Lenin
è morto ottanta anni fa (1924-2004). Ottanta anni sono un buon periodo
storico per fare un bilancio. Inoltre, la mummia di Lenin non è ancora
stata seppellita, ma Lenin ha da tempo cessato di essere il Grande
Ideologo della legittimazione del Socialismo Reale. I sacerdoti, dopo
aver bruciato sul rogo per settanta anni i dissenzienti, i pagani e gli
eretici, sono passati dall’altra parte a celebrare i riti di nuove
divinità vincitrici. Classico. Come Marx,
Lenin è oggi “inattuale”. Anzi, lo è ancora di più, perché Marx può
sempre prestarsi a chiacchiere generiche sull’emancipazione umana o
sullo scandalo del divario fra ricchi e poveri, e diventar così un testimonial prestigioso
ed innocuo del movimento No Global. Lenin no. Lenin è uno che ci ha
provato, e non si è limitato ad operazioni mediatiche ed a proclamazioni
testimoniali.
Per
questa ragione Lenin è particolarmente odiato. Lenin è uno che ci ha
provato, e per questo la sua memoria deve essere diffamata ed esecrata.
Le considerazioni che qui svolgo sono già da me state svolte in altri
contesti. Ma qui vengono riepilogate, riformulate e riproposte in modo
sistematico, cosa che probabilmente il lettore dotato di spirito critico
apprezzerà.
La “leggenda nera” di Lenin, simbolo di un secolo diabolico da cui congedarsi
Gli
storici definiscono “leggenda nera” (leyenda negra) la teoria per cui
gli spagnoli avrebbero di fatto genocidato i popoli amerindi
dell’America Latina. Non sono uno specialista di quella storia, e quanto
dico deve essere preso con beneficio d’inventario. A me sembra che gli
spagnoli volevano prima di tutto sottomettere e schiavizzare, mentre gli
anglosassoni intendevano invece sgomberare il terreno e quindi
direttamente genocidare. Se sbaglio mi si corregga. D’altra parte,
poiché una immagine vale spesso più di mille pagine di teoria, basta
guardare le facce di George Bush e di Hugo Chavez per sapere quale dei
due modelli coloniali ha saputo integrare di più i dominati. Ancora
adesso chi guarda i telefilm americani vedrà negri in
tutte le salse, negri poliziotti, negri pompieri, persino negri
dirigenti, ma non vedrà mai coppie miste di neri e di bianchi. Ci si
chieda il perché, e si comincerà a capire qualcosa di più del mondo
contemporaneo a direzione ideocratica imperiale americana.
Oggi Lenin è il protagonista principale, insieme a Hitler e Stalin
(i poveri Mao e Mussolini sono obbligati a sedere in seconda fila!),
della “leggenda nera” del novecento, secolo diabolico in cui l’utopia
della virtù si è rovesciata in terrore (Hegel, Merleau-Ponty, Furet,
eccetera), ed in cui il comunismo non è stato che l’applicazione
politica del livellamento fordista al mondo sociale. Poiché noi italiani
ci distinguiamo sempre per essere feroci e buffoni (ma spesso non
sappiamo che gli altri se ne accorgono, e se non lo dicono è solo per
educazione!), questa teoria è italiana come la pizza e l’alta moda, ed
ha trovato in Marco Revelli il suo esponente più determinato. Il
“pentimento” degli ex Lotta Continua, questo sgradevole fenomeno
sociologico, morale ed editoriale, ha evidentemente una durata di molti
decenni.
In
realtà il novecento non può essere seriamente staccato dai secoli
precedenti. Il seicento ha cominciato a proporre un modello di
razionalità scientifica (Galileo) e filosofica (Spinoza), certo pieno di
difetti per il suo inevitabile meccanicismo, ma comunque pieno di
promesse. Il settecento ha esteso ed applicato questo modello di
razionalità cercando di mediarlo con la conoscenza storica. L’ottocento,
bene o male, ha prodotto per la prima volta una teoria emancipativa
universalistica, piena di comprensibili difetti economicistici,
storicistici ed utopistici, ma nello stesso tempo suscettibile di essere
migliorata in un secondo tempo (Marx). Il novecento, infine, non è
stato solo il secolo di Auschwitz
e di Hiroshima, ma è anche stato il secolo “in cui ci si è provato” a
cambiare il mondo (Lenin). Questo primo tentativo di cambiamento è
storicamente fallito, ma non per questo deve essere anche
filosoficamente delegittimato.
