di Andrea Marcigliano
(Il
Borghese – Luglio 2014) – L’affermazione dei partiti chiamati troppo
genericamente «euroscettici» nelle Elezioni Europee dello scorso Maggio
ha fatto versare i classici fiumi di inchiostro, o meglio di parole, in
una sorta di logorrea analitica senza fine. Logorrea tutta, per lo più,
protesa a ricercare, solo ed esclusivamente, le cause endogene di tali
affermazioni, procedendo, inevitabilmente a balzi di canguro. Così
abbiamo sentito parlare sino alla nause del razzismo (vero o presunto)
dell’Ukp, di quanto si bello buono e bravo Tsipras e quanto brutti sporchi e cattivi quelli di Alba Dorata;
di come la Le Pen abbia rinnovato il vecchio partito nazionalista di
suo padre. Talvolta abbiamo sentito qualche analisti spingersi sino a
parlare dell’Ungheria, dell’Olanda, della Finlandia, tutte più o meno
minacciate dalla tabe del nazionalismo più vieto. Per lo più, però, in Italia, in ossequio alla
nostrana
pratica di contemplazione dell’ombelico, si è parlato tanto, proprio
tanto di Matteo Renzi, del declino di Berlusconi, dei problemi di Beppe
Grillo; insomma si è parlato, al solito, degli affari di casa nostra,
riducendo tutto a mere questioni di bottega elettorale. Della scena
internazionale dopo questo terremoto elettorale che ha sconvolto
l’Unione, poco o nulla. Al massimo, si è parlato dello stramaledetto
Euro e dei problemi creati dall’unione monetaria; dimenticandosi, però,
che la Gran Bretagna, dove l’Ukp è ormai il primo partito, di
questa unione non ha mai fatto parte. Come, d’altra parte la Polonia,
dove, certo, hanno vinto partiti «europeisti», ma soltanto per mancanza
di organizzazioni alternative in grado di competere; e dove, per altro,
non ha votato neppure il 20 per cento degli aventi diritto. Come
dimostrazione di affezione all’Unione Europea, da parte di chi dovrebbe
avere ancora l’entusiasma del neofito, non è proprio un granché. Con
questo non voglio certo sostenere che la crisi economica generale e in
particolare la scellerata gestione delle politiche comunitarie non abbia
avuto un ruolo fondamentale in questi risultati; né che questi siano
stati determinati, a macchia di leopardo, da fattori, e umori, interni
ai singoli Paesi. Mi sembra, però, che tenda a sfuggire un quadro
d’insieme più generale.
Uno
scenario nel quale la crisi – ormai indiscutibile e acclarata – della Ue
si inserisce in una vera e propria rivoluzione degli equilibri globali e
del sistema di alleanze, tanto politiche che economiche, su cui questi
si sono bene o male (e più spesso male) retti dalla Caduta del Muro di
Berlino ad oggi.
Crisi in
atto da tempo, e che di fatto ha favorito e potenziato gli effetti della
crisi economica mondiale esplosa nel 2008, permettendo ai nuovi corsari
– annidati per lo più tra la City e Wall Street, ma che allignano un
po in tutto il globo – di correre impunemente gli Oceani finanziari,
dandosi al saccheggio ed al massacro.
