L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

venerdì 10 gennaio 2014

Il nemico principale è sempre quello che è insieme più nocivo e più potente

1. Introduzione. Sul nemico principale. Commento di una recente formulazione di Alain de Benoist

2. Le moert saisit le vif (Mark). Il peso inerziale ormai insopportabile della storia tricentenaria del profilo della filosofia moderna e della sua variante subalterna postmoderna

3. Il primato dello struzzo. Lo struzzo come animale totemico-tribale del passaggio dal realismo storico-politico al moralismo testimoniale

4. L'imbecillità socialmente organizzata. Per una nuova teoria degli intellettuali e delle strutture ideologiche

5. Il nemico principale in economia: il capitalismo e la società di mercato

6. Il nemico principale in politica: il liberalismo

7. Il nemico principale in filosofia: l'individualismo

8. Il nemico principale nella società: la borghesia

9. Il nemico principale in geopolitica: gli Stati Uniti d'America

10. Conclusione. Verso un radicale riorientamento gestaltico nella visione complessiva del mondo storico e politico


10. Introduzione. Sul nemico principale. Commento di una recente formulazione di Alain de Benoist


È certamente possibile dare molte definizioni diverse del concetto di “politico”. Una semplice elencazione dei significati è facile da raccogliere e da riassumere, ma in questa sede non c’è lo spazio, e neppure la necessità, di fare una lunga elencazione. Dico subito che per me il concetto di politico è inestricabilmente legato al concetto di conflitto di interessi e di visioni del mondo. Non credo alla pacificazione finale dell’umanità in una dimensione integralmente post-politica.
Si tratta di un incubo amministrativo a base positivistica, in cui la politica, diventando completamente “scienza”, muore come politica e rinasce come scienza. Un incubo. L’incubo della cosiddetta “amministrazione delle cose” (Saint-Simon, Fukuyama, Geilen, eccetera). Non c’è più storia, ma post-storia e fine della storia. Non c’è più politica, ma amministrazione scientifica della riproduzione sociale complessiva. Il peggiore degli incubi fantapolitici. Per
fortuna, un incubo fantapolitico improbabile, perché, in sede di filosofia della storia, personalmente non credo ad una transizione definitiva dall’individualismo alla comunità, oppure viceversa ad una transizione definitiva dalla comunità all’individualismo. 
 
Marx ha qui ovviamente le sue (piccole) colpe, in quanto ha fatto capire, pur non sviluppando il tema, di credere al comunismo come fine della storia, e come esito finale di una costruzione sociale definitiva basata sul binomio «a ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni», in assenza di famiglia, società civile e stato. Si tratta di un’utopia ultra-individualistica, ed è un peccato che solo pochissimi pensatori lo abbiano rilevato (Louis Dumont, eccetera). E dunque, di un’utopia due volte negativa (laddove vi sono invece utopie positive). Negativa perché pone un obiettivo politico del tutto impraticabile. E negativa perché, ammesso che sia praticabile (ma state tranquilli, non lo è!), del tutto non desiderabile, in quanto si tratterebbe di un incubo individualistico di individui sradicati da ogni appartenenza nazionale, linguistica, religiosa, eccetera, che si relazionano individualmente con una totalità astratta (ed
astratta in quanto priva di determinazioni familiari, professionali e statali), che prende in considerazione soltanto le loro capacità ed i loro bisogni. Qui la pestifera egemonia del paradigma economicistico appare ad occhio nudo, in quanto soltanto all’interno di una radicale riduzione economicista il profilo antropologico dell’uomo può essere ridotto alle sole due dimensioni delle capacità e dei bisogni. Il discorso sarebbe appena incominciato, ma lo interrompo qui. Volevo infatti soltanto sottolineare che esiste purtroppo una pestifera variante “marxista” della fine della politica e della sua integrale risoluzione in amministrazione “neutrale” delle cose, e che bisogna abbandonarla, proprio per poter in qualche modo “salvare” le componenti emancipative del pensiero di Marx.
 
Ho recentemente incontrato un vecchio amico di “sinistra”, cui ho fatto notare la pressoché totale sparizione nel mondo attuale del concetto di “nemico principale”, e del fatto che in politica è necessario saper individuare la differenza fra nemico ed avversario, fra nemico strategico ed avversario tattico, eccetera. Mi ha fatto subito virtuosamente notare che si trattava di una teoria di “destra”, proposta da quel presunto collaboratore di Hitler che era Carl Schmitt. Sono caduto dalle nuvole, di fronte simile virtuosa messa a punto. Naturalmente, ero a conoscenza della teoria di Schmitt (fra parentesi, tanto più realistica e rigorosa di quella coeva di Kelsen, del tutto indipendentemente dai giudizi politici rispettivi che se ne possono dare), ma in quel momento non pensavo affatto a Schmitt, ma pensavo invece a Marx (il nemico principale è la borghesia capitalistica), a Lenin (il nemico principale è la borghesia imperialistica del tuo stesso paese), e
soprattutto a Mao Tse Tung (teorico della distinzione fra contraddizioni principali e contraddizioni secondarie).
 
È vero che, per usare una corretta espressione di Slavoj Zizek, oggi Marx si prende soltanto “decaffeinato”, ridotto a semplice critico moralista degli eccessi liberistici e diseguali tari del capitalismo. Ma è anche vero che dovrebbero esserci limiti al pecorismo belante che ha tolto alla politica ogni contenuto di conflitto strategico. Capisco che questa operazione manipolatoria venga fatta capillarmente da politici corrotti, circo mediatico e clero universitario subalterno e sottomesso di filosofia e di scienze sociali, ma che questo indegno belare pecoresco venga
gratuitamente adottato da intellettuali marginali e poveracci è certo un segno degenerativo dei tempi in cui stiamo vivendo.
 
