Sappiamo per esperienza di vita vissuta
che le differenze generazionali allontanano i giovani dai vecchi, le
differenze di genere rendono le donne uniche rispetto agli uomini, le
differenze culturali, a parità di età e di genere, dividono gli asiatici
dagli europei. E’ questo un mosaico elementare le cui tessere – i
giovani e i vecchi, gli uomini e le donne, i bianchi e i neri, gli
asiatici e gli europei – compongono l’umanità. Anche se le generazioni
successive sono diverse dalle precedenti, le donne sono diverse dagli
uomini, gli asiatici sono diversi dagli europei, i neri dai bianchi, la
specie è sempre la stessa, non cambia. Qualcuno può esaltare la razza,
altri esprimono un razzismo più sottile, culturale e non biologico, o
addirittura generazionale, altri possono sentirsi superiori a chi ha
un’educazione modesta o un ruolo sociale meramente esecutivo, ma la
specie è la stessa per tutti.
Da qualche tempo, nonostante le
considerazioni fatte, ho l’impressione che una parte di coloro che vedo
intorno a me, per strada, al lavoro, sui mezzi pubblici, nei negozi,
appartenga a un’altra specie. Una specie nuova, apparentemente affine
alla vecchia umanità (di cui faccio parte), ma con un diverso modo di
intendere e di “leggere” la realtà. Un modo che a noi, appartenenti alla
vecchia specie, può sembrare fuorviante, distorto, Non si tratta solo
di giovani e giovanissimi, nati e cresciuti nello sfacelo della
cosiddetta civiltà occidentale e in un habitat neocapitalistico
colonizzato. Sono uomini e donne che percepisco come distanti, troppo
diversi perché io possa considerarli miei simili.
Non si tratta soltanto del riconoscere la
diversità in profonde differenze culturali, come potrebbe accadere se
incontrassi un uiguro del Turkestan orientale o un calmucco, ma molto di
più, una frattura più grave e forse definitiva. Una frattura che
traccia una linea di demarcazione fra ciò che è stato l’uomo del secolo
precedente, pur “consumistico”, imborghesito, ideologizzato, comunque
prigioniero nella “gabbia di ferro” del capitalismo, e ciò che è ora
questa sua caricatura, che annuncia la comparsa di una nuova specie.
L’estinzione dello spirito critico e indipendente, della capacità di
comprendere il senso delle dinamiche sociopolitiche e talora il
funzionamento sistemico complessivo, ancora vive nel secolo precedente,
non rientrano nelle caratteristiche di quella che ho provocatoriamente
definito “la nuova specie”. Questa si sta affermando in occidente, a
partire dal Nord America, e dilaga a macchia d’olio in Europa, dove
consolida la sua presenza, non risparmiando però l’est e la Russia.
A volte, con il piglio del “naturalista”
d’altri tempi in osservazione delle specie viventi (Linneo, Lamarck),
ascoltando i loro discorsi, osservandone la postura e i movimenti,
valutando il loro aspetto e cogliendone gli sguardi, m’illudo di capire e
credo addirittura d’intuirne i processi mentali. Chi e cosa sono
costoro, con i quali difficilmente riesco a sviluppare un dialogo e con i
quali, il più delle volte, avvertendo una certa alienità non cerco
neppure di comunicare? Mi sono posto la domanda e ho cercato la
risposta, non senza provare un senso (non mi vergogno a dirlo) di
superiorità antropologica e culturale, perché avverto in loro – è
difficile da spiegare, ma ci provo – una grave carenza, quasi una
“mutilazione”, che comporta una discesa lungo la scala evolutiva.
Riflettono tutta l’inconsistenza e la vacuità del mondo liquido al quale
appartengono, per dirla alla Bauman.
Con loro in genere parlo pochissimo,
causa incomunicabilità, e solo quando è necessario. Riesco ormai a
distinguerli con una certa facilità dai miei simili, che sempre più
raramente incontro. Se mi rivolgo a loro, lo faccio per ottenere
informazioni banali e quotidiane, scandendo bene le parole. Ad esempio,
chiedo << che _ ora _ è? >> non aggiungendo altro, oppure
<<si _ ferma_ qui _ questo _ autobus?>>, evitando di dare
l’impressione di cercare un dialogo. Se devo rispondere a una loro
domanda, lo faccio laconicamente, per lo stretto necessario, attenendomi
scrupolosamente all’oggetto. Ad esempio, rispondo in estrema sintesi
<<l’ambulatorio _ lo _ trova _ girato _ l’angolo>>, oppure
<<il _ negozio _ non _ apre _ lunedì>>, per chiudere in
fretta ed evitare discussioni estemporanee.
Quando sono costretto ad avere un
contatto più prolungato con un esemplare della nuova specie, mi guardo
bene dall’affrontare argomenti complessi, riguardanti la politica, la
geopolitica, gli assetti sociali, la moneta e la sovranità degli stati,
le responsabilità di questo complessivo impoverimento delle classi
subalterne. Meglio evitare anche il classico e apparentemente innocuo
<<piove, governo ladro!>>, oppure sbilanciarsi insinuando
qualche dubbio sulla natura e sui veri scopi dell’attuale governo. Mi
comporto in tal modo per evitare problemi, nella forma d’inutili ed
estenuanti discussioni che non approdano a nulla e alla fine si rivelano
controproducenti. Lo faccio perché da qualche tempo mi sono accorto che
non esiste una controparte con la quale discutere sensatamente. Non
esiste in loro alcuna “sensibilità” per questi temi ed anche le
espressioni uomo, stato, governo, economia, non hanno per loro lo stesso
significato che hanno per me, ammesso e non concesso che siano in grado
di attribuirgli un qualche senso compiuto. Ripeto che non si tratta
semplicemente di una questione di differente cultura, perché le basi
culturali, i fondamenti dovrebbero essere gli stessi, o di salto
generazionale, poiché, nonostante l’appartenenza ad altra generazione,
si dovrebbe riconoscere il proprio simile. E’ qualcosa di profondo e di
più netto, come se si trattasse della distanza fra specie diverse, per
quanto con significativi punti di contatto. Mi viene in mente il mistero
che avvolge i primi contatti fra l’homo neanderthalensis e il sapiens
sapiens, solo che oggi le parti mi sembrano rovesciate. Infatti, la
specie in via di affermazione non è quella con maggiori possibilità
evolutive – in termini di linguaggio, elaborazione culturale,
autocoscienza, progettazione di sistemi sociali complessi – ma l’altra.
