
una deduzione sociale delle categorie del pensiero a partire dall’essere sociale che ne fa da base
di riferimento, i concetti filosofici risultano quasi sempre (non sempre) essere delle metafore di
rapporti sociali. Ad esempio, il concetto greco di infinito-indeterminato (l’apeiron di
Anassimandro) appare essere la proiezione astratta di un fatto sociale reale, il pericolo di
dissoluzione comunitaria provocato dalla dinamica di infinitezza e di indeterminatezza del potere
del denaro e della proprietà privata, non frenata dalla ragione e da un giusto equilibrio armonico
delle proprietà (il logos calcolistico di Pitagora, di cui il sistema politico di Platone è solo una
formulazione ateniese altamente coerentizzata e passata attraverso il filtro della razionalità
dialogica di tipo socratico). Per fare un secondo esempio, la categoria idealistica di concetto (il
Begriff di Hegel) appare essere il conseguimento della libera autocoscienza da parte di una
soggettività matura ed autonoma. La manualistica dossografica, che si spaccia per storia della
filosofia e ne è lontana come i ghiacci eterni dai mari equatoriali, crede che termini come
apeiron, logos, e Begriff siano semplici ed opinabili contenuti di coscienza. In questo modo ogni
accesso alla conoscenza è sbarrato. E questa vale anche e soprattutto per il pensiero politico
moderno, o più esattamente per la fondazione economica del pensiero politico moderno, che
sorge dopo, e non prima, l’autonoma fondazione su se stessa, senza alcun rimando esterno
precedente, della società capitalistica.

A proposito della natura dell’empirismo, molte storie della filosofia impostano scorrettamente la
questione, presentandolo come una delle tante possibili teorie della conoscenza, più plausibile di
altre in quanto rinuncia al presupposto indimostrabile della rivelazione divina e delle cosiddette
“idee innate”. Ma non è così. L’empirismo è l’unica teoria filosofica realmente affine ed
omogenea alla produzione capitalistica generalizzata, perché la sola esperienza realmente
verificabile (in campo sociale, ovviamente), è lo scambio mercantile. Non esistono infatti altre
esperienze sociali sperimentabili, in una società capitalistica astrattamente considerata nella sua
purezza idealtipica, al di fuori dello scambio mercantile. Tutto il resto, ma proprio tutto il resto,
è soggettivo, opinabile, relativo, diversamente valutabile ed interpretabile. Soltanto lo scambio
mercantile, e null’altro, è infatti possibile in forma scientificamente quantitativa, sul modello
delle leggi di natura, e non è un caso che Adam Smith abbia considerato come fondamento
quantitativo della società capitalistica la cosiddetta legge del valore-lavoro, per cui le merci si
scambiano secondo i vari tempi di lavoro sociale astratto medio contenuti in esse. Qui
l’empirismo, e cioè l’esperienza dello scambio mercantile, diventa “scienza”, sulla base della
teoria del valore-lavoro. La critica dell’economia politica di Marx, in poche parole, si basa sul
rovesciamento dialettica dell’empirismo (di Locke) in idealismo (di Hegel), attraverso l’identità
di valore e di alienazione, e cioè attraverso l’identità contraddittoria del concetto economico di
valore e del concetto filosofico di alienazione. Chi non comprende che tutto il tessuto concettuale
della critica marxiana dell’economia politica si basa sul rovesciamento dialettico dell’empirismo
mercantile capitalistico in idealismo comunitario comunista non può che restare tristemente al di
fuori di essa.
 
La critica di Locke all’idea “metafisica” di sostanza è generalmente considerata come
un’intelligente posizione di teoria della conoscenza. Non è affatto così. Questa è l’apparenza,
non l’essenza. In realtà, la sostanza è sempre stata, fin dai tempi antichi, la metafora della base
sociale comunitaria su cui si fondavano i rapporti umani. Il precedente teorico del concetto di
sostanza, infatti, è il concetto di Essere di Parmenide, che presumibilmente esprime in forma
metaforica la stabilità e la permanenza eterna nel tempo del modello della buona legislazione
pitagorica dei rapporti politici della polis (in questo caso, della polis di Elea), che a sua volta è il
presupposto del concetto di Idea di Platone, che presumibilmente esprime in forma metaforica lo
stesso contenuto dell’Essere parmenideo, e cioè la perfezione ideale insuperabile del modello
politico di convivenza comunitaria. In Aristotele, teorico della sostanza, l’universalità in senso
pieno è propria non del genere ma della specie, e più esattamente della specie Uomo, inteso
come animale sociale, politico e comunitario (politikòn zoon) e come animale dotato di ragione,
linguaggio, capacità di persuasione politica e capacità di calcolo sociale delle corrette
proporzioni della ricchezza e del potere (zoon logon echon).

La pensabilità sociale della nuova società capitalistica è impossibile su basi aristoteliche. Per
primo Hobbes colpisce al cuore la teoria aristotelica della natura umana, contrapponendole una
natura bellicosa e proprietaria. La negazione di Locke della teoria della sostanza mira a negare
che al di sotto dello scambio mercantile ci sia qualcosa che sia irriducibile ad esso (una
“sostanza”, appunto), per cui la società intera è ricostruita pensandola come una rete di scambi
mercantili individuali. Ma l’individuo è appunto un Robinson, che fonda il suo diritto alla
proprietà nell’isola deserta sulla base del suo lavoro (e del resto Defoe e Locke vivono negli
stessi anni). Si tende in genere a presentare Kant come un avversario dell’empirismo, e questo è
certamente vero nel campo della pura teoria della conoscenza, ma dal punto di vista della morale
sociale Kant è individualista esattamente come Locke.

