L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 18 gennaio 2014

per quelli che ancora sono nel recinto della destra/sinistra

Informazionese fossi francese
DI COSTANZO PREVE
ariannaeditrice.it

1. Quanto scrivo qui probabilmente aumenterà il gossip e l'antipatia in rete nei miei confronti. Ma siccome ho anche alcuni estimatori convinti (ad occhio e croce più di dieci e meno di cinquanta) a loro, e solo a loro, devo la sincerità e la parrhesia (in greco, parlare chiaro). In Francia il 22-4-2012 ci sarà il primo turno delle elezioni presidenziali, ed il 6-5-2012 il secondo turno fra i primi due rimasti. Se fossi francese andrei a votare in entrambi i turni. Al primo turno (scandalo! orrore!) voterei Marine Le Pen, ed anche al secondo turno, se fosse ancora in corsa.
Al secondo turno, nell'ipotesi che siano ancora in corsa solo Sarkozy ed Hollande, voterei sicuramente Hollande come male minore.

Sarkozy, o meglio il trio Sarkozy-Juppè-Bayrou, sono per la Francia e l'Europa il male maggiore, Draghi e Monti in salsa francese, più "nuovi filosofi", "polizia del pensiero" ed interventismo di guerra. Penso che non interesserà tanto questa dichiarazione, quanto la motivazione.

E cominciamo, partendo un po' da lontano, ma a costo di essere verboso non credo alla comunicazione via SMS e Twitter. Sono legato alla buona vecchia argomentazione su carta.  Scrivo ovviamente prima del 22-4-2012, per cui non so proprio come andrà a finire.

2. Come cittadino italiano, non voto più dal 1992 (in cui votai per l'ultima volta la neonata Rifondazione per inerzia politica, avendo sempre votato dal 1968 l’estrema sinistra). Non voto più per protesta contro il colpo di Stato giudiziario extra-parlamentare surrealmente denominato Mani Pulite. Non voto più perché l'Italia non ha più nessuna sovranità politica dal 1945 a causa delle basi americane, ma almeno allora c'era l'opposizione comunista di sistema, e poi dopo il 1991 non c'è stata neppure più la sovranità monetaria, cui è subentrato il mantra "ce lo chiede l'Europa", di cui il rinnegato ex-comunista Napolitano è diventato la macchietta.  Non voto più perché, pur avendo antipatia per il Puttaniere Sbruffone, mi sono sempre rifiutato di pormi sul terreno minato dell'anti-berlusconismo, ideologia di riciclaggio del serpentone trasformistico PCI-PDS-DS-PD. Non voto più perché, pur restando un anticapitalista radicale, non mi interessa l'innocuo massimalismo verbale dei tre porcellini (Vendola, Diliberto, Ferrero), ed in quanto a Bertinotti, lo considero solo una figura grottesca e poco divertente di una commedia dell'arte da periferia padana. E potrei continuare, ma ritengo sia già chiaro così. In Francia, grazie unicamente al meritorio De Gaulle, c'è  ancora un brandello di sovranità nazionale. La gente è in maggioranza contro l'euro, anche se sventuratamente viene divisa ideologicamente fra la Le Pen e Mélanchon, per il quale voterei, se pensassi che facesse sul serio, senza recitare il semplice gioco delle parti (urla rivoluzionarie, e poi appoggio a Mitterrand e Jospin). E poi per ora non ci sono ancora basi americane, e ci sono persino pensatori geopolitici dell'asse Parigi-Berlino-Mosca (de Grossouvre). Insomma, un paese più serio del nostro. E adesso, scusatemi per il narcisismo, ma voglio dire qualcosa sul mio rapporto con la Francia.

3. Il mio rapporto con la Francia (e con la francofonia, che pratico fin da bambino) è avvenuto in due tempi.  La mia iniziazione sia alla filosofia che al marxismo è avvenuta in Francia, mentre l'Italia non vi ha giocato un ruolo. Ho avuto come amici personali alcuni fra i maggiori pensatori marxisti francesi della seconda metà del Novecento (nominativamente Labica, Vincent, Bidet, Balibar, Andréani, Tosel, ed altri), ed essi mi hanno praticamente insegnato tutto. Ho aderito per circa un quindicennio all'althusserismo, che poi ho radicalmente abbandonato, ma il suo abbandono è stato per me "maieutico", perché mi ha costretto ad elaborare un codice filosofico personale. In Italia ho goduto della consuetudine con alcuni pensatori più anziani (Norberto Bobbio, Ludovico Geymonat, Cesare Cases, Franco Fortini, fra gli altri), ma essi sono stati per me un esempio umano, non certo filosofico. Filosoficamente non ritengo di avere imparato da loro quasi nulla, ed ho anzi dovuto fare tutto da solo.

4. Un secondo tempo del mio rapporto con la Francia è stato caratterizzato dalla mia amicizia con Alain de Benoist, amicizia che i precedenti citati avrebbero senz'altro condannato, ma se si fa di testa propria non si può piacere a tutti. De Benoist è giunto fino a menzionarmi nella dedica del suo recentissimo libro-intervista di memorie (cfr. Mémoire Vive, entretiens avec François Bousquet, Editions de Fallois, Paris 2012). Non entro qui nel merito dei numerosissimi punti di accordo con de Benoist o sui punti di disaccordo (ad esempio, la valutazione filosofica dell'universalismo). L'ho già fatto in un apposito saggio (cfr. Il paradosso de Benoist, Settimo Sigillo, Roma 2006). Qui mi interessa solo sottolineare tre punti.  In primo luogo, de Benoist sfugge alla inesorabile definizione sugli intellettuali come gruppo sociale distinto data a suo tempo da Bourdieu: una frazione dominata della classe dominante. Per sfuggirvi bisogna violare il tabù della dittatura del Politicamente Corretto, come ha fatto recentemente su Israele il benemerito Günther Grass. Inoltre, de Benoist non può essere definito in alcun modo un membro dominato della classe dominante, perché la classe dominante inscena un teatrino delle marionette Destra/Sinistra, il cui ingrediente fondamentale è l'antifascismo in assenza di fascismo e l'anticomunismo in assenza di comunismo. De Benoist è del tutto al di fuori di questo gioco e della sua utilizzabilità.   In secondo luogo, c'è il gruppo intellettuale della "crociata umanitaria", in cui si distinguono i francesi Glucksmann e Henry-Lévy, ma che hanno numerosi cloni in Italia (paginoni culturali e giornaloni). E si trasformano guerre civili (Kosovo, Libia, Siria) in rappresentazioni fantastiche, in cui interi popoli unanimi lottano contro feroci dittatori personalizzati, a piacere hitlerizzati o stalinizzati. Naturalmente urlano a tutto spiano per i bombardamenti umanitari, e chi non è d'accordo con loro è bollato di populismo, antiamericanismo ed antisemitismo. Vergogna.  In terzo luogo, c'è il patetico gruppo della "polizia del pensiero" (cito come esempi Rossana Rossanda ed Umberto Eco, in quanto francofoni e parigini di elezione). Costoro non hanno portato e non porteranno mai nessun contributo creativo, ma in compenso sono sempre attivi nel "mettere in guardia contro le infiltrazioni" del Fascismo Obliquo ed Eterno (FOE), contribuendo attivamente a bloccare e mummificare quanto restava di creativo ed anticonformista nel pensiero di sinistra.  È evidente che all'interno di questa triste tipologia de Benoist spicca per creatività, originalità e coraggio politico e culturale. Per questo considero la sua amicizia un onore ed un privilegio, anche se essa può spiacere ad altri amici, francesi o italiani.

5. Essendo un uomo di libri (e non vergognandomene affatto) cito nell'ordine quattro libri francesi, che mi hanno portato liberamente a questa folle decisione politicamente scorrettissima, anche se virtuale perché non ho il passaporto francese. Il primo è un recente saggio di de Benoist (cfr. Au bord du gouffre, Krisis, Paris 2011). Il secondo è un saggio di Jean-Claude Michéa (cfr. Le complexe d'Orphée, Climats, Paris 2011). Il terzo è un saggio di Régis Debray (cfr. Èloge des frontières, Gallimard, Paris, 2011). Il quarto e ultimo è direttamente di Marine Le Pen (cfr. Pour que vive la France, Grancher, Paris, 2012). D'ora in poi li citerò con il nome del solo autore, ma lo farò analiticamente, perché mi pare che due esistano anche in traduzione italiana, ma due ancora no. Cercherò di fare un ragionamento piano e non settario.

6. Intitolato in italiano "Sulla soglia dell'abisso", il più recente libro di de Benoist sarebbe forse il più bel libro di "sinistra" pubblicato nell'ultimo anno, se la sinistra esistesse ancora e non fosse stata completamente fagocitata dalla "polizia del pensiero", dal futurismo progressistico automatizzato, dalla retorica dei diritti umani a bombardamenti incorporati, dall'antifascismo nostalgico-paranoico in totale assenza di fascismo, e via dicendo. So che quello che dico pare surrealistico e kafkiano, ma leggere per credere. Oggi chi è di sinistra dovrebbe essere contro la globalizzazione finanziaria, forma post-moderna di imperialismo post-borghese e post-proletario, ed in effetti libri contro il finanz-capitalismo (Gallino) si sprecano. Ma de Benoist è veramente contro la globalizzazione, non per finta o in modo teatrale (indignatos, Occupy Wall Street, eccetera), ma lo è con il coraggio di tirare anche alcune conclusioni sgradevoli e politicamente scorrette per i palati di sinistra: connotazione esatta del nemico principale indicato con nome e cognome e senza perifrasi, contingentamento dell'immigrazione incontrollata (senza la minima ombra di razzismo), ritorno alla sovranità monetaria nazionale anche se in forma federalista, protezionismo moderato ma visibile, opposizione al multiculturalismo americanizzante, eccetera. Tutte cose che la sinistra politicamente corretta non osa non solo dire, ma neppure pensare.  A proposito della globalizzazione, la "sinistra" è divisa in due grandi tronconi, che definirei dei globalizzatori anarchico-utopisti e degli altermondialisti politicamente corretti. I globalizzatori anarchico-utopisti (Negri, Hardt, ma anche Badiou e Zizek) sono soprattutto nemici del vecchio Stato nazionale autoritario, e vedono nella globalizzazione nuove possibilità di liberazione ed il potenziale avvento di una nuova "moltitudine" (che sostituisca la vecchia e noiosa classe salariata, operaia e proletaria, che nel frattempo ha "deluso"), cioè di una soggettività capace di legare "la singolarità al comune”. Formalmente, si tratta di marxismo ortodosso legato analogicamente al Marx del Manifesto del 1848: così come la società borghese è un progresso rispetto a quella feudale, così l'impero mondializzato è un passo avanti rispetto alla realtà degli Stati nazionali edificati dalla borghesia (cfr. G. Giaccio, Diorama Letterario, n. 306, 2011). Si tratta di una ipocrita follia popolare nei due estremi della società, le cafeterias dei campus americani ed i centri sociali, dove vegeta una generazione di disoccupati. Gli altermondialisti politicamente corretti (ad esempio "Le Monde diplomatique", i trotzkisti francesi delle due varianti, i tre porcellini italiani Vendola, Diliberto e Ferrero, la Linke tedesca, eccetera) respingono invece le idiozie precedenti, ma ritengono in buona fede che le "lotte" (proletari più ecologisti, femministe e pacifisti) possano "imporre" alle oligarchie un secondo compromesso keynesiano-fordista, riproducendo i trenta anni gloriosi (Hobsbawm). Essi condannano virtuosamente la globalizzazione e la dittatura dello spread e della speculazione, ma pensano di poterne venire fuori non solo con Bersani, Hollande e la SPD rinnovata, ma anche senza pagare prezzi sgradevoli come il contingentamento dell'immigrazione, misure protezionistiche e ristabilimento delle monete sovrane nazionali (magari tenendo l'euro come sola unità di conto di riserva). Insomma, vogliono la botte piena e la moglie ubriaca, e vogliono fare la frittata senza rompere le uova.  Il libro di de Benoist rompe finalmente l'ipocrisia politicamente corretta, ed ora si capisce meglio perché la "polizia del pensiero" adori Negri, Badiou e Zizek e lo condanni alla damnatio memoriae in vita.

7. Il libro di Michéa affronta in modo impareggiabile un tema che un secolo prima di lui solo Georges Sorel aveva saputo affrontare così bene, anche se Sorel non aveva ancora conosciuto la natura controrivoluzionaria del cosiddetto Sessantotto (in proposito vedi D. Fusaro, Minima Mercatalia, Bompiani, Milano 2012, pp. 372-394). Michéa spiega come la "sinistra" abbia potuto alienarsi la "gente comune" sulla base dell'adozione dogmatica della "religione del progresso". Il paradosso che Michéa spiega in modo magistrale sta nel fatto che da un lato la sinistra critica il liberismo economico ed il liberalismo politico, visti correttamente come l'involucro del dominio delle oligarchie finanziarie, e poi accetta supinamente il suo necessario complemento culturalistico, la liberalizzazione dei costumi, la religione del progresso, il mito per cui l'Avanti è sempre per definizione meglio dell'Indietro, ed il fatto che la morale per definizione è considerato un fatto strettamente privato. Michéa non coltiva nessuno nostalgismo reazionario, semplicemente spiega con ricchi riferimenti storici, antropologici e filosofici in che modo la schizofrenia progressista si è impadronita del recinto sacro della sinistra, recinto ben sorvegliato dalla nota "polizia del pensiero" e dai "crociati dell'interventismo umanitario".  Leggere per credere.

8. Régis Debray ha alle spalle una lunghissima storia rivoluzionaria che l'ha portato dal Che Guevara a Mitterrand alla difesa sacrosanta della Jugoslavia nel 1999. Debray vede nella "frontiera" un limite alla mondializzazione, perché è ad un tempo la precondizione della sovranità monetaria nazionale e la precondizione dell'opposizione al "mondialismo planetario", che si copre di buone intenzioni multiculturali, assistenzialistiche e pacifistiche, e poi inevitabilmente copre l'interventismo a cento ottanta gradi (Schmitt, Zolo). Quello di Debray è un vero discorso contro il politicamente corretto sans frontiéres e sans papier, fatto da una persona che ha girato il mondo, ha le credenziali "internazionalistiche" a posto ed è multilingue. Appunto per questo non ha bisogno di coprirsi con il ridicolo mantello del multiculturalismo politicamente corretto, può tranquillamente restaurare il significato positivo e non negativo della frontiera: un limite magari facilmente oltrepassabile con una semplice carta d'identità, ma anche un limite fisiologico della sovranità comunitaria praticabile.

9. Ed arriviamo ora al libro della Le Pen. Ma poiché ho fatto la mia dichiarazione scandalosa, devo ai miei amici di "sinistra" (ne ho infatti ancora) una spiegazione sul perché non le preferisco i due trotzkisti Arthaud e Poitou ed il normale "sinistro" comunista-sovranista Mélenchon.

