DI COSTANZO PREVE ariannaeditrice.it 1. Quanto scrivo qui probabilmente aumenterà il gossip e l'antipatia in rete nei miei confronti. Ma siccome ho anche alcuni estimatori convinti (ad occhio e croce più di dieci e meno di cinquanta) a loro, e solo a loro, devo la sincerità e la parrhesia (in greco, parlare chiaro). In Francia il 22-4-2012 ci sarà il primo turno delle elezioni presidenziali, ed il 6-5-2012 il secondo turno fra i primi due rimasti. Se fossi francese andrei a votare in entrambi i turni. Al primo turno (scandalo! orrore!) voterei Marine Le Pen, ed anche al secondo turno, se fosse ancora in corsa. Al secondo turno, nell'ipotesi che siano ancora in corsa solo Sarkozy ed Hollande, voterei sicuramente Hollande come male minore. Sarkozy, o meglio il trio Sarkozy-Juppè-Bayrou, sono per la Francia e l'Europa il male maggiore, Draghi e Monti in salsa francese, più "nuovi filosofi", "polizia del pensiero" ed interventismo di guerra. Penso che non interesserà tanto questa dichiarazione, quanto la motivazione. E cominciamo, partendo un po' da lontano, ma a costo di essere verboso non credo alla comunicazione via SMS e Twitter. Sono legato alla buona vecchia argomentazione su carta. Scrivo ovviamente prima del 22-4-2012, per cui non so proprio come andrà a finire. 2. Come cittadino italiano, non voto più dal 1992 (in cui votai per l'ultima volta la neonata Rifondazione per inerzia politica, avendo sempre votato dal 1968 l’estrema sinistra). Non voto più per protesta contro il colpo di Stato giudiziario extra-parlamentare surrealmente denominato Mani Pulite. Non voto più perché l'Italia non ha più nessuna sovranità politica dal 1945 a causa delle basi americane, ma almeno allora c'era l'opposizione comunista di sistema, e poi dopo il 1991 non c'è stata neppure più la sovranità monetaria, cui è subentrato il mantra "ce lo chiede l'Europa", di cui il rinnegato ex-comunista Napolitano è diventato la macchietta. Non voto più perché, pur avendo antipatia per il Puttaniere Sbruffone, mi sono sempre rifiutato di pormi sul terreno minato dell'anti-berlusconismo, ideologia di riciclaggio del serpentone trasformistico PCI-PDS-DS-PD. Non voto più perché, pur restando un anticapitalista radicale, non mi interessa l'innocuo massimalismo verbale dei tre porcellini (Vendola, Diliberto, Ferrero), ed in quanto a Bertinotti, lo considero solo una figura grottesca e poco divertente di una commedia dell'arte da periferia padana. E potrei continuare, ma ritengo sia già chiaro così. In Francia, grazie unicamente al meritorio De Gaulle, c'è ancora un brandello di sovranità nazionale. La gente è in maggioranza contro l'euro, anche se sventuratamente viene divisa ideologicamente fra la Le Pen e Mélanchon, per il quale voterei, se pensassi che facesse sul serio, senza recitare il semplice gioco delle parti (urla rivoluzionarie, e poi appoggio a Mitterrand e Jospin). E poi per ora non ci sono ancora basi americane, e ci sono persino pensatori geopolitici dell'asse Parigi-Berlino-Mosca (de Grossouvre). Insomma, un paese più serio del nostro. E adesso, scusatemi per il narcisismo, ma voglio dire qualcosa sul mio rapporto con la Francia. 3. Il mio rapporto con la Francia (e con la francofonia, che pratico fin da bambino) è avvenuto in due tempi. La mia iniziazione sia alla filosofia che al marxismo è avvenuta in Francia, mentre l'Italia non vi ha giocato un ruolo. Ho avuto come amici personali alcuni fra i maggiori pensatori marxisti francesi della seconda metà del Novecento (nominativamente Labica, Vincent, Bidet, Balibar, Andréani, Tosel, ed altri), ed essi mi hanno praticamente insegnato tutto. Ho aderito per circa un quindicennio all'althusserismo, che poi ho radicalmente abbandonato, ma il suo abbandono è stato per me "maieutico", perché mi ha costretto ad elaborare un codice filosofico personale. In Italia ho goduto della consuetudine con alcuni pensatori più anziani (Norberto Bobbio, Ludovico Geymonat, Cesare Cases, Franco Fortini, fra gli altri), ma essi sono stati per me un esempio umano, non certo filosofico. Filosoficamente non ritengo di avere imparato da loro quasi nulla, ed ho anzi dovuto fare tutto da solo. 4. Un secondo tempo del mio rapporto con la Francia è stato caratterizzato dalla mia amicizia con Alain de Benoist, amicizia che i precedenti citati avrebbero senz'altro condannato, ma se si fa di testa propria non si può piacere a tutti. De Benoist è giunto fino a menzionarmi nella dedica del suo recentissimo libro-intervista di memorie (cfr. Mémoire Vive, entretiens avec François Bousquet, Editions de Fallois, Paris 2012). Non entro qui nel merito dei numerosissimi punti di accordo con de Benoist o sui punti di disaccordo (ad esempio, la valutazione filosofica dell'universalismo). L'ho già fatto in un apposito saggio (cfr. Il paradosso de Benoist, Settimo Sigillo, Roma 2006). Qui mi interessa solo sottolineare tre punti. In primo luogo, de Benoist sfugge alla inesorabile definizione sugli intellettuali come gruppo sociale distinto data a suo tempo da Bourdieu: una frazione dominata della classe dominante. Per sfuggirvi bisogna violare il tabù della dittatura del Politicamente Corretto, come ha fatto recentemente su Israele il benemerito Günther Grass. Inoltre, de Benoist non può essere definito in alcun modo un membro dominato della classe dominante, perché la classe dominante inscena un teatrino delle marionette Destra/Sinistra, il cui ingrediente fondamentale è l'antifascismo in assenza di fascismo e l'anticomunismo in assenza di comunismo. De Benoist è del tutto al di fuori di questo gioco e della sua utilizzabilità. In secondo luogo, c'è il gruppo intellettuale della "crociata umanitaria", in cui si distinguono i francesi Glucksmann e Henry-Lévy, ma che hanno numerosi cloni in Italia (paginoni culturali e giornaloni). E si trasformano guerre civili (Kosovo, Libia, Siria) in rappresentazioni fantastiche, in cui interi popoli unanimi lottano contro feroci dittatori personalizzati, a piacere hitlerizzati o stalinizzati. Naturalmente urlano a tutto spiano per i bombardamenti umanitari, e chi non è d'accordo con loro è bollato di populismo, antiamericanismo ed antisemitismo. Vergogna. In terzo luogo, c'è il patetico gruppo della "polizia del pensiero" (cito come esempi Rossana Rossanda ed Umberto Eco, in quanto francofoni e parigini di elezione). Costoro non hanno portato e non porteranno mai nessun contributo creativo, ma in compenso sono sempre attivi nel "mettere in guardia contro le infiltrazioni" del Fascismo Obliquo ed Eterno (FOE), contribuendo attivamente a bloccare e mummificare quanto restava di creativo ed anticonformista nel pensiero di sinistra. È evidente che all'interno di questa triste tipologia de Benoist spicca per creatività, originalità e coraggio politico e culturale. Per questo considero la sua amicizia un onore ed un privilegio, anche se essa può spiacere ad altri amici, francesi o italiani. 5. Essendo un uomo di libri (e non vergognandomene affatto) cito nell'ordine quattro libri francesi, che mi hanno portato liberamente a questa folle decisione politicamente scorrettissima, anche se virtuale perché non ho il passaporto francese. Il primo è un recente saggio di de Benoist (cfr. Au bord du gouffre, Krisis, Paris 2011). Il secondo è un saggio di Jean-Claude Michéa (cfr. Le complexe d'Orphée, Climats, Paris 2011). Il terzo è un saggio di Régis Debray (cfr. Èloge des frontières, Gallimard, Paris, 2011). Il quarto e ultimo è direttamente di Marine Le Pen (cfr. Pour que vive la France, Grancher, Paris, 2012). D'ora in poi li citerò con il nome del solo autore, ma lo farò analiticamente, perché mi pare che due esistano anche in traduzione italiana, ma due ancora no. Cercherò di fare un ragionamento piano e non settario. 