Ancora
una volta ripeto la vera ragione dell’odio verso Lenin. Lenin deve
essere maledetto perché ci ha provato. Certo, le “anime belle” che non
si sporcano mai le mani non commettono mai errori o crimini. In
proposito, la gente che si crede “colta” non capisce assolutamente la
natura delle proposte apocalittiche alla Marco Revelli, e crede che si
tratti solo di un “congedo” filosoficamente elaborato dal solo novecento
fordista-comunista. Errore. Ciò da cui si vuole prendere congedo non è
il solo novecento fordista-comunista, ma è l’intero progetto
conoscitivo-emancipativo della modernità europea. Il “pentimento” della
povera banda di Lotta Continua (Adriano Sofri, Marco Revelli, eccetera) è
solo il punto di infiammazione patologica di una epidemia molto più
diffusa, l’irrazionale congedo dall’intero progetto moderno, un progetto
ad un tempo conoscitivo ed emancipativo.
Questo
progetto è un progetto pratico, e la pratica è un’attività
trasformatrice. Chi trasforma, dunque, deve a volte distruggere per
ricostruire. Chi parla solo di frittata non deve rompere nessun uovo, ma
chi vuole veramente cucinare una frittata deve necessariamente rompere
le uova. Non ci si inganni sull’attuale retorica della Non-Violenza.
E’ evidente che in linea di principio la Non-Violenza è meglio della
Violenza. Bella scoperta! Fare l’amore è meglio di soffrire di un
tumore! Una carezza è meglio di un colpo di scure! Convincere tutti è
meglio di incarcerare anche solo una minoranza riottosa! E così potremmo
continuare in una sagra delle banalità.
La retorica della Non-Violenza, oggi, al di là di essere un evidente segnale di integrazione simbolica nel sistema politico delle oligarchie finanziarie attuali,
rappresenta il trionfo della “teoria parlata” sulla “pratica giocata”.
Finalmente si può parlare di frittata senza dover anche spiacevolmente
rompere le uova. Chi non capisce che siamo di fronte ad una crisi
epocale della razionalità moderna, e ritiene che si tratti soltanto di
un tragicomico momento congiunturale che caratterizza i codici di
riconoscimento di gruppi relativamente esigui (anche se
sovrarappresentati mediaticamente) di politici, giornalisti ed
accademici, non coglie adeguatamente i tratti del tempo presente. Niente
di nuovo. Tipico della “sinistra”
è non cogliere mai il senso tragico della storia. Ci deve sempre essere
un “lieto fine”, sempre una “proposta”, sempre una “soluzione”.
Ebbene,
si ritorna sempre al punto di partenza, come nei giochi di dadi in cui
si viene puniti perché si è capitati nella casella sbagliata. Lenin ci
ha provato, dunque deve essere demonizzato. Marx ha solo scritto, ma non ci ha veramente provato. Fra i due demoni, dunque, Lenin è il peggiore.
2. Un legittimo dubbio iperbolico: esiste veramente il “leninismo”?
E’ filologicamente accertato senza ombra di dubbio che ad un certo punto Marx
scrisse che era sicuro di una cosa sola, e cioè di non essere
“marxista”. Non ricordo esattamente il contesto preciso di questa
affermazione, ma il significato è chiaro: tutti gli “ismi” che vengono
confezionati in mio nome, e che certamente ancor più verranno
confezionati dopo la mia morte, devono essere presi con beneficio di
inventario.