E tuttavia, il pensiero politico specificatamente capitalistico nasce in Scozia, con il binomio
Hume-Smith. Bisogna comprendere fino in fondo che tutta la filosofia politica del capitalismo si
basa su di un solo ed unico fondamento rigidamente monoteistico, l’autofondazione
dell’economia su se stessa, senza alcun precedente intervento filosofico (il diritto naturale)
oppure politico (il contratto sociale). Questa egemonia durerà fino a quando (e non è ancora
successo) essa verrà sostituita da un paradigma alternativo per cui lo scambio economico dovrà
essere legittimato, e quindi anche di fatto limitato, da una decisione politica a sua volta fondata
su basi filosofiche (e cioè una teoria del Male Sociale). Il fattore economico, ovviamente, non
scomparirà affatto, ma verrà subordinato alla fondazione filosofica ed alla sua derivazione
politica. Si tratta della maggiore eredità della tradizione greca classica, e chi ci si ricollega potrà
essere tranquillamente definito un pensatore tradizionalista (così io interpreto, ad esempio,
Averroé, Tommaso, Spinoza, Hegel e Marx).

Facciamola corta. Noi ereditiamo quindi almeno trecento anni di filosofia politica, la cui corrente
principale è solo falsamente e fintamente “politica”, perché accetta il presupposto della auto
fondazione dell’economia su se stessa. Il migliore teorico di questa auto fondazione
dell’economia su se stessa è stato David Hume, per cui bisogna prima di tutto liberarci dalla
ingannevole nozione di causalità. La società si autofonda senza alcuna causalità sulla semplice
abitudine allo scambio, e non c’è ovviamente nessun bisogno di ipotizzare una “causazione”
politica da parte di un inesistente contratto sociale. A sua volta, se non esiste un contratto sociale,
non esistono neppure i suoi presupposti filosofici indimostrabili, che sono le (inesistenti) norme
del diritto naturale. Il modello metafisico di Hume si fonda su tre pilastri negativi (inesistenza di
Dio, inesistenza del diritto naturale, inesistenza del contratto sociale) e di conseguenza su di un
solo pilastro positivo che può sfuggire al suo “scetticismo”, e cioè lo scambio mercantile. Al di
fuori dello scambio mercantile, non si può e non si deve dimostrare proprio nulla.

Empirismo, scetticismo, individualismo, ecco la trinità materialistica della nuova fondazione
capitalistica. Il fatto che per alcuni secoli la società capitalistica abbia ampiamente utilizzato le
tradizioni religiose della masse, insieme con la complicità degli apparati sacerdotali (di tutti
indistintamente gli apparati sacerdotali, cattolico, protestante, ortodosso, ebraico, musulmano,
eccetera) ha fatto pensare ai rivoluzionari che abolita la religione si sarebbe anche aperta la
strada concettuale per il superamento della società capitalistica. Errore. Errore comprensibile, ma
sempre errore. Lo spirito del capitalismo non sopporta a lungo termine un principio che gli sia
superiore (Dio infatti, se esiste, è certamente un principio di legittimazione superiore alla
semplice auto fondazione economica capitalistica). Ed infatti oggi lo sbaraccamento simbolico
della religione, tollerata soltanto come agenzia caritativa di assistenza ai migranti, ai marginali
ed ai poveracci, è sotto gli occhi di tutti. Fa eccezione, ma è una eccezione soltanto apparente, la
religione eccezionali stico-messianica dell’impero USA, ma non si tratta più di una religione,
quanto di un culto imperiale di dominio.

I manuali di storia dell’oligarchia dominante presentano gli ultimi due secoli come lo scenario di
una progressiva felice fusione fra il liberalismo e la democrazia, con la finale mescolanza ben
riuscita del principio liberale delle tutele dell’individuo e del principio democratico della
sovranità popolare. Si tratta di una tragicomica mistificazione, che alla luce del presente (2010)
permette di illuminare meglio il modo in cui ci hanno mentito nella interpretazione globale degli
ultimi due secoli. La sovranità popolare è qualcosa che avrebbe senso soltanto in un contesto di
sovranità della politica sull’economia, o più esattamente della decisione politica comunitaria sui
meccanismi ciechi ed anonimi dell’economia (ed era infatti così che intendevano la democrazia
gli antichi greci, che solo un ignorante e/o un mascalzone possono indicare come nostri
predecessori in “democrazia”). In quanto al primato dell’individuo, vi è oggi certamente una
speciale attenzione al primato del consumatore (sia pure manipolato dalla pubblicità e dai
modelli coattivi di conformismo consumistico), ma all’individuo è stato tolto addirittura il
fondamento della sua consistenza sociale, la stabilità a lungo termine del lavoro. È quindi in un
certo senso vero che il liberalismo e la democrazia si sono fusi in liberaldemocrazia, purché si
aggiunga che la liberaldemocrazia è un involucro vuoto, in cui una concezione individualistica
ed anomica del liberalismo prevale sullo svuotamento integrale della decisione democratica
sovrana.