Per questo ho letto con estremo piacere una formulazione di Alain de Benoist contenuta nella prefazione ad una raccolta di saggi della rivista francese “Rébellion”. In questa formulazione viene messo a fuoco il problema politico principale di oggi, e per questo la riporto: «Il nemico principale è sempre quello che è insieme più nocivo e più potente. Oggi è il capitalismo e la società di mercato sul piano economico, il liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano filosofico, la borghesia sul piano sociale, e gli Stati Uniti d’America sul piano geopolitico. Il nemico principale occupa il centro del dispositivo. Tutti coloro i quali, in periferia, combattono il potere del centro, dovrebbero essere solidali. Ma non lo sono. Certuni credono che la cosa più importante sia di accertare da dove si viene e da quale punto di vista si parla».
 
De Benoist paragona costoro a delle persone che, quando una casa brucia, pensano che la cosa più importante sia il chiedere i documenti ai pompieri che vengono per spegnere il fuoco. E connota costoro con il gentile e moderato appellativo di “imbecilli”, per i quali ogni tentativo di edificare un pensiero politico nuovo non può essere che “sospetto”, in quanto sospetto di contaminazione e di infiltrazione. E qui, appunto, mi permetto di sviluppare una mia interpretazione originale.
 
Nel decimo ed ultimo capitolo di questo saggio trarrò le mie personali conclusioni in proposito. Dal quinto al nono capitolo discuterò analiticamente nel merito le cinque connotazioni di De Benoist sul nemico principale, accettandole tutte nell’essenziale, ma con alcuni rilievi personali. Ma nel secondo, nel terzo e nel quarto capitolo mi permetterò di fornire una mia interpretazione originale sulla categoria di imbecillità. Ci sono infatti due tipi di imbecillità: l’imbecillità naturale ed individuale degli imbecilli, e c’è invece l’imbecillità socialmente organizzata da
gigantesche strutture ideologiche capillari. Anche l’imbecillità sociale, infatti, deve essere socialmente dedotta. Per poterlo fare, è necessario prima fare un sommario bilancio della tricentenaria filosofia politica moderna, mostrare come il cosiddetto postmoderno, anziché esserne un rinnovamento, non ne è che una provvisoria variante interna congiunturale e subalterna, ed infine mostrare che lo struzzo, l’animale caratterizzato dal mettere la testa sotto la sabbia in caso di pericolo, è l’animale totemico principale dell’attuale ceto intellettuale, uno dei
più corrotti ed inutili della millenaria storia comparata dell’umanità.

http://www.comunismoecomunita.org/wp-content/uploads/2009/04/Il-nemico-principale.pdf

mercoledì 8 gennaio 2014

SudSudan non preoccupiamoci il petrolio è difeso da 13.000 soldati ONU



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Sudan del Sud

Uno stato che non può permettersi l’indipendenza

di Andre Vltchek*

Per giorni la capitale del Kenia Nairobi ha temuto una carneficina nel Sudan del Sud.

Entrambi i principali giornali, Daily Nation e Standard, pubblicano articoli concentrati sul calvario di migliaia di cittadini kenioti bloccati a Juba e in altre città della “nazione più giovane della terra”, spesso in condizioni disperate.

Paesi stranieri – tra cui Uganda, Kenia e Stati Uniti – stanno ora inviando aerei militari alla minorenne nazione Frankenstein che recentemente si sono dati tanto da fare per creare. Ma questa volta gli aerei sono lì per soccorrere; per trasportare in salvo i loro cittadini.

Come sempre è raro trovare analisi approfondite del perché e come il Sudan del Sud è stato effettivamente creato, chi era dietro la sua nascita, o quali interessi politici ed economici questa entità innaturale debba soddisfare.

Le notizie di cronaca continuano a parlare del colpo di stato, della ribellione dell’esercito, del fatto che circa 80.000 (o forse 100.000) persone sono profughe e che forse migliaia sono morte.

Città come Bor e Bentiu sono cadute in mano ai “ribelli”. Poi forze governative hanno riconquistato Bor. Poi, come hanno riferito i media il 24 dicembre, “Forze leali all’ex vice di Kiir, Riek Machar, erano in fuga”, il ministro dell’informazione.

A Nairobi c’è un costante movimento di cittadini sud-sudanesi, quelli che fuggono dai combattimenti e quelli che cercano disperatamente di tornare in patria. Si possono vedere ai confini, negli aeroporti, negli hotel e in innumerevoli caffè. La maggior parte di loro sta aspettando un’occasione per trovare un passaggio su un volo per Juba. Altre sono in viaggio verso qualche paese terzo.

Al Caffè Java, nel centro commerciale Yaya Center, ho incontrato il signor Christophe Mononye, specialista sud-sudanese dell’istruzione che lavora in Nigeria per l’UNICEF.
“Sto tentando di tornare in patria”, ha spiegato. Gli ho chiesto della situazione a Juba. E’ stato breve ma preciso: “Ora è tutto allo scoperto … ed era prevedibile … il vecchio feudo, dai primi anni ‘90”.
Sembra calmo, non sorpreso.

In realtà quasi nessuno sembra sorpreso.

E pochissimi in Africa Orientale sono disponibili a parlare; a rivelare ciò che davvero sta dietro la facciata e dietro tutto ciò che l’Occidente dominante [i suoi media] va riferendo. [Pochi sono disponibili] a pronunciarsi pubblicamente su questo particolare argomento. Tuffarsi nelle sotto-correnti delle torbide acque del Sudan del Sud può spesso dimostrarsi estremamente pericoloso, persino mortale.