La stessa cosa,
ovviamente, può essere detta per Lenin. Personalmente, non credo neppure
che esista una cosa univocamente definita chiamata “leninismo”. Mi è
noto, ovviamente, e lo farò io stesso nei prossimi paragrafi, che si
possono facilmente elencare alcune soluzioni date da Lenin a problemi
teorici e politici (lo sviluppo del capitalismo in Russia contro i
populisti, la teoria del partito politico contro i menscevichi, la
teoria delle alleanze di classe contro gli operaisti “luxemburghiani”,
la teoria dell’imperialismo
contro le definizioni date da Kautsky e da Bucharin, la teoria del
materialismo dialettico contro l’empiriocriticismo, eccetera). Per chi
conosce la storia del marxismo, elencare queste soluzioni ed
organizzarle in un sistema teorico coerente è un gioco da ragazzi. Ma,
appunto, è sempre pericoloso trasporre i giochi da ragazzi nella teoria
politica e filosofica. In proposito mi limiterò a segnalare solo due
punti principali.
In primo luogo, è
storicamente e filologicamente accertato che il termine di “leninismo” è
ovviamente posteriore al 1924, anno della morte di Lenin. Che cosa
fosse il “leninismo” è oggetto di lotta politica fra Stalin, Trotzky
e Zinoviev, ognuno dei quali definisce il leninismo a suo modo. La
definizione storicamente accettata dal movimento comunista è ovviamente
quella di Stalin, che la espone in due opere successive, pubblicate
rispettivamente nel 1924 e nel 1926. Si apre una divaricazione fra il
cosiddetto “marxismo-leninismo”, sintesi accettata prima da Stalin
e poi da Mao, ed il cosiddetto “marxismo rivoluzionario”, termine che
indica in realtà il trotzkismo. In quanto Padre Fondatore del Comunismo,
Lenin diventa la posta in gioco di una guerra ideologica senza
quartiere.
In secondo luogo, Lenin fu il massimo esponente di una concezione teorica in cui le scelte politiche e ideologiche erano fatte caso per caso sulla base di una valutazione
legata all’analisi concreta di una situazione concreta. Il contrario,
quindi, degli “ismi” (di tutti gli ismi), che invece deducono la scelta
politica o teorica da un corpus dottrinale precedente.
Chi ha conoscenze della storia delle filosofia occidentale sa bene che
questo approccio individualizzante alla scelta pratica non risale
affatto ad un fantomatico “materialismo”, ma risale ad Aristotele ed
alla sua teoria della cosiddetta “deliberazione” (boulesis).
Mentre nelle scelte teoriche si ha a che fare con canoni formali e
regolari (quelle che oggi chiamiamo le “leggi scientifiche”), nelle
scienze pratiche, e quella di Lenin è chiaramente una scienza pratica
della rivoluzione, si ha a che fare con una saggezza (sophrosyne), che a differenza della semplice sapienza (sophia), consiste nella capa\cità di fare la scelta giusta caso per caso (boulesis).
La scelta
rivoluzionaria dell’ottobre 1917, ad esempio, è un caso tipico di “arte
dell’insurrezione” che non può essere dedotta da nessun “ismo”, tanto
meno poi dall’“ismo” per cui la rivoluzione non si può fare più nei
cosiddetti punti alti dello sviluppo capitalistico (corruzione delle
aristocrazie operaie a causa della distribuzione dei sovraprofitti
imperialistici, ed altre “sciocchezze” del genere, mi si scusi per
l’espressione volutamente un pò volgare), e bisogna allora farla negli
anelli deboli della catena mondiale imperialistica. Questo argomento è
una tipica “razionalizzazione a posteriori” di un fatto portato a
termine in una congiuntura irripetibile che non si può dedurre da nessun
“ismo” (e tantomeno dal cosiddetto “leninismo”), e che è invece
compiuto da una “deliberazione” (boulesis) attuata non in base alla sapienza marxista ma in base alla saggezza politica pratica.
Per queste
ragioni, e per altre che qui trascuro per brevità, ho forti dubbi che si
possa parlare sensatamente di “leninismo”. Parlerò invece di Lenin, o
più esattamente del modo concreto e specifico in cui Lenin ha affrontato
questioni teoriche e pratiche.