6. Intitolato in italiano "Sulla soglia dell'abisso", il più recente libro di de Benoist sarebbe forse il più bel libro di "sinistra" pubblicato nell'ultimo anno, se la sinistra esistesse ancora e non fosse stata completamente fagocitata dalla "polizia del pensiero", dal futurismo progressistico automatizzato, dalla retorica dei diritti umani a bombardamenti incorporati, dall'antifascismo nostalgico-paranoico in totale assenza di fascismo, e via dicendo. So che quello che dico pare surrealistico e kafkiano, ma leggere per credere. Oggi chi è di sinistra dovrebbe essere contro la globalizzazione finanziaria, forma post-moderna di imperialismo post-borghese e post-proletario, ed in effetti libri contro il finanz-capitalismo (Gallino) si sprecano. Ma de Benoist è veramente contro la globalizzazione, non per finta o in modo teatrale (indignatos, Occupy Wall Street, eccetera), ma lo è con il coraggio di tirare anche alcune conclusioni sgradevoli e politicamente scorrette per i palati di sinistra: connotazione esatta del nemico principale indicato con nome e cognome e senza perifrasi, contingentamento dell'immigrazione incontrollata (senza la minima ombra di razzismo), ritorno alla sovranità monetaria nazionale anche se in forma federalista, protezionismo moderato ma visibile, opposizione al multiculturalismo americanizzante, eccetera. Tutte cose che la sinistra politicamente corretta non osa non solo dire, ma neppure pensare. A proposito della globalizzazione, la "sinistra" è divisa in due grandi tronconi, che definirei dei globalizzatori anarchico-utopisti e degli altermondialisti politicamente corretti. I globalizzatori anarchico-utopisti (Negri, Hardt, ma anche Badiou e Zizek) sono soprattutto nemici del vecchio Stato nazionale autoritario, e vedono nella globalizzazione nuove possibilità di liberazione ed il potenziale avvento di una nuova "moltitudine" (che sostituisca la vecchia e noiosa classe salariata, operaia e proletaria, che nel frattempo ha "deluso"), cioè di una soggettività capace di legare "la singolarità al comune”. Formalmente, si tratta di marxismo ortodosso legato analogicamente al Marx del Manifesto del 1848: così come la società borghese è un progresso rispetto a quella feudale, così l'impero mondializzato è un passo avanti rispetto alla realtà degli Stati nazionali edificati dalla borghesia (cfr. G. Giaccio, Diorama Letterario, n. 306, 2011). Si tratta di una ipocrita follia popolare nei due estremi della società, le cafeterias dei campus americani ed i centri sociali, dove vegeta una generazione di disoccupati. Gli altermondialisti politicamente corretti (ad esempio "Le Monde diplomatique", i trotzkisti francesi delle due varianti, i tre porcellini italiani Vendola, Diliberto e Ferrero, la Linke tedesca, eccetera) respingono invece le idiozie precedenti, ma ritengono in buona fede che le "lotte" (proletari più ecologisti, femministe e pacifisti) possano "imporre" alle oligarchie un secondo compromesso keynesiano-fordista, riproducendo i trenta anni gloriosi (Hobsbawm). Essi condannano virtuosamente la globalizzazione e la dittatura dello spread e della speculazione, ma pensano di poterne venire fuori non solo con Bersani, Hollande e la SPD rinnovata, ma anche senza pagare prezzi sgradevoli come il contingentamento dell'immigrazione, misure protezionistiche e ristabilimento delle monete sovrane nazionali (magari tenendo l'euro come sola unità di conto di riserva). Insomma, vogliono la botte piena e la moglie ubriaca, e vogliono fare la frittata senza rompere le uova. Il libro di de Benoist rompe finalmente l'ipocrisia politicamente corretta, ed ora si capisce meglio perché la "polizia del pensiero" adori Negri, Badiou e Zizek e lo condanni alla damnatio memoriae in vita. 7. Il libro di Michéa affronta in modo impareggiabile un tema che un secolo prima di lui solo Georges Sorel aveva saputo affrontare così bene, anche se Sorel non aveva ancora conosciuto la natura controrivoluzionaria del cosiddetto Sessantotto (in proposito vedi D. Fusaro, Minima Mercatalia, Bompiani, Milano 2012, pp. 372-394). Michéa spiega come la "sinistra" abbia potuto alienarsi la "gente comune" sulla base dell'adozione dogmatica della "religione del progresso". Il paradosso che Michéa spiega in modo magistrale sta nel fatto che da un lato la sinistra critica il liberismo economico ed il liberalismo politico, visti correttamente come l'involucro del dominio delle oligarchie finanziarie, e poi accetta supinamente il suo necessario complemento culturalistico, la liberalizzazione dei costumi, la religione del progresso, il mito per cui l'Avanti è sempre per definizione meglio dell'Indietro, ed il fatto che la morale per definizione è considerato un fatto strettamente privato. Michéa non coltiva nessuno nostalgismo reazionario, semplicemente spiega con ricchi riferimenti storici, antropologici e filosofici in che modo la schizofrenia progressista si è impadronita del recinto sacro della sinistra, recinto ben sorvegliato dalla nota "polizia del pensiero" e dai "crociati dell'interventismo umanitario". Leggere per credere. 8. Régis Debray ha alle spalle una lunghissima storia rivoluzionaria che l'ha portato dal Che Guevara a Mitterrand alla difesa sacrosanta della Jugoslavia nel 1999. Debray vede nella "frontiera" un limite alla mondializzazione, perché è ad un tempo la precondizione della sovranità monetaria nazionale e la precondizione dell'opposizione al "mondialismo planetario", che si copre di buone intenzioni multiculturali, assistenzialistiche e pacifistiche, e poi inevitabilmente copre l'interventismo a cento ottanta gradi (Schmitt, Zolo). Quello di Debray è un vero discorso contro il politicamente corretto sans frontiéres e sans papier, fatto da una persona che ha girato il mondo, ha le credenziali "internazionalistiche" a posto ed è multilingue. Appunto per questo non ha bisogno di coprirsi con il ridicolo mantello del multiculturalismo politicamente corretto, può tranquillamente restaurare il significato positivo e non negativo della frontiera: un limite magari facilmente oltrepassabile con una semplice carta d'identità, ma anche un limite fisiologico della sovranità comunitaria praticabile. 9. Ed arriviamo ora al libro della Le Pen. Ma poiché ho fatto la mia dichiarazione scandalosa, devo ai miei amici di "sinistra" (ne ho infatti ancora) una spiegazione sul perché non le preferisco i due trotzkisti Arthaud e Poitou ed il normale "sinistro" comunista-sovranista Mélenchon. 