Una figura dell’opposizione – e una delle mie fonti migliori in Uganda – questa volta rifiuta di parlare ufficialmente, di rivelare il suo nome. Ma si è assicurato di chiarire la sua opinione nella email che mi ha inviato:

“Uno dei motivi che portarono Idi Amin al potere fu il suo coinvolgimento, il suo aiuto clandestino alla ribellione iniziale nel Sudan Meridionale … Museveni è semplicemente salito sul carro del vincitore come canale degli interessi occidentali e israeliani. La situazione là, nel Sudan Meridionali, è molto aspra e pericolosa da commentare per gli ugandesi, poiché potrebbe portare alla morte o alla tortura, come è successo a chiunque vi sia stato coinvolto … Machar è uno sponsor di Joseph Kony, perciò c’è un sottile filo conduttore … Si dice anche che Museveni sia stato responsabili dell’incidente dell’elicottero di Garang”.
Il signor Sufyan bin Uzayr ha tentato di spiegare la situazione nel suo articolo per Counterpunch intitolato “Il Sudan del Sud è uno stato fallito?” I suoi argomenti a proposito del conflitto sono solidi:

“Il presidente Salva Kiir, che viene dal potente gruppo etnico chiamato Dinka, ha licenziato il vice presidente Riek Machar nel luglio del 2013, accusandolo di organizzare colpi di stato contro il suo governo. Machar, membro della tribù Nuer (il secondo maggiore gruppo etnico dopo il Dinka) ha a sua volta accusato Kiir di cercare di instaurare un controllo dittatoriale sull’intero paese … quello che è iniziato il luglio come un conflitto per ambizioni politiche ha ora condotto a un’instabilità a livello nazionale. Anche l’esercito del Sudan del Sud sembra schierarsi: una sezione resta leale a Kiir, mentre l’altro gruppo ha promesso fedeltà a Machar. Bentiu, un’importante città e capitale di provincia, è stata catturata da unità dell’esercito legali a Riek Machar, il che implica che l’agitazione si è trasformata in una guerra civile a tutto campo. Merita di essere segnalato che Bentiu è anche la regione più ricca di petrolio del paese.”
Ma non sta dicendo nulla a proposito degli interessi occidentali o su come sia nata l’idea del Sudan del Sud, come se fossero state realmente solo la ribellione e la guerra civile a separare questa parte ricca di petrolio di quello che era un tempo il paese più vasto del continente africano, il Sudan.

Il signor Mwandawiro Mghanga, presidente nazionale del Partito Socialdemocratico del Kenia (SDP), porta il tema a un livello globale per questo articolo. E ha grande familiarità con l’argomento. Per anni, da parlamentare, ha lavorato al Comitato delle Relazioni con l’Estero del parlamento keniota.

“Quello che sta succedendo nel Sudan del Sud è triste, ha avevamo predetto che sarebbe successo”, dice Maghanga. “L’imperialismo ha incoraggiato la divisione del Sudan guidata da capi tribù del genere di Salvar Kir, che sono al potere solo per saccheggiare il loro paese senza sviluppi o un programma democratico di unificazione del Sudan meridionale. Tribalismo, nepotismo, dittatura, corruzione e idee sorpassate sono all’ordine del giorno nel regime del SPLM. Spero che il verificarsi di questa tragedia cominci a rimuovere dal potere i leader attuali che dirigono il paese lungo un cammino di accumulazione capitalista da parte delle élite, di imperialismo, di guerre insensate e di tribalismo. I governi imperialisti dovrebbero essere tenuti fuori dagli affari del Sudan e del Sudan del Sud, poiché loro sono parte del problema, non della soluzione.”
Al termine del suo articolo il signor Sufyan bin Uzayr diventa filosofico:

“Arrivati a questo snodo, uno è costretto a chiedersi: dividere il Sudan è stata davvero una cosa saggia da fare? Per quel che ne capisco, un Sudan non diviso sarebbe stato meglio. Avrebbero dovuto essere fatti tentativi di reprimere i ribelli meridionali e portare prosperità a un paese sudanese indiviso nella sua totalità. Sfortunatamente abbiamo deciso per la scelta piuttosto discutibile di creare due paesi, e il risultato è stato tutt’altro che degno di lodi, perché la nuova nazione del Sudan del Sud non ha impressionato nessuno.”
La domanda è: è stata davvero la gente sudanese quella che ha ‘deciso’ di creare due paesi da uno complesso e imperfetto, ma influente? Ed è stato ‘impressionare’ qualcuno all’estero il proposito reale di tale dubbio e costoso (in termini di vite umane) esperimento?

In Africa circolano molti aneddoti a proposito del Sudan del Sud. Uno dice che è stato creato per ricompensare il presidente ugandese Museveni per il suo incessante saccheggio della Repubblica Democratica del Congo per conto dei governi e delle imprese occidentali.

Quasi tutti gli esperti delle Nazioni Unite che hanno lavorato nel Sudan del Sud e con i quali ho parlato concordano sul fatto che il paese semplicemente non poteva funzionare da solo; che è fondamentalmente uno scandalosamente corrotto stato fallito senza alcuna politica sociale, con un sistema sanitario e d’istruzione orrido. E tutto ciò solo due anni dopo essersi ufficialmente separato dal Sudan. I più ammettono che il Sudan del Sud è interamente dipendente da stranieri che lo stanno gestendo, finanziando e ne stanno decidendo il corso.

E quelli disposti a pensare fuori dagli schemi ammettono in realtà che il Sudan del Sud non era mai previsto dovesse stare in piedi da solo.

Nell’Africa Orientale e Centrale ci sono già numerosi tentativi di creare ‘paesi indipendenti’ ricchi di risorse che sarebbero aperti allo sfruttamento di imprese internazionali, di governi occidentali e di vari galoppini locali trasformati in prevaricatori.