10. In Francia esistono tre gruppi trotzkisti organizzati, di cui due si presentano alle elezioni. Uno è il gruppo di Lotta Operaia (Arthaud) e l'altro è l'ex-Lega Comunista Rivoluzionaria, ribattezzata recentemente Nuovo Partito Anticapitalista. Entrambi hanno deciso di non unirsi al Fronte della Sinistra di Mélenchon, perché intendono chiarire di non voler fare da ruota di scorta massimalista a Hollande.  A differenza di come si potrebbe pensare, io approvo fortemente l’esistenza organizzata di gruppi testimoniali apertamente anti-capitalisti, anche se (ma non è poco!) il loro analfabetismo geopolitico li porta a vere e proprie idiozie, come l'appoggio agli oppositori integralisti di Gheddafi in Libia e di Assad in Siria. Ma per quanto riguarda il trotzkismo, mi è venuto a noia il loro testimonialismo conservatore, per cui le analisi di de Benoist, di Michéa e di Debray non esistono, perché essi sono bensì rivoluzionari, ma prima di ogni altra cosa restano politicamente corretti di estrema sinistra. Da un lato, continuano a battere il tamburo di Stalin come capo termidoriano dei burocrati e della classe operaia, salariata e proletaria come soggetto rivoluzionario privilegiato, e dall'altro credono di poter rimpolpare il vecchio trotzkismo con dosi americaneggianti di ecologismo, femminismo e pacifismo, magari con un pizzico di sale di Negri, Badiou e Zizek presi a piccole dosi omeopatiche. Bisogna dire apertamente che si tratta di tempo perduto e di prosecuzione di un equivoco. In quanto a Mélenchon, i miei amici francesi di sinistra sicuramente lo voteranno. Nel secondo turno ha già chiarito che voterà Hollande, ma questo non mi scandalizza, perché anch'io lo farei, ritenendo l'accoppiata Sarkozy-Bayrou il male peggiore. Il fatto è che Mélenchon a mio avviso non fa sul serio, ma resta un tipico altermondialista e sovranista politicamente corretto, che si ferma intimidito di fronte al feticcio della unità della sinistra e del mantenimento della dicotomia Destra/Sinistra, a mio avviso obsoleta. E Hollande, il compare di Bersani, lo sa e ci marcia, anche se non giunge alla abiezione tutta italiana di appoggiare direttamente Monti per anti-berlusconismo ossessivo. Ecco in breve come vedo io la cosa.

11. E passiamo ora al libro della Le Pen. Mi si dirà che è un libro propagandistico, fatto per ingannare i creduloni "di sinistra" come me. Ma io non faccio parte della polizia del pensiero, ed ho già largamente pagato i miei prezzi al gossip malevolo. Io leggo libri, mi devo fidare di quello che leggo, e raramente ho avuto modo di trovarmi tanto d'accordo con un testo politico-teorico. Marine Le Pen (p. 135) afferma apertamente il deperimento attuale della dicotomia Destra/Sinistra. Se lo fa, questo significa che cerca voti a destra, al centro e a sinistra. Bene, è esattamente quello che da 15 anni aspetto da un politico. Perché ora che arriva dovrei sospettare l'inganno?  Essa critica la guerra dell'Iraq (p.37). Sostiene che la bolla speculativa immobiliare è stata una strategia voluta (p. 36). Sostiene con Polanyi che il mercato è più utopico del piano (p.26). Sostiene con Maurice Allais che il liberalismo ha un codice "stalinista" e che il mondialismo è un'alleanza fra consumismo e materialismo (p. 49). Sostiene con Todd che c'è incompatibilità fra libero scambio e democrazia (p.50). Sostiene che se c'è qualcosa di "fascista", questo qualcosa è l'euro (pp. 54-61), affermazione certamente un po' hard, ma meglio esagerare che sottovalutare. Le è perfettamente chiara la natura abbietta dell'interventismo umanitario di Kouchner (p. 127). Si rifà positivamente a Lipovetsky, a Michéa ed a Bourdieu, e cita positivamente sia De Gaulle che lo stesso comunista Marchais.                                                                                                                                                          Ma soprattutto ci sono due punti importanti. In primo luogo, a differenza dei soliti politicanti ignoranti, la Le Pen traccia una vera genealogia teorica del capitalismo liberista, dai fisiocratici a Smith. In secondo luogo, non lascia dubbi sul fatto che la mondializzazione è cattiva in sé, è un orizzonte di rinuncia (p. 19), il modello americano è al cuore del progetto mondialista (p. 34), il debito pubblico è un buon affare mondialista (p. 72), l'organizzazione europea di Bruxelles è l'avanguardia europea del mondialismo (p. 74), e che infine l'immigrazione incontrollata è parte di un'offensiva economica e culturale del mondialismo (p. 80). Questa ultima affermazione è particolarmente sgradevole per le anime pie politicamente corrette di sinistra, perché identificata con il razzismo ed il populismo. Bisogna però sapere se essa è fondata o infondata, ed io la considero parzialmente fondata. La Le Pen afferma anche che il sarkozysmo è lo stadio supremo del mondialismo (p. 151), che la nazione non deve essere demonizzata (p. 103), che la scuola e la cultura classica devono essere difese (p. 111 e p. 235), che il popolo è diventato "indesiderabile” e viene sempre accusato di "populismo", termine vuoto e per questo sorvegliato dalla polizia del pensiero (p. 128). E potrei continuare.  Sottolineo per chiarezza che la mia dichiarazione “scandalosa” deve essere giudicata solo ed esclusivamente sulla base del libro e dei punti citati; essa non comporta in alcun modo  la condivisione del razzismo e della xenofobia anti-immigrati, con le quali la Le Pen si deve e si dovrà inevitabilmente confrontare sul piano elettorale. A questo punto mi si dica, se lo si vuole, che sono un vecchio ingenuo gabbione e che mi lascio infinocchiare da una scaltra "populista". Ammetto di avere un fraterno amico, che qui non cito, che fa parte del circolo politico della Le Pen. Egli afferma, ed io gli credo, che il libro corrisponde a verità e che la Le Pen crede veramente a quello che scrive. Preferisco sbagliare per ingenuità che essere sospettoso per paranoia. Ed ora terminiamo con un breve commento finale.

12. Io resto un anticapitalista radicale. Lo sono diventato a 18 anni, nel 1961, ed è chiaro che lo sono diventato all'interno della cultura di "sinistra". Mio padre, morto nel 1993, non me lo ha perdonato, perché era un anticomunista viscerale, e l'ha preso come un vero e proprio tradimento di un figlio ingrato. Da posizioni di sinistra mi sono messo a studiare la filosofia, Hegel, Marx ed il marxismo, e ne sono diventato un esperto, al di là della condivisione o meno della mia interpretazione. Negli anni Sessanta, a Parigi mi sono interessato sia all’althusserismo, che ho condiviso per più di un decennio, e sulla cui base sono diventato amico di Gianfranco La Grassa, sia alle differenze fra le tre tradizioni staliniana, trotzkista e maoista. Negli anni Sessanta sono anche entrato a fare parte organica della sinistra greca, dopo un lungo soggiorno ad Atene. Negli anni Settanta e Ottanta ho attivamente militato nella sinistra italiana della mia città (Torino). Come si vede, ho un pedigree di tutto rispetto e ritengo di non avere nulla di cui vergognarmi. Soprattutto, ritengo di non avere "scheletri nell'armadio" e di aver sempre fatto pubblicamente quello che ho fatto.

Un amico mi ha sconsigliato di mettere in rete pubblicamente queste pagine, perché sembrano fatte apposta per incrementare un gossip maligno. Ma penso che se si comincia ad autocensurarsi perché si è introiettato il politicamente corretto, tanto varrebbe andare da soli all'ospizio, finché i piedi ci portano ancora.

Costanzo Preve
Fonte: www.ariannaeditrice.it
Link: http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=43120
18.04.2012
http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=News&file=article&sid=10187

venerdì 17 gennaio 2014

Uscita dall'Euro, il sentiero è chiaro

CRONACHE MARZIANE (sul Convegno di Chianciano) 

di Fiorenzo Fraioli


16 gennaio. Volentieri pubblichiamo le riflessioni di Fiorenzo Fraioli (nella foto) sul Convegno di Chianciano Oltre l'Euro. Ci auguriamo che altre ne seguano.

Premessa


Nel testo che segue riporto le mie impressioni e riflessioni sul recente convegno Oltre l'euro. La sinistra. L'alternativa, organizzato dal Movimento Popolare di LIberazione (MPL) e Bottega Partigiana. 


Sebbene sia iscritto all'ARS (Associazione Riconquistare la Sovranità), esse non riflettono necessariamente le posizioni dell'associazione, della quale condivido gran parte della lettura del reale, ma non tutto. Inoltre, dedicherò la mia attenzione agli interventi che hanno maggiormente insistito sugli aspetti politici e indicato possibili percorsi di fuoruscita dalla crisi.

(...)

Il convegno di Chianciano
La ricezione del Convegno


Il convegno Oltre l'euro. La sinistra. L'alternativa è stato promosso da una parte dei soggetti che assumono come primo valore da difendere la democrazia, e come interesse privilegiato quello del mondo del lavoro, inteso quest'ultimo nella sua accezione più generale di tutti coloro che, per vivere, ogni giorno devono alzarsi per andare a lavorare o cercare un'occupazione. 


Una parte di questi soggetti politici, ma non tutti, ha partecipato. Tra gli assenti c'è stata anche l'ARS (di cui faccio parte), scelta che ho combattuto nel direttivo nazionale che ha preso questa decisione, e che continuo a ritenere sbagliata. Lo sviluppo del convegno, e gli interventi che ho ascoltato, hanno confermato questa mia valutazione, sebbene resti convinto che essa, almeno per quanto riguarda ARS, sia stata più il frutto di un fraintendimento che di reali motivi di contrasto. 

Alla radice dei fraintendimenti continua ad esserci l'uso di una dicotomia che, negli ultimi decenni, è diventata estremamente ambigua nella percezione che ne hanno le persone, quella "destra/sinistra". In questo senso il titolo del convegno, che contiene la parola "sinistra", non è stato di aiuto alla corretta comprensione di ciò che esso è realmente stato. Chi ha partecipato ha potuto verificarlo di persona; gli altri potranno constatarlo visionando i video degli interventi che sono in via di pubblicazione. I relatori hanno tutti sostenuto posizioni valoriali democratiche e proposto percorsi di uscita dalla crisi nei quali veniva chiaramente posto l'accento sugli interessi del mondo del lavoro, ma ognuno di loro li ha declinati in modo coerente con la propria visione del mondo, e chissà, forse anche degli interessi di bottega. Ma di ciò, noi che abbiamo vissuto abbastanza, non ci meravigliamo né ci scandalizziamo più di tanto.

Gli interventi "politici"
In sala da pranzo


La prolusione di Moreno Pasquinelli del Movimento Popolare di Liberazione (MPL) ha enucleato i quattro scenari più probabili, che egli ha definito: soluzione socialista, soluzione liberista, soluzione fascista, soluzione sovranista democratica. Nessuno dei relatori ha indugiato sulla possibilità di una soluzione socialista, evidentemente improbabile sebbene gradita ad alcuni, né sul pericolo di una soluzione fascista. Quest'ultima, essendo il fascismo l'antidoto velenoso escogitato dal Capitale per arrestare l'avanzata del socialismo, non può sussistere se manca la "minaccia del socialismo". Restano, dunque, due soli probabili scenari, la soluzione liberista e quella democratica sovranista, vale a dire le due forme che il mercato ha assunto nel corso del XX° secolo. MPL sostiene la linea di un'alleanza di tutte le forze democratiche per un'uscita democratica e sovranista dalla trappola dell'euro e dell'Unione Europea.

Sebbene tutti i relatori si siano espressi a favore del ripristino di una forma regolata di mercato capitalistico (sia pure come fase transitoria verso il socialismo, nel caso di Moreno Pasquinelli), quelli di loro che hanno affrontato il tema della fuoruscita dall'euro si sono divisi sui possibili percorsi politici. La linea di demarcazione principale può essere individuata nella specificazione della fonte di sovranità da cui far discendere l'opera di regolazione dei mercati, per alcuni essendo questa da ricercarsi negli Stati nazionali, per altri in istituzioni europee profondamente rinnovate. 


Tra i fautori della prima posizione ci sono Moreno Pasquinelli di MPL e Luciano Barra Caracciolo ("l'alternativa è pronta, c'è già, è il recupero del modello costituzionale!… Non abbiamo bisogno di altro: la Repubblica democratica fondata sul lavoro…"), mentre Andrea Ricci, e soprattutto Sergio Cesaratto, sono apparsi più favorevoli alla seconda ipotesi. Un discorso a parte merita l'intervento di Emiliano Brancaccio.
Durante il seminario degli economisti


Sergio Cesaratto ha svolto la prima parte del suo intervento ricordando il contributo di Friedrich List, secondo il quale lo Stato nazionale è "lo spazio più prossimo in cui una classe lavoratrice nazionale può legittimamente sperare di modificare a proprio vantaggio i rapporti di forza", a "fronte della visione cosmopolita del capitalismo e degli interessi dei lavoratori che Marx gli contrappone". In modo che mi è parso lievemente contraddittorio, nella parte finale del suo intervento Cesaratto ha enunciato una posizione di compromesso, consistente nella costruzione di una posizione politica che ponga le attuali istituzioni europee davanti alla scelta tra un radicale cambio di rotta della gestione economica o la fine dell'eurozona. Questa posizione politica, secondo Cesaratto, può essere perseguita aderendo alla proposta di dar vita a una lista Tsipras per le prossime elezioni europee, nella quale dovrebbero confluire tutte le forze critiche da sinistra dell'attuale linea economica dell'UE, fino a comprendere SEL se ciò dovesse risultare possibile. Un diffuso mormorio dell'uditorio ha fatto da commento a questa proposta, evidentemente non ben accetta, mentre Cesaratto, in preda a un evidente nervosismo, concludeva il suo intervento.