10. In Francia esistono tre gruppi trotzkisti organizzati, di cui due si presentano alle elezioni. Uno è il gruppo di Lotta Operaia (Arthaud) e l'altro è l'ex-Lega Comunista Rivoluzionaria, ribattezzata recentemente Nuovo Partito Anticapitalista. Entrambi hanno deciso di non unirsi al Fronte della Sinistra di Mélenchon, perché intendono chiarire di non voler fare da ruota di scorta massimalista a Hollande. A differenza di come si potrebbe pensare, io approvo fortemente l’esistenza organizzata di gruppi testimoniali apertamente anti-capitalisti, anche se (ma non è poco!) il loro analfabetismo geopolitico li porta a vere e proprie idiozie, come l'appoggio agli oppositori integralisti di Gheddafi in Libia e di Assad in Siria. Ma per quanto riguarda il trotzkismo, mi è venuto a noia il loro testimonialismo conservatore, per cui le analisi di de Benoist, di Michéa e di Debray non esistono, perché essi sono bensì rivoluzionari, ma prima di ogni altra cosa restano politicamente corretti di estrema sinistra. Da un lato, continuano a battere il tamburo di Stalin come capo termidoriano dei burocrati e della classe operaia, salariata e proletaria come soggetto rivoluzionario privilegiato, e dall'altro credono di poter rimpolpare il vecchio trotzkismo con dosi americaneggianti di ecologismo, femminismo e pacifismo, magari con un pizzico di sale di Negri, Badiou e Zizek presi a piccole dosi omeopatiche. Bisogna dire apertamente che si tratta di tempo perduto e di prosecuzione di un equivoco. In quanto a Mélenchon, i miei amici francesi di sinistra sicuramente lo voteranno. Nel secondo turno ha già chiarito che voterà Hollande, ma questo non mi scandalizza, perché anch'io lo farei, ritenendo l'accoppiata Sarkozy-Bayrou il male peggiore. Il fatto è che Mélenchon a mio avviso non fa sul serio, ma resta un tipico altermondialista e sovranista politicamente corretto, che si ferma intimidito di fronte al feticcio della unità della sinistra e del mantenimento della dicotomia Destra/Sinistra, a mio avviso obsoleta. E Hollande, il compare di Bersani, lo sa e ci marcia, anche se non giunge alla abiezione tutta italiana di appoggiare direttamente Monti per anti-berlusconismo ossessivo. Ecco in breve come vedo io la cosa. 11. E passiamo ora al libro della Le Pen. Mi si dirà che è un libro propagandistico, fatto per ingannare i creduloni "di sinistra" come me. Ma io non faccio parte della polizia del pensiero, ed ho già largamente pagato i miei prezzi al gossip malevolo. Io leggo libri, mi devo fidare di quello che leggo, e raramente ho avuto modo di trovarmi tanto d'accordo con un testo politico-teorico. Marine Le Pen (p. 135) afferma apertamente il deperimento attuale della dicotomia Destra/Sinistra. Se lo fa, questo significa che cerca voti a destra, al centro e a sinistra. Bene, è esattamente quello che da 15 anni aspetto da un politico. Perché ora che arriva dovrei sospettare l'inganno? Essa critica la guerra dell'Iraq (p.37). Sostiene che la bolla speculativa immobiliare è stata una strategia voluta (p. 36). Sostiene con Polanyi che il mercato è più utopico del piano (p.26). Sostiene con Maurice Allais che il liberalismo ha un codice "stalinista" e che il mondialismo è un'alleanza fra consumismo e materialismo (p. 49). Sostiene con Todd che c'è incompatibilità fra libero scambio e democrazia (p.50). Sostiene che se c'è qualcosa di "fascista", questo qualcosa è l'euro (pp. 54-61), affermazione certamente un po' hard, ma meglio esagerare che sottovalutare. Le è perfettamente chiara la natura abbietta dell'interventismo umanitario di Kouchner (p. 127). Si rifà positivamente a Lipovetsky, a Michéa ed a Bourdieu, e cita positivamente sia De Gaulle che lo stesso comunista Marchais. Ma soprattutto ci sono due punti importanti. In primo luogo, a differenza dei soliti politicanti ignoranti, la Le Pen traccia una vera genealogia teorica del capitalismo liberista, dai fisiocratici a Smith. In secondo luogo, non lascia dubbi sul fatto che la mondializzazione è cattiva in sé, è un orizzonte di rinuncia (p. 19), il modello americano è al cuore del progetto mondialista (p. 34), il debito pubblico è un buon affare mondialista (p. 72), l'organizzazione europea di Bruxelles è l'avanguardia europea del mondialismo (p. 74), e che infine l'immigrazione incontrollata è parte di un'offensiva economica e culturale del mondialismo (p. 80). Questa ultima affermazione è particolarmente sgradevole per le anime pie politicamente corrette di sinistra, perché identificata con il razzismo ed il populismo. Bisogna però sapere se essa è fondata o infondata, ed io la considero parzialmente fondata. La Le Pen afferma anche che il sarkozysmo è lo stadio supremo del mondialismo (p. 151), che la nazione non deve essere demonizzata (p. 103), che la scuola e la cultura classica devono essere difese (p. 111 e p. 235), che il popolo è diventato "indesiderabile” e viene sempre accusato di "populismo", termine vuoto e per questo sorvegliato dalla polizia del pensiero (p. 128). E potrei continuare. Sottolineo per chiarezza che la mia dichiarazione “scandalosa” deve essere giudicata solo ed esclusivamente sulla base del libro e dei punti citati; essa non comporta in alcun modo la condivisione del razzismo e della xenofobia anti-immigrati, con le quali la Le Pen si deve e si dovrà inevitabilmente confrontare sul piano elettorale. A questo punto mi si dica, se lo si vuole, che sono un vecchio ingenuo gabbione e che mi lascio infinocchiare da una scaltra "populista". Ammetto di avere un fraterno amico, che qui non cito, che fa parte del circolo politico della Le Pen. Egli afferma, ed io gli credo, che il libro corrisponde a verità e che la Le Pen crede veramente a quello che scrive. Preferisco sbagliare per ingenuità che essere sospettoso per paranoia. Ed ora terminiamo con un breve commento finale. 12. Io resto un anticapitalista radicale. Lo sono diventato a 18 anni, nel 1961, ed è chiaro che lo sono diventato all'interno della cultura di "sinistra". Mio padre, morto nel 1993, non me lo ha perdonato, perché era un anticomunista viscerale, e l'ha preso come un vero e proprio tradimento di un figlio ingrato. Da posizioni di sinistra mi sono messo a studiare la filosofia, Hegel, Marx ed il marxismo, e ne sono diventato un esperto, al di là della condivisione o meno della mia interpretazione. Negli anni Sessanta, a Parigi mi sono interessato sia all’althusserismo, che ho condiviso per più di un decennio, e sulla cui base sono diventato amico di Gianfranco La Grassa, sia alle differenze fra le tre tradizioni staliniana, trotzkista e maoista. Negli anni Sessanta sono anche entrato a fare parte organica della sinistra greca, dopo un lungo soggiorno ad Atene. Negli anni Settanta e Ottanta ho attivamente militato nella sinistra italiana della mia città (Torino). Come si vede, ho un pedigree di tutto rispetto e ritengo di non avere nulla di cui vergognarmi. Soprattutto, ritengo di non avere "scheletri nell'armadio" e di aver sempre fatto pubblicamente quello che ho fatto. Un amico mi ha sconsigliato di mettere in rete pubblicamente queste pagine, perché sembrano fatte apposta per incrementare un gossip maligno. Ma penso che se si comincia ad autocensurarsi perché si è introiettato il politicamente corretto, tanto varrebbe andare da soli all'ospizio, finché i piedi ci portano ancora. Costanzo Preve Fonte: www.ariannaeditrice.it Link: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=43120 18.04.2012http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=10187 |
la polemica non è un male, è solo una forma di confronto crudo sincero, diciamo tutto quello che pensiamo fuori dai denti, e vediamo se riusciamo a far venir fuori le capacità di cui siamo portatori e spenderle per il Bene Comune. Produrre, organizzare, trovare soluzioni, impegnarci a far rete, razionalizzare e mettere in comune, attingere alle nostre risorse. CUI PRODEST? Pensa cchiu' a chi o' dicè ca' a chello ca' dice
L'albero della storia è sempre verde
L'albero della storia è sempre verde
"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"
sabato 18 gennaio 2014
per quelli che ancora sono nel recinto della destra/sinistra
venerdì 17 gennaio 2014
Uscita dall'Euro, il sentiero è chiaro
CRONACHE MARZIANE (sul Convegno di Chianciano)
di Fiorenzo Fraioli
Premessa
Nel testo che segue riporto le mie impressioni e riflessioni sul recente convegno Oltre l'euro. La sinistra. L'alternativa, organizzato dal Movimento Popolare di LIberazione (MPL) e Bottega Partigiana.