Un esempio classico è Kivu Est, nella Repubblica Democratica del Congo, un territorio dannatamente ricco di risorse naturali, tra cui coltan, diamanti e uranio. Qui sia l’Uganda sia il Ruanda stanno giocando partite mortali; saccheggiando e uccidendo milioni di persone. Sovrappopolato e aggressivo, il Ruanda sta quasi apertamente mirando a espandere il proprio Lebensraum a Kivu Est.  Naturalmente il primo passo in direzione di tali ambizioni sarebbe la piena “indipendenza” di Kivu Est dalla Repubblica Democratica del Congo.

Il secondo caso simile è una Jumaland ricca di petrolio nella parte meridionale della Somalia devastata dalla guerra (dopo anni e decenni di tentativi di destabilizzazione da parte dell’occidente). La Jumaland è stata invasa e occupata dai più stretti alleati degli Stati Uniti, il Regno Unito e Israele e in Africa il Kenia. E il Kenia giustifica la sua aggressione applicando il solito cliché occidentale inteso a coprire le aggressioni più brutali: la “guerra al terrore”.

I popoli della Somalia, della Repubblica Democratica del Congo e di fatto i cittadini dell’intera Africa dovrebbero osservare attentamente quello che sta succedendo nel Sudan del Sud. L’”indipendenza” illusoria può a volte condurre alla completa dipendenza da poteri stranieri. Tale dipendenza può a sua volta tradursi nell’assoluta e spaventoso collasso di una “nuova nazione”.

Come mi ha detto una volta il pensatore ghanese Nee Akuetteh: “L’Occidente non ha amici … ha solo interessi”. Ha anche le mani sporche di un mucchio di sangue, compreso quello del popolo dell’Africa. Il Sudan del Sud non fa eccezione.
*  Romanziere, regista e giornalista d’inchiesta. Ha seguito guerre e conflitti in dozzine di paesi.

lunedì 6 gennaio 2014

la prossima catastrofe economico finanziaria frantumerà l'economia mondiale

Sandro Moiso: Nel baratro


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Nel baratro

di Sandro Moiso

Luca Ciarrocca, I padroni del mondo. Come la cupola della finanza mondiale decide il destino dei governi e delle popolazioni, Chiarelettere, Milano 2013, pp. 242, euro 13,90
Il libro di Ciarrocca, giornalista che ha vissuto per molti anni a New York, dove ha fondato il sito indipendente di economia, finanza e politica Wall Street Italia, è interessante per almeno due motivi. Il primo è sicuramente costituito dalla mole di dati riguardanti l’attuale crisi economica, esposti con chiarezza e semplicità (doti di cui quasi tutti gli analisti economico/finanziari sono generalmente sprovvisti). Il secondo dal fatto di essere un testo (inconsapevolmente?) contraddittorio. Molto.

Ma procediamo con ordine.

Il testo, pur inserendosi nell’attuale dibattito sull’utilità o meno dell’euro e delle scelte governative ad esso collegate, evita i toni della campagna anti-europeista ed anti-euro che rappresenta, nella confusione generale odierna, la panacea universale per molte, troppe forze politiche.
Inoltre, nonostante il titolo e i riferimenti ad una “cupola” finanziaria, l’opera non si occupa di ipotesi complottistiche né, tanto meno, del solito, strombazzatissimo dai poveri di spirito, Club Bilderberg.

Parla invece, e molto, di concentrazione finanziaria ed economica. 
La cupola non è il risultato di una colossale cospirazione di illuminati attuata con diabolica strategia, quanto un corollario oggettivo di decisioni che si producono per via di un’interazione parcellizzata di migliaia di interessi utilitaristici” (pag. 126).

Accumulando dati su dati e seguendo, anche se forse l’autore non vorrebbe sentirselo dire, quel lavoro iniziato nel 1916 da Lenin con “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”. Tanto che, per fare un esempio, Deutsche Bank costituisce un elemento di continuità tra i due libri così distanti nel tempo e dal punto di vista ideologico, mentre i processi di concentrazione finanziaria e bancaria degli ultimi decenni fanno impallidire i già significativi dati riportati all’epoca dal rivoluzionario russo.

Protagonisti indiscussi dell’opera sono i cosiddetti banksters (banchieri gangster) che si muovono a capo degli organismi finanziari più potenti e più ricchi, almeno sulla carta, della maggioranza delle nazioni del globo. Quegli organismi che oggi sono definiti come Too Big To Fail (troppo grandi per poter fallire), in gergo Tbtf. E che per questo motivo non si accaparrano soltanto i profitti prodotti dal sudore e dal lavoro di decine di milioni di lavoratori, ma anche gli aiuti degli stati, di cui, naturalmente, finiscono col dettare la politica.
Sarebbero in tutto una cinquantina, le mega aziende internazionali (in maggioranza istituti finanziari e banche Tbtf) che, attraverso un complicato incrocio proprietario, controllano il 40 per cento del valore economico e finanziario di 43.060 multinazionali globali. E’ qui il vero cuore dell’economia occidentale [...] Tra le prime venti ci sono tutte le più note Tbtf, tra cui, ai primi posti, Barclays Bank, JPMorgan Chase, Goldman Sachs. L’unica italiana è UniCredit, in 43esima posizione” (pp. 121 – 123).
Mentre, si può aggiungere, sulla base dei dati forniti, Deutsche Bank Ag si trova al dodicesimo.
Ma la concentrazione finanziaria, tipica della progressione imperialistica, non si ferma lì.
Lo ha spiegato bene James Petras, professore di sociologia all’Università di Binghamton (New York), in un articolo dal titolo eloquente Who Rules America?, pubblicato nel novembre del 2007 sul suo sito web: « Oggi, secondo alcuni calcoli, il 2 per cento delle famiglie controlla l’80 per cento dell’intero patrimonio mondiale» [...] Questi gruppi, secondo Petras, premono sui governi per salvare banche e aziende in bancarotta o fallite, spingono perché si arrivi al pareggio di bilancio tagliando la spesa sociale e il welfare” (pag. 121).
Naturalmente, oltre che determinare i governi e le loro scelte, i Tbtf sono anche coinvolti in vere proprie truffe finanziarie e in operazioni di riciclaggio oltre che protagonisti dei più clamorosi casi di evasione fiscale, ma gli istituti Too big to fail sono anche Too big to jail (troppo grandi per essere condannati ed andare in prigione).
 