Per questa ragione la cosiddetta “liberaldemocrazia”, essendo appunto inesistente, non presenta
alcun interesse teorico. L’inesistente fa parte dell’invenzione letteraria ed artistica, non della
riflessione filosofica. Il solo “esistente”, per quello che ci interessa, è il tentativo storico di
rovesciare la vera “legge di Hume” (non certo la fallacia naturalistica, del tutto inesistente e cibo
per imbecilli), e cioè la totale auto fondazione dell’economia su se stessa senza presupposti
filosofici e politici. Nell’ottocento si è trattato di quel vario e meraviglioso fenomeno chiamato
“socialismo”, di cui il marxismo è stato soltanto un episodio, e neppure il più importante (anche
se Marx continua a godere di una certa superiorità teorica sugli altri pensatori, almeno a mio
parere). Dal momento che il socialismo, globalmente inteso, si fondava sulle classi popolari,
proletarie ed operaie che fronteggiavano la borghesia liberale, si deve purtroppo arrivare alla
triste e sconsolata conclusione, in sede di bilancio storico privo di geremiadi moralistiche di
accompagnamento, che la borghesia nel suo complesso è una Signora Classe, immensamente più
performativa ed abile del Volenteroso ma anche Penosissimo e Confuso Proletariato.

Questa può sembrare una formulazione aristocratica, superomistica e di “destra”. Neppure per
sogno. Si tratta semplicemente di una libera e pittoresca sintesi del pensiero di Lenin. La teoria
del partito comunista di Lenin ha come sua premessa (spesso taciuta per motivi di politicamente
corretto retroattivo) il bilancio storico secolare della totale impotenza ed incapacità strategica
delle classi popolari intese nella loro immediatezza culturale e sociologica. Del resto, il 1976-
1978 in Cina ed il 1989-1991 in URSS lo hanno ampiamente dimostrato. Eliminato il partito, o
meglio corrotto fino alle midolla (cambiato di colore, nel lessico di Mao), le classi popolari sono
tornate ad essere volgo disperso ed esercito industriale di riserva. Senza Lenin, Stalin, Mao,
Castro, eccetera, le classi popolari sono ridotte a battere penosamente i tamburi delle sfilate dei
metalmeccanici.

Il comunismo storico novecentesco realmente esistito, pur avendo poco o nulla a che fare con il
modello teorico utopico-scientifico di Marx (l’ossimoro è come sempre intenzionale), è però
storicamente stato qualcosa di meraviglioso, e da rivendicare totalmente in tutti i suoi aspetti,
positivi e negativi (incluso ovviamente Stalin e Mao). Si è trattato di un maestoso esperimento di
ingegneria sociale di tipo positivistico sotto cupola geodesica protetta, rovesciato alla fine da una
altrettanto maestosa controrivoluzione dei ceti medi. Ma di questo ho già parlato. La ripetizione
serve soltanto a non far mancare l’occasione di dire che è stato una cosa meravigliosa, e la sua
fine è stata la più grande catastrofe storica del novecento.

E tuttavia la fine del comunismo storico novecentesco ci costringe a cambiare decisamente il
nostro scenario politico di orientamento. Ma qui appunto le mort saisit le vif. E le mort saisit le vif
perché tutte le strutture ideologiche ereditate dal novecento vogliono inchiodarci ai
contenziosi simbolici dello scenario novecentesco, prima fra tutti la dicotomia Fascismo-
Antifascismo. Dicotomia che ha naturalmente avuto un’importanza centrale in Europa fra il 1919
ed il 1945, ma che oggi non esprime più un contrasto reale, ma funziona da semplice protesi
manipolatoria di legittimazione simbolica. Ed è questo allora il problema. Quanto tempo ancora
deve passare perché si possa dire che
le mort ne saisit plus le vif, per dirla con Marx?

mercoledì 4 dicembre 2013

la democrazia è diventata un involucro vuoto, vogliono ridurre tutto al momento elettorale