Più netta, ma anch'essa contraddittoria, la proposta di Andrea Ricci, consistente nell'uscita unilaterale e immediata dell'Italia dall'euro, unitamente al rilancio del processo di integrazione europea su basi radicalmente nuove. Ricci motiva la sua tesi da un lato per l'insostenibilità della moneta unica, dall'altro per il rifiuto di logiche di natura protezionistica e di chiusura agli scambi che sarebbero, a suo parere, l'inevitabile conseguenza del ritorno agli Stati nazionali. La chiusura dell'economia italiana agli scambi internazionali, conseguente al ripristino di barriere protezionistiche, avrebbe, secondo Ricci, gravi costi per l'Italia che ha, principalmente, un'economia di trasformazione, e profonde ripercussioni di ordine politico e culturale. Andrea Ricci argomenta la sua tesi ricordando che i periodi migliori della storia italiana hanno coinciso con le fasi di apertura agli scambi internazionali e al cosmopolitismo, mentre una chiusura isolazionista, protezionistica e autarchica potrebbe legittimarsi, agli occhi dell'opinione pubblica, "soltanto in virtù di un gretto nazionalismo, anacronistico e reazionario nel mondo attuale". Per Ricci, il recupero della sovranità nazionale, di cui si professa fautore, "non deve significare il ripiegamento su valori imperniati su una presunta tradizione nazionale". Per queste ragioni egli dichiara di essere "ancora, nonostante tutto, un convinto sostenitore dell'unità europea, perché credo che nell'epoca attuale sia ancora l'Europa il posto nel quale il nostro paese può progredire e prosperare, in attesa poi di un'altra epoca, un'epoca futura, quella dell'internazionale futura umanità". In realtà, aggiunge Ricci, "quella della sovranità nazionale perduta con l'integrazione europea, è un mito", perché dopo la seconda guerra mondiale, "l'Italia è stata, ben più di altri paesi europei, un paese a sovranità limitata". La tesi, conclude Ricci, può apparire contraddittoria, ma così non è perché non è sbagliata la prospettiva dell'unificazione europea, ma il percorso che è stato scelto, basato sull'imposizione di una moneta unica tecnicamente insostenibile. La soluzione, in definitiva, è per Andrea Ricci quella di rigettare l'euro e tenersi l'Unione Europea, cambiandone la politica economica ma senza rinunciare al Mercato Unico. L'intervento di Ricci si conclude con un lungo e caloroso applauso dei convenuti, ai quali temo sia sfuggita, anche per l'abilità dell'oratore, la questione di fondo, ovvero che non solo l'euro è stato un errore tecnico, ma anche e soprattutto lo strumento di coercizione della democrazia in Europa. E' anche possibile, tuttavia, che questa sia oggi l'unica posizione sostenibile per un economista che è stato per lungo tempo il responsabile economico del PRC, un partito nel quale è in corso una logorante battaglia interna proprio sull'euro e l'Unione Europea, non ancora conclusasi.

L'intervento politicamente più significativo è stato quello di Emiliano Brancaccio. Dopo aver "pagato pegno" al suo rango di "economista de sinistra" prendendo le distanze dal Front National di Marine Le Pen ("non si può sdoganare il Fronte Nazionale in Francia pur di far saltare la baracca dell'euro") ottenendo però un tiepido applauso da parte dell'uditorio, Brancaccio ha rilanciato sul terreno dei diritti civili ("chi oggi combatte contro l'assetto dell'unione monetaria europea, e dell'Unione Europea, deve farlo con lo scopo di appropriarsi della categoria della modernità"). Una richiesta, tutto sommato, non eccessiva (Se Parigi val bene una messa, l'Eliseo, per Marine Le Pen, può ben valere il riconoscimento dei diritti civili! – n.d.r.). 
Il Convegno inizia


Piuttosto, lascia perplessi l'espressione "assetto dell'unione monetaria europea, e dell'Unione Europea", che ammicca alla possibilità di riformare questa Europa nella visione di un'altra Europa. Ipotesi che, nel prosieguo dell'intervento, passa però in secondo piano. Il passaggio successivo è sui movimenti di protesta dal basso, e qui Brancaccio si distacca nettamente dalle posizioni di certa sinistra ossessionata dalla purezza ideologica, allorché dichiara "…io credo che si debba intercettare quei movimenti… ovviamente bisogna saperlo fare…", l'applauso, questa volta, è più convinto, "…bisogna avere idee chiare, perché in questi nuovi scenari di protesta la concorrenza politica è tra forze antagoniste, si concorre gomito a gomito con i neofascisti. In quei contesti, o si ha la forza di egemonizzare, o si è egemonizzati e si tracolla!". L'ouverture brancacciana si conclude con la richiesta/speranza di potersi rivolgere ai presenti in sala con l'appellativo di "compagni". 

Tale dichiarazione è seguita da un applauso scrosciante, ma non unanime (sono un testimone oculare – n.d.r.). Subito dopo parte una delle sue tipiche stoccate: "questa è una fase di piccoli gruppi… piccoli gruppi crescono… e in quest'ottica sarebbe bene evitare, io spero, protagonismi inutili, che in fin dei conti sono il retaggio di una ideologia individualista, che è distruttiva per qualsiasi progetto politico in fieri… ed è un'impresa colossale… e nessuno da solo potrà farcela… insomma io credo che si debba evitare come la peste il protagonismo delle persone, la lotta tra singole individualità, insomma la pulsione che un tempo si sarebbe definita 'gruppettara'". Chissà con chi ce l'aveva?

Brancaccio prosegue ponendo la domanda topica: "esiste il rischio di una gestione gattopardesca della crisi dell'euro?". La risposta è affermativa. Nella sostanza egli teme che, pur con la fine della moneta unica, non si ponga per ciò mano al vero problema, che è costituito dal "profilo antistatuale, liberista e libero-scambista delle politiche economiche". E' necessario, per Brancaccio, chiarire che "qualsiasi soluzione, che anche soltanto ammicchi alla possibilità di affidarsi, in un modo o nell'altro, al libero gioco delle forze del mercato, qualsiasi soluzione che si affidi a quei videogiochi, intesi sia come movimenti dei prezzi, sia come movimenti dei cambi, qualsiasi soluzione di questo tipo è una soluzione gattopardesca, in fin dei conti liberista, che deve essere combattuta sul terreno dei fatti e deve essere respinta! Più in generale, occorre contrastare il rischio di una gestione gattopardesca della crisi, chiarendo che qualsiasi tentativo di distinguere tra unione monetaria europea e Unione Europea, cioè qualsiasi tentativo, magari di gettare via la moneta unica tenendo tuttavia in piedi intatto il Mercato Unico Europeo, è un'opzione sbagliata". Un applauso scrosciante copre le parole di Brancaccio, il quale continua affermando che "la storia sta muovendosi rapida… e che persino parole indicibili fino a qualche tempo fa, come 'protezionismo', come 'intervento pubblico nell'economia', e (concedetemelo) perfino 'socialismo'… possono tornare in gioco!".

Considerazioni di un videoreporter
Warren Mosler (con la giacca beige) prima dei lavori


Penso che questo convegno segni uno spartiacque e mi auguro, da iscritto all'ARS, che anche la nostra associazione possa presto dare un contributo, sia al dibattito che alla necessaria mobilitazione dal basso. 


Ho già fatto cenno alla discussione interna, il cui esito è stata la scelta di non co-promuovere, con MPL e Bottega Partigiana, il convegno. Alla fine hanno prevalso il timore di rimanere coinvolti in un confronto tutto interno alla sinistra radicale e la scelta di dedicare tutte le energie allo sforzo di far crescere la nostra organizzazione, a parere di molti ancora troppo piccola (poco più di qualche centinaio di iscritti) per proporsi come un vero ed esistente soggetto politico. Per quanto attiene la prima obiezione, essa mi sembra ampiamente smentita dall'andamento del convegno, stante il fatto che la frazione della sinistra radicale contraria ad identificare nell'euro e nell'Unione Europea il nemico da abbattere non solo non ha partecipato al convegno, ma lo ha addirittura boicottato attivamente. Una scelta legittima, in politica, ma che lascia l'amaro in bocca. Quanto alla seconda ragione, cioè il fatto che ARS deve dedicare tutte le sue energie allo sforzo di crescere, prima di proporsi come reale ed esistente soggetto politico, osservo che se è vero che prima di fare è necessario esistere, è altrettanto vero che, per esistere, è necessario fare.

Gli interventi di maggior rilievo sono stati quelli di Andrea Ricci ed Emiliano Brancaccio: il primo ci ha confermato che il PRC è ancora in mezzo al guado, e che è necessario attendere ancora prima di avere un quadro più chiaro della situazione in quel partito; Brancaccio, dal canto suo, ha fissato due paletti insuperabili all'ipotesi di "contaminazione tra diversi" in funzione della lotta per uscire dalla gabbia dell'euro e dell'UE: il rapporto con il Fronte Nazionale di Marine Le Pen, e quello con i sostenitori della tesi secondo cui basta uscire dall'euro e lasciare spazio al libero gioco dei prezzi e dei cambi (magari addolcito da qualche marginale provvedimento di indicizzazione dei salari) perché tutto vada a posto.

Per quanto attiene il primo paletto, il rapporto con il Fronte Nazionale, questa posizione pone dei problemi ad ARS che, al contrario, è più possibilista, sebbene sempre altamente vigile. Saranno gli avvenimenti e le dichiarazioni dei prossimi mesi a chiarire la situazione. Quello che posso affermare, con convinzione profonda, è che ARS considera il fascismo in termini profondamente negativi (pur non demonizzandone alcune realizzazioni) e gli ascrive, tra le altre, due colpe imperdonabili: l'aver promulgato le leggi razziali nel 1938, e l'aver messo a rischio l'unità della Nazione con la scelta di dar vita alla repubblica di Salò, schierandola al fianco della Germania nazista.
Nino Galloni durante la sua prolusione


Diverso è il discorso per quanto riguarda il secondo paletto. In questo caso è ARS che deve essere rassicurata, da Brancaccio e da quanti si riconoscono in quello che ha detto nel suo intervento, sulla necessità di reintrodurre vincoli protezionistici e forti limitazioni alla libera circolazione di merci, capitali, servizi e, punto dolente, delle persone; intese, queste ultime, non come rifugiati che chiedono asilo dalle guerre e dalle persecuzioni, bensì come forza lavoro che preme sui confini, utile a ricostituire continuamente quell'esercito di riserva dei lavoratori che ARS vuole estinguere definitivamente nel nostro paese. Un segnale positivo, in tal senso, viene da una recente dichiarazione dello stesso Brancaccio, il quale ha fatto notare come i fenomeni migratori di massa siano una evidente conseguenza della libera circolazione dei capitali, delle merci e dei servizi.

Un'osservazione, infine, relativa all'intervento di Sergio Cesaratto. Sono rimasto molto perplesso, anzi negativamente sorpreso, dalla parte finale del suo intervento, allorché ha accennato alla lista Tsipras. Considero la lista Tsipras null'altro che il tentativo di limitare la critica al liberismo (insito nel progetto europeo) alla costruzione di una forza minoritaria critica dei suoi eccessi; con la speranza, ahimè vana, che queste istanze possano, un giorno lontano, prevalere, battendo i grandi interessi del capitale finanziario sovranazionale sul terreno di gioco da esso stesso costruito. Insomma, un sogno… o un "fogno", se anche SEL sarà della partita.


* Fonte: Appello al Popolo

giovedì 16 gennaio 2014

Saniamo le poste, adesso che ci danno soldi le regaliamo ai Capitali stranieri. Siamo scemi

Ecco come Merkel e Draghi cuociono l’Italia e gli altri PIIGS

di Guido Iodice


La BCE «userà tutti gli strumenti a sua disposizione contro la deflazione». Così si è espresso Mario Draghi giovedì scorso nella conferenza stampa seguita alla riunione del board della Banca Centrale Europea. Una dichiarazione che ricalca da vicino il famoso «preserveremo l’euro con ogni mezzo necessario» pronunciato  il 26 luglio 2012. Da quel giorno gli spread dei paesi periferici dell’area euro (cioè la differenza tra gli interessi pagati sui titoli di stato rispetto a quelli pagati dal governo tedesco sui propri) si stanno riducendo costantemente. Il nostro paese è da alcuni giorni sotto quota 200 punti base (2% di differenza con gli interessi dei Bund decennali). 

 Il tutto è avvenuto senza che Draghi attivasse gli strumenti annunciati in quell’occasione, chiamati OMT (Outright monetary transactions). E’ bastata la parola del presidente della BCE per convincere i mercati a ridurre le scommesse sull’uscita degli stati indebitati, una clamorosa conferma della dottrina keynesiana, secondo la quale la banca centrale decide i tassi di interesse. Sembra insomma che la “febbre” dell’euro sia sotto controllo. Ma le cose stanno davvero così?

LA PENTOLA DI MARIO E ANGELA – La situazione attuale dell’eurozona rassomiglia a quella di una cucina affollata e chiassosa. Sul fornello c’è una pentola a pressione che sta cuocendo un succulento brasato: i paesi periferici dell’UE, cioè Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna (in sigla: PIIGS, maiali). Dentro c’è un po’ di tutto: i lavoratori a cui vengono tolti i diritti attraverso le “riforme strutturali”, le piccole imprese che chiudono, le imprese più grandi in odore di acquisizione da parte dei capitali del “centro” dell’Unione europea. E sono proprio questi capitali i commensali che aspettano di mangiare il brasato cotto a puntino da due chef di eccezione: Angela Merkel e Mario Draghi. Ma c’è un problema. La pentola a pressione ha la valvola difettosa e per giunta il manometro rotto. Mario ed Angela, procedendo a tentoni, devono evitare un doppio rischio: se la pressione è troppo alta la pentola potrebbe esplodere, se è troppo bassa la carne rimarrà cruda. Così ogni tanto aprono la valvola per far sfiatare il vapore, ma non troppo e soprattutto quasi sempre all’ultimo secondo prima che la pressione faccia saltare il coperchio. In altri casi invece alzano la fiamma sotto la pentola. Come se non bastasse, i commensali mostrano tutta la loro impazienza e mandano di tanto in tanto degli emissari in cucina a protestare, il più chiassoso dei quali è il governatore della Bundesbank Jens Weidmann. Riusciranno Draghi e Merkel nella loro impresa?


LA DEFLAZIONE – Se nella prima fase della crisi dell’eurozona la Germania ha imposto l’austerità ai paesi periferici, ora il nuovo mantra sono le “riforme strutturali”, vale a dire liberalizzazioni, privatizzazioni e riforme del mercato del lavoro (a sfavore dei lavoratori, si intende). Entrambe le misure però stanno avendo come effetto la deflazione, cioè la riduzione dei prezzi, effetto della riduzione dei salari e del crollo della domanda nei paesi deboli. Tolta di mezzo la spesa pubblica e il consumo privato, l’unica fonte di domanda rimangono le esportazioni, ma per recuperare la competitività perduta rispetto alla Germania la deflazione dovrebbe aggirarsi intorno al 20%, e di questo passo ci vorrebbero decenni. La deflazione (o comunque un aumento dei prezzi ridotto rispetto a quello atteso) ha però un effetto collaterale potenzialmente catastrofico, quello di aumentare gli interessi reali e quindi aggravare la posizione dei debitori. Austerità e tendenza deflattiva rendono così insostenibili i debiti per imprese e famiglie (ma lo stesso discorso può estendersi ai governi) e quindi le sofferenze bancarie aumentano vertiginosamente. Con quali risultati?