Il 6 marzo 2013, nel corso di una testimonianza in un’audizione alla Commissione Giustizia del Senato al Congresso di Washington, Eric Holder (procuratore generale degli Stati Uniti) ha dichiarato: «Le dimensioni delle più grandi istituzioni finanziarie hanno fatto sì che per il dipartimento di Giustizia fosse difficile proporre l’azione penale e un processo per reati criminali. L’accusa – che potrebbe minacciare l’esistenza della banca stessa – nel caso degli istituti più grandi può anche mettere a repentaglio l’economia nazionale e quella globale, per via delle dimensioni e delle interconnessioni» Le grandi banche costituiscono dunque il vero «nocciolo duro» del potere politico ed economico su cui poggia il moderno capitalismo” (pag. 42)
I megaistituti di credito del mondo hanno asset1 complessivi per un totale di 47 trilioni di dollari2 “ (pag. 24). Mentre “James Henry, ex-capo economista della società di consulenza aziendale McKinsey, nel suo studio condotto nel 2012 The Price of Offshore revisited, sostiene che i patrimoni dei super ricchi di tutto il mondo occultati in circa ottanta paradisi fiscali ammontano a 21.000 miliardi di dollari. Anzi, in realtà la cifra potrebbe addiritura salire a 32.000 miliardi, dal momento che l’esperto nella sua analisi ha monitorato e preso in considerazione solo i depositi bancari e gli investimenti finanziari, tralasciando beni e proprietà come case, appartamenti, ville, yacht e collezioni d’arte. Una cifra spropositata, che in termini nominali è superiore al Pil di Stati Uniti, Giappone e Germania messi insieme [...] Scrive Henry: «Le mancate entrate fiscali che risultano dalle nostre stime sono enormi. Abbastanza da cambiare le finanze di molti paesi. Il tutto costituisce un enorme buco nero nell’economia mondiale»” (pp. 58 – 59)
Non occorre qui dilungarsi oltre sulla mole enorme di dati che l’autore porta ancora sui fenomeni di riciclaggio di denaro sporco, sull’autentico gioco d’azzardo costituito dagli investimenti e dalle speculazioni sui diversi tipi di autentica spazzatura finanziaria (derivati e altro) che “animano” bolle speculative e mercati azionari. Anche per non togliere il “piacere della scoperta” ai futuri lettori del libro. Ma una cosa è certa:
la speculazione ha nomi e volti. Sono i grandi player della finanza che si indebitano per moltiplicare le loro scommesse sui mercati, affiancati dagli hedge fund, che dipendono direttamente dalle banche per linee di credito e operatività, e infine dalle grandi multinazionali, la cui attività sui mercati è spesso più redditizia e importante di quella produttiva” (pag. 97)
Alla fine della lettura del testo risulta dunque che la rovina di un sistema economico e finanziario sempre più vicino alle regole del gioco d’azzardo e dei casinò è stata soltanto procrastinata dal 2008 in poi. L’azzardo sui derivati ha gonfiato a dismisura il valore nominale del capitale circolante.
I numeri parlano chiaro, lo squilibrio è stupefacente anche per i non addetti ai lavori: questi prodotti nel mondo valgono in totale 637 trilioni di dollari, cioè circa dieci volte il Pil mondiale [...] Non abbiamo mai assistito a nulla di simile nella storia del mondo. Soprattutto se pensiamo che il Pil globale si attesta a 71,6 trilioni di dollari (dati del 2012), mentre è intorno ai 190 trilioni la dimensione approssimativa del valore totale del debito pubblico e privato in tutto il mondo” (pp.102-103)
E’ un tavolo del casinò truccato, dove il banco vince sempre. La vera corruzione risiede nel fatto che, se la scommessa funziona, l’istituto di credito guadagna, in caso contrario, le perdite vengono socializzate. Un espediente diabolico in cui tutti noi ormai siamo vittime in prima persona, in quanto il nostro tenore di vita, di singoli e di paese, continua a calare” (pag. 113)
“Il meccanismo è perverso e totalmente fuori controllo. Un intreccio malsano tra debiti governativi e passivo del bilancio delle banche che continuerà a pesare per decenni sulle spalle dei cittadini inermi, vessati da classi politiche miopi se non corrotte. E’ scandaloso che per il solo saldo di interessi su debiti che crescono a dismisura, e non saranno mai estinti, le economie nazionali come quella greca o italiana siano ingabbiate nella non crescita e le popolazioni debbano sopportare una micidiale doppietta di tasse alte e di tagli dei servizi essenziali” ( pag. 109).
Un debito che non potrà mai essere pagato, basti pensare alla situazione italiana in cui la crescita esponenziale del debito pubblico è dovuta principalmente alla crescita dei titoli emessi per ripagare annualmente gli interessi su quelli emessi precedentemente richiederebbe manovre dell’ordine degli 80 – 90 miliardi di euro all’anno, porterà inevitabilmente ad un’ulteriore catastrofe economico finanziaria. Che l’autore, insieme a numerosi altri esperti interpellati o intervistati, situa, al più tardi, intorno al 2018. A meno che non siano prese drastiche, rigorose ed autoritarie misure tese a limitare decisamente lo strapotere dei banksters e dei loro istituti.
Ma qui si apre anche l’altra parte del libro, quella più contraddittoria, in cui Ciarrocca tenta di delineare un progetto di uscita dal disastro senza dover per forza modificare le regole del modo di produzione capitalistico e della società mercantile basata sulla circolazione delle merci e del denaro. Una proposta comunque di difficile attuazione poiché, come dice ancora lo stesso autore:
se avessimo a che fare con uomini intelligenti e lungimiranti e non con personaggi dominati dall’avidità, forgiati dalla cultura del profitto avvallata da imponenti studi legali, governi e banche dovrebbero puntare a una graduale riduzione della leva (leverage), la perpetuazione di rischi fondata sull’indebitamento, sull’uso dei derivati e sul sistema bancario ombra. Invece i banksters non accetteranno nulla che ridimensioni il loro potere, a meno che non venga imposto loro con la forza. Perché non è nel loro interesse” (pag. 107).
Nella proposta di cambiamento, basata su una diversa offerta di denaro, non più soggiogata e determinata dai colossi del credito, e su una svalutazione dell’euro, Marx non viene mai preso in considerazione, così come non lo è, sicuramente, la lotta di classe e il suo diverso punto di vista prospettico sull’antagonismo sostanziale e irriducibile tra lavoro e capitale mentre l’attenzione è ancora rivolta alle difficoltà, anzi all’autentica scomparsa, della classe media.
La politica ha continuato a fare il suo gioco, truccato, succhiando dall’economia reale le poche risorse ancora disponibili. Risultato: la classe media, acquirente e consumatrice dei beni prodotti e immessi sul mercato dalle quarantamila multinazionali della «cupola», annaspa, alla ricerca di un benessere perduto che non troverà mai più. Con diverse declinazioni: l’Asia cresce (anche se a ritmi rallentati); gli Stati Uniti riemergono, ma con rischi sistemici latenti e irrisolti. L’Europa arretra e si impoverisce” (pag. 128).
Ma questa sembra essere la condanna di questa nuova età di mezzo in cui ci troviamo a vivere: la certezza del disastro accompagnata dall’insicurezza e dalla debolezza delle proposte di coloro che ancora rifiutano l’ipotesi, classista e rivoluzionaria, dell’esproprio e della ridistribuzione della ricchezza socialmente prodotta in nome di valori identitari che sono già storicamente e definitivamente morti (nazione, patria e patrimonio famigliare).
 