Sebbene sia iscritto all'ARS (Associazione Riconquistare la Sovranità), esse non riflettono necessariamente le posizioni dell'associazione, della quale condivido gran parte della lettura del reale, ma non tutto. Inoltre, dedicherò la mia attenzione agli interventi che hanno maggiormente insistito sugli aspetti politici e indicato possibili percorsi di fuoruscita dalla crisi.
(...)
Il convegno di Chianciano
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La ricezione del Convegno |
Il convegno Oltre l'euro. La sinistra. L'alternativa è stato promosso da una parte dei soggetti che assumono come primo valore da difendere la democrazia, e come interesse privilegiato quello del mondo del lavoro, inteso quest'ultimo nella sua accezione più generale di tutti coloro che, per vivere, ogni giorno devono alzarsi per andare a lavorare o cercare un'occupazione.
Una parte di questi soggetti politici, ma non tutti, ha partecipato. Tra gli assenti c'è stata anche l'ARS (di cui faccio parte), scelta che ho combattuto nel direttivo nazionale che ha preso questa decisione, e che continuo a ritenere sbagliata. Lo sviluppo del convegno, e gli interventi che ho ascoltato, hanno confermato questa mia valutazione, sebbene resti convinto che essa, almeno per quanto riguarda ARS, sia stata più il frutto di un fraintendimento che di reali motivi di contrasto.
Alla radice dei fraintendimenti continua ad esserci l'uso di una dicotomia che, negli ultimi decenni, è diventata estremamente ambigua nella percezione che ne hanno le persone, quella "destra/sinistra". In questo senso il titolo del convegno, che contiene la parola "sinistra", non è stato di aiuto alla corretta comprensione di ciò che esso è realmente stato. Chi ha partecipato ha potuto verificarlo di persona; gli altri potranno constatarlo visionando i video degli interventi che sono in via di pubblicazione. I relatori hanno tutti sostenuto posizioni valoriali democratiche e proposto percorsi di uscita dalla crisi nei quali veniva chiaramente posto l'accento sugli interessi del mondo del lavoro, ma ognuno di loro li ha declinati in modo coerente con la propria visione del mondo, e chissà, forse anche degli interessi di bottega. Ma di ciò, noi che abbiamo vissuto abbastanza, non ci meravigliamo né ci scandalizziamo più di tanto.
Gli interventi "politici"
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In sala da pranzo |
La prolusione di Moreno Pasquinelli del Movimento Popolare di Liberazione (MPL) ha enucleato i quattro scenari più probabili, che egli ha definito: soluzione socialista, soluzione liberista, soluzione fascista, soluzione sovranista democratica. Nessuno dei relatori ha indugiato sulla possibilità di una soluzione socialista, evidentemente improbabile sebbene gradita ad alcuni, né sul pericolo di una soluzione fascista. Quest'ultima, essendo il fascismo l'antidoto velenoso escogitato dal Capitale per arrestare l'avanzata del socialismo, non può sussistere se manca la "minaccia del socialismo". Restano, dunque, due soli probabili scenari, la soluzione liberista e quella democratica sovranista, vale a dire le due forme che il mercato ha assunto nel corso del XX° secolo. MPL sostiene la linea di un'alleanza di tutte le forze democratiche per un'uscita democratica e sovranista dalla trappola dell'euro e dell'Unione Europea.
Sebbene tutti i relatori si siano espressi a favore del ripristino di una forma regolata di mercato capitalistico (sia pure come fase transitoria verso il socialismo, nel caso di Moreno Pasquinelli), quelli di loro che hanno affrontato il tema della fuoruscita dall'euro si sono divisi sui possibili percorsi politici. La linea di demarcazione principale può essere individuata nella specificazione della fonte di sovranità da cui far discendere l'opera di regolazione dei mercati, per alcuni essendo questa da ricercarsi negli Stati nazionali, per altri in istituzioni europee profondamente rinnovate.
Tra i fautori della prima posizione ci sono Moreno Pasquinelli di MPL e Luciano Barra Caracciolo ("l'alternativa è pronta, c'è già, è il recupero del modello costituzionale!… Non abbiamo bisogno di altro: la Repubblica democratica fondata sul lavoro…"), mentre Andrea Ricci, e soprattutto Sergio Cesaratto, sono apparsi più favorevoli alla seconda ipotesi. Un discorso a parte merita l'intervento di Emiliano Brancaccio.
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Durante il seminario degli economisti |
Sergio Cesaratto ha svolto la prima parte del suo intervento ricordando il contributo di Friedrich List, secondo il quale lo Stato nazionale è "lo spazio più prossimo in cui una classe lavoratrice nazionale può legittimamente sperare di modificare a proprio vantaggio i rapporti di forza", a "fronte della visione cosmopolita del capitalismo e degli interessi dei lavoratori che Marx gli contrappone". In modo che mi è parso lievemente contraddittorio, nella parte finale del suo intervento Cesaratto ha enunciato una posizione di compromesso, consistente nella costruzione di una posizione politica che ponga le attuali istituzioni europee davanti alla scelta tra un radicale cambio di rotta della gestione economica o la fine dell'eurozona. Questa posizione politica, secondo Cesaratto, può essere perseguita aderendo alla proposta di dar vita a una lista Tsipras per le prossime elezioni europee, nella quale dovrebbero confluire tutte le forze critiche da sinistra dell'attuale linea economica dell'UE, fino a comprendere SEL se ciò dovesse risultare possibile. Un diffuso mormorio dell'uditorio ha fatto da commento a questa proposta, evidentemente non ben accetta, mentre Cesaratto, in preda a un evidente nervosismo, concludeva il suo intervento.
Più netta, ma anch'essa contraddittoria, la proposta di Andrea Ricci, consistente nell'uscita unilaterale e immediata dell'Italia dall'euro, unitamente al rilancio del processo di integrazione europea su basi radicalmente nuove. Ricci motiva la sua tesi da un lato per l'insostenibilità della moneta unica, dall'altro per il rifiuto di logiche di natura protezionistica e di chiusura agli scambi che sarebbero, a suo parere, l'inevitabile conseguenza del ritorno agli Stati nazionali. La chiusura dell'economia italiana agli scambi internazionali, conseguente al ripristino di barriere protezionistiche, avrebbe, secondo Ricci, gravi costi per l'Italia che ha, principalmente, un'economia di trasformazione, e profonde ripercussioni di ordine politico e culturale. Andrea Ricci argomenta la sua tesi ricordando che i periodi migliori della storia italiana hanno coinciso con le fasi di apertura agli scambi internazionali e al cosmopolitismo, mentre una chiusura isolazionista, protezionistica e autarchica potrebbe legittimarsi, agli occhi dell'opinione pubblica, "soltanto in virtù di un gretto nazionalismo, anacronistico e reazionario nel mondo attuale". Per Ricci, il recupero della sovranità nazionale, di cui si professa fautore, "non deve significare il ripiegamento su valori imperniati su una presunta tradizione nazionale". Per queste ragioni egli dichiara di essere "ancora, nonostante tutto, un convinto sostenitore dell'unità europea, perché credo che nell'epoca attuale sia ancora l'Europa il posto nel quale il nostro paese può progredire e prosperare, in attesa poi di un'altra epoca, un'epoca futura, quella dell'internazionale futura umanità". In realtà, aggiunge Ricci, "quella della sovranità nazionale perduta con l'integrazione europea, è un mito", perché dopo la seconda guerra mondiale, "l'Italia è stata, ben più di altri paesi europei, un paese a sovranità limitata". La tesi, conclude Ricci, può apparire contraddittoria, ma così non è perché non è sbagliata la prospettiva dell'unificazione europea, ma il percorso che è stato scelto, basato sull'imposizione di una moneta unica tecnicamente insostenibile. La soluzione, in definitiva, è per Andrea Ricci quella di rigettare l'euro e tenersi l'Unione Europea, cambiandone la politica economica ma senza rinunciare al Mercato Unico. L'intervento di Ricci si conclude con un lungo e caloroso applauso dei convenuti, ai quali temo sia sfuggita, anche per l'abilità dell'oratore, la questione di fondo, ovvero che non solo l'euro è stato un errore tecnico, ma anche e soprattutto lo strumento di coercizione della democrazia in Europa. E' anche possibile, tuttavia, che questa sia oggi l'unica posizione sostenibile per un economista che è stato per lungo tempo il responsabile economico del PRC, un partito nel quale è in corso una logorante battaglia interna proprio sull'euro e l'Unione Europea, non ancora conclusasi.