GLI SCENARI -  Se le banche incominciano a fallire a causa dei debiti non rimborsati dai debitori insolventi, la pentola dell’euro è a rischio. Finora le contromisure sembrano insufficienti: il fondo salva-stati è troppo piccolo e i farraginosi e discutibili meccanismi dell’unione bancaria e della vigilanza BCE, recentemente approvate, non convincono gran parte degli esperti, anche perché lasciano fuori dalla lente dell’eurotower le casse di risparmio tedesche. Nonostante l’abbassamento dello spread, insomma, la crisi dell’euro non è affatto passata. Del resto i mercati che oggi segnalano maggiore fiducia nella tenuta dell’area euro chiedendo tassi di interessi nominali meno onerosi, sono gli stessi che per un decennio hanno creduto che Grecia e Germania presentassero gli stessi rischi. In questa situazione Merkel e Draghi si muovono sul filo di un rasoio e il terrore per la deflazione manifestato dalla BCE  ne è la dimostrazione. Un errore di valutazione, un intervento in ritardo o un nuovo shock esterno potrebbero quindi scombinare i piani e riportare le lancette dell’orologio al 2011, cioè ad un passo dalla deflagrazione dell’euro. In questo caso si tratterebbe di una deflagrazione improvvisa, che potrebbe iniziare con l’uscita di un paese periferico dall’euro, seguito a ruota da tutti gli altri, in modo scoordinato e senza nessun paracadute.

L’ALTERNATIVA – Lo scenario alternativo non è però più rassicurante perché significa che Draghi e Merkel riusciranno a “cuocere” la pietanza: i paesi periferici. Ciò a cui si assisterebbe in questo caso è quindi non solo una crisi alla giapponese, con bassissima crescita dell’eurozona, ma la continuazione della divaricazione tra “centro” e “periferia” e l’acquisizioni delle grandi imprese dei paesi periferici da parte di quelle degli Stati dominanti, peraltro già iniziata. Una sorta di colonizzazione insomma, favorita dai processi di privatizzazione e liberalizzazione. Che una situazione del genere possa durare ininterrottamente è difficile da immaginare. Mentre le aree povere degli Stati nazionali godono dei trasferimenti fiscali, infatti, le periferie europee non hanno alcun sostegno dai paesi forti. Anche in questo caso si ripropone quindi la possibilità di una rottura. Ma a quel punto potrebbe essere la stessa Germania a dichiarare finita l’esperienza della moneta unica, dopo aver incassato i suoi dividendi, per non pagarne gli inevitabili costi. E tutto questo avviene mentre la politica sembra non avere alcuna idea su come togliere la pentola dal fuoco.


mercoledì 15 gennaio 2014

Chianciano: una delle proposte nel ricco e proficuo confronto

Uscita dall’euro e integrazione europea

Un binomio possibile

di Andrea Ricci

Intervento al convegno “Oltre l’euro. La sinistra. La crisi. L’alternativa.” Chianciano, 11 gennaio 2013.

La tesi che intendo argomentare potrà apparire ad alcuni contraddittoria, ad altri addirittura paradossale. In realtà, a me sembra l’unica via d’uscita progressiva da una situazione sempre più insostenibile. La tesi in questione è quella della necessità di un’uscita immediata e unilaterale dell’Italia dall’euro accompagnata da un progetto di ricostruzione, su nuove basi, del processo d’integrazione europea. Questa tesi si basa su due presupposti impliciti.
Il primo presupposto riguarda il rifiuto di una prospettiva isolazionista, costituita da un mix di protezionismo e di autarchia. Una prospettiva di questo genere, oltre a determinare grandi costi per un’economia di trasformazione povera di materie prime come quella italiana, avrebbe anche negative conseguenze di ordine politico e culturale. Essa, infatti, potrebbe legittimarsi agli occhi della pubblica opinione soltanto in virtù di un gretto nazionalismo, anacronistico e reazionario nel mondo attuale.

Non dobbiamo dimenticare che l’Italia, nella sua storia unitaria, ha già tentato almeno due volte simili esperimenti. Una prima volta, nell’ultimo quarto del XIX secolo, con il protezionismo crispino, fondato sull’alleanza tra la grande impresa settentrionale e il latifondo meridionale, che distrusse l’agricoltura del Meridione e pose le basi del permanente dualismo economico italiano; una seconda volta, nel secolo scorso, per far fronte alla Grande Depressione degli anni Trenta, con l’autarchia mussoliniana. Non è un caso se entrambe le volte quelle politiche protezionistiche sfociarono, anche per necessità economiche, in un imperialismo straccione sempre più aggressivo e criminale, concluso prima nel 1896 con l’umiliazione di Adua e poi, ben più tragicamente, con la catastrofe della Seconda guerra mondiale combattuta al fianco dei nazisti.

Il recupero della sovranità monetaria nazionale non deve per forza di cose significare la chiusura in se stessa dell’Italia, il ripiegamento su valori imperniati su una presunta tradizione nazionale. La cultura, l’arte, la scienza italiana, quello che i francesi chiamano la civilization italienne, ha dato il meglio di sé, riuscendo a incantare e stupire il mondo, soltanto quando ha avuto una vocazione cosmopolita, aperta all’altro, al diverso, allo straniero, spesso in lotta o in fuga dall’arretratezza morale e materiale dei costumi nazionali. È per questa ragione che resto ancora, nonostante tutto, un convinto sostenitore dell’unità politica europea, perché credo che nell’epoca attuale sia l’Europa lo spazio in cui il nostro Paese possa progredire e prosperare. In attesa di un’altra epoca, quella dell’Internazionale futura umanità quando non esisteranno più né confini né barriere a dividere i popoli del mondo intero.

D’altra parte quando mai, un Paese, politicamente, militarmente ed economicamente debole come l’Italia ha goduto di una piena sovranità nazionale, sia in campo politico che economico? Quello della sovranità nazionale perduta con l’integrazione europea è un mito, una costruzione immaginaria senza riscontri reali. Un mito pericoloso e poco seducente.

Nell’epoca storicamente a noi più prossima, quella successiva alla Seconda guerra mondiale, l’Italia è stata ben più di altri Paesi europei, un Paese a sovranità limitata, pesantemente vincolato dagli interessi della potenza dominante, gli USA. La storia economica italiana del dopoguerra è piena zeppa di episodi di sudditanza allo straniero. Dai pesanti condizionamenti imposti alla ricostruzione post-bellica dal Piano Marshall in funzione anticomunista e antioperaia, all’assassinio di Enrico Mattei, per conto delle Sette sorelle petrolifere angloamericane. Dal ruolo di collegamento tra mafia, Vaticano e Wall Street svolto dal banchiere piduista Sindona, nominato uomo dell’anno nel 1974 appena tre mesi prima della bancarotta, dall’ambasciatore americano in Italia, alla politica di austerità imposta dal FMI in occasione del prestito chiesto dal Governo Andreotti nel 1976. E si potrebbe ancora continuare a lungo. Ciò che allora era diverso, era il contesto generale del sistema economico internazionale, definito dagli accordi di Bretton Woods ed ispirato ad un moderato neokeynesismo, ben lontano dalla globalizzazione neoliberista degli ultimi 25 anni. Di sovranità nazionale allora ce n’era forse meno che oggi.

Ma allora, qualcuno potrà obiettare, perché mai sostieni la necessità dell’uscita dall’euro e della rottura dell’UE? La risposta sta nel secondo presupposto implicito nella mia tesi.

Io ritengo che il peggior nemico dell’Europa, ciò che sta distruggendo il lavoro di decenni compiuto dalle precedenti generazioni, sfregiate dall’esperienza di due guerre mondiali figlie dei nazionalismi europei, sia proprio la sua moneta comune, l’euro. In tutta Europa stiamo assistendo al crescere impetuoso di sentimenti xenofobi e antieuropei proprio a causa delle sofferenze e delle umiliazioni economiche e sociali che l’euro impone alla maggioranza della popolazione, e in particolare alle classi lavoratrici. A quei falsi o ottusi europeisti, che un giorno sì e l’altro pure, sostengono che l’uscita dall’euro sarebbe un atto folle e irresponsabile, è facile ribattere che nulla è stato più folle e irresponsabile dell’imposizione dell’euro.

Come accadeva un tempo per il socialismo, ciò che oggi è in discussione non è l’euro ideale, immaginario, cioè un’astratta e generica moneta comune europea, ma l’euro realmente esistente, quello che è stato costruito negli ultimi quindici anni, non solo nei Trattati, ma nelle pratiche concrete di governo quotidiano della moneta e della politica economica dell’intera Unione. Una moneta, infatti, non è affatto una cosa banale e semplice come può apparire nell’uso quotidiano che ognuno di noi ne fa, non è una cosa neutra, un velo, un puro strumento per agevolare gli scambi economici. Questo è ciò che ci vuol far credere l’ideologia economica dominante, di matrice neoclassica e neoliberista, secondo cui i problemi monetari sono sempre falsi problemi, dietro i quali si nascondono quelli veri. Purtroppo, accade spesso di incontrare tale pensiero anche in una certa vulgata marxista che, non comprendendo l’analisi marxiana del valore e del denaro, riduce immediatamente ogni questione alla sfera della produzione materiale. La moneta, al contrario, è una forma reale enormemente complessa, la più complessa e oscura dell’intera vita economica e sociale. Essa struttura e governa una rete di relazioni di potere che definiscono un regime economico, con vincoli e compatibilità impossibili da oltrepassare.

Da questo punto di vista l’euro rappresenta un esperimento unico nella storia monetaria dell’umanità. Infatti, per la prima volta, è stata creata una moneta fiduciaria, cioè senza alcun valore intrinseco a differenza dell’oro o dell’argento, priva di una corrispondente entità politica statuale che ne garantisse l’emissione. L’euro è stato correttamente definito una moneta senza Stato, cui è specularmente corrisposta una serie di Stati senza moneta. Dal punto di vista tecnico, l’euro rappresenta per l’Italia e per gli altri Paesi dell’UME una valuta estera, avente la peculiare caratteristica di non essere garantita da nessun altro Stato, verso cui sarebbe sempre possibile entrare in un rapporto di contrattazione conflittuale. Vista in questi termini l’euro rappresenta una curiosità, un paradosso della storia, ma un paradosso drammaticamente reale.

Le aspettative iniziali, nel momento della sua nascita, erano ben diverse. La creazione dell’euro doveva essere soltanto il primo passo verso una sempre maggiore integrazione politica europea. In un certo senso, i suoi ideatori, a cominciare da quel Jacques Delors oggi fortemente critico verso le politiche europee, erano consapevoli di giocare una scommessa rischiosa, quando ritenevano che la moneta unica avrebbe reso irreversibile l’unità politica europea, vincendo le tante resistenze nazionali che a essa si frapponevano. In questo gioco d’azzardo sta l’irresponsabilità dell’euro, perché le cose sono andate in direzione opposta. Negli ultimi quindici anni l’Europa si è sempre più divisa, accentuando le divergenze nazionali in numerosi campi, dalla politica estera e militare alle politiche sociali ed economiche. Né ha essa compiuto un solo passo in avanti verso la definizione di regole e procedure democratiche in grado di legittimare i poteri sempre più estesi delle tecnocrazie europee. In questo quadro, ciò che è rimasto dell’euro è solo uno scheletro spettrale, senza più la polpa che lo abbelliva, lo scheletro di un potente strumento di dominio del capitale finanziario sulle classi popolari e lavoratrici europee.

Dal punto di vista strettamente economico, una moneta senza Stato ha comportato due decisive conseguenze che hanno minato la sostenibilità dell’euro. La prima conseguenza riguarda lo status, le funzioni e gli strumenti della BCE. La BCE è profondamente diversa dalle sue omologhe negli altri Paesi. Diversità di status perché la BCE gode di un’autonomia e di una indipendenza totali, che sfociano nell’irresponsabilità sui propri atti e comportamenti, essendo sottratta ad ogni forma di controllo da parte di poteri democraticamente legittimati. Diversità di funzioni, perché la BCE ha come compiti prioritari la tutela della stabilità finanziaria e il controllo dell’inflazione e soltanto in via del tutto subordinata e secondaria quelli della crescita economica e del sostegno all’occupazione. Diversità di strumenti perché la BCE non può finanziare direttamente il debito pubblico degli Stati membri ma può intervenire sul mercato monetario soltanto attraverso il canale del sistema bancario privato.

Per dare un’idea di quanto diversa sia la BCE è sufficiente ricordare il comportamento della FED in questi ultimi cinque anni di crisi. Al fine di sostenere l’economia e le finanze pubbliche, la FED ha concordato con il Ministero del Tesoro degli USA un massiccio programma di acquisto diretto di titoli pubblici americani pari in media a 85 miliardi di dollari al mese. Questa operazione ha consentito al Governo degli USA di finanziare un deficit pubblico pari in media al 12% annuo del PIL e di più che raddoppiare il debito pubblico americano, giunto ormai a circa il 123% del PIL, senza conseguenze di rilievo sulla stabilità del dollaro. Sostanzialmente la stessa cosa, hanno fatto in questi anni la Bank of England e la Bank of Japan.

La seconda conseguenza economica di una moneta senza Stato è l’assenza di meccanismi automatici, oltre che discrezionali, di redistribuzione delle risorse all’interno dell’area monetaria. In tutti i Paesi, siano essi di carattere federale o centralistico, questi meccanismi agiscono, non solo sotto forma di specifiche politiche regionali, ma semplicemente attraverso il normale operare del sistema fiscale e del Welfare. La redistribuzione territoriale delle risorse consente di rendere sostenibili gli inevitabili squilibri macroeconomici che una moneta unica, e quindi un unico tasso di cambio, comportano tra le diverse regioni dell’area. È, infatti, inevitabile che in uno spazio geografico ampio esistano differenze nei livelli di sviluppo e di competitività che, se lasciate al libero gioco del mercato, tendono riprodursi su scala sempre più ampia. Queste differenze non sono di per sé indice di inefficienza poiché consentono una razionale divisione del lavoro e della produzione all’interno di uno spazio geografico caratterizzato da differenti vocazioni economiche. Tuttavia, nell’impossibilità di modificare il tasso di cambio, ciò produce un crescente squilibrio nei conti esterni tra le aree in surplus e quelle in deficit che si traduce in un crescente indebitamento, pubblico e privato, delle economie deficitarie.

Come la teoria delle aree valutarie ottimali ha dimostrato mezzo secolo fa, in assenza di meccanismi di redistribuzione pubblica, l’inevitabile aggiustamento di questi squilibri può avvenire solo in due modi: o attraverso una massiccia migrazione della forza lavoro verso le aree più forti o attraverso una deflazione dei prezzi e dei salari nelle aree più deboli. Entrambi questi processi sono difficili e costosi, e diventano impossibili e distruttivi in situazioni di crisi strutturale come quella odierna.