  1. Asset (in italiano cespite), è un termine usato per indicare i valori materiali e immateriali a utilità pluriennale facenti capo ad una proprietà. Nello stato patrimoniale sono parte delle attività  
  2. Un trilione equivale a mille miliardi  
     http://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/3312-sandro-moiso-nel-baratro.html

domenica 5 gennaio 2014

i ricchi per i loro soldi e potere hanno sempre ucciso e continueranno a farlo

LA TRASCRIZIONE INTEGRALE DELL'INTERVISTA di Enzo Biagi

Fava: I mafiosi sono in ben altri luoghi e in ben altre assemblee. I mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Se non si chiarisce questo equivoco di fondo…, cioè non si può definire mafioso il piccolo delinquente che arriva e ti impone la taglia sulla tua piccola attività commerciale. Questa è roba da piccola criminalità che credo faccia parte ormai, abiti in tutte le città italiane, in tutte le città europee. Il problema della mafia è molto più tragico e più importante, è un problema di vertice della gestione della nazione ed è un problema che rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale definitivo l'Italia.

Biagi: E’ vero che la realtà spesso supera la fantasia?
Fava: Sì anche perché dalle mie esperienze personali mi sono trovato quasi sempre di fronte a fatti, fenomeni, personaggi che io non avrei osato a volte nemmeno immaginare. Se tu vuoi io posso citare…

Biagi: Io voglio, sì sì.
Fava:  Tu forse conosci la storia di Placido Rizzotto.