La seconda differenza di rilievo è che il neandertaliano apparteneva a
una specie naturale, mentre la nuova che osservo ha un’origine
manipolatoria, artificiale.
Con loro non discuto, se posso evitare di
farlo, perché la particolare “involuzione” che manifestano riguarda il
livello di comprensione della realtà storica, sociale e politica in cui
vivono, tendente a zero. Inoltre, l’artificialità dell’origine di questa
nuova specie è testimoniata dall’accettazione acritica del
funzionamento sistemico, la completa sottomissione ai suoi dogmi,
l’estrema adattabilità all’habitat creato dal modo di produzione
neocapitalistico, che prevede nuove forme di schiavitù per i dominati e
differenziali di ricchezza, potere e prestigio sociale destinati a
schizzare alle stelle. Davanti alla comparsa di questa nuova “forma di
vita intelligente”, nata dalla vecchia specie per volontà degli agenti
strategici neocapitalisti, persino la spiegazione di natura classista,
che darebbe un senso alla loro estrema “docilità”, mi pare inadeguata.
Costanzo Preve sosteneva che una classe
dominata, nata all’interno di uno specifico modo storico di produzione, è
sempre in condizioni di minorità e non può guidare la trasformazione
intermodale (in termini di passaggio da un modo di produzione
all’altro), né liberarsi da sola delle proprie catene. Il proletariato
industriale, nel caso del capitalismo del secondo millennio, non ha
potuto rivoluzionare il sistema da solo, ma soltanto sotto la guida e il
controllo di élite rivoluzionarie appartenenti, in buona misura, alla
classe dominante (Ottobre Rosso, partito dei Bolscevichi, nascita
dell’Unione sovietica). Nel nostro caso, la situazione è ancora più
grave perché alcuni decenni di forte manipolazione antropologica e
culturale di massa, in occidente, non solo hanno reso possibile il
passaggio dal capitalismo del secondo millennio al neocapitalismo
globale e finanziario, ma hanno diminuito l’uomo fino al punto di creare
una nuova specie intelligente, per sua natura e genesi docilissima,
totalmente incapace di pensarsi libera, fuori dalla “gabbia di titanio”
neocapitalista.
Basta osservare intorno a noi, ascoltare i
discorsi, analizzare i comportamenti, avere attenzione anche per i
dettagli, per capire che non si tratta di un normale, “buon vecchio”
condizionamento, al quale ci si può sottrarre riconoscendo la realtà. Si
è andati in profondità, agendo sul lavoro, martellando con i media che
creano “realtà parallele”, smantellando dalle fondamenta la classe, la
comunità, le basi culturali del vecchio mondo, utilizzando tutto il
possibile, dall’alimentazione alla diffusione delle droghe e degli
psicofarmaci. Non si è ancora arrivati al punto di manipolare gli
embrioni prima della nascita, agendo direttamente sulla riproduzione
umana, come preconizzato da Aldous Axley nel celebre romanzo Brave New
World (Il mondo nuovo), del lontano 1932, ma certo i risultati fino ad
ora ottenuti sono sorprendenti. Qui non centra l’eugenetica e non c’è
ancora riproduzione massiva extrauterina.
Se in passato ho scritto qualcosa a
riguardo della costruzione sociale dell’uomo precario, in occidente,
definendola un gigantesco “esperimento di massa” in dimensioni mai viste
prima nella storia dell’umanità, con grande dovizia e impiego di mezzi,
tecnologie e scoperte scientifiche, oggi mi sento di andare oltre e di
parlare esplicitamente di “nuova specie”. Il processo di
“spersonalizzazione” del nuovo capitalismo che ha divorziato dalla
borghesia (classe dominate problematica, talora incline essa stessa alla
ribellione), non solo ha creato una nuova classe dominante senza
problemi di “coscienza infelice”, legata a doppio filo alla riproduzione
sistemica, ma una nuova specie, diminuita rispetto alla nostra, che per
sua genesi non può mettere in discussione il sistema, o pensarsi al
fuori, sia pur limitandosi a un semplice “rivendicazionismo”, per
ottenere qualche concessione di natura economica.
Basta guardarsi intorno, qui, in Italia, e
notare che nel momento in cui si negano apertamente, con ferocia, la
giustizia sociale, i diritti del lavoro e al lavoro, la redistribuzione
dei redditi, una pur limitata partecipazione di massa alla decisione
politica, vi è un picco di adesioni ai governi elitisti-neocapitalisti e
alle politiche contro i dominati che questi esprimono. Una situazione
solo apparentemente paradossale e inspiegabile, per la quale in passato,
metaforicamente, ho evocato il masochismo e la “sindrome di Stoccolma”.
Oggi mi sento di affermare, in modo meno metaforico e meno allegorico,
che siamo davanti non tanto a una nuova classe dominata, pauperizzata e
ridotta in stati di semi-incoscienza, ma a una “nuova specie”, che il
neocapitalismo ha creato da uomo e donna per riprodursi senza scossoni,
attraversando indenne tutto il ventunesimo secolo.
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