P.Dardot e C.Laval: La nuova ragione del mondo

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La nuova ragione del mondo

Il neoliberismo come forma di vita

di Pierre Dardot e Christian Laval

[Esce in questi giorni per DeriveApprodi l'edizione italiana di La nuova ragione del mondo. Critica della razionalità neoliberista di Pierre Dardot e Christian Laval, un libro importante nel dibattito sul neoliberismo contemporaneo. Il libro di Dardot e Laval è una vera «genealogia del presente», scrive Paolo Napoli nella prefazione all'edizione italiana, un tentativo di spiegare come le società contemporanee siano diventate ciò che sono. Per Dardot e Laval il neoliberismo non è solo un'ideologia o una politica economica: è innanzitutto una forma di vita, una nuova razionalità pervasiva che struttura l'identità individuale e i rapporti sociali, imponendo a tutti di vivere in un universo di competizione generalizzata, di concorrenza mercantile, di governamentalità diffusa. Presentiamo alcune pagine del capitolo finale].
La fine della democrazia liberale
Quali sono gli aspetti fondamentali che caratterizzano la ragione neoliberista? Alla fine di questo studio, possiamo identificarne quattro.
Primo, al contrario di quello che affermano gli economisti classici, il mercato non è un dato naturale ma una realtà costruita, che come tale richiede l’intervento attivo dello Stato e la realizzazione di un sistema di diritto specifico. In questo senso, il discorso neoliberista non è direttamente connesso con un’ontologia dell’ordine commerciale. Perché lungi dal cercare la propria legittimazione in un certo «corso naturale delle cose», esso assume deliberatamente e apertamente il proprio carattere di «progetto costruttivista»[1].
Secondo, l’essenza dell’ordine di mercato non sta nello scambio, ma nella concorrenza, definita essa stessa come rapporto di disparità tra unità di produzione distinte, o «imprese». Costruire il mercato implica di conseguenza la generalizzazione della concorrenza come norma delle pratiche economiche[2].
A questo proposito vanno riconosciute le conseguenze della prima lezione degli ordoliberali: la missione dello Stato, ben oltre il ruolo tradizionale di «guardiano notturno», è realizzare l’«ordine-quadro» a partire dal principio «costituente» della concorrenza, e poi «vigilare sul quadro generale»[3] e verificare che tutti gli agenti economici lo rispettino.
Terzo, e ancora più innovativo sia rispetto al primo liberalismo che al liberalismo «riformatore» degli anni 1890-1920, lo Stato non è solo un guardiano che vigila sul quadro, ma è esso stesso sottoposto nella propria azione alla norma della concorrenza. Seguendo l’ideale di una «società di diritto privato»[4], non c’è ragione per cui lo Stato dovrebbe far eccezione alle regole di diritto che deve far applicare. Al contrario, qualsiasi forma di autoesenzione o autoderoga da parte sua non può che squalificarlo dal ruolo di guardiano inflessibile di tali regole. Dal primato assoluto del diritto privato risulta uno svuotamento progressivo di tutte le categorie del diritto pubblico, disattivato a livello operativo senza essere smantellato formalmente. Lo Stato oramai è tenuto a considerarsi come un’impresa, sia nel suo funzionamento interno che nelle sue relazioni con gli altri Stati. Così lo Stato, cui è affidata la costruzione del mercato, deve al tempo stesso costruirsi secondo le norme del mercato.
Quarto, l’esigenza di universalizzazione della norma della concorrenza supera di molto le frontiere dello Stato, e tocca direttamente gli individui nel loro rapporto con se stessi. La «governamentalità imprenditoriale», che deve prevalere al livello dell’azione statale, trova un naturale prolungamento nel governo di sé dell’«individuoimpresa ». Ovvero, più correttamente, lo Stato imprenditoriale, come gli attori privati della governance, deve condurre indirettamente gli individui a gestire se stessi come imprenditori. La modalità governamentale propria del neoliberismo comprende dunque «l’insieme delle tecniche di governo che oltrepassano l’azione statale in senso stretto, e organizzano il modo di gestire se stessi degli individui »[5]. L’impresa è promossa al rango di modello di soggettivazione: siamo tutti imprese da gestire e capitali da far fruttare. […]