Biagi: Sì.
Fava: Placido Rizzotto era un sindacalista pazzo, pazzo alla maniera nobile del termine, il quale si illudeva negli anni ’40-’50 di poter redimere i poveri di Corleone e come un pazzo andava all’occupazione delle terre con delle bandiere tricolore, con delle bandiere rosse guidando folle di contadini affamati per l’occupazione del latifondo. Evidentemente era un uomo che dava molto fastidio al potere, alla proprietà, al padrone perché in effetti espropriava le terre sia pure abbandonandole, costretto ad abbandonarle perché non c’era acqua, non c’erano strumenti di lavoro, non c’erano case. Però era un uomo che gettava il seme della rivolta in un luogo, in una terra, in un territorio dell’isola che era stato sempre tradizionalmente dominato dalla mafia. E accanto a lui (ecco la cosa stupefacente) camminava, correva (perché i rivoluzionari corrono secondo tradizione) dietro alle bandiere rosse, alle bandiere tricolore seguiti da queste torme di contadini una ragazza che il mito descrive scarmigliata, bella, alta, bruna come le siciliane, come una Anita Garibaldi. Ed era la sua fidanzata, si chiamava Leoluchina Sorisi. Lavorava con lui, si batteva con lui,  lottava con lui, occupava le terre insieme ai contadini finchè un giorno Placido Rizzotto scomparve.
Placido Rizzotto è uno degli eroi dimenticati. Io qui vorrei fare una piccola parentesi e ti chiedo scusa ancora. Io vorrei che gli italiani sapessero che non è vero che i siciliani sono mafiosi. I siciliani lottano da trenta secoli contro la mafia, lottano alla loro maniera naturalmente. Il fatto è che tutti gli uomini che sono caduti negli ultimi tre o quattro anni sono tutti siciliani. Gli eroi della lotta contro la mafia sono tutti siciliani con l’esclusione di Dalla Chiesa soltanto, il quale tutto sommato era anche lui un siciliano perché era stato a comandare i carabinieri di Palermo per tanto tempo. Ecco Placido Rizzotto era uno di questi eroi siciliani che spesso vengono dimenticati dall’opinione pubblica italiana. Placido Rizzotto scomparve, morì come credo nessuno sia morto, nel modo più orrendo possibile. Venne precipitato in fondo ad una spelonca del monte Busambra, un precipizio, una voragine di 300-400 metri e ritrovato dopo due anni. Venne precipitato giù vivo ed incatenato, cioè morì di fame e divorato dalle bestie della campagna. Quando i carabinieri e gli speleologi tirarono su questi miserabili resti umani, che vennero credo identificati attraverso una catenina che ancora quei resti avevano al collo, era presente Leoluchina Sorisi che riconobbe il cadavere e disse (riferiscono le cronache di allora) sicilianamente una cosa molto bella che io da siciliano non condivido ma che poeticamente amo: “Di chi lo uccise io mangerò il cuore”. Passò del tempo. Si seppe che l’assassino o comunque il mandante dell’assassino (o si ritenne di sapere che il mandante dell’assassino) era Luciano Liggio il quale era il Napoleone della mafia, il potere insorgente della mafia ed era inafferrabile, era una primula rossa. Beh, Luciano Liggio venne catturato in casa di Leoluchina Sorisi, nel letto di Leoluchina Sorisi, accudito e curato da questa donna. Non che ci fosse un rapporto umano. Però era nella sua casa. Io ho cercato questa donna, l’ho cercata a Corleone, l’ho cercata dovunque, da tutte le parti, non l’ho trovata più. Ecco qui la realtà va oltre qualsiasi immaginazione. Perché una donna che è innamorata di un uomo, che assiste alla sua fine e ama anche la sua maniera di morire, poi può far tenere dentro la propria casa e curarlo, accudirlo e nasconderlo l’uomo che si presume lo abbia ucciso?  

Biagi: Tu hai fatto una conoscenza diretta del mondo della mafia come giornalista?
Fava: Sì, ho conosciuto diversi personaggi dell'una e dell'altra parte attraverso quelle che erano le cronache, le inchieste, le indagini che andavamo conducendo e che puntualmente abbiamo riferito sui nostri giornali.

Biagi: Chi ricordi di più di questi tipi? Dei vecchi mafiosi per esempio? Sono cambiati?
Fava: Un uomo sì. C'è un abisso (anche questa è una grande confusione che si fa) tra la mafia qual era vent'anni fa, quindici anni fa e quella di oggi. Allora il mafioso per eccellenza era Genco Russo. Io sono stato a casa di Genco Russo e, mi si perdoni il termine, ho avuto (con molta ironia lo dico) l'onore di essere stato l’unico ad intervistare Genco Russo, ad avere da lui un memoriale da lui firmato che iniziava con ''Io sono Genco Russo, il re della mafia''. Genco Russo era un uomo che governava il territorio di Mussomeli dove, da vent'anni, non c'era non dico un omicidio ma uno schiaffo. Non c'era un furto, dove tutto procedeva nell’ordine, nella legalità più assoluta. Era la vecchia mafia agricola, la quale governava un territorio ed aveva una forza straordinaria che il mondo di allora non poteva ignorare, governava 15, 20 mila, 30 mila, 40 mila voti di preferenza di una parte della provincia. Nessun uomo politico poteva ignorare questa potenza determinante perché bastava che Genco Russo spostasse non da un partito all'altro, ma anche all'interno dello stesso partito quella massa di voti per determinare la fortuna o l’infelicità di un uomo politico. Ecco perché poteva andare alla Regione siciliana e spalancare con un calcio la porta degli assessori: perché lui era il padrone. Poi dopo la società corse avanti, si modificò tutto ed i mafiosi non furono più quelli come Genco Russo. I mafiosi non sono quelli che ammazzano, quelli sono gli esecutori, anche al massimo livello. Si fanno i nomi (non lo so, io non li conosco personalmente) dei fratelli Greco. Si dice che siano i mafiosi vincenti a Palermo, i padroni della mafia, i governatori della mafia, i vicerè della mafia. Non è vero: sono anche loro degli esecutori. Sono nella organizzazione, stanno al posto loro e fanno quello che gli altri…non lo so, io adesso parlo di persone che sono incensurate, quindi presumo secondo l’accusa.