L'intervento politicamente più significativo è stato quello di Emiliano Brancaccio. Dopo aver "pagato pegno" al suo rango di "economista de sinistra" prendendo le distanze dal Front National di Marine Le Pen ("non si può sdoganare il Fronte Nazionale in Francia pur di far saltare la baracca dell'euro") ottenendo però un tiepido applauso da parte dell'uditorio, Brancaccio ha rilanciato sul terreno dei diritti civili ("chi oggi combatte contro l'assetto dell'unione monetaria europea, e dell'Unione Europea, deve farlo con lo scopo di appropriarsi della categoria della modernità"). Una richiesta, tutto sommato, non eccessiva (Se Parigi val bene una messa, l'Eliseo, per Marine Le Pen, può ben valere il riconoscimento dei diritti civili! – n.d.r.).
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Il Convegno inizia |
Piuttosto, lascia perplessi l'espressione "assetto dell'unione monetaria europea, e dell'Unione Europea", che ammicca alla possibilità di riformare questa Europa nella visione di un'altra Europa. Ipotesi che, nel prosieguo dell'intervento, passa però in secondo piano. Il passaggio successivo è sui movimenti di protesta dal basso, e qui Brancaccio si distacca nettamente dalle posizioni di certa sinistra ossessionata dalla purezza ideologica, allorché dichiara "…io credo che si debba intercettare quei movimenti… ovviamente bisogna saperlo fare…", l'applauso, questa volta, è più convinto, "…bisogna avere idee chiare, perché in questi nuovi scenari di protesta la concorrenza politica è tra forze antagoniste, si concorre gomito a gomito con i neofascisti. In quei contesti, o si ha la forza di egemonizzare, o si è egemonizzati e si tracolla!". L'ouverture brancacciana si conclude con la richiesta/speranza di potersi rivolgere ai presenti in sala con l'appellativo di "compagni".
Tale dichiarazione è seguita da un applauso scrosciante, ma non unanime (sono un testimone oculare – n.d.r.). Subito dopo parte una delle sue tipiche stoccate: "questa è una fase di piccoli gruppi… piccoli gruppi crescono… e in quest'ottica sarebbe bene evitare, io spero, protagonismi inutili, che in fin dei conti sono il retaggio di una ideologia individualista, che è distruttiva per qualsiasi progetto politico in fieri… ed è un'impresa colossale… e nessuno da solo potrà farcela… insomma io credo che si debba evitare come la peste il protagonismo delle persone, la lotta tra singole individualità, insomma la pulsione che un tempo si sarebbe definita 'gruppettara'". Chissà con chi ce l'aveva?
Brancaccio prosegue ponendo la domanda topica: "esiste il rischio di una gestione gattopardesca della crisi dell'euro?". La risposta è affermativa. Nella sostanza egli teme che, pur con la fine della moneta unica, non si ponga per ciò mano al vero problema, che è costituito dal "profilo antistatuale, liberista e libero-scambista delle politiche economiche". E' necessario, per Brancaccio, chiarire che "qualsiasi soluzione, che anche soltanto ammicchi alla possibilità di affidarsi, in un modo o nell'altro, al libero gioco delle forze del mercato, qualsiasi soluzione che si affidi a quei videogiochi, intesi sia come movimenti dei prezzi, sia come movimenti dei cambi, qualsiasi soluzione di questo tipo è una soluzione gattopardesca, in fin dei conti liberista, che deve essere combattuta sul terreno dei fatti e deve essere respinta! Più in generale, occorre contrastare il rischio di una gestione gattopardesca della crisi, chiarendo che qualsiasi tentativo di distinguere tra unione monetaria europea e Unione Europea, cioè qualsiasi tentativo, magari di gettare via la moneta unica tenendo tuttavia in piedi intatto il Mercato Unico Europeo, è un'opzione sbagliata". Un applauso scrosciante copre le parole di Brancaccio, il quale continua affermando che "la storia sta muovendosi rapida… e che persino parole indicibili fino a qualche tempo fa, come 'protezionismo', come 'intervento pubblico nell'economia', e (concedetemelo) perfino 'socialismo'… possono tornare in gioco!".
Considerazioni di un videoreporter
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Warren Mosler (con la giacca beige) prima dei lavori |
Penso che questo convegno segni uno spartiacque e mi auguro, da iscritto all'ARS, che anche la nostra associazione possa presto dare un contributo, sia al dibattito che alla necessaria mobilitazione dal basso.
Ho già fatto cenno alla discussione interna, il cui esito è stata la scelta di non co-promuovere, con MPL e Bottega Partigiana, il convegno. Alla fine hanno prevalso il timore di rimanere coinvolti in un confronto tutto interno alla sinistra radicale e la scelta di dedicare tutte le energie allo sforzo di far crescere la nostra organizzazione, a parere di molti ancora troppo piccola (poco più di qualche centinaio di iscritti) per proporsi come un vero ed esistente soggetto politico. Per quanto attiene la prima obiezione, essa mi sembra ampiamente smentita dall'andamento del convegno, stante il fatto che la frazione della sinistra radicale contraria ad identificare nell'euro e nell'Unione Europea il nemico da abbattere non solo non ha partecipato al convegno, ma lo ha addirittura boicottato attivamente. Una scelta legittima, in politica, ma che lascia l'amaro in bocca. Quanto alla seconda ragione, cioè il fatto che ARS deve dedicare tutte le sue energie allo sforzo di crescere, prima di proporsi come reale ed esistente soggetto politico, osservo che se è vero che prima di fare è necessario esistere, è altrettanto vero che, per esistere, è necessario fare.
Gli interventi di maggior rilievo sono stati quelli di Andrea Ricci ed Emiliano Brancaccio: il primo ci ha confermato che il PRC è ancora in mezzo al guado, e che è necessario attendere ancora prima di avere un quadro più chiaro della situazione in quel partito; Brancaccio, dal canto suo, ha fissato due paletti insuperabili all'ipotesi di "contaminazione tra diversi" in funzione della lotta per uscire dalla gabbia dell'euro e dell'UE: il rapporto con il Fronte Nazionale di Marine Le Pen, e quello con i sostenitori della tesi secondo cui basta uscire dall'euro e lasciare spazio al libero gioco dei prezzi e dei cambi (magari addolcito da qualche marginale provvedimento di indicizzazione dei salari) perché tutto vada a posto.
Per quanto attiene il primo paletto, il rapporto con il Fronte Nazionale, questa posizione pone dei problemi ad ARS che, al contrario, è più possibilista, sebbene sempre altamente vigile. Saranno gli avvenimenti e le dichiarazioni dei prossimi mesi a chiarire la situazione. Quello che posso affermare, con convinzione profonda, è che ARS considera il fascismo in termini profondamente negativi (pur non demonizzandone alcune realizzazioni) e gli ascrive, tra le altre, due colpe imperdonabili: l'aver promulgato le leggi razziali nel 1938, e l'aver messo a rischio l'unità della Nazione con la scelta di dar vita alla repubblica di Salò, schierandola al fianco della Germania nazista.