Un dispositivo di natura strategica
Il fatto essenziale è che il neoliberismo è divenuto oggi la razionalità dominante. Della democrazia liberale non è rimasto che un involucro vuoto, condannato a sopravviversi sotto la forma degradata di una retorica talvolta «commemorativa», talvolta «marziale». In quanto razionalità, il neoliberismo ha preso corpo in un insieme di dispositivi tanto discorsivi quanto istituzionali, politici, giuridici, economici, che formano una rete complessa e volubile, soggetta a riprese e aggiustamenti dovuti all’insorgere di effetti indesiderati a volte in completa contraddizione con gli scopi iniziali. Si può parlare in questo senso di dispositivo globale, che, come tutti i dispositivi, ha natura essenzialmente «strategica», per riprendere uno dei termini più cari a Foucault[6]. Ciò vuol dire che il dispositivo è il risultato di un intervento concertato che mira, dati una situazione di rapporti di forza, a modificarla in una certa direzione in funzione di un «obiettivo strategico»[7]. L’obiettivo non dipende da uno stratagemma, dalle trame di un soggetto collettivo esperto di manipolazione, ma si impone agli attori stessi e produce così il suo proprio soggetto. Come abbiamo visto più sopra, è proprio quello che è successo negli anni Settanta-Ottanta con l’innesto di un progetto politico su una dinamica endogena di regolazione, combinazione di due logiche che arriva a imporre l’obiettivo strategico della concorrenza generalizzata. Dunque non esiste un progetto cosciente di passaggio dal modello fordista di regolazione a un altro modello, che avrebbe dovuto essere concepito intellettualmente prima di essere realizzato seguendo un piano in una fase successiva.
Attribuire un carattere strategico al dispositivo richiede di tener conto delle situazioni storiche che ne permettono lo sviluppo, e spiegano la serie di aggiustamenti a cui va soggetto nel tempo e la varietà di forme che assume nello spazio. Solo a questa condizione si può comprendere la «svolta» imposta ai dirigenti dei paesi capitalisti dominanti dall’ampiezza della crisi finanziaria. Come abbiamo visto, essa apre una crisi della governamentalità neoliberista.
Oggi, al di là delle prime «riparazioni» d’urgenza (nuove norme di contabilità, un minimo controllo dei paradisi fiscali, riforma delle agenzie di rating), ci troviamo probabilmente di fronte a un aggiustamento d’insieme del dispositivo Stato/mercato. Non c’è nulla di strano nel fatto che alcuni economisti prendano in considerazione un nuovo «regime di accumulazione del capitale» da sostituire al regime finanziario fondato sull’indebitamento perpetuo delle famiglie. Arrivare a dedurne che il nuovo regime di crescita, servendosi di meccanismi diversi dall’inflazione dei titoli immobiliari e finanziari, coinciderà spontaneamente con una revisione diretta della razionalità neoliberista, sarebbe d’altra parte assai imprudente. Ma preconizzare il prossimo avvento di un «capitalismo buono» dalle norme di funzionamento risanate, ancorato stabilmente all’«economia reale», rispettoso dell’ambiente, attento ai bisogni delle popolazioni e, perché no, preoccupato del bene comune dell’umanità, tutto questo, se non un racconto edificante, è almeno un’illusione altrettanto nociva che l’utopia del mercato autoregolato. La prospettiva realistica è che si entri in una nuova fase del neoliberismo. È anche possibile che questa nuova fase sia accompagnata, sul piano ideologico, da una patina di «ritorno alle origini». Dopotutto, l’appello alla «rifondazione del capitalismo regolato» non ricorda forse i toni dei rifondatori degli anni Trenta, che opponevano il buon «codice stradale» delle regole di diritto alla cieca «legge naturale» dei vecchi laissez-fairisti? Assisteremo forse, grazie a uno di quegli spostamenti di equilibrio il cui segreto sta nell’ideologia, a un ritorno della variante specificamente ordoliberale? Non possiamo escluderlo, tanto più che questa è stata a lungo relegata in subordine dalla sua concorrente austroamericana, quando non completamente ignorata[8].
Il carattere strategico del dispositivo neoliberista sarebbe altrettanto misconosciuto se lo si mettesse in rapporto con il Gestell dell’- Heidegger più tardo o con l’oikonomía della teologia cristiana del II secolo, come suggerisce indirettamente Agamben in Che cos’è un dispositivo?[9]. Parlare, come fa lui, di una «genealogia teologica» dei «dispositivi» foucaultiani, vuol dire trascurare che anche se i dispositivi non hanno effettivamente «alcun fondamento nell’essere» e sono di conseguenza votati a «produrre il loro soggetto», non per questo ripetono la «cesura che separa in Dio essere e azione, ontologia e prassi»[10]: a differenza del governo degli uomini da parte di Dio, che rinvia al problema teologico dell’Incarnazione, essi si costituiscono sempre a partire da condizioni storiche singolari e contingenti, e dunque hanno un carattere esclusivamente «strategico», e non «destinale» o «epocale». A questo proposito è bene ricordare l’appunto di Foucault sulla specificità della nuova problematizzazione del governo che vede la luce tra il 1580 e il 1660: se l’azione del governo dà luogo a tematizzazione, è perché non trova «modelli ricavabili da Dio o dalla natura»[11]. In altri termini, non è il «retaggio teologico» del governo degli uomini e del mondo da parte di Dio che spiega come il governo degli uomini da parte degli uomini sia un problema, ma la crisi del modello del «governo pastorale» del mondo da parte di Dio che libera la riflessione sull’arte di governare gli uomini. Ciò che è vero per l’emergere del problema generale del governo è vero anche per la costituzione della forma specificamente neoliberista della governamentalità. Quest’ultima non è né la conseguenza necessaria del regime di accumulazione del capitale, né una delle metamorfosi della logica generale dell’Incarnazione, né un misterioso «invio dell’Essere», e tanto meno una semplice dottrina intellettuale o una forma effimera di «falsa coscienza».
Resta il fatto che la razionalità neoliberista può entrare in contatto con ideologie estranee alla pura logica commerciale, senza per questo cessare di essere la razionalità dominante. Come scrive giustamente la Brown, «il neoliberismo può imporsi come governamentalità anche senza costituire l’ideologia dominante»[12]. Certo, ciò non si verifica mai senza tensioni o contraddizioni. L’esempio americano è particolarmente istruttivo a questo riguardo. Il neoconservatorismo si è imposto come ideologia di riferimento della nuova destra, anche se l’«alto tasso di moralismo» di tale ideologia sembrerebbe incompatibile con il carattere «amorale» della razionalità neoliberista[13]. Un’analisi superficiale potrebbe far pensare a un «doppio gioco». In realtà, tra neoliberismo e neoconservatorismo esiste una corrispondenza che non è per nulla fortuita: se la razionalità neoliberista eleva l’impresa al rango di modello della soggettivazione, è proprio perché la forma-impresa è la «forma cellulare» di moralizzazione dell’individuo lavoratore, proprio come la famiglia è la «forma cellulare di moralizzazione del bambino[14]. Di qui l’elogio incessante dell’individuo calcolatore e responsabile (presentato il più delle volte come un padre di famiglia lavoratore, economo e previdente) che accompagna lo smantellamento dei sistemi pensionistici, istruzione pubblica e sanità. Molto più che una semplice «zona di contatto», il collegamento di impresa e famiglia costituisce il punto di convergenza o sovrapposizione tra normatività neo479 liberista e moralismo neoconservatore. Ragion per cui è sempre pericoloso criticare il conservatorismo morale e culturale attaccandosi al presunto «liberismo» dei suoi partigiani in campo economico: cercando di smascherare l’«incoerenza» di questi ultimi, si rivelerebbe soprattutto la propria scarsa comprensione della differenza tra neoliberismo e laissez-faire, e per di più si rischierebbe di dover assumere una sorta di laissez-fairismo integrale e sistematico per salvare la coerenza della propria critica.
Ma la temporanea alleanza di neoconservatorismo e neoliberismo non vuol dire che un nuovo amalgama ideologico, una combinazione di ingredienti di provenienze diverse, non possa prendere il posto di una corrente di pensiero oggi piuttosto anemica. La sinistra di ispirazione blairista ha già mostrato in passato che la celebrazione lirica della modernità sotto tutti i suoi aspetti, compresa la liberazione dei costumi, poteva collegarsi benissimo con la razionalità neoliberista. Non è escluso che su un altro piano, quello della politica economica, alcuni elementi della dottrina keynesiana non vengano a rinsaldare la pratica del governo imprenditoriale: rilancio temporaneo di una politica di spesa pubblica, sospensione dei criteri di stabilità monetaria, misure per tenere a freno le speculazioni dei mercati, ecc., tutti elementi che non arrivano mai a toccare la ripartizione fondamentale dei profitti tra capitale e lavoro, e dunque a rinnovare un compromesso salariale comparabile a quello del dopo guerra. Questo concorso puramente circostanziale e «pragmatico» non è di per sé in grado di intaccare la logica normativa del neoliberismo, che potrebbe essere sconfitta soltanto da sollevazioni estremamente ampie.