Nell’UME queste differenze territoriali esistevano in forma massiccia sin dalla sua creazione e furono ulteriormente ampliate dalla fissazione del tasso di conversione delle monete nazionali con l’euro che ha penalizzato i Paesi con minore competitività. Fino allo scoppio della crisi finanziaria, l’aggiustamento strutturale è stato procrastinato dagli investimenti finanziari dei Paesi in surplus nei Paesi in deficit. L’interruzione dei flussi finanziari in seguito alla crisi, ha fatto venire in piena luce l’insostenibilità della costruzione europea.

La strategia mercantilista della Germania, basata sul contenimento coatto della domanda interna e sulla ricerca ossessiva di surplus commerciali, ha esasperato ancor di più la situazione. Il tasso di cambio dell’euro verso il dollaro e le altre principali monete è fortemente sopravvalutato per le economie periferiche dell’Eurozona e al contrario fortemente sottovalutato per la Germania e i suoi Paesi satelliti. Con l’euro la Germania ha ottenuto la quadratura del cerchio: da un lato ha mantenuto le caratteristiche di rigore nella conduzione della politica monetaria senza però, dall’altro lato, dover pagare lo scotto di un costante apprezzamento della propria valuta. Ancora una volta, come in passato, la Germania continua a recitare la stessa, drammatica parte: questo gigante dell’Europa si mostra incapace di esercitare un ruolo egemone e tende invariabilmente a rinculare verso l’esercizio di un brutale dominio che prima o poi è destinato a portarlo alla rovina, come in un’infinita fatica di Sisifo.

Le politiche di austerità imposte dalla Troika ai Paesi periferici non sono dettate da incompetenza o da malvagità. Esse sono necessarie e indispensabili per salvare l’euro reale, nella configurazione concreta che ha storicamente assunto. Soltanto una violenta riduzione dei salari e delle condizioni di vita delle masse popolari nei Paesi economicamente più deboli può sanare gli squilibri interni all’area dell’euro. Salvare l’euro al prezzo di un impoverimento di massa è la disperata e pericolosa manovra che sta tentando il blocco sociale dominante in Italia, imperniato sul capitale finanziario e sulle grandi imprese multinazionali con il supporto di strati sociali minoritari protetti dalla concorrenza internazionale, per consolidare i propri privilegi nel corso della crisi. Per questa ragione l’idea sostenuta da tanta parte della sinistra, moderata e non, di abbandonare le politiche di austerità mantenendo l’euro è, nel migliore dei casi, una pia e velleitaria illusione. L’UE e la sua moneta non sono riformabili. Esse devono essere rotte, devono essere spezzate, affinché possa ripartire un nuovo progetto di integrazione europea.

In questo senso l’Italia ha una grande responsabilità. A differenza della Grecia, del Portogallo, dell’Irlanda e perfino della Spagna, per dimensione economica, per storia e per collocazione geopolitica l’Italia può con un atto unilaterale segnare la fine dell’euro e l’inizio di un nuovo capitolo della storia europea. Senza l’Italia l’euro non esisterebbe più, la sua credibilità sarebbe irreversibilmente minata.

L’atto unilaterale iniziale è certo traumatico e comporta nei primi tempi misure eccezionali, come rigidi controlli sui movimenti di capitale o persino una temporanea inconvertibilità della nuova moneta e misure amministrative di congelamento dei prezzi e di indicizzazione dei salari. Ma tutto ciò, in presenza di una direzione politica forte e determinata, durerebbe poco e le trattative per un nuovo assetto monetario europeo (e forse mondiale) si aprirebbero in fretta. Soltanto uno shock, derivante da atti unilaterali, porrebbe tutti i Paesi nella necessità di ricontrattare le coordinate monetarie dell’Europa. Tutti ne avrebbero interesse. Anzi, ad averne il più grande interesse sarebbe proprio la Germania, onde evitare una secca perdita di competitività dell’industria tedesca derivante da una iper-rivalutazione della propria valuta. Praticare la rottura per perseguire un nuovo progetto di unità europea: questo dovrebbe essere il programma politico delle forze della sinistra italiana.
E dopo? Su quali concrete proposte questo nuovo progetto si potrebbe basare? Le idee in campo sono tante. Quella che a me sembra più interessante è lo spunto lanciato da Oskar Lafontaine, ex ministro tedesco dell’Economia, e ripreso da numerosi economisti in Francia, in Spagna ed anche in Italia, di ricostituire una nuova versione del Sistema Monetario Europeo, ben diversa da quella che precedette l’adozione dell’euro. Più che al vecchio SME, questa proposta si avvicina a quella formulata da Keynes e accantonata dagli americani durante la conferenza di Bretton Woods. A mio giudizio questo nuovo accordo monetario europeo dovrebbe avere le seguenti caratteristiche:
1) Reintroduzione delle monete nazionali, o costituzione di due o più monete tra raggruppamenti economicamente omogenei di Paesi, denominate euromonete (es. eurolira o eurosud), con conversione dei debiti pubblici nelle nuove monete nazionali a un tasso di cambio prefissato e possibilità di finanziamento monetario dei deficit pubblici da parte delle Banche centrali nazionali. Una misura di questo genere ridurrebbe immediatamente l’onere reale del servizio del debito pubblico per i Paesi maggiormente indebitati.

2) Mantenimento dell’euro come unità di conto e mezzo di pagamento virtuale per il saldo delle transazioni nette tra i Paesi membri dell’Unione Europea, in modo da ridurre la necessità di riserve valutarie internazionali. In tale nuovo contesto si dovrebbe favorire l’emissione di titoli nazionali e comunitari denominati in euro sui mercati finanziari internazionali (eurobond), anche come strumento di finanziamento del bilancio dell’Unione Europea, da rendere più consistente rispetto alle sue attuali dimensioni. L’emissione degli eurobond consentirebbe inoltre l’utilizzo dell’euro come strumento di riserva internazionale alternativo al dollaro da parte di Paesi terzi in quantità ben maggiori di quelle attuali.

3) Fissazione di un’ampia banda di oscillazione delle euromonete (ad esempio più o meno 15% dal valore centrale di parità), in modo da garantire margini di flessibilità sufficienti all’aggiustamento graduale degli squilibri interni. Qualora la quotazione di un’eurovaluta entri stabilmente nella fascia estrema della banda di oscillazione (ad esempio quando superi il valore di più o meno 12,5% dalla parità centrale) il Paese sarebbe tenuto a manovre macroeconomiche correttive, di tipo espansivo in caso di eccessiva rivalutazione o di tipo restrittivo in caso di eccessiva svalutazione. In tal modo si garantirebbe una simmetria, che oggi manca del tutto, nell’aggiustamento degli squilibri tra Paesi in deficit e Paesi in surplus nei conti esteri. Tale obbligo dovrebbe rappresentare l’unico vincolo imposto alle politiche di bilancio nazionali. In tal modo ogni Paese membro sarebbe libero di decidere in piena autonomia le politiche economiche e il modello sociale da adottare.

4) Introduzione di misure fiscali (Tobin Tax) e amministrative per ostacolare i movimenti speculativi di capitale. I proventi della Tobin Tax potrebbero, in tutto o in parte, confluire in un Fondo Europeo di Stabilità Monetaria (FESM) per l’erogazione di prestiti a breve termine ai Paesi membri in difficoltà nel mantenimento della parità valutaria.

5) Trasformazione del ruolo della BCE in una European Clearing Union con capacità di erogazione di credito ai Paesi membri nei limiti del FESM, eventualmente integrato dalla fissazione di quote a disposizione dei singoli Stati in rapporto alla loro dimensione commerciale. La BCE potrebbe inoltre svolgere funzioni di coordinamento delle politiche monetarie europee, conduzione della politica del tasso di cambio dell’euro nei confronti del dollaro e delle altre valute internazionali, vigilanza unitaria dei mercati bancari e finanziari, gestione del sistema dei pagamenti intraeuropeo (Target2), controllo dei movimenti di capitale, riscossione della Tobin Tax. Le attività della nuova BCE, al pari di quelle delle Banche centrali nazionali, dovranno essere sottoposte al controllo del Parlamento europeo e dei rispettivi Parlamenti nazionali.

6) Rafforzamento del coordinamento delle politiche fiscali e di bilancio tra i Paesi membri, per garantire la necessaria convergenza delle politiche macroeconomiche. Eventuali modifiche delle parità all’interno del nuovo SME dovrebbero essere approvate e ratificate in sede comunitaria.

È evidente che una proposta di questo tipo è incompatibile con l’attuale assetto istituzionale dell’UE ed essa richiederebbe un nuovo Trattato istitutivo, una rifondazione su nuove e diverse basi dell’intero processo di integrazione europea. Per arrivare a questo occorre però prima rompere e poi ricostruire.
 
In conclusione spero di essere riuscito a dimostrare come il necessario recupero della sovranità economica e monetaria nazionale non significa per forza di cose il ripiegamento su posizioni nazionalistiche ma che anzi esso è in grado di acquistare forza e capacità di persuasione soltanto se inserito nel progetto di un nuovo ordine europeo e mondiale costruito su principi democratici e di autodeterminazione dei popoli. Questo credo debba essere il compito della sinistra italiana ed europea nell’attuale fase storica.

lunedì 13 gennaio 2014

Il tempo storico apre ogni tanto delle “finestre” di opportunità...e queste sono appunto le rivoluzioni che possono riuscire

Sinistra e Destra Tradizione, identità, appartenenza, esaurimento, superamento

dic 10th, 2013 | Di | Categoria: Teoria e critica

Introduzione


Pubblicammo questo articolo sulla Rivista Socialismo e Liberazione, molti anni fa, ha tutte le caratteristiche degli scritti di Costanzo Preve – è stimolante, originale, lungo e farà discutere, adatto al momento, dove “sette” di estrema sinistra ripropongono la “vera” sinistra!
di Costanzo Preve