Biagi: L’America, i nostri compatrioti all’estero che parte giocano in tutta la faccenda?
Fava: La loro parte è senza dubbio importante, cioè loro sono gli apportatori di masse di denaro incredibili. Io ritengo che la loro parte soprattutto sia in quello che oramai è l’argomento fondamentale della strategia mafiosa, cioè il mercato della droga. Io ho fatto delle indagini piuttosto sommarie debbo dire che può fare chiunque. Mi sono reso conto di quella che attualmente è la struttura finanziaria della mafia. Questi sono degli studi che chiunque può leggere. Esistono attualmente al mondo circa 100 milioni di drogati. La cifra è molto più alta, ma ufficialmente sono quelli. Un milione dei quali muoiono ogni anno per overdose. Dieci milioni restano definitivamente inabili a qualsiasi attività umana. Gli altri 90 milioni che restano vengono continuamente aumentati di numero eccetera. Si presume che consumino questi cento milione di persone (che vivono soltanto nel mondo occidentale) dalle 15 alle 20 mila lire di droga al giorno. Secondo calcoli piuttosto banali, piuttosto facili (basterebbe una macchinetta) si tratterrebbe di qualcosa come 100 mila miliardi l’anno, i quali vengono manovrati quasi esclusivamente dalla mafia. Ora io mi sono posto questa domanda che credo si sia posta qualsiasi persona costretta per motivi professionali o per passione politica oppure per pura umanità ad interessarsi del problema. Un'organizzazione che riesce a manovrare centomila miliardi l'anno,  più, se non erro, del bilancio di un anno dello Stato italiano, in condizione di armare degli eserciti, in condizione di possedere delle flotte, di avere una aviazione propria. In effetti sta accadendo che la mafia si sia ormai pressocchè impadronita, almeno nel medio oriente, del commercio delle armi, del mercato delle armi. Ecco gli americani contano in questo. Però neanche loro avrebbero cittadinanza in Italia come mafiosi se non ci fosse il potere politico e finanziario che consente loro di esistere. Diciamo che di questi centomila miliardi, un terzo, un quinto resta in Italia e bisogna pure impiegarlo in qualche modo, bisogna riciclarlo, ripulirlo, reinvestirlo. E allora ecco le banche, le banche nuove, questo pullulare, questo proliferare di banche nuove dovunque che servono per riciclare. Il Generale Dalla Chiesa lo aveva capito, questa era stata la sua grande intuizione, quella che lo portò alla morte. Era dentro la banche che bisognava frugare perchè lì c’erano  decine di migliaia di miliardi insanguinati che venivano immessi dentro le banche e ne fuoriuscivano per andare verso opere pubbliche. Ritengo che molte chiese siano state costruite con appalti avuti da denari mafiosi insanguinati.

Biagi: Il padrino è quello raccontato da Mario Puzo o è un altro tipo?
Fava: Sì in parte penso di sì. E’ un uomo saggio e crudele, il quale ha saggezza su tutto e una crudeltà senza limiti, disposto ad ammazzare o a fare ammazzare anche il figlio se dovesse essere il caso. Per il mafioso è una causa. Per Genco Russo la mafia era una causa. Per il mafioso moderno nella mafia moderna non ci sono padrini, ci sono grandi vecchi, i quali si servono della mafia per accrescere le loro ricchezze. Questo è un dato che spesso viene trascurato. L’uomo politico non cerca attraverso la mafia soltanto il potere, cerca anche la sua ricchezza personale, perché dalla ricchezza personale deriva potere e deriva la possibilità di avere sempre quei 150 mila, 200 mila voti di preferenza. Perché purtroppo la struttura della nostra civiltà politica è questa. Chi non ha soldi 150 mila voti di preferenza non riuscirà ad averli mai.

Biagi: Una volta si diceva che la forza dei mafiosi era la capacità di tacere. E adesso?
Fava: Io sono d'accordo con Nando Dalla Chiesa: la mafia ha acquistato una tale impunità da essere diventata perfino tracotante. Le parentele si fanno ufficialmente. Sì certo, si cerca di tirar fuori le mani, di tenerle in alto quando c’è qualcuno che sta per essere ammazzato, l'alibi personale, l’alibi morale. Ma non credo ci sia questa paura, questa necessità di far silenzio. Io ho visto molti funerali di Stato. Ora dico una cosa di cui solo io sono convinto, quindi può non essere vera: ma molto spesso gli assassini erano sul palco delle autorità.
Biagi: Come sono le donne dei mafiosi?
Fava: Quasi inesistenti. Io non ne ho conosciuta alcuna. Ho conosciuto le donne delle vittime dei mafiosi e loro sono delle donne straordinarie.

Biagi: Cosa vuol dire essere ''protetti'' secondo il linguaggio dei mafiosi?
Fava: Essere “protetti” significa poter vivere dentro questa società. Ho letto un'intervista esemplare nei giorni scorsi a quel signore di Torino che ha corrotto tutto l'ambiente politico torinese. Diceva una cosa fondamentale. E’ una legge mafiosa che è stata esportata, è venuta su dalla Sicilia, fa parte ormai della cultura nazionale: non si fa niente in Italia se non c’è l'assenso del politico e se il politico non è pagato. Ecco noi viviamo in questo tipo di società e in questo tipo di società la protezione è indispensabile se qualcuno non vuol condurre la vita da lupo solitario. Che può essere anche una scelta, può essere anche affascinante, essere soli nella vita e non avere né aderenze né protezione da alcuna parte, orgogliosamente soli fino all'ultimo. Questa può essere una scelta, ma 60 milioni di italiani non potranno farlo.

Biagi:
Non hanno questa vocazione alla solitudine. Secondo voi cosa bisognerebbe fare per eliminare questo fenomeno? Fava.
Fava: Tu fai una piccola domanda che avrebbe bisogno di una enciclopedia. Posso dirti soltanto che a mio parere tutto parte da una assenza dello Stato e dal fallimento della società politica italiana. Bisogna ricominciare da lì. Forse è necessario creare una seconda Repubblica in Italia. E’ tempo di creare una seconda Repubblica  che abbia delle leggi e una struttura di democrazia che eliminino il pericolo che il politico possa diventare succube di se stesso o della sua avidità o della ferocia degli altri o della paura o comunque in ogni caso che possa essere soltanto un professionista della politica. Tutto nasce da lì, dal fallimento della politica e degli uomini politici, della nostra struttura politica e forse della nostra democrazia così come noi l’abbiamo  in  buona fede appassionatamente costruita e che ci si sta sgretolando fra le mani. Dovremmo ricominciare da lì.