[1] Cfr. W. Brown, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, in W. Brown, Edgework. Critical essays on knowledge and politics, Princeton University Press, Princeton 2005, p. 40.
[2] Tale norma non esclude affatto strategie di «alleanza» messe in atto dalle imprese per potenziare i loro «vantaggi competitivi», anzi le rende necessarie. Da cui la fortuna nel vocabolario del management del termine «coopetizione», che evidenzia il ricorso a una combinazione morbida di cooperazione e concorrenza. Tuttavia le relazioni informali tramite le quali avviene lo «scambio di saperi» tra aziende concorrenti non si possono ricondurre, non più della «cooperazione volontaria» vantata da Spencer sotto la forma del contratto, a una vera cooperazione nel senso di una condivisione non transazionale.
[3] Sul senso di queste espressioni si veda il capitolo 7 per la prima, il capitolo 10 per la seconda.
[4] Su questa espressione di Böhm si veda il capitolo 7, sulla ripresa e approfondimento di Hayek il capitolo 9.
[5] W. Brown, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, cit., p. 43.
[6] Sul concetto allargato di «dispositivo» in quanto rete di elementi eterogenei che dipendono tanto dal discorsivo quanto dal «sociale non discorsivo», vedi M. Foucault, Le jeu de Michel Foucault, in Dits et Écrits, cit. vol. II, pp. 299-301.
[7] Ibid.
[8] Quest’indifferenza, che può arrivare fino alla pura e semplice negazione (l’ordoliberalismo
non è neoliberismo), è certamente uno dei motivi per cui il neoliberismo è così spesso ridotto all’ideologia del libero mercato. L’altro motivo è l’inversione del nesso di causalità tra globalizzazione della finanza e ragione neoliberista di cui abbiamo accennato più sopra (supra, capitolo 12). Una doppia identificazione ha avuto così fortuna duratura: il neoliberismo non è altro che il mercato autoregolato generato dalla finanza. Da cui la conclusione affrettata che la crisi finanziaria segni la fine del neoliberismo.
[9] G. Agamben, Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Roma 2006, pp. 15-18. Il termine Gestell indica un ordinamento in cui l’uomo è costretto a svelare il reale «sul modo dell’ordinare», il che definisce per Heidegger l’essenza della tecnica moderna. Quanto all’oikonomía dei teologi, essa permette di concepire il governo degli uomini e del mondo come affidato da Dio a suo Figlio. È significativo che Agamben dia al concetto di «dispositivo » un’estensione difficilmente compatibile con la preoccupazione di Foucault per la singolarità storica (Ivi, pp. 19-20).
[10] Ivi, p. 17. L’idea è ripresa e approfondita ne Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo. Homo sacer, II, 2, Neri Pozza, Vicenza 2007, cap. 3, pp. 69-80.
[11] M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione, Feltrinelli, Milano 2005., p. 173.
[12] L’autrice aggiunge subito dopo che «la prima fa riferimento all’esercizio del potere, mentre la seconda a un ordine di credenze popolari che può corrispondere perfettamente alla prima o meno, e che può addirittura costituire un punto di resistenza alla governamentalità», W. Brown, Neoliberalism and the End of Liberal Democracy, cit., p. 49
[13] Ivi, p. 143, nota 5 [«the high moral tone»]. Va osservato che l’autrice parla nella stessa nota del neoconservatorismo come di un’«ideologia»: «Neoliberalism and neoconservatism are quite different, not least because the former functions as a political rationality while the latter remains an ideology». Mentre in un altro recente saggio, intitolato American Nightmare: Neoliberalism, Neoconservatism, and De-Democratization («Political Theory», XXXIV, n. 6, 2006, pp. 690-714), la Brown parla del neoliberismo e del neoconservatorismo come di due «razionalità politiche». Per quanto ci riguarda, crediamo che nessuna simmetria tra razionalità neoliberista e ideologia neoconservatrice sia possibile.
[14] L’impresa costituisce lo «zoccolo etico-politico» del neoliberismo. In effetti già in Röpke, agli albori del pensiero neoliberista, la forma-impresa è concepita come forma di «moralizzazione-responsabilizzazione» dell’individuo (cfr. capitolo 7).
http://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/3241-pdardot-e-claval-la-nuova-ragione-del-mondo.html 

martedì 3 dicembre 2013

nascondere la testa sotto la sabbia è la sottomissione culturale-ideologica: MAI più rovesciare le classi dominanti

Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale.
Considerazioni politiche e filosofiche
di Costanzo Preve
1. Introduzione. Sul nemico principale. Commento di una recente formulazione di Alain de Benoist
2. Le mort saisit le vif (Marx). Il peso inerziale ormai insopportabile della storia
tricentenaria del profilo della filosofia politica moderna e della sua variante subalterna postmoderna
3. Il primato dello struzzo. Lo struzzo come animale totemico-tribale del passaggio dal realismo storico-politico al moralismo ostensivo testimoniale
4. L’imbecillità socialmente organizzata. Per una nuova teoria degli intellettuali e delle strutture ideologiche
5. Il nemico principale in economia: il capitalismo e la società di mercato
6. Il nemico principale in politica: il liberalismo
7. Il nemico principale in filosofia: l’individualismo
8. Il nemico principale nella società: la borghesia
9. Il nemico principale in geopolitica: gli Stati Uniti d’America
10. Conclusione. Verso un radicale riorientamento gestaltico nella visione complessiva del
mondo storico e politico



Il primato dello struzzo. Lo struzzo come animale totemico-tribale nel passaggio dal realismo storico-politico al moralismo ostensivo testimoniale
Il filosofo americano Charles Peirce ha studiato in modo sistematico il modo in cui vengono acquisiti e “fissati” nella mente i convincimenti e le credenze. I modi sono sostanzialmente quattro, ma qui non c’è lo spazio, e neppure la necessità, di indagarli tutti. Ne varrebbe la pena, perché Peirce conclude in modo disincantato che l’indagine razionale, liberata da autorità indiscusse e testardaggini identitarie, riguarda soltanto un numero ristrettissimo di individui.
Maggioritario è invece il comportamento dello struzzo, che piuttosto che dover essere messo in condizione di mettere in dubbio le proprie credenze, preferisce mettere la testa sotto la sabbia. E tuttavia, questo non deve stupire.
Nel prossimo capitolo, distinguerò fra imbecillità naturale e imbecillità socialmente organizzata. Come è ovvio, soltanto la seconda può essere fatta oggetto di analisi storica e politica, laddove la prima è soltanto oggetto per psicologi, insegnanti e parenti trasecolati. Ma la figura dello struzzo merita un approfondimento maggiore.
Perché l’uomo, che non è uno struzzo, si comporta come uno struzzo? Questo è certamente comprensibile in alcuni casi limite dell’esistenza umana concreta (ad esempio, la persona che rimuova la propria malattia inguaribile per vivere più serenamente ciò che gli resta da vivere), o anche in alcuni casi più correnti (ad esempio, chi rimuove la conoscenza di un adulterio per quieto vivere o per sfiducia in una ricomposizione impossibile), ma diventa meno comprensibile
in alcune questioni generali di tipo conoscitivo, filosofico e politico.
 