  1. Si parla molto oggi di superamento della vecchia dicotomia fra sinistra e destra, ma non sempre si portano argomenti convincenti per rendere realmente credibile questo superamento. Chi sostiene che la dicotomia è ancora valida fa in genere riferimento al valore dell’eguaglianza e della solidarietà, dicendo che la destra non pratica questi valori, mentre la sinistra sostiene i salariati in nome dell’eguaglianza e gli immigrati in nome della solidarietà.
Chi invece sostiene che la dicotomia è ormai obsoleta, e viene mantenuta artificialmente per creare una contrapposizione fittizia puramente elettorale, fa riferimento soprattutto al recente allineamento della cosiddetta “sinistra” (o almeno della sua parte largamente maggioritaria sul piano elettorale, sindacale ed intellettuale) all’imperialismo americano ed alle sue guerre di dominio geopolitico del mondo (Irak 1991, Serbia 1999, Afganistan 2001-2002). 
In questo breve testo non vorrei semplicemente ripetere queste polemiche, in cui tutto è già stato detto e ridetto. Preferirei esporre le cose in modo più rigoroso e sistematico, seguendo un filo del discorso maggiormente convincente.
  1. Per onestà verso il lettore, dico subito di essere convinto sostenitore del sostanziale esaurimento di questa dicotomia, e del fatto dunque che un sostanziale superamento sarebbe ormai possibile ed utile. Una simile affermazione non è però sufficiente, bisogna argomentarla sul piano prima storico e poi teorico e culturale. E’ quello che cercherò di fare.
Farò prima una brevissima premessa autobiografica per spiegare i due momenti della mia vita in cui ho maturato questa convinzione, un primo momento in modo puramente teorico e culturale ed un secondo momento in modo anche emotivo. 
Dopo questa breve premessa autobiografica prenderò la strada della esposizione storica e teorica. 
In primo luogo sosterrò perché, a mio avviso, la dicotomia fra sinistra e destra, formalmente iniziata con la rivoluzione francese e la collocazione dei parlamentari nel 1791, ha però il suo vero inizio contemporaneo dopo la Comune di Parigi del 1871 e con la seconda rivoluzione industriale. Da questa data hanno inizio le tappe della vera e propria formazione progressiva delle identità di sinistra e destra, identità che strutturano fisiologicamente anche delle appartenenze. 
In secondo luogo affronterò il problema centrale di queste brevi note, e cioè se si possano classificare tranquillamente il fascismo e il nazismo come fenomeni storicamente di destra, ed il socialismo e il comunismo come fenomeni storici di sinistra. Una simile domanda può sembrare ovvia e retorica, ma in realtà non è così. Per quanto riguarda il fascismo ed il nazismo ritengo che nell’essenziale abbia ragione lo storico israeliano Zeev Sternhell, e cioè che si tratta di fenomeni la cui natura non è veramente né di destra né di sinistra. 
Personalmente, tenderei però a sfumare la tesi di Sternhell, nel senso che mi sembra piuttosto che si sia trattato di fenomeni storici la cui natura profonda è proprio il superamento della dicotomia, ma la cui ideologia (e la falsa coscienza che la accompagna) è invece stata il tentativo di egemonia e di integrazione di tutte le precedenti tradizioni della destra
Per quanto riguarda il socialismo e il comunismo ritengo invece che il solo socialismo sia stato a tutti gli effetti un fenomeno di sinistra per così dire storicamente fisiologico, mentre il comunismo ha avuto certamente una matrice storica di sinistra, ma il suo sviluppo ha comportato la creazione di una sinistra talmente anomala da superarne di fatto i vecchi confini. La logica della mia riflessione è quella di applicare anche al comunismo lo stesso ragionamento che Sternhell ha applicato al solo fascismo, ma non però in base alla nota teoria del totalitarismo, che anzi respingerò con alcuni sintetici (ma spero chiari) ragionamenti. 
In terzo luogo, sulla scorta di una periodizzazione del Novecento sviluppata recentemente da Massimo Bontempelli, sosterrò che la dicotomia fra sinistra e destra, che era stata precedentemente reale, comincia ad esaurirsi intorno alla metà degli anni Settanta (almeno in Europa), e questo esaurimento ha un salto qualitativo nel triennio 1989-1991, in cui si dissolve rapidamente il comunismo storico novecentesco come sistema economico, ideologico, politico e geopolitico. 
Paradossalmente questo fatto viene oscurato dalle corporazione degli intellettuali, dei politici e dei giornalisti, che interpretano la fine del fascismo e del comunismo (Grecia e Portogallo 1974, Spagna 1975, paesi dell’Est europeo 1989, Russia 1991) come la vera restaurazione della dicotomia “pulita” fra sinistra e destra dopo la fine dell’equivoco anomalo del fascismo e del comunismo. Definirò quest’idea, senza alcun malanimo, ma anzi con stima verso Norberto Bobbio una vera e propria “illusione bobbiana“. Questa illusione bobbiana rappresenta a mio avviso, sul piano teorico almeno, l’ultima trincea filosofica per il mantenimento di una dicotomia che a mio avviso ha smesso di rappresentare in modo efficace la realtà presente. Nel contesto culturale italiano, si tratta del proseguimento dell’egemonia dell’azionismo, passato dal vecchio azionismo antifascista, al nuovo azionismo antiberlusconiano
In quarto luogo, infine, sosterrò che è proprio l’avanzato esaurimento storico della dicotomia a fare da premessa materiale al suo superamento anche filosofico e culturale. Ovviamente, non mi nasconderò riserve ed eccezioni, perché non esiste modo peggiore di difendere una tesi di quello che non riesce neppure a vedere i punti deboli della propria argomentazione.
  1. In questo e nei prossimi due paragrafi svolgerò alcune considerazioni personali sulla ragioni che mi hanno progressivamente portato ad abbandonare radicalmente la dicotomia fra sinistra e destra come criterio di orientamento e bussola per gli avvenimenti storici e politici contemporanei.
Faccio questo non perché creda all’autobiografismo (sono d’accordo con Hegel, che scrisse che tutto ciò che nei miei scritti c’è di personale è falso), ma perché il lettore ha diritto di conoscere non solo il prodotto ma anche il processo di produzione. In questo paragrafo toccherò soltanto cinque punti telegrafici. 
In primo luogo, con la stragrande maggioranza dei cosiddetti intellettuali comunisti e marxisti, ho dato per scontato per almeno un ventennio che la sinistra fosse l’unico luogo storico e culturale possibile non solo per la rivoluzione, ma anche per la razionalità e il progresso dell’umanità. Si trattava di un presupposto di autosufficienza che conteneva un aspetto parzialmente narcisistico, evidente oggi nella crociata antiberlusconiana di personaggi che approvano tutte le guerre imperiali americane, ma poi credono che il problema dei problemi sia il cattivo gusto delle televisioni private o il conflitto di interessi. Questo presupposto di autosufficienza mi spingeva ovviamente a condividere il “tabù dell’impurità” verso chiunque si dichiarasse di destra o di estrema destra. Non mi era chiaro, e non poteva esserlo ai miei coetanei ingannati, che il prolungamento di questa guerra civile simulata serviva soltanto a riprodurre un sistema politico consociativo (ancorché migliore di quello nato dopo il 1992 ad opera del colpo di stato giudiziario di Mani Pulite). In poche parole, per dirla in termini cartesiani, non ero stato ancora investito né dal dubbio metodico né tantomeno dal dubbio iperbolico. 
In secondo luogo, ripeto quanto già scritto in molte altre sedi, e cioè che considero gli esiti storici del Sessantotto un episodio della storia dell’individualismo radicale contemporaneo (chi ha sostenuto con migliori argomenti questa tesi è stato il francese Lipovetsky). Il Sessantotto, almeno in Italia e Francia, si caratterizza per la compresenza di una spinta irresistibile alla modernizzazione post-borghese dei costumi, da un lato, e di una falsa coscienza ideologica che mascherava questa modernizzazione post-borghese con l’assunzione di una utopia comunista e libertaria, vissuta peraltro in buona fede in quasi tutti i casi. In quanto tale, il Sessantotto non è dunque la matrice dei partitini rivoluzionari del periodo 1969-1977 e neppure della lotta armata brigatista in Italia. L’ideologia di destra che fa questa equazione è del tutto fuori strada. 
In terzo luogo, se si studia l’ideologia italiana dei micropartitini erroneamente detti estremistici degli anni 1969-1977 (Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Operaia, partitini marxisti-leninisti, eccetera), si deve sapere che il loro riferimento a Marx ed a Lenin era del tutto formale, astratto ed infondato. Il marxismo era assunto nella forma dell’operaismo italiano, ed il leninismo nella forma del populismo pauperistico. Questo spiega perché vediamo oggi il populista pauperistico Aldo Brandirali nell’area politica di Berlusconi, e l’operaista Adriano Sofri fra gli apologeti del sionismo, delle guerre americane e dell’imperialismo più totale. Non si è dunque trattato di un “tradimento“. 
Nessun moralismo serve a capire il fenomeno. Questa gente non ha mai avuto in nessun momento il minimo rapporto con Marx o con Lenin, e si tratta allora di avventure della dialettica del tutto specifiche. 
In quarto luogo, se si esamina l’ideologia della lotta armata in Italia (sia sul versante Brigate Rosse che in quello Prima Linea) si vede che si tratta semplicemente dell’uso delle armi da fuoco a partire dal precedente demenziale paradigma teorico e politico dell’operaismo e del populismo pauperistico. Marx e Lenin non c’entrano niente. Marx è il teorico del lavoratore collettivo cooperativo associato, e Lenin è il teorico delle larghe alleanze di classe. 
Tutto questo era del tutto estraneo agli allucinati pistoleros, che erano mossi da tre presupposti del tutto onirici. 
Primo, una concezione paranoica del capitalismo mondiale come meccanismo unitario e pianificato, il cosiddetto SIM, lo Stato Imperialista delle Multinazionali (e questa concezione unitaria e non concorrenziale resta oggi nell’idea di impero senza imperialismo di Toni Negri). Il capitalismo diventa l’organizzazione Spectre di James Bond. 
Secondo, una concezione che definirei di operaismo mistico, per cui la classe operaia di fabbrica continua ad essere vista come il gigante buono da svegliare con azioni esemplari, alla faccia delle leniniane alleanze di classe. 
Terzo, una concezione che definirei di antifascismo mitico, per cui ci si sentiva eredi ed emuli di Pesce, il partigiano dei GAP, e di Kamo, il rapinatore di banche armeno del tempo di Lenin, e si vedeva un fascista in ogni poliziotto democristiano ed in ogni ingegnere FIAT (questo antifascismo mitico permane ancora oggi in chi continua a vedere Bossi, Berlusconi e Fini dei semplici eredi del fascismo metafisico). 
Come si vede questi tre presupposti non hanno nulla a che vedere con il marxismo e con il leninismo. Chi li ignora può ripetere questo luogo comune infondato, ma chi sa chi sono stati e che cosa hanno scritto Marx e Lenin (ed io lo so) non si farà prendere per il naso. 
In quinto luogo, devo dire che l’avvento del gorbaciovismo nel 1985 mi fece cadere in una comprensibile schizofrenia, che peraltro condivisi con molti intellettuali marxisti del mondo. Da un lato, sulla scorta di analisti marxisti come Paul Sweezy e Charles Bettelheim, ero convinto da tempo che il socialismo reale fosse diretto da una nuova ed inedita classe sfruttatrice, formatasi con il consolidamento delle burocrazie dispotiche della fusione tra partito e stato (più esattamente, fra partito comunista e stato socialista), e perciò nessuna riforma potesse partire dall’alto in una direzione di emancipazione socialista. 
Dall’altro, continuavo pascalianamente a sperare nell’autoriforma della burocrazia, e che il baraccone potesse essere salvato all’ultimo momento, perché mi era già chiaro che il crollo geopolitico del baraccone burocratico avrebbe comportato il sorgere da incubo di un impero americano unilaterale.
Con questi sentimenti schizofrenici affrontai il fenomeno Gorbaciov, e ci misi molto per capire ciò che avrebbe dovuto essere marxianamente chiaro, e cioè che la classe sfruttatrice dei burocrati di stato, resasi conto di non poter continuare con il vecchio meccanismo statalista e pianificato di sfruttamento, si sarebbe infine riciclata come nuova borghesia compradora e speculativa del più solido e collaudato capitalismo occidentale. Il che ovviamente avvenne, insieme con l’affermazione dell’odioso ed ipocrita unilateralismo geopolitico americano. Meno Pascal e più Marx, meno scommessa e più analisi, eccetera, mi avrebbe forse fatto capire meglio le cose. Ma come disse il saggio proverbio, meglio tardi che mai. 
·  Sul piano intellettuale, cominciai a capire che la dicotomia di sinistra e destra era del tutto inservibile per mettere a fuoco i problemi di un eventuale rinnovamento del marxismo nel triennio 1991-1993, quando per l’editore Vangelista di Milano scrissi una serie di libri, fra cui una trilogia dedicata ai rapporti rispettivi del marxismo con il nichilismo, l’universalismo e l’individualismo
Mano a mano che approfondivo l’analisi, mi rendevo conto che la dicotomia non era solo inservibile, ma addirittura fuorviante, e dava luogo a ciò che nel Seicento Bacone chiamava “idola”, cioè pregiudizi devianti. 
Per quanto riguarda il nichilismo moderno, la sinistra ne era stata addirittura il luogo privilegiato con la sua evoluzione dal precedente storicismo progressistico al disincanto post-moderno della fine della storia. 
Per quanto riguarda l’universalismo, la sinistra era stata storicamente il vettore principale del suo scioglimento nei particolarismi non universalistici della classe (operaia) e del partito (socialista e poi comunista). Ma l’universalismo della classe e del partito era stato sempre e solo astratto, aprioristico e formale, mentre nella realtà storica non aveva mai funzionato come tale. 
Per quanto riguarda l’individualismo, infine, la sinistra non aveva ripreso la preziosa indicazione di Marx sulla libera individualità sociale (che per Marx avrebbe dovuto essere la base dell’antropologia comunista, dopo la dipendenza personale precapitalistica e l’indipendenza personale borghese), ma era caduta in forme di identità e di appartenenza di tipo organicistico e tribale (il cosiddetto “popolo di sinistra“). 
Insomma, non posso farla lunga per ragioni di spazio. Basti concludere che fu proprio il processo di ripensamento personale a farmi prendere atto del fatto che finché ragionavo in termini di opposizione polare fra sinistra e destra non ne sarei mai venuto fuori. 
·  Sul piano teorico avevo già dunque rotto con la dicotomia fino dai primi anni Novanta. Ma restava ancora un radicamento emotivo di appartenenza, duro a morire come tutti i radicamenti identitari ad origine biografica. La rottura emotiva per me risale al marzo 1999, quando i bombardieri americani e dei loro servi europei della NATO (con la lodevole eccezione della Grecia, patria della filosofia) cominciarono a cospargere di uranio radioattivo la Jugoslavia
Da vecchio conoscitore dei Balcani, sapevo perfettamente che non c’era in corso nessun genocidio e neppure nessuna pulizia etnica (cioè espulsione etnica di massa da un territorio), ma solo una repressione armata di un movimento armato indipendentista (una situazione comune ad almeno cinquanta paesi al mondo).
Sapevo anche che il movimento armato indipendentista albanese UCK perseguiva la pulizia etnica dei serbi, mentre Milosevic non perseguiva quella degli albanesi. Sapevo anche che gli americani erano del tutto indifferenti ai cosiddetti “motivi umanitari”, e volevano invece un insediamento militare geopolitico nei Balcani (l’odierno Camp Bondsteel). 
Sapevo anche che i cosiddetti colloqui di Rambouillet erano stati una trappola pianificata dalla Albright. Bene, tutto questa era largamente noto, ed invece vidi la sinistra che appoggiava la guerra americana, Veltroni che sfilava in suo appoggio, 
che inneggiava sulle colonne del giornale-partito “La Repubblica”, 
che prestava il suo nome alla cosiddetta Operazione Arcobaleno, eccetera. In quel momento in me si ruppe qualcosa. Poi lessi che la rivista “Diorama Letterario” di Tarchi si era invece impegnata contro la guerra con contributi pacati ed equilibrati, ed allora decisi che il “tabù dell’impurità” avrebbe dovuto essere rotto proprio per preservare la mia salute mentale e la mia dignità personale di studioso. E l’ho fatto. 
Dopo questi tre paragrafi dedicati ad una ricostruzione necessariamente autobiografica, possiamo finalmente passare alla parte teorica. Inizierò allora sostenendo che la dicotomia contemporanea fra sinistra e destra non inizia a mio avviso nel 1789, come si tende a dire, ma si costituisce veramente solo a partire dal 1871, ed ha una significativa accelerazione solo dopo il caso Dreyfus in Francia, in cui si costituisce per la prima volta il gruppo degli “intellettuali di sinistra” come gruppo identitario di appartenenza stabile. Certo, questo riguarda solo l’Europa Occidentale, non l’Inghilterra, l’America o la Russia, ma è egualmente interessante. 
·  A proposito del periodo storico che va dal 1789 al 1871 so bene che molti utilizzano ampiamente la dicotomia tra sinistra e destra per classificare le posizione politiche contrapposte. Tutto questo è legittimo, ma non sono del tutto d’accordo, perché c’è il pericolo di confondere queste categorie con il loro uso attuale, che è diverso e talvolta opposto. Ad esempio la parola “patria” nasce a sinistra, e ci mette quasi un secolo per transitare a destra (e sta oggi tornando lentamente a sinistra, vedi il caso Chevènement in Francia – proprio per la nuova situazione imperiale americana). 
Mazzini e Garibaldi sono indubbiamente più a sinistra di Cavour, ma questo ci dice veramente molto poco sul nostro risorgimento. Alcuni parlano di tre tipi diversi di destra francese (la destra borbonica legittimista e tradizionalista, la destra orleanista speculativa, liberale e faccendiera, ed infine la destra bonapartista, populistica e plebiscitaria). Tutto vero, ma anche tutto inutile per capire il presente. I nordisti erano chiaramente più a sinistra dei sudisti, perché volevano liberare gli schiavi, ma erano poi i portatori del capitalismo più selvaggio, oligarchico, banditesco e piratesco della storia universale. Potrei continuare al lungo, ma questo mi basta per chiarire come prima del 1871 preferirei non usare questa delicata dicotomia
·  Fra il marzo e il maggio 1871 si sviluppò e fu sanguinosamente repressa la Comune di Parigi. Un evento storico reale, ma anche un evento simbolico. Dal punto di vista storico, la Comune chiude una fase, e non ne apre assolutamente un’altra. Si tratta dell’ultima grande rivolta popolare ottocentesca, prima della nascita del socialismo e del movimento operaio organizzato, partitico e sindacale. Ma da un punto di vista simbolico, la Comune è l’occasione di uno schieramento ideale. L’atteggiamento di Nietzsche verso la Comune di Parigi mi sembra assolutamente sintomatico, ed è questa fra l’altro la ragione principale per cui, a differenza dei post-moderni alla Gianni Vattimo, considero Nietzsche un pensatore fondamentalmente di destra, e non un pensatore dell’Oltreuomo posteriore alla dicotomia sinistra/destra. La Comune di Parigi appare subito non solo come una comune insurrezione urbana popolare, ma come il sintomo di una crisi di civiltà. Ed infatti è proprio così. Il terreno filosofico della dicotomia fra sinistra e destra è proprio quello dell’interpretazione corretta e della diagnosi della crisi di civiltà. 
·  Ogni crisi di civiltà, o quella che si ritiene tale, viene giudicata in base a parametri di classificazione teorica, che a sua volta traggono spesso origine da reazioni emotive primarie. La distinzione fra destra e sinistra richiede questi parametri di classificazione. Essi non sono sempre in qualche misura arbitrari. Non esistono parametri storiografici definitivi. Ogni generazione ne riscrive di nuovi. 
I parametri oggi più usati in Italia in filosofia politica sono quelli proposti da Norberto Bobbio, ma questo avviene proprio perché viviamo in un’epoca di egemonia liberale e neoliberale, ed i parametri bobbiani sono particolarmente adatti a fondare questa egemonia, perché sono stati programmaticamente costruiti sulla base della separazione netta fra politica ed economia e fra forme e contenuti della decisione politica. 
I contenuti economici classisti della decisione politica sono per Norberto Bobbio analoghi al noumeno di Kant. Essi sono pensabili, ma non conoscibili. Sono una cosa in sé, non una cosa per noi. La uniche forme modellizzabili sono le procedure formali della decisione politica, e questo formalismo politologico è particolarmente affine alla riproduzione capitalistica, che infatti tende a limitare il fattore politico a questo ruolo subalterno e secondario. Occorre dunque prestare una certa attenzione ai parametri di classificazione usati. E dico subito che vi sono due coppie di parametri molto usati, che io però sconsiglio vivamente. 
·  Una prima coppia di parametri da sconsigliare è quella fra conservazione e progresso. In generale si classifica automaticamente la destra dalla parte della conservazione e la sinistra dalla parte del progresso. Questo era probabilmente vero alle origini del processo storico della modernità illuministica, ma nel frattempo le cose si sono fortemente ingarbugliate. 
Non vi sono dubbi sul fatto che il concetto di progresso è stato una creazione dell’illuminismo (o meglio della sua corrente maggioritaria, perché c’è anche un Rousseau che non vi credeva ed anzi lo avversava), è poi passato al positivismo ottocentesco ed ha poi abbondantemente intriso l’ideologia prima socialista e poi comunista. 
E’ anche vero che il moderno conservatorismo ha spesso come matrice storica la critica alla rivoluzione francese prima e dopo il 1815, ma è anche vero che esiste anche una seconda matrice, la tradizione liberale inglese antirivoluzionaria “whig” di Burke (destinata a rifiorire nella critica anticomunista di Isaiah Berlin e di Hannah Arendt). 
In definitiva, mi sembra che il modello non tenga molto. Quando le anomalie e le eccezioni cominciano a diventare troppo numerose, allora è bene che la dicotomia venga prima criticata e poi decisamente abbandonata. A lungo la sinistra ha accusato il capitalismo di conservatorismo, ed ha addirittura etichettato come “conservatori” i suoi sostenitori. Questa etichetta è priva di fondamento storico, e si applica soltanto (parzialmente) ai residui nobiliari e alle classi legate alla rendita fondiaria ed in parte finanziaria. 
Marx sapeva perfettamente che il capitalismo è la forza meno conservatrice che esista, e che fa saltare in aria tutto ciò che sembra solido. Il gruppo sociale più conservatore che esista in Occidente è forse la piccola borghesia urbana di origine operaia ed impiegatizia. In compenso, il progresso è divenuto nel Novecento una parola d’ordine legata all’innovazione tecnologica connessa con il mercato capitalistico e con il suo allargamento, ed i suoi maggiori critici provengono tutti da una matrice politica di sinistra. Ricordo qui solo la rivendicazione della cosiddetta “antiquatezza” dell’uomo da parte di Gunther Anders. L’ecologismo, e non solo il cosiddetto ecologismo “fondamentalista”, è oggi prevalentemente una forza di sinistra (o di centro-sinistra), anche se molti suoi presupposti filosofici furono elaborati nella prima metà del Novecento dalla cosiddetta “destra”. In ogni caso, dovunque ci voltiamo, appare del tutto chiaro che la dicotomia conservazione/progresso non è più, ammesso che lo sia mai stata veramente, un utile parametro di classificazione fra la sinistra e la destra. 
·  Una seconda coppia di parametri, generalmente usata per classificare due tipi diversi di sinistra (ma anche di destra), è quella che separa i riformisti dai rivoluzionari. Nella polemica politica i riformisti vengono talvolta chiamati moderati, ed i rivoluzionari estremisti. Si tratta di una dicotomia pretestuosa e pigra, che in realtà non funziona assolutamente. 
E’ bene metterne in luce la matrice teorica, che è la concezione storicistica del tempo. Se concepiamo infatti il tempo storico come un “medium” omogeneo ed orientato, simile ad una strada lunga e diritta (e così lo concepivano le ingenue ideologie del progresso), gli agenti storici possono essere pensati come automobili che corrono più lente, e dunque più sicure, oppure più veloci, e dunque più efficienti ma anche più insicure. I moderati riformisti sono quelli che vanno piano, mentre i rivoluzionari estremisti sono quelli che vanno forte, e dunque rischiano di andare fuori strada perché non rallentano in curva. 
Ma questa concezione della storia è assurda. Il tempo storico non è per nulla una linea dritta con un prima e un dopo omogenei, e neppure una strada a curve con gli stessi requisiti direzionali stabili. Il tempo storico apre ogni tanto delle “finestre” di opportunità, che nessuno potrebbe mai creare arbitrariamente con un puro atto di volontà, e queste sono appunto le rivoluzioni che possono riuscire. In quanto alle cosiddette riforme, il guaio è che molto spesso vengono battezzate “riforme” delle incredibili controriforme peggiorative (riforma della scuola, riforma delle pensioni, riforma della sanità, eccetera). Il termine riforma ha perduto oggi qualunque significato connotativo, e viene usato esclusivamente in un contesto di mistificazione ideologica. 
Nello stesso modo il termine estremista è ormai usato arbitrariamente per connotare qualunque comportamento ostile all’impero americano ed ai suoi alleati, ed è diventato come il termine “terrorista“. Bin Laden lo è, mentre Bush guarda caso non lo è. Il massacratore Sharon non lo è, mentre il povero Arafat lo è. I coloni razzisti israeliani non lo sono, mentre gli eroici partigiani palestinesi lo sono. Non si tratta di semplice confusione semantica, ma di vera e propria degradazione semantica. La degradazione semantica è un segnale sicuro di corruzione sociale, ed allora l’etimologia deve lasciare spazio alla politica rivoluzionaria. 
Messo in guardia il lettore dall’uso di parametri inutili, bisogna però pur sempre utilizzare dei parametri. Devo ammettere che non ne conosco di veramente soddisfacenti. Qualunque parametro venga scelto, anziché distinguere con chiarezza destra e sinistra, taglia diagonalmente sia il campo delle destre che il campo delle sinistre. E’ infatti questa una buona ragione per consigliare l’abbandono della dicotomia, ormai di tipo rigidamente identitario. In modo del tutto provvisorio userò qui solo due coppie classificative. Per quanto concerne la sinistra, distinguerò fra sinistra dell’immanenza sociale e sinistra del trascendimento sociale. Per quanto riguarda la destra, distinguerò fra destra capitalistica e destra tradizionalistica. Ma sia chiaro che anche questi parametri sono del tutto insoddisfacenti. 
·  Dal 1871 al 1914 si costituisce la sinistra nel senso contemporaneo del termine. Sarà poi la guerra del 1914-1918 a dividerla fra socialisti e comunisti, perché sono sempre e solo le guerre i veri “momenti della verità” in cui chiacchiere e traccheggiamenti non sono più possibili, ed allora o si è per o si è contro. Lo stesso atteggiamento verso la rivoluzione russa del 1917 è in un certo senso una derivazione secondaria di un precedente atteggiamento verso la guerra. Chi ha imparato ad odiare veramente il capitalismo è stato poi anche psicologicamente incline ad accettare la rottura del comunismo. Chi invece non aveva consumato psicologicamente questa rottura è rimasto quasi sempre socialista. 
Gli anni 1871-1914 non sono stati soltanto gli anni del marxismo della Seconda Internazionale (fondata nel 1889, cento anni esatti prima della caduta del muro di Berlino). Sono stati anche gli anni in cui si è costituita la sinistra intellettuale radicale, attraverso le battaglie del caso Dreyfus in Francia, attraverso l’antimilitarismo soprattutto tedesco, ed infine attraverso le prime critiche al colonialismo ed al razzismo. 
In questo contesto è emerso a mio avviso quel dualismo che intendo connotare con le mie espressioni (forse un po’ improprie) di sinistra dell’immanenza sociale e sinistra del trascendimento sociale. La sinistra dell’immanenza sociale si adatta all’integrazione della nuova società capitalistica della seconda rivoluzione industriale, esalta le conquiste salariali e normative che le lotte sindacali effettivamente riescono a conseguire per i lavoratori dei campi e delle officine, ed accompagna gradualmente l’uscita dei lavoratori da quella miseria nera che prima ne scandiva le dure condizioni di vita. 
Questa sinistra dell’immanenza sociale adotta una filosofia gradualistica del progresso del tutto fasulla ed inesistente, che però rispecchia con ideologica esattezza la propria natura compromissoria. 
La politica estera non gli interessa, se non come sorgente di tasse e di leve militari. I popoli colonizzati gli interessano poco, e così finisce con il condividere i pregiudizi razzisti degli stessi piccoli coloni europei. La cultura le interessa soltanto come divulgazione popolare e come strumento di promozione sociale. Tutti gli elementi della sua futura subalternità sono già massicciamente presenti. Questo “terzo stato” marcia verso i futuri supermercati e verso futuri stadi di calcio e non se ne accorge nemmeno. 
La sinistra del trascendimento sociale si rende invece perfettamente conto del fatto che nessuna conquista sotto il capitalismo è irreversibile e garantita. Non si tratta dunque di semplice massimalismo o di semplice populismo. Si tratta invece di un lodevole sforzo per comprendere l’insieme dei rapporti sociali, e di qui nasce quella critica all’imperialismo che a mio avviso è il punto più alto ed il massimo contributo di questa sinistra nel periodo 1871-1914. 
Vorrei insistere su questo punto per il fatto che oggi siamo di fronte allo stesso problema di allora, con la differenza (in peggio) che la maggior parte della cosiddetta sinistra istituzionale e parlamentare (D’Alema, Rutelli, Jospin, Blair, Schroeder, ed in più tutti gli scagnozzi ex-comunisti dell’Est addomesticato) è ormai schierata a fianco del nuovo imperialismo, e con la differenza (in meglio) che questo fatto scandaloso comporta un rimescolamento benefico delle categorie di sinistra e di destra che annuncia un periodo storico del tutto nuovo, duro e faticoso ma anche promettente. 