3. Il rapporto controverso di Lenin con Marx. Ortodossia teorica, revisionismo pratico e falsa coscienza necessaria
Per affrontare in modo serio la questione cruciale del rapporto di Lenin con Marx
bisogna prima di tutto staccarsi dalla leggenda edificante che vi è
stata costruita sopra dalla dottrina ideologica del defunto comunismo
storico novecentesco (1917-1991). Secondo questa leggenda edificante vi
sarebbero stati prima i grandi marxisti rivoluzionari Marx e Engels, poi
sarebbero venuti i perfidi revisionisti Bernstein e Kautsky, ed infine
sarebbe venuto Lenin a restaurare la vera dottrina rivoluzionaria
perduta, ricollegando il comunismo pratico del 1917 con il comunismo
teorico del Manifesto di Marx ed Engels del 1848.
Lenin fu
ovviamente un “revisionista” molto più grande di Bernstein e di Kautsky,
perché “revisionò”, e cioè rinnovò radicalmente, l’originaria teoria di
Marx e anche la sua sistemazione fatta da Engels. Tuttavia, questa
revisione radicale fatta da Lenin venne presentata nella forma di una
“restaurazione” dello spirito rivoluzionario originario nel frattempo
perduto e corrotto. Ci si può allora porre la domanda legittima se
questo rinnovamento radicale presentato nella forma di una restaurazione
sia stato dovuto ad un “vincolo ideologico esterno”, perché il
movimento marxista del tempo non avrebbe sopportato una revisione
radicale presentata per quello che era, e cioè appunto una revisione
radicale, oppure sia stato dovuto ad una forma di “falsa coscienza
necessaria” di Lenin, per cui quest’ultimo era soggettivamente convinto
di stare soltanto restaurando, mentre stava in realtà proponendo una
revisione radicale delle tesi di Marx (e anche di Engels).
Che dire? In prima
approssimazione, entrambe le cose. Kautsky aveva potuto far passare la
sua egemonia teorica nella forma della fedeltà “ortodossa” a Marx e
Engels. Come documenta bene Erich Matthyas, il kautskismo era diventato
l’ideologia di legittimazione della pratica opportunistica della
socialdemocrazia tedesca, così come più tardi, in un altro contesto
storico e politico, lo divenne il togliattismo nel PCI di Palmiro Togliatti e di Enrico Berlinguer.
Lenin era allora di fatto costretto a giocare con le regole imposte da
altri. Nello stesso modo, più di mezzo secolo dopo, dovettero giocare
con le regole della “sacralizzazione” di Marx, da tener fuori
religiosamente da ogni “peccato” di revisione, sia Althusser (contrapposizione fra un giovane Marx, cattivo, ed un Marx maturo buono) sia Lukács
(contrapposizione fra un Marx tutto perfetto e senza errori ed un
Engels ammirabile e stimabile, ma con errori deterministici e
meccanicistici).
In seconda
approssimazione, però, credo che Lenin si ingannasse (in buona fede, e
nello stesso tempo in falsa coscienza) sul tipo di riforma cui stava
sottoponendo la teoria originale di Marx. In altri termini, stava
costruendo una teoria originale, completamente nuova, mentre era convinto di stare solo restaurando la vera teoria marxiana originaria.
La mia è
un’affermazione impegnativa. Per poterla argomentare con un minimo di
serietà devo ora passare a discutere alcuni aspetti del pensiero di
Lenin. Iniziamo, ovviamente, dalla sua teoria del partito politico.
4. La teoria di Lenin del partito politico rivoluzionario
La teoria
leniniana del partito politico rivoluzionario è considerata secondo
l’opinione comune come il “pezzo” più importante, duraturo e pregiato
del contributo di Lenin al marxismo.
Non è questa la mia personale opinione. La mia opinione è che il
“pezzo” più importante, duraturo e pregiato del contributo di Lenin sia
la sua teoria dell’imperialismo,
secondo una particolare accezione (il salto dall’eurocentrismo
implicito marxiano alla vera mondializzazione) che cercherò di chiarire
nel prossimo paragrafo. Ma per ora cerchiamo di ragionare in modo
critico e spregiudicato sulla teoria leniniana del partito, la cui prima
formulazione è nel Che fare? (1903), ma che poi si presenta in tutte le opere posteriori di Lenin.