Eppure, non ci si dovrebbe stupire. L’uomo teme soprattutto la solitudine culturale e politica, insieme con la dissoluzione di precedenti legami di tipo identitario, politico ed ideologico. È pertanto del tutto logico che la sua mente funzioni come un selettore automatico, o meglio come una saracinesca, che si chiude quando cercano di passare argomentazioni che potrebbero realmente mettere in crisi i suoi convincimenti. Personalmente ho fatto tante volte l’esperienza pratica di comunicazioni impossibili e di immediate attivazioni della strategia dello struzzo da non considerarla neppure più patologica, ma del tutto normale. Mi stupisco, invece, quando molto raramente mi trovo di fronte a quella che dovrebbe essere la situazione socratica normale, e cioè la disponibilità a mettere dialogicamente in discussione la propria identità. Sono giunto in
proposito a conclusioni molto pessimiste, a proposito della possibilità trascendentale della comunicazione filosofica fra le persone. Prima viene la preservazione dell’identità, poi viene il pericolo della messa in discussione dell’appartenenza, soltanto terza ed ultima viene la disponibilità all’ascolto ed al dibattito. Prima viene lo struzzo, poi viene la pecora, animale gregario per eccellenza spaventato dal proprio cane da pastore, e per ultimo viene il lupo
solitario.  E tuttavia, bisogna uscire dal generico e cercare di capire la ragione
odierna dell’assoluta prevalenza della figura dello struzzo. In proposito, espliciterò qui la mia personale interpretazione storico-psicologica del fenomeno dello struzzismo.
Subito dopo la tragicomica dissoluzione del comunismo storico novecentesco realmente esistito (da distinguere da quello utopico-scientifico di Marx e da quello onirico-fantasmatico degli intellettuali di sinistra e delle anime belle politicamente corrette), la poderosa macchina ideologica delle oligarchie vincitrici si mise immediatamente in moto. Si trattava infatti di consolidare e rendere stabile la gigantesca vittoria conseguita, e questo richiedeva una immediata trasformazione del precedente apparato ideologico. Il precedente apparato ideologico si basava su una dichiarazione che l’idea egualitaria di socialismo era buona, ed era soltanto cattiva la sua forma dispotica e totalitaria (STASI, KGB, SECURITATE, eccetera), per cui si evocava una sorta di socialdemocrazia svedese in Russia, con tutti contenti e garantiti, soltanto con un po’ di economia mista, di piccola e media proprietà privata e di integrale libertà di stampa e di
espressione. E chi non vorrebbe un simile paradiso norvegese? Ovviamente, tutti lo vorrebbero.
Si trattava, ovviamente, di una sporca menzogna, rivolta a quel gruppo di inguaribili deficienti denominati “intellettuali di sinistra”. Subito dopo il crollo non arrivarono Oslo, Stoccolma e Copenaghen, ma arrivarono gli oligarchi mafiosi ed assassini, lo smantellamento di tutti i servizi sociali, la morte per fame ed inedia dei pensionati, eccetera, il tutto seguito dalla gigantesca emigrazione maschile e femminile in occidente. Al posto dei servizi sociali svedesi, la feroce
accumulazione del capitale di cui aveva parlato Marx, e che ha fatto sì che nel capitolo precedente io abbia intenzionalmente collocato la distruzione del comunismo storico novecentesco come quarto esempio unito ai tre precedenti (espropriazione delle classi subalterne interne, espropriazione delle comunità “selvagge” comunistico-comunitarie, frantumazione dei dispotismi asiatici).
E tuttavia, la macchina ideologica delle oligarchie doveva impadronirsi simbolicamente del passato, per poterlo riscrivere a suo modo, seguendo qui una prassi assolutamente abituale da circa quattromila anni (damnatio memoriae, eccetera). Il novecento doveva essere ridefinito come Secolo degli Orrori, o più esattamente delle utopie totalitarie e delle ideologie assassine. Si trattava di una strategia ideologica molto buona, che anch’io avrei certamente consigliato se mi
avessero prezzolato come consulente ideologico. Il fallimento del comunismo storico novecentesco era in questo modo del tutto decontestualizzato dalle sue concrete motivazioni storiche e politiche determinate (in estrema sintesi, dalla pittoresca incapacità egemonica della sua base sociale e sociologica, le classi subalterne delle fabbriche e dei campi, dipendenti al cento per cento dalla struttura partitico-dispotica che la teneva politicamente insieme), per essere
inserito in una teodicea metafisica dell’intera storia umana, che poteva essere riassunta in un solo semplice insegnamento definitivo: mai più provarci a cercare di rovesciare le classi dominanti, perché il provarci ancora una volta avrebbe inevitabilmente comportato il secolo degli orrori (1), le utopie totalitarie (2), e infine il regno delle ideologie assassine (3). Per i supercolti allievi di facoltà universitarie si poteva sempre aggiungere altri elementi di contorno, come l’incredulità rispetto alle grandi narrazioni (1), la fine della storia (2), il pensiero debole (3), lo scetticismo liberale (4), la consumazione della lunga storia della metafisica occidentale in tecnica planetaria (5), la liberalizzazione comportamentale dell’Oltreuomo nicciano (6), il relativismo come inevitabile portato della modernità (7), la distruzione della religione attraverso il darwinismo, la deriva dei continenti e la sintesi clorofilliana (8), eccetera (ma dico eccetera soltanto perché mi sono stancato di enumerare: il circo ideologico sarebbe composto da almeno quaranta differenziati pagliacci).
Come ho detto si tratta di una strategia ideologica molto buona che io stesso, adeguatamente remunerato, avrei consigliato alle oligarchie. Ma per consolidare la vittoria ci voleva qualcosa di più, cioè l’instaurazione di un gigantesco complesso di colpa retroattivo in tutti coloro (assai numerosi nella generazione politica 1950-1990) che avevano in qualche modo condiviso, o almeno giustificato, il ciclo del comunismo storico novecentesco preso nel suo insieme.
Bisognava colpevolizzarli nella loro sofferente ed inquieta animuccia, e farli sentire colpevoli non solo per quello che avevano fatto, ma per quello che forse avrebbero potuto fare se per caso fossero passati degli slogan gridati, totalmente virtuali ed impotenti, a programmi reali, necessariamente criminali.
Si è quindi fabbricato abbastanza velocemente un Museo degli Orrori, cui è stato ridotto l’intero novecento (Monaco 1938, Pearl Harbour 1941, Gulag 1917-1991, Armenia 1915, Auschwitz 1943, Bosnia 1993, Ruanda 1994, eccetera), da cui in genere viene esentata Hiroshima in quanto, sia pure orrenda, è pur sempre servita a vincere il Male Assoluto, e cioè il fascismo mondiale.
Questa riduzione unidimensionale del Novecento a Secolo degli Orrori (NSO) ha in ogni caso una funzione eminentemente preventiva: si vuole prevenire la malaugurata ipotesi che le classi subalterne ci possano riprovare, anziché accettare il destino della sottomissione illimitata alle ripugnanti oligarchie che dominano il mondo. Ma questo viene fatto coltivando nell’abietto gruppo sociale degli intellettuali un particolare senso di colpa per averci “provato”, in modo che
il non provarci mai più si costituisca quasi geneticamente nella stessa memoria infantile.
Appare chiaro che il cosiddetto postmoderno non è che un momento interno alle mistificazioni del normale capitalismo “moderno”. Ma appare ancora più chiaro che la concezione realista del mondo, base dell’idealismo rivoluzionario di Fichte, Marx e Lenin (trascuro qui il problema se la loro filosofia della prassi possa essere meglio definita in termini di “idealismo” o nei più consueti e tradizionali termini di “materialismo” - mi sembra di aver manifestato chiaramente la
mia opinione in proposito) deve essere investita da un complesso di colpa per essersi “sporcate le mani”, e così sostituita da una concezione moralistica del mondo, condita di geremiadi, lamenti pecoreschi, belati vari, battersi il petto e promettere che mai, mai più, non lo faremo mai più.
Questo è certo solo temporaneamente. Ma la temporaneità, a livello storico, può durare secoli, o almeno un buon secolo. Ma l’imbecillità sta appunto nel credere che queste siano le Lezioni della Storia (maiuscolo), anziché soltanto l’effetto di una macchina ideologica dell’oligarchia, che ha prodotto certamente una efficace strategia di lungo periodo (a mio avviso, durerà certamente ancora decenni, salvo una possibile accelerazione dovuta a dati per ora imprevedibili, diciamo un 11 settembre 2001 al cubo), ma che non potrà tuttavia durare per sempre.