Fra il 1871 e il 1914 si sviluppa l’intreccio fra la destra tradizionalista e la destra capitalistica. La destra tradizionalista protesta contro la cosiddetta massificazione democratica in nome di una gerarchia sociale non fondata sul semplice possesso e sulla pura ostentazione del denaro. In modo molto acuto questa destra tradizionalista capisce bene che il denaro di per sé è un principio democratico ed egualitario, cui tutti possono accedere purché accettino le semplici regole dell’accumulazione capitalistica. Il regno del denaro, gli Stati Uniti d’America, sono anche il regno della democrazia. 

Questa destra tradizionalista sogna gerarchie metafisiche (come Julius Evola), oppure lotte contro l’usura nemica dei popoli (come Ezra Pound). La destra tradizionalista è anche sempre estremamente attirata dalla religione (l’esempio di Guénon è sintomatico), perché effettivamente solo la religione offre un vero quadro atemporale in cui le gerarchie possano essere messe al riparo dall’attività corrosiva del progresso. 

E tuttavia l’impotenza politica di questa destra tradizionalista è addirittura patetica e pittoresca. Nel campo della destra essa assomiglia moltissimo a ciò che per la sinistra è la scuola di Francoforte di Horkheimer e Adorno. 

In entrambi i casi si ha una critica della società programmaticamente non politica perché priva di soggetto, e la denuncia sostituisce così la mobilitazione, diventando una pratica intellettuale fine a sé stessa. La destra capitalistica è invece fin troppo in grado di trovare il suo soggetto storico, e cioè l’unione fra il mandato della grande borghesia e la militanza attiva della piccola borghesia. 

Il denaro di per sé non è né di destra né di sinistra, in quanto “non olet”, non odora, come dice il grande precursore del pensiero borghese Vespasiano. Ma se il denaro è indipendente dalla dicotomia, la mobilitazione in difesa della libera accumulazione di denaro è invece sicuramente di destra. Questa desta è anti-socialista, ed anzi rimprovera la borghesia (l’esempio di Pareto è illuminante) perché non è abbastanza determinata e cattiva. Questa destra capitalistica riesce a conseguire l’egemonia politica sulla sognante destra tradizionalista in nome dell’antisocialismo. Sulla scorta di Nietzsche, il socialismo è appunto interpretato come rivolta plebea mossa dall’invidia e dal risentimento, e questa semplice idea, unita all’antisemitismo come denuncia di complotto dei banchieri ebrei per conquistare il mondo, riesce ad essere straordinariamente egemonica, così come tutte le grandi semplificazioni. 

La guerra 1914-1918 è il grande spartiacque, dopo il quale emergono i due grandi fratelli nemici del fascismo e del comunismo. Sono contrario a definire questi regimi con l’etichetta di “totalitari”, perché non conosco nessun sistema più abile a “totalizzare” il consenso passivo del normale capitalismo liberale. L’educazione politica “totale” delle masse nel fascismo e nel comunismo fallisce sistematicamente, perché non riesce a stabilizzarsi dopo i primi anni di mobilitazione capillare. E’ forse meglio usare il termine neutrale e descrittivo di regimi “dispotici”. Il rapporto che questi regimi instaurano con le vecchie tradizioni di destra e di sinistra precedenti è estremamente problematico. 

·  Secondo alcuni studiosi, fra cui è emblematico l’israeliano Zeev Sternhell, i fascismi non sono a rigore né di destra né di sinistra. Essi presentano ovviamente elementi strutturali provenienti da entrambe le tradizioni, ,a poiché li mescolano insieme in modo inestricabile è ugualmente possibile dire che sono una cosa nuova, e meritano un’analisi nuova che non ricorra ai vecchi parametri. Io sono d’accordo nell’essenziale con un’importante specificazione. 

Mi pare infatti che la matrice culturale del fascismo (ed anche del nazismo tedesco, che resta il fascismo perfetto ed idealtipico) sia chiaramente di destra (antisocialismo, colonialismo, militarismo, eccetera), ma l’organizzazione politica capillare delle masse proviene dall’esperienza organizzativa dei partito socialdemocratici e comunisti, e non ha dunque nulla a che fare né con la destra tradizionalista né con la destra capitalistica (e dunque individualistica e conservatrice). Nonostante l’uso di miti agresti e campagnoli il nazismo resta un fenomeno urbano, tecnico, futuristico e moderno, e lo stesso fascismo italiano confina lo “strapaese” in recinti ben protetti. 