In primo luogo, bisogna dire ben chiaro e forte che la teoria leninista del partito è completamente assente in Marx e Engels. Il Manifesto del Partito Comunista
di Marx e Engels del 1848 è la dichiarazioni di intenti storica non di
uno specifico partito politico (ed infatti Marx e Engels nel biennio
1848-49 si rifiutarono di aderire ai gruppi politici comunisti
dell’epoca, ma aderirono invece a forze democratiche non comuniste), ma
di una sorta di “partito-tendenza”, la cui natura era quella di coprire
un’intera fase storica, e non quella di agire come gruppo organizzato in
un panorama politico dato. E’ vero che nel corso delle battaglie
politiche della cosiddetta Prima Internazionale (in realtà AIL,
associazione internazionale dei lavoratori) Marx e Engels ebbero spesso
accenti “partitistici” contro le posizioni anarchiche di Bakunin, ma
questo non basta per farli diventare “partitisti” nel senso di Lenin.
E vi è per questo
una ragione precisa. Se è vero, infatti, che per Marx il comunismo non è
il prodotto politico dell’agire di un partito, ma è il prodotto storico
della formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato, dal
direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze
scientifiche evocate dalla produzione industriale moderna e da Marx
connotate con la parola inglese general intellect, ne
consegue allora che in questo modello dialettico di costituzione di una
nuova società non c’è veramente lo spazio teorico per il ruolo decisivo
di un partito politico. Certo, Marx e Engels erano favorevoli alla
cosiddetta “capacità politica della classe operaia”, in polemica con gli
anarchici ed i sindacalisti puri, ma anche questa loro cristallina
posizione non ha nulla a che fare con la teoria della decisività di un
partito politico.
Risulta chiaro da
un’onesta lettura filologica di Marx che per lui la “dittatura del
proletariato” era concepita come una dittatura democratica delle
maggioranze auto-organizzate in autogoverno politico ed in autogestione
economica, e non come la dittatura di un partito inteso come il
“rappresentante degli interessi storici” del proletariato. Che poi
queste maggioranze auto-organizzate si rivelarono impossibili,
impraticabili e del tutto “utopistiche” nella storia reale successiva
alla morte di Marx (1883) è vero, ma di per sé questo non cambia di un
grammo la posizione di Marx. In una parola, la teoria leniniana del Che Fare? è una revisione di Marx molto più grande di quelle coeve di Bernstein e di Kautsky.
In secondo luogo (e questo secondo punto è immensamente più importante del primo) la teoria leniniana del partito presenta a mio avviso una vera e propria contraddizione strutturale insanabile
fra la sua concezione del marxismo come “scienza”, da un lato, e la
concezione del “centralismo democratico”, dall’altro. Se il marxismo è
concepito come scienza, infatti, non è possibile sostenere
contemporaneamente che le decisioni “scientifiche” possano essere prese a
maggioranza, in quanto per definizione la “scienza”,
se è veramente tale, non procede a colpi di maggioranza e di
sottomissioni disciplinate della minoranza. La cosa è intuitiva, ma è di
tale importanza da meritare una analisi più dettagliata e approfondita.
Com’è noto, nel Che Fare?
Lenin sostiene che la classe operaia, salariata e proletaria di per sé,
nelle sue lotte economiche immediate, può soltanto maturare una visione
limitata e sindacalistica, mentre per poter impadronirsi teoricamente dell’insieme
dei rapporti sociali capitalistici di produzione deve poter giungere
alla “scienza marxista”, che solo il partito nella sua collegialità può
veramente acquisire. Di tutto questo, si noti bene, in Marx non c’è
neppure l’ombra. Nello stesso tempo, a mio avviso, Lenin aveva
completamente ragione, perché solo un cieco e/o un illuso può veramente
pensare che da uno sciopero economico si possa risalire alla totalità
dei rapporti di produzione. Non intendo certamente contestare Lenin su
questo punto. I cosiddetti “spontaneisti” possono restare tali solo
perché non ragionano e non intendono ragionare e prendere atto
dell’evidenza. Da tempo mi sono reso conto che la confusione non è un
argomento razionale.
