Dalla nuova etichetta europea sugli alimenti un colpo mortale al “made in Italy”
Il tutto a vantaggio di Carrefour, Auchan e Lidl che delocalizzano. La colpa è anche della politica italiana...
di Francesca Morandi
Già in affanno per la crisi economica, il cibo “Made in Italy” rischia ora un altro colpo con l’introduzione della nuova etichettatura europea sugli alimenti
che toglie un’informazione fondamentale al consumatore: la sede dello
stabilimento di produzione e confezionamento del prodotto. Dopo tre anni
di scontri incrociati al Parlamento Europeo, da sabato prossimo entrerà
in vigore il regolamento comunitario 1169/11, nato allo scopo di
uniformare le legislazioni dei singoli Paesi, garantire la circolazione
di alimenti sicuri nel mercato UE e fornire al consumatore una serie di
dati necessari per scegliere un prodotto in maniera consapevole.
Passi avanti sono stati compiuti sul fronte della tutela dei consumatori
in quanto le nuove norme impongono l’obbligo di evidenziare la presenza
di sostanze che possono dare origine ad allergie, l’introduzione di una
nuova tabella nutrizionale (obbligatoria dal 2016) e un’etichetta
leggibile (i caratteri dovranno avere un’altezza minima di almeno 1,2mm o
di 0.9mm, a seconda della superficie del prodotto). A rischiare danni è
invece la produzione agroalimentare “Made in Italy”.
Il regolamento comunitario 1169/11 non prevede, infatti, l‘obbligatorietà a menzionare in etichetta il luogo di fabbricazione e
confezionamento del prodotto, introducendo il principio che a essere
indicato in etichetta deve essere il nominativo dell’ “operatore
responsabile” dell’alimento, e quindi l’azienda distributrice/fornitrice
del prodotto e non l’azienda produttrice. Con il risultato che le nuove
norme comunitarie rischiano di danneggiare le piccole e medie aziende
italiane, a vantaggio della grande industria.
«Le nuove regole UE rischiano di favorire i cosiddetti prodotti
“Italian sounding”, cioé quegli alimenti che hanno una “parvenza
italiana”, come spesso accade per i “private label”, ovvero
quei marchi che coincidono con il nome del distributore, come Carrefour,
Auchan, Lidl che, come è noto, spesso delocalizzano le forniture in
altri Paesi europei, con grave danno per i produttori italiani», spiega
l’avvocato Dario Dongo, esperto di diritto alimentare, che sottolinea
come «i produttori italiani hanno tutto l’interesse a mostrare che i loro alimenti sono prodotti in Italia,
in quanto il cibo “Made in Italy” è considerato un’eccellenza dagli
stessi consumatori italiani che devono poter scegliere i prodotti del
Veneto, del Lazio o della Sardegna anche in virtù di un consapevole
sostegno all’occupazione in quelle Regioni, o, semplicemente, per
“affinità” culturale».
«Il vero “Job Act” lo fa ciascuno di noi al supermercato –
continua Dongo, anche autore dell’e-book “L’etichetta” pubblicato su Il
Fatto Alimentare.it Alimentare.it e fondatore di
www.greatitalianfoodtrade.com -. Le norme dovrebbero aiutare il
consumatore a sapere con chiarezza se l’alimento che sta per acquistare è
stato prodotto in Italia o un altro Paese europeo. Se è pur vero che
le aziende produttrici manterranno la facoltà di indicare
volontariamente la sede dello stabilimento di produzione, è altrettanto
vero che i grandi distributori europei presenti in Italia non avranno
interesse a farlo.
Per gli italiani il cibo è cultura, tradizione ed economia, e il “Made in Italy” non deve essere usato in maniera ingannevole o
“annacquato” in nome della libera concorrenza nel mercato UE. E’ nostro
interesse tutelarlo, ma l’attuale governo non sembra del tutto convinto
di ciò».
La colpa è anche dei ritardi della politica italiana, che non ha ancora provveduto a redigere un testo unico relativo alle norme sull’etichettatura capace di conciliare le regole comunitarie con quelle italiane.
Nel frattempo la legge europea prevarrà sulla nostra, se il governo
italiano non provvederà a notificare alla Commissione europea
un’apposita normativa che sul solco del decreto legislativo 109/1992
prescriva l’indicazione in etichetta della sede dello stabilimento di
produzione e confezionamento. «Finora il decreto legislativo 109/1992
seppur non applicato su prodotti stranieri venduti in Italia, ha aiutato
i consumatori italiani a identificare sugli scaffali il vero “Made in
Italy”, ma ora questa norma rischia di decadere con il regolamento UE
1169/11 - spiega ancora l’esperto -. Il nostro governo deve, quindi,
muoversi rapidamente per notificare questa norma alla Commissione
europea. Purtroppo in una circolare rivolta dal ministero dello Sviluppo
economico ad alcune associazioni di produttori è stata espressa una
volontà contraria. Speriamo in un ravvedimento, prima che sia troppo
tardi».
Sul piede di guerra c’è
Coldiretti, a un anno dalla
mobilitazione che partì dal valico italo-austriaco del Brennero, dove
furono bloccati alcuni tir tedeschi recanti carni semilavorate di
maiale, che poi si estese a tutto il territorio nazionale, coinvolgendo
decine di migliaia di operatori dell’agroalimentare che scesero in
piazza per
difendere l’economia e il lavoro dei produttori italiani dall’invasione di prodotti di bassa qualità spacciati per italiani. «Continueremo
a combattere per la difesa del vero “Made in Italy” contro la
concorrenza sleale del cibo di provenienza estera “travestito” di
italianità” che minaccia i consumatori e delle nostre imprese agricole»,
afferma il presidente di Coldiretti Viterbo Mauro Pacifici, ricordando
che il 33% della produzione complessiva dei beni agroalimentari
prodotti in Italia contiene materia prime straniere, ma, ciononostante
viene venduta come “Made in Italy”.
Sul fronte della politica, il deputato
Paolo Parentela (Movimento 5 Stelle) ha
presentato una proposta di legge per ripristinare l’indicazione della
sede dello stabilimento di produzione e confezionamento, rilanciata da
Beppe Grillo che sul suo blog invita i cittadini a far sentire la
propria voce a sostegno dell’iniziativa.
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