Non è,
infatti, da prendere sottogamba l’affermazione di Marine Le Pen,
all’indomani del trionfo elettorale, che prospetterebbe una prossima
rottura della Francia con la Nato. E non si deve neppure – come per
altro è stato fatto – ricondurla semplicemente ad antichi umori
nazionalisti e
gollisti
ancora fortemente radicati nel ventre profondo dei francesi. Piuttosto
andrebbe interpretato come un preciso segnale di quello sconvolgimento
dei vecchi sistemi di alleanza – ovvero di equilibri – che sono in crisi
latente da molto tempo. E che la Nato di questo sistema rappresenti un
perno fondamentale è, certo, cosa indubbia; ma è invece assai dubbio che
essa possa ancora continuare ad assolvere al ruolo avuto nel recente
passato. Passato, per altro, critico, giacché la Nato che lungo tutta la
stagione della Guerra Fredda aveva avuto la funzione di fronteggiare e
frenare l’espansione di quello che Reagan chiamò l’Impero del Male
sovietico, con il crollo del Muro si ritrovò a dover ridefinire i suoi
compiti e funzioni. Così, di volta in volta, è divenuta lo strumento
privilegiato di garanzia degli equilibri globali – il Gendarme del
Mondo, in parole povere – che nella stagione di Bill Clin ton intervenne
in Bosnia, Kosovo, Somalia. Poi, con George W. Bush, è stata messa
sempre più in discussione, definita «vecchia» dall’ineffabile Dick
Cheney; si è tentato di sostituirla con un sistema di coalizioni a
geometria variabile, quella «willings’coalition» che diede prova di sé
nella seconda Guerra del Golfo. Sempre, però, chiunque sedesse nello
Studio Ovale e qualunque lettura venisse data da Washington del
ruolo/funzione della Nato, la linea di tendenza è stata quella di
dilatare a macchia d’olio i confini dell’alleanza, soprattutto per
spogliare una Mosca indebolita dei suoi satelliti e delle sue appendici
occidentali. Che è poi, a ben vedere, una delle concause, e non certo la
meno incidente, del conflitto esploso oggi in Ucraina. Con Barack Obama
questa tendenza sembra, però, destinata a mutare radicalmente. E non
tanto per una qualche precisa strategia di questa Amministrazione, né
per diretta volontà dell’ormai invecchiato «fanciullo prodigio» venuto
da Chicago. Piuttosto per una metamorfosi interna degli States che sta
facendo sempre più riaffiorare un sentimento diffuso ab origine tra gli
Americani; un sentimento viscerale, che sarebbe superficiale
interpretare con la vecchia e frusta categoria
dell’isolazionismo.
Categoria contestata in un recente saggio – rilanciato in Italia su Il
Foglio – da Robert Kagan, il neo con che, all’alba della stagione di
Bush junior, con il suo famoso/ famigerato Paradiso e potere, in qualche
modo ne tracciò le linee strategiche generali. E Kagan, appunto, mette
oggi in luce come, negli States stia riemergendo una tradizione che
risale addirittura a George Washington, che invitò i suoi eredi a non
farsi coinvolgere dalle turbolenze delle potenze europee. Un riemergere
che si radica, anche, nella crescita d’importanza economica degli Stati
del Mid West, di una nuova borghesia imprenditoriale che sente molto
lontani i legami con il Vecchio Mondo. A tutto questo corrisponde una
Presidenza, quella di Obama, perennemente sospesa tra l’interventismo e
la paura di rischiare nuove avventure belliche. Di qui una sorta di
strategia «bizantina» – per dirla con un altro «cattivissimo» della
politologia, Edward Luttwak – protesa a far combattere ad altri le
proprie guerre e ad interventi mirati e limitati. Strategia che è stata
provata, con successo alterno, nella crisi libica – dove gli interessi
dell’alleato francese hanno finito per prevalere e dettare l’agenda – e
che si è oggi malamente arenata tra le sabbie della Siria. Inoltre a
questo disimpegno statunitense corrisponde il prepotente emergere di
nuove geometrie di coalizione, effettive o potenziali che siano. Sistemi
di alleanze come la neonata Unione Eurasiatica guidata da Mosca, che
potrebbero, in breve, da economiche diventare politiche e strategiche.
Ed anche Pechino sembra sempre più muoversi in questa direzione sugli
scenari internazionali, non in Oriente soltanto, ma anche, forse
soprattutto nell’Africa subsahariana. Questa sempre maggiore incertezza
nella guida statunitense della Nato non può non avere riflessi sul
destino dell’Unione Europea, da troppo interpretata come una sorta di
appendice/mosca cocchiera economica delle strategie di Washington. Un
ruolo subalterno reso palese dall’evolvere della crisi ucraina. E mentre
la «vecchia Nato» rischia di perdere pezzi pregiati – si pensi alla
Turchia – in Europa il malcontento verso la direzione, se così si può
chiamarla, dell’Unione, gonfia le vele anche di coloro che – a destra
come a sinistra, dalla Le Pen a Tsipras – vorrebbero chiudere con la
lunga transizione post-Guerra Fredda. Che significa, poi, chiudere con
la Nato e tornare ad un sistema di alleanze variabili. Il Concerto delle
potenze – vere o presunte – di bismarkiana memoria.
Nessun commento:
Posta un commento