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Nino Galloni durante la sua prolusione |
Diverso è il discorso per quanto riguarda il secondo paletto. In questo caso è ARS che deve essere rassicurata, da Brancaccio e da quanti si riconoscono in quello che ha detto nel suo intervento, sulla necessità di reintrodurre vincoli protezionistici e forti limitazioni alla libera circolazione di merci, capitali, servizi e, punto dolente, delle persone; intese, queste ultime, non come rifugiati che chiedono asilo dalle guerre e dalle persecuzioni, bensì come forza lavoro che preme sui confini, utile a ricostituire continuamente quell'esercito di riserva dei lavoratori che ARS vuole estinguere definitivamente nel nostro paese. Un segnale positivo, in tal senso, viene da una recente dichiarazione dello stesso Brancaccio, il quale ha fatto notare come i fenomeni migratori di massa siano una evidente conseguenza della libera circolazione dei capitali, delle merci e dei servizi.
Un'osservazione, infine, relativa all'intervento di Sergio Cesaratto. Sono rimasto molto perplesso, anzi negativamente sorpreso, dalla parte finale del suo intervento, allorché ha accennato alla lista Tsipras. Considero la lista Tsipras null'altro che il tentativo di limitare la critica al liberismo (insito nel progetto europeo) alla costruzione di una forza minoritaria critica dei suoi eccessi; con la speranza, ahimè vana, che queste istanze possano, un giorno lontano, prevalere, battendo i grandi interessi del capitale finanziario sovranazionale sul terreno di gioco da esso stesso costruito. Insomma, un sogno… o un "fogno", se anche SEL sarà della partita.
* Fonte: Appello al Popolo
giovedì 16 gennaio 2014
Saniamo le poste, adesso che ci danno soldi le regaliamo ai Capitali stranieri. Siamo scemi
Ecco come Merkel e Draghi cuociono l’Italia e gli altri PIIGS
di Guido Iodice
mercoledì 15 gennaio 2014
Chianciano: una delle proposte nel ricco e proficuo confronto
Uscita dall’euro e integrazione europea
Un binomio possibile
di Andrea Ricci
Il primo presupposto riguarda il rifiuto di una prospettiva isolazionista, costituita da un mix di protezionismo e di autarchia. Una prospettiva di questo genere, oltre a determinare grandi costi per un’economia di trasformazione povera di materie prime come quella italiana, avrebbe anche negative conseguenze di ordine politico e culturale. Essa, infatti, potrebbe legittimarsi agli occhi della pubblica opinione soltanto in virtù di un gretto nazionalismo, anacronistico e reazionario nel mondo attuale.
Non dobbiamo dimenticare che l’Italia, nella sua storia unitaria, ha già tentato almeno due volte simili esperimenti. Una prima volta, nell’ultimo quarto del XIX secolo, con il protezionismo crispino, fondato sull’alleanza tra la grande impresa settentrionale e il latifondo meridionale, che distrusse l’agricoltura del Meridione e pose le basi del permanente dualismo economico italiano; una seconda volta, nel secolo scorso, per far fronte alla Grande Depressione degli anni Trenta, con l’autarchia mussoliniana. Non è un caso se entrambe le volte quelle politiche protezionistiche sfociarono, anche per necessità economiche, in un imperialismo straccione sempre più aggressivo e criminale, concluso prima nel 1896 con l’umiliazione di Adua e poi, ben più tragicamente, con la catastrofe della Seconda guerra mondiale combattuta al fianco dei nazisti.
Il recupero della sovranità monetaria nazionale non deve per forza di cose significare la chiusura in se stessa dell’Italia, il ripiegamento su valori imperniati su una presunta tradizione nazionale. La cultura, l’arte, la scienza italiana, quello che i francesi chiamano la civilization italienne, ha dato il meglio di sé, riuscendo a incantare e stupire il mondo, soltanto quando ha avuto una vocazione cosmopolita, aperta all’altro, al diverso, allo straniero, spesso in lotta o in fuga dall’arretratezza morale e materiale dei costumi nazionali. È per questa ragione che resto ancora, nonostante tutto, un convinto sostenitore dell’unità politica europea, perché credo che nell’epoca attuale sia l’Europa lo spazio in cui il nostro Paese possa progredire e prosperare. In attesa di un’altra epoca, quella dell’Internazionale futura umanità quando non esisteranno più né confini né barriere a dividere i popoli del mondo intero.
D’altra parte quando mai, un Paese, politicamente, militarmente ed economicamente debole come l’Italia ha goduto di una piena sovranità nazionale, sia in campo politico che economico? Quello della sovranità nazionale perduta con l’integrazione europea è un mito, una costruzione immaginaria senza riscontri reali. Un mito pericoloso e poco seducente.
Nell’epoca storicamente a noi più prossima, quella successiva alla Seconda guerra mondiale, l’Italia è stata ben più di altri Paesi europei, un Paese a sovranità limitata, pesantemente vincolato dagli interessi della potenza dominante, gli USA. La storia economica italiana del dopoguerra è piena zeppa di episodi di sudditanza allo straniero. Dai pesanti condizionamenti imposti alla ricostruzione post-bellica dal Piano Marshall in funzione anticomunista e antioperaia, all’assassinio di Enrico Mattei, per conto delle Sette sorelle petrolifere angloamericane. Dal ruolo di collegamento tra mafia, Vaticano e Wall Street svolto dal banchiere piduista Sindona, nominato uomo dell’anno nel 1974 appena tre mesi prima della bancarotta, dall’ambasciatore americano in Italia, alla politica di austerità imposta dal FMI in occasione del prestito chiesto dal Governo Andreotti nel 1976. E si potrebbe ancora continuare a lungo. Ciò che allora era diverso, era il contesto generale del sistema economico internazionale, definito dagli accordi di Bretton Woods ed ispirato ad un moderato neokeynesismo, ben lontano dalla globalizzazione neoliberista degli ultimi 25 anni. Di sovranità nazionale allora ce n’era forse meno che oggi.
Ma allora, qualcuno potrà obiettare, perché mai sostieni la necessità dell’uscita dall’euro e della rottura dell’UE? La risposta sta nel secondo presupposto implicito nella mia tesi.
Io ritengo che il peggior nemico dell’Europa, ciò che sta distruggendo il lavoro di decenni compiuto dalle precedenti generazioni, sfregiate dall’esperienza di due guerre mondiali figlie dei nazionalismi europei, sia proprio la sua moneta comune, l’euro. In tutta Europa stiamo assistendo al crescere impetuoso di sentimenti xenofobi e antieuropei proprio a causa delle sofferenze e delle umiliazioni economiche e sociali che l’euro impone alla maggioranza della popolazione, e in particolare alle classi lavoratrici. A quei falsi o ottusi europeisti, che un giorno sì e l’altro pure, sostengono che l’uscita dall’euro sarebbe un atto folle e irresponsabile, è facile ribattere che nulla è stato più folle e irresponsabile dell’imposizione dell’euro.
Come accadeva un tempo per il socialismo, ciò che oggi è in discussione non è l’euro ideale, immaginario, cioè un’astratta e generica moneta comune europea, ma l’euro realmente esistente, quello che è stato costruito negli ultimi quindici anni, non solo nei Trattati, ma nelle pratiche concrete di governo quotidiano della moneta e della politica economica dell’intera Unione. Una moneta, infatti, non è affatto una cosa banale e semplice come può apparire nell’uso quotidiano che ognuno di noi ne fa, non è una cosa neutra, un velo, un puro strumento per agevolare gli scambi economici. Questo è ciò che ci vuol far credere l’ideologia economica dominante, di matrice neoclassica e neoliberista, secondo cui i problemi monetari sono sempre falsi problemi, dietro i quali si nascondono quelli veri. Purtroppo, accade spesso di incontrare tale pensiero anche in una certa vulgata marxista che, non comprendendo l’analisi marxiana del valore e del denaro, riduce immediatamente ogni questione alla sfera della produzione materiale. La moneta, al contrario, è una forma reale enormemente complessa, la più complessa e oscura dell’intera vita economica e sociale. Essa struttura e governa una rete di relazioni di potere che definiscono un regime economico, con vincoli e compatibilità impossibili da oltrepassare.
Da questo punto di vista l’euro rappresenta un esperimento unico nella storia monetaria dell’umanità. Infatti, per la prima volta, è stata creata una moneta fiduciaria, cioè senza alcun valore intrinseco a differenza dell’oro o dell’argento, priva di una corrispondente entità politica statuale che ne garantisse l’emissione. L’euro è stato correttamente definito una moneta senza Stato, cui è specularmente corrisposta una serie di Stati senza moneta. Dal punto di vista tecnico, l’euro rappresenta per l’Italia e per gli altri Paesi dell’UME una valuta estera, avente la peculiare caratteristica di non essere garantita da nessun altro Stato, verso cui sarebbe sempre possibile entrare in un rapporto di contrattazione conflittuale. Vista in questi termini l’euro rappresenta una curiosità, un paradosso della storia, ma un paradosso drammaticamente reale.
Le aspettative iniziali, nel momento della sua nascita, erano ben diverse. La creazione dell’euro doveva essere soltanto il primo passo verso una sempre maggiore integrazione politica europea. In un certo senso, i suoi ideatori, a cominciare da quel Jacques Delors oggi fortemente critico verso le politiche europee, erano consapevoli di giocare una scommessa rischiosa, quando ritenevano che la moneta unica avrebbe reso irreversibile l’unità politica europea, vincendo le tante resistenze nazionali che a essa si frapponevano. In questo gioco d’azzardo sta l’irresponsabilità dell’euro, perché le cose sono andate in direzione opposta. Negli ultimi quindici anni l’Europa si è sempre più divisa, accentuando le divergenze nazionali in numerosi campi, dalla politica estera e militare alle politiche sociali ed economiche. Né ha essa compiuto un solo passo in avanti verso la definizione di regole e procedure democratiche in grado di legittimare i poteri sempre più estesi delle tecnocrazie europee. In questo quadro, ciò che è rimasto dell’euro è solo uno scheletro spettrale, senza più la polpa che lo abbelliva, lo scheletro di un potente strumento di dominio del capitale finanziario sulle classi popolari e lavoratrici europee.
Dal punto di vista strettamente economico, una moneta senza Stato ha comportato due decisive conseguenze che hanno minato la sostenibilità dell’euro. La prima conseguenza riguarda lo status, le funzioni e gli strumenti della BCE. La BCE è profondamente diversa dalle sue omologhe negli altri Paesi. Diversità di status perché la BCE gode di un’autonomia e di una indipendenza totali, che sfociano nell’irresponsabilità sui propri atti e comportamenti, essendo sottratta ad ogni forma di controllo da parte di poteri democraticamente legittimati. Diversità di funzioni, perché la BCE ha come compiti prioritari la tutela della stabilità finanziaria e il controllo dell’inflazione e soltanto in via del tutto subordinata e secondaria quelli della crescita economica e del sostegno all’occupazione. Diversità di strumenti perché la BCE non può finanziare direttamente il debito pubblico degli Stati membri ma può intervenire sul mercato monetario soltanto attraverso il canale del sistema bancario privato.
Per dare un’idea di quanto diversa sia la BCE è sufficiente ricordare il comportamento della FED in questi ultimi cinque anni di crisi. Al fine di sostenere l’economia e le finanze pubbliche, la FED ha concordato con il Ministero del Tesoro degli USA un massiccio programma di acquisto diretto di titoli pubblici americani pari in media a 85 miliardi di dollari al mese. Questa operazione ha consentito al Governo degli USA di finanziare un deficit pubblico pari in media al 12% annuo del PIL e di più che raddoppiare il debito pubblico americano, giunto ormai a circa il 123% del PIL, senza conseguenze di rilievo sulla stabilità del dollaro. Sostanzialmente la stessa cosa, hanno fatto in questi anni la Bank of England e la Bank of Japan.
La seconda conseguenza economica di una moneta senza Stato è l’assenza di meccanismi automatici, oltre che discrezionali, di redistribuzione delle risorse all’interno dell’area monetaria. In tutti i Paesi, siano essi di carattere federale o centralistico, questi meccanismi agiscono, non solo sotto forma di specifiche politiche regionali, ma semplicemente attraverso il normale operare del sistema fiscale e del Welfare. La redistribuzione territoriale delle risorse consente di rendere sostenibili gli inevitabili squilibri macroeconomici che una moneta unica, e quindi un unico tasso di cambio, comportano tra le diverse regioni dell’area. È, infatti, inevitabile che in uno spazio geografico ampio esistano differenze nei livelli di sviluppo e di competitività che, se lasciate al libero gioco del mercato, tendono riprodursi su scala sempre più ampia. Queste differenze non sono di per sé indice di inefficienza poiché consentono una razionale divisione del lavoro e della produzione all’interno di uno spazio geografico caratterizzato da differenti vocazioni economiche. Tuttavia, nell’impossibilità di modificare il tasso di cambio, ciò produce un crescente squilibrio nei conti esterni tra le aree in surplus e quelle in deficit che si traduce in un crescente indebitamento, pubblico e privato, delle economie deficitarie.
Come la teoria delle aree valutarie ottimali ha dimostrato mezzo secolo fa, in assenza di meccanismi di redistribuzione pubblica, l’inevitabile aggiustamento di questi squilibri può avvenire solo in due modi: o attraverso una massiccia migrazione della forza lavoro verso le aree più forti o attraverso una deflazione dei prezzi e dei salari nelle aree più deboli. Entrambi questi processi sono difficili e costosi, e diventano impossibili e distruttivi in situazioni di crisi strutturale come quella odierna.
Nell’UME queste differenze territoriali esistevano in forma massiccia sin dalla sua creazione e furono ulteriormente ampliate dalla fissazione del tasso di conversione delle monete nazionali con l’euro che ha penalizzato i Paesi con minore competitività. Fino allo scoppio della crisi finanziaria, l’aggiustamento strutturale è stato procrastinato dagli investimenti finanziari dei Paesi in surplus nei Paesi in deficit. L’interruzione dei flussi finanziari in seguito alla crisi, ha fatto venire in piena luce l’insostenibilità della costruzione europea.
La strategia mercantilista della Germania, basata sul contenimento coatto della domanda interna e sulla ricerca ossessiva di surplus commerciali, ha esasperato ancor di più la situazione. Il tasso di cambio dell’euro verso il dollaro e le altre principali monete è fortemente sopravvalutato per le economie periferiche dell’Eurozona e al contrario fortemente sottovalutato per la Germania e i suoi Paesi satelliti. Con l’euro la Germania ha ottenuto la quadratura del cerchio: da un lato ha mantenuto le caratteristiche di rigore nella conduzione della politica monetaria senza però, dall’altro lato, dover pagare lo scotto di un costante apprezzamento della propria valuta. Ancora una volta, come in passato, la Germania continua a recitare la stessa, drammatica parte: questo gigante dell’Europa si mostra incapace di esercitare un ruolo egemone e tende invariabilmente a rinculare verso l’esercizio di un brutale dominio che prima o poi è destinato a portarlo alla rovina, come in un’infinita fatica di Sisifo.
Le politiche di austerità imposte dalla Troika ai Paesi periferici non sono dettate da incompetenza o da malvagità. Esse sono necessarie e indispensabili per salvare l’euro reale, nella configurazione concreta che ha storicamente assunto. Soltanto una violenta riduzione dei salari e delle condizioni di vita delle masse popolari nei Paesi economicamente più deboli può sanare gli squilibri interni all’area dell’euro. Salvare l’euro al prezzo di un impoverimento di massa è la disperata e pericolosa manovra che sta tentando il blocco sociale dominante in Italia, imperniato sul capitale finanziario e sulle grandi imprese multinazionali con il supporto di strati sociali minoritari protetti dalla concorrenza internazionale, per consolidare i propri privilegi nel corso della crisi. Per questa ragione l’idea sostenuta da tanta parte della sinistra, moderata e non, di abbandonare le politiche di austerità mantenendo l’euro è, nel migliore dei casi, una pia e velleitaria illusione. L’UE e la sua moneta non sono riformabili. Esse devono essere rotte, devono essere spezzate, affinché possa ripartire un nuovo progetto di integrazione europea.
In questo senso l’Italia ha una grande responsabilità. A differenza della Grecia, del Portogallo, dell’Irlanda e perfino della Spagna, per dimensione economica, per storia e per collocazione geopolitica l’Italia può con un atto unilaterale segnare la fine dell’euro e l’inizio di un nuovo capitolo della storia europea. Senza l’Italia l’euro non esisterebbe più, la sua credibilità sarebbe irreversibilmente minata.
L’atto unilaterale iniziale è certo traumatico e comporta nei primi tempi misure eccezionali, come rigidi controlli sui movimenti di capitale o persino una temporanea inconvertibilità della nuova moneta e misure amministrative di congelamento dei prezzi e di indicizzazione dei salari. Ma tutto ciò, in presenza di una direzione politica forte e determinata, durerebbe poco e le trattative per un nuovo assetto monetario europeo (e forse mondiale) si aprirebbero in fretta. Soltanto uno shock, derivante da atti unilaterali, porrebbe tutti i Paesi nella necessità di ricontrattare le coordinate monetarie dell’Europa. Tutti ne avrebbero interesse. Anzi, ad averne il più grande interesse sarebbe proprio la Germania, onde evitare una secca perdita di competitività dell’industria tedesca derivante da una iper-rivalutazione della propria valuta. Praticare la rottura per perseguire un nuovo progetto di unità europea: questo dovrebbe essere il programma politico delle forze della sinistra italiana.
E dopo? Su quali concrete proposte questo nuovo progetto si potrebbe basare? Le idee in campo sono tante. Quella che a me sembra più interessante è lo spunto lanciato da Oskar Lafontaine, ex ministro tedesco dell’Economia, e ripreso da numerosi economisti in Francia, in Spagna ed anche in Italia, di ricostituire una nuova versione del Sistema Monetario Europeo, ben diversa da quella che precedette l’adozione dell’euro. Più che al vecchio SME, questa proposta si avvicina a quella formulata da Keynes e accantonata dagli americani durante la conferenza di Bretton Woods. A mio giudizio questo nuovo accordo monetario europeo dovrebbe avere le seguenti caratteristiche:
2) Mantenimento dell’euro come unità di conto e mezzo di pagamento virtuale per il saldo delle transazioni nette tra i Paesi membri dell’Unione Europea, in modo da ridurre la necessità di riserve valutarie internazionali. In tale nuovo contesto si dovrebbe favorire l’emissione di titoli nazionali e comunitari denominati in euro sui mercati finanziari internazionali (eurobond), anche come strumento di finanziamento del bilancio dell’Unione Europea, da rendere più consistente rispetto alle sue attuali dimensioni. L’emissione degli eurobond consentirebbe inoltre l’utilizzo dell’euro come strumento di riserva internazionale alternativo al dollaro da parte di Paesi terzi in quantità ben maggiori di quelle attuali.
3) Fissazione di un’ampia banda di oscillazione delle euromonete (ad esempio più o meno 15% dal valore centrale di parità), in modo da garantire margini di flessibilità sufficienti all’aggiustamento graduale degli squilibri interni. Qualora la quotazione di un’eurovaluta entri stabilmente nella fascia estrema della banda di oscillazione (ad esempio quando superi il valore di più o meno 12,5% dalla parità centrale) il Paese sarebbe tenuto a manovre macroeconomiche correttive, di tipo espansivo in caso di eccessiva rivalutazione o di tipo restrittivo in caso di eccessiva svalutazione. In tal modo si garantirebbe una simmetria, che oggi manca del tutto, nell’aggiustamento degli squilibri tra Paesi in deficit e Paesi in surplus nei conti esteri. Tale obbligo dovrebbe rappresentare l’unico vincolo imposto alle politiche di bilancio nazionali. In tal modo ogni Paese membro sarebbe libero di decidere in piena autonomia le politiche economiche e il modello sociale da adottare.
4) Introduzione di misure fiscali (Tobin Tax) e amministrative per ostacolare i movimenti speculativi di capitale. I proventi della Tobin Tax potrebbero, in tutto o in parte, confluire in un Fondo Europeo di Stabilità Monetaria (FESM) per l’erogazione di prestiti a breve termine ai Paesi membri in difficoltà nel mantenimento della parità valutaria.
5) Trasformazione del ruolo della BCE in una European Clearing Union con capacità di erogazione di credito ai Paesi membri nei limiti del FESM, eventualmente integrato dalla fissazione di quote a disposizione dei singoli Stati in rapporto alla loro dimensione commerciale. La BCE potrebbe inoltre svolgere funzioni di coordinamento delle politiche monetarie europee, conduzione della politica del tasso di cambio dell’euro nei confronti del dollaro e delle altre valute internazionali, vigilanza unitaria dei mercati bancari e finanziari, gestione del sistema dei pagamenti intraeuropeo (Target2), controllo dei movimenti di capitale, riscossione della Tobin Tax. Le attività della nuova BCE, al pari di quelle delle Banche centrali nazionali, dovranno essere sottoposte al controllo del Parlamento europeo e dei rispettivi Parlamenti nazionali.
6) Rafforzamento del coordinamento delle politiche fiscali e di bilancio tra i Paesi membri, per garantire la necessaria convergenza delle politiche macroeconomiche. Eventuali modifiche delle parità all’interno del nuovo SME dovrebbero essere approvate e ratificate in sede comunitaria.
È evidente che una proposta di questo tipo è incompatibile con l’attuale assetto istituzionale dell’UE ed essa richiederebbe un nuovo Trattato istitutivo, una rifondazione su nuove e diverse basi dell’intero processo di integrazione europea. Per arrivare a questo occorre però prima rompere e poi ricostruire.
lunedì 13 gennaio 2014
Il tempo storico apre ogni tanto delle “finestre” di opportunità...e queste sono appunto le rivoluzioni che possono riuscire
Sinistra e Destra Tradizione, identità, appartenenza, esaurimento, superamento
Introduzione |
- Si parla molto oggi di superamento della vecchia dicotomia fra sinistra e destra, ma non sempre si portano argomenti convincenti per rendere realmente credibile questo superamento. Chi sostiene che la dicotomia è ancora valida fa in genere riferimento al valore dell’eguaglianza e della solidarietà, dicendo che la destra non pratica questi valori, mentre la sinistra sostiene i salariati in nome dell’eguaglianza e gli immigrati in nome della solidarietà.
- Per onestà verso il lettore, dico subito di essere convinto sostenitore del sostanziale esaurimento di questa dicotomia, e del fatto dunque che un sostanziale superamento sarebbe ormai possibile ed utile. Una simile affermazione non è però sufficiente, bisogna argomentarla sul piano prima storico e poi teorico e culturale. E’ quello che cercherò di fare.
- In questo e nei prossimi due paragrafi svolgerò alcune considerazioni personali sulla ragioni che mi hanno progressivamente portato ad abbandonare radicalmente la dicotomia fra sinistra e destra come criterio di orientamento e bussola per gli avvenimenti storici e politici contemporanei.
padre di un’unica bambina