Una volta crollati, nel 1943 e nel 1945, il fascismo e il nazismo liberano masse enormi che si dividono in sinistra e destra, ed è questa a mio avviso una chiara indicazione del loro carattere ibrido. E’ comunque interessante, e deve far pensare, che invece i movimenti neofascisti e neonazisti dopo il 1945 si collochino tutti all’estrema destra, e fra il 1945 ed il 1991 si mettano a disposizione del nuovo imperialismo americano in funzione anticomunista. Questo è sicuramente un argomento contro Sternhell. 

Ma non è un argomento decisivo, perché i piccoli movimenti neofascisti dopo il 1945 sono qualcosa di radicalmente diverso dai grandi movimenti fascisti e nazisti fra le due guerre. In Spagna (Franco) ed in Portogallo (Salazar) si ha invece un interessante fusione perfettamente riuscita fra destra tradizionalistica e destra capitalistica, ad opera probabilmente non solo delle tradizioni locali ma anche e soprattutto della mediazione della Chiesa cattolica (che poi in Argentina dopo il 1975 appoggerà la giunta militare responsabile del massacro di trentamila desaparecidos). Il 1936 spagnolo è per me gemello del 1975 argentino, e questo dimostra che i cosiddetti cattolici “buoni” possono diventare belve feroci ancor più dei nichilisti paganeggianti tedeschi ed ungheresi. 

Mentre sono in molti a sostenere che il fascismo è un fenomeno storico al di là della dicotomia sinistra\destra, non conosco nessuno che sostenga seriamente che anche il comunismo è un fenomeno al di là di questa dicotomia. Che il comunismo sia stato un fenomeno di sinistra sembra un’ovvietà assoluta. 

Ma io ci andrei piano. Il comunismo dei Fronti Popolari, e cioè dopo il 1936 ed ancor più dopo il 1945, è indubbiamente un fenomeno di sinistra. Ma il comunismo che diventa stato, e più esattamente stato-partito, finisce con l’assumere anche altre tradizioni. La mummificazione e l’adorazione della mummia di Lenin in URSS non è affatto un fenomeno di sinistra, ma un fenomeno di culto religioso popolare. Il culto della personalità di Kim il Sung in Corea e di Mao Tze-Tung in Cina non è assolutamente di sinistra, ma è di origine confuciana (anche se secondo alcuni maoisti cinesi era piuttosto di origine legista). 

La persecuzione degli omosessuali a Cuba non è sicuramente di sinistra, ma è ispirata al machismo sudamericano. Il nazionalismo di Ceausescu in Romania non era assolutamente di sinistra. Potrei continuare a lungo (fino al ripescaggio della tradizione nazionale russa fatto da Stalin dopo il 1929), ma non mi interessa in questa sede polemizzare retrospettivamente contro il comunismo, quanto far notare un’importante elemento storicamente trascurato. Il comunismo, infatti, quando si trasforma da affabulazione utopica in potere politico strutturato, deve necessariamente sorpassare i confini ristretti della sinistra (ed ovviamente anche della destra) per aderire alle tradizioni nazionali e popolari di lunga durata, che se ne infischiano ovviamente della recente dicotomia fra sinistra e destra.

Poster cinese che incita a seguire l’esempio di Marx,
padre di un’unica bambina

·  Gli anni fra il 1945 ed il 1975, il trentennio dorato di cui parla Erich Hobsbawm nel suo “Secolo Breve”, sono stati anche gli anni d’oro della contrapposizione dicotomica tra sinistra e destra. La polarità ha strutturato in questo trentennio, almeno in Europa, forze politiche, passioni collettive, programmi alternativi, identità ed appartenenze durature. Non è un caso che coloro che si sono formati in questo trentennio sono anche i più restii ad abbandonare questa dicotomia, per il fatto che essa struttura non solo il loro universo simbolico, ma la loro ragione di vita. 

In Italia questo trentennio vede attizzare la guerra civile simulata (e non solo) fra fascisti ed antifascisti, guerra civile di cui approfitta il robusto estremismo di centro democristiano. 

La permanenza di questa dicotomia ormai ineffettuale e stupefacente, se pensiamo che la modernizzazione innescatasi economicamente dopo il 1958 la svuotava in realtà di ogni vero significato politico. 

Ma questa guerra di posizione era dovuta proprio al blocco del sistema politico, che mascherava la sua staticità e la sua grande stabilità con un’apparenza cinematografica di guerra civile simulata fra camicie rosse e camicie nere. Non parlo qui dei servizi segreti e della stagione degli attentati, in quanto considero quelle bombe come bombe di centro, e non come bombe figlie della dicotomia. Ma certo questa “guerra dei trent’anni” sembrerà curiosa ai nostri posteri, come del resto sembra già curiosa ai nostri ricordi. 

A metà degli anni Settanta del Novecento cominciano ad esaurirsi storicamente le ragioni che avevano portato un secolo prima alla dicotomia sinistra/destra. Di questo sono ormai certissimo, e condivido le motivazioni di chi lo dice da tempo proveniendo da “sinistra” (Gianfranco La Grassa) e da “destra” (Marco Tarchi). 

Tuttavia, mi rendo conto che questa situazione storica è oscurata da chi si ostina a vedere il ventennio 1970-1990 come un periodo storico in cui ad un primo momento di attacco della cosiddetta “sinistra” (1967-1979) è succeduto un vittorioso contrattacco della “destra” (1979-1990). Dal momento che questa visione storiografica è diffusa, vale la pena ricordarne le ragioni. 

·  Il 1968 è l’anno internazionale della contestazione studentesca, ed appare ovviamente come un anno di sinistra. Dipende ovviamente da come lo si interpreta. Personalmente, in accordo con il francese Lipovetsky, tendo a vedere globalmente il Sessantotto come un episodio cruciale della storia dell’individualismo moderno, in cui una contestazione nichilista ed anarcoide della morale vetero-borghese fu scambiata erroneamente (Marx avrebbe detto “con falsa coscienza necessaria”) per un attacco utopico complessivo all’intero modo di produzione capitalistico. 

Balle. Più serie furono le lotte operaia italiane (ma anche europee) del periodo 1967-1974, che non ebbero però in nessun momento un carattere rivoluzionario antisistemico se non nelle affabulazioni oniriche degli operaisti pazzi. Si trattava di oneste lotte sindacali di tipo socialdemocratico di “integrazione” nella normale società dei consumi piccolo-borghese europea. Ancora più serie furono le transizioni di paesi fascisti o semi-fascisti (Grecia 1974, Portogallo 1974, Spagna 1975) verso la normale democrazia pluralistica, il migliore involucro possibile che il capitalismo possa augurarsi. Poi ci furono una serie di vittorie comuniste vere e proprie (Vietnam, Laos e Cambogia 1975, Etiopia 1976, Afganistan 1978, Nicaragua 1979), che portarono ad una sovraesposizione militare dell’URSS in incipiente crisi economica. 

Infine ci fu il sorgere del fondamentalismo islamico rivoluzionario (Iran 1979) che mi permette di inserire fra le forze storiche anti-sistema. E’ del tutto normale che avvenimenti storici di questo tipo (ed altre che non elenco per ragioni di spazio) possono essere interpretati come episodi di un ciclo politico di “sinistra” (ma fra di essi non cito episodi minori ridicoli, come il cosiddetto “compromesso storico” italiano). 

·  A questo ciclo politico di sinistra (che ora appare comunque l’ultimo canto del cigno di una fase storica morente, e non l’alba di una nuova ondata di lotte rivoluzionarie per il comunismo) si sostituì a partire da metà degli anni Settanta una controffensiva politica di destra. Una data per me importante, ed anzi decisiva, è il 1976, in cui in Cina ad un mese dalla morte di Mao Tze-Tung la direzione politica maoista (la cosiddetta “banda dei quattro”) fu abbattuta, e la Cina iniziò un riaggiustamento economico in direzione privatistica e capitalistica di importanza strategica. 

Ovviamente, colgo l’occasione per dire che io non ho assolutamente nulla da eccepire, anche perché ciò che qualunque persona bennata può chiedere alla grande Cina non è certo di fare il comunismo per noi che ne siamo pateticamente incapaci (ed era ciò che a quei tempi le chiedevano i maoisti populisti e salmodianti), ma semplicemente di opporsi strategicamente all’impero americano. Per questo tutto mi va bene in questo momento, compreso Attila Re degli Unni. 

Dal 1975 in America Latina comincia la strategia del massacro sistematico degli oppositori (desaparecidos non solo argentino), ed è questo un capitolo storico che viene quasi sempre solo affrontato in chiave umanitari e giudiziaria, mentre si tratta di una scelta storica di guerra totale da parte degli USA e dei suoi alleati (in primo piano la Chiesa cattolica latinoamericana, connivente e conservatrice). 

Dal 1975 in Africa gli USA alleati strategici del Sudafrica dell’apartheid e con il capillare aiuto dei boia israeliani esperti in controguerriglia, inizia una guerra strategica contro i movimenti di liberazione africani (Angola e Mozambico in primo luogo, con l’a’poggio armato degli assassini dell’UNITA e della RENAMO). 

Poi arrivano ovviamente Reagan e la Thatcher insieme con la rivoluzione neo-liberista, che è però soltanto l’aspetto sovrastrutturale di una più profonda modificazione della produzione capitalistica complessiva, che il termine di post-fordismo connota in modo economicistico e del tutto insufficiente. Si tratta infatti di qualcosa di più radicale e profondo di semplici mutamenti tecnologico di processo e di prodotto. 

·  Il crollo, o meglio la dissoluzione implosiva del comunismo storico novecentesco non può essere a mio avviso interpretata come una semplice vittoria della destra contro la sinistra. In Occidente tutto il ceto intellettuale corrotto e stravolto vede con vero giubilo il crollo dell’URSS, senza rendersi conto che il vero problema tragico non è la perdita del potere da parte di burocratici cinici e corrotti (e comunque velocemente riciclati in intermediari economici della finanza mafiosa interna ed esterna), ma lo sprofondamento nella miseria di massa di milioni di sudditi privati di rappresentanza politica e soprattutto il venir meno di un contraltare strategico all’impero americano armato. 

Ho fatto notare in un paragrafo precedente che personalmente non considero il comunismo storico novecentesco (nel senso di socialismo reale statualmente garantito) come un fenomeno di sinistra, ma come un dato storico che nasce a sinistra geneticamente, ma appena preso il potere deve allargare la sua base ideologica oltre i confini della sinistra stessa (nazionalismo in URSS, confucianesimo in Cina, bolivarismo a Cuba, eccetera). 

·  Ritengo che oggi l’avversario principale dei popoli del mondo sia l’impero americano potentemente armato, che non trova purtroppo alcun contrappeso economico, politico, culturale, militare e geopolitico sufficiente. In questo non c’è da parte mia nessun antiamericanismo, anzi.

Amo la cultura americana e la lingua inglese, ed in generale non penso che esistano popoli cattivi. Mi ripugna il sionismo, ma mi ripugna anche l’antisemitismo di ogni tipo. Essere contro Hitler non significa essere contro i tedeschi, così come essere contro Pol Pot non significa essere contro il popolo cambogiano. 

Non credo assolutamente che la categoria scientifica da cui partire per interpretare lo stato attuale del mondo sia quella di globalizzazione neoliberista, come ritiene Vittorio Agnoletto, ma resti quella di imperialismo, nel significato datole soprattutto nei più recenti scritti di Gianfranco La Grassa. Ma l’attuale sinistra non è più in grado di capire cosa sta accadendo, ed è allora necessario ristrutturare radicalmente il nostro modo di vedere le cose. 

·  Mi avvio alla conclusione. Tuttavia, il lettore ha diritto ad una conclusione chiara ed univoca da parte mia, in cui dica chiaramente perché la dicotomia è obsoleta, e perché siamo giunti all’esaurimento ed al superamento di una tradizione che fissava la contrapposizione di identità e appartenenze rigide. 

In estrema sintesi, si tratta di due punti essenziali intorno a cui il resto gira intorno: il problema del comunitarismo moderno come filosofia politica migliore dell’individualismo liberale, e la difesa di uno stato-nazione indipendente concepito in modo nazionalitario e non nazionalista, razzista ed imperialista. 

·  Esaminiamo brevemente questi punti programmatici, che sono appunto al di là della dicotomia tra sinistra e destra. In primo luogo, il comunitarismo moderno è oggi in grado, a mio avviso, di correggere radicalmente l’errore mortale del vecchio comunitarismo ottocentesco e primonovecentesco, e cioè l’organicismo (in altre parole, la “Gemeinschaft” contro la “Gesellschaft”). Oggi il comunitarismo, correttamente inteso ed elaborato, è in grado di accogliere le buone ragioni del migliore individualismo, e cioè la tolleranza degli stili di vita minoritari, il diritto alla libera espressione artistica, filosofica e religiosa, eccetera. 

Io penso sinceramente che il migliore comunitarismo può accogliere le lezioni filosofiche di Spinoza e di Marx. Il terreno dell’individualismo, invece, è oggi il terreno filosofico comune dell’incontro del nuovo capitalismo globalizzato dei consumi mirati (ed appunto “individualizzati” e non più fordisti e serializzati) con la sinistra snob e politicamente corretta. Potrei fare mille esempi tratti dalla quotidianità, ma credo che il concetto sia già chiaro abbastanza. 

In secondo luogo, lo stato nazionale fondato su di una democrazia nazionalitaria (e rimando qui alle analisi svolte da parecchi anni dalla rivista “Indipendenza”, cui onoro di collaborare) non ha più nulla a che vedere con i vecchi stati-nazione imperialisti, che Toni Negri continua a scambiare in pittoresca e irritante confusione. Oggi questo Stato-nazione è soprattutto un fattore di resistenza all’impero americano. Per questo Chávez è buono in Venezuela. Chevènement è buono in Francia. La giunta militare della Birmania, sputacchiata da tutti i giornalisti di sinistra è ottima, e forse risparmierà al suo popolo buddista di diventare un bordello per pedofili europei e giapponesi come la vicina Tailandia. 

La Cina è buona, finché resta forte ed indipendente. E potremo continuare, ma il lettore avrà già perfettamente capito. Abbiamo bisogno di una rivoluzione culturale di 180°, ed essa purtroppo non verrà presto. 

So perfettamente che agli occhi di un sinistro politicamente corretto quanto ho scritto non è inglese o tedesco, cioè in parte comprensibile, ma armeno e turco cioè completamente incomprensibile. Non importa. Chi ha buone ragioni deve andare avanti. E noi sappiamo che le nostre ragioni sono ottime.