L’insieme dei rapporti sociali di produzione in una formazione economico-sociale è dunque un oggetto scientifico che deve essere analizzato con un metodo
scientifico. Trattandosi di una scienza sociale (più esattamente di una
ontologia dell’essere sociale), è a mio avviso del tutto erroneo e
fuorviante cercare di applicarvi l’oggetto ed il metodo di una scienza
naturale. Su questo punto, il mio disaccordo con Lenin è radicale, così
come con tutti coloro che ritengono che le scienze naturali e quelle
sociali abbiano un oggetto omogeneo ed un metodo simile. Ma in questa
sede questo problema, pur così cruciale, è un semplice dettaglio
secondario. Eguale o diverso che sia il metodo ed il suo oggetto, in
ogni caso la “scienza” non può essere decisa con il metodo delle
maggioranze e delle minoranze.
Il principio del
“centralismo democratico”, invece, sostiene di fatto proprio questo.
Questo principio sostiene che ci si può dividere fra maggioranze e
minoranze nel momento preliminare della presa delle decisioni, ma poi,
una volte prese le decisioni, la minoranza dissenziente deve impegnarsi a
portare avanti la “linea” presa dalla maggioranza.
Tutto questo è
compatibile con una bocciofila o con una industria automobilistica, ma
non con un’organizzazione che pretende di basarsi sulla “scienza”
marxista. Una bocciofila può dividersi se investire in nuovi campi da
bocce o in corsi di bocce per adolescenti. Un’industria automobilistica
può dividersi sulle scelte di nuovi modelli. In entrambi i casi (ed in
migliaia di casi analoghi che il lettore potrà facilmente fare) non si
ha a che fare con una pretesa di “scienza”. Ma il partito di Lenin
pretende di essere il titolare della “scienza” marxista. Ora, il solo
titolare di qualsiasi scienza (naturale, sociale o filosofica che dir si voglia) è il libero convincimento
del singolo scienziato. Tutta la teoria della filosofia occidentale, da
Socrate in poi, si basa sul principio per cui la “verità”, ammesso che
esista, non si decide a maggioranza, ma è oggetto di attività razionale
autonoma. Se si fosse dovuto decidere a colpi di maggioranza e
minoranza, oggi lo sappiamo bene, Copernico, Galileo e Darwin avrebbero
certamente perso.
Questa contraddizione fra preteso carattere scientifico
del marxismo, da un lato, e principio del centralismo democratico (in
cui le minoranze si sottomettono alle maggioranze anche se non
“convinte”) dall’altro, è assolutamente insanabile. O
si abbandona la pretesa che il marxismo sia una “scienza”, e allora si
possono accettare procedure consensuali di maggioranza e minoranza,
oppure si tiene fermo al fatto che è in qualche modo una “scienza”, ed
allora non esiste centralismo democratico che tenga. Per questa ragione,
la concezione leniniana del partito contiene in sé in potenza il
principio della scissione interminabile. Non si tratta
di una patologia, ma di una fisiologia inevitabile. Se il marxismo è
“scienza”, infatti, ci mancherebbe altro che io mi debba sottomettere ad
una casuale maggioranza. Solo la mia coscienza è sovrana indivisibile
sulla mia “scienza”. Tutti i fuochi di sbarramento ideologici approntati
in un secolo per nascondere questo fatto incontrovertibile, e cioè che
la “scienza”, se è scienza, non si sottopone al principio di maggioranza
(centralismo democratico), perché se no non è scienza, ma un’altra
cosa, rivelano il loro carattere strumentale e miserabile
(individualismo piccolo-borghese, anarchismo piccolo-borghese,
liberalismo piccolo-borghese, e via farneticando). E’ evidente che qui
la “piccola borghesia” diventa una categoria demonologico-inquisitoria
per esorcizzare il diritto indiviso del soggetto autonomo moderno ad
affrontare la filosofia filosoficamente e la scienza scientificamente.
In terzo luogo,
per finire, il partito di Lenin è uno stato in miniatura, una sorta di
“socialdemocrazia emergenziale militarizzata”, e più esattamente uno
“stato ideologico in potenza”. Non uso queste espressioni per criticarlo
o per liquidarlo sommariamente. Al contrario. Uso queste espressioni
per segnalare come già Marx, in polemica con Lassalle, aveva escluso che
lo stato, sia pure riformato o “operaio”, potesse essere lo strumento
politico per il superamento del capitalismo. Lo stato, infatti,
incorpora nella sua struttura differenziali di sapere e di potere che
non possono essere neutralizzati “ideologicamente”. Su questo punto è
permesso, naturalmente, criticare Marx per “utopismo”, riaffermare la
validità dello stato democratizzato e soprattutto considerare
insostenibile la teoria dell’estinzione dello stato. Chi scrive, tra
l’altro, pensa proprio questo. Ma allora bisogna avere il coraggio di
essere apertamente “revisionisti”, perché Karl Marx, il fondatore della
ditta, non pensava questo, ma pensava il contrario.
Concludiamo sul
punto del partito. Accusare Lenin non ha senso, perché egli non ha fatto
altro che prendere atto radicalmente di un dato già allora visibile (ed
oggi incontrovertibile), cioè l’assoluta incapacità della classe
operaia, salariata e proletaria, presa nella sua immediatezza
sociologica, di operare “spontaneamente” un superamento del capitalismo.
Ci voleva comunque un rimedio, e Lenin propose un nuovo tipo di partito
rivoluzionario “integrale”, una sorta di ordine religioso
anti-capitalistico. Non ha funzionato. Mai fidarsi di preti e sacerdoti.
Tradiranno il messia prima che il gallo abbia cantato tre volte. Non
c’è bisogno per questo di rivolgersi a Roberto Michels o a Leone Trotzky.
Ma di fronte alla miseria intellettuale dei cosiddetti “spontaneisti”
(ultima versione, la più grottesca di tutte, il lottacontinuismo
italiano degli anni 1969-1976), Lenin fa la figura di un gigante.
5. La teoria di Lenin dell’imperialismo
Marx
scrisse la maggior parte delle sue opere nel ventennio 1850-1870. Si
tratta proprio del ventennio del libero scambio, quello che Hobsbawn
chiama “l’età della borghesia”. A quel tempo regnava il colonialismo
imperialistico inglese, che Marx combatteva (scritti sull’Irlanda e
sull’India, eccetera), ma non c’era ancora il vero e proprio imperialismo.
Il vero e proprio imperialismo nel senso di Lenin è un prodotto storico
posteriore al 1873, e cioè alla cosiddetta Grande Depressione.
Marx non ha dunque
nessuna colpa per non averne parlato, mentre Kautsky ha le sue colpe
per aver ingenuamente immaginato una sorta di consorzio capitalistico
imperiale unificato, il famoso Super-imperialismo, in cui i capitalisti
si mettono pacificamente d’accordo per spartirsi consensualmente il
mondo. Kautsky dimenticava così che per il suo maestro Marx non ci
poteva essere un tale capitalismo unificato “concordatario”, in quanto
il capitalismo esiste solo nella forma obbligata della concorrenza
strategica fra numerosi capitali antagonistici. Errare è umano. Ma
perseverare è diabolico, e tutto l’orrendo “operaismo” si è
ideologicamente costruito su questo errore kautskyano, fino all’ultima
concezione di impero di Toni Negri. L’operaismo è, teoricamente
parlando, una sorta di “anarchismo kautskyano”. Il capitale si unifica
in un gigantesco super-imperialismo imperiale, e contro di esso si
muovono, senza alcun bisogno di partito leninista “autoritario”, le
masse luxemburghiane ridefinite in termini di moltitudini spinte da
flussi desideranti di tipo teurgico (sic!).
Anche l’idiozia può attingere vette sublimi.
Da quasi novanta
anni si discute sulle famose cinque caratteristiche che secondo Lenin
caratterizzano l’imperialismo, e che qui non ripeto per ragioni di
spazio. Su questo punto rimando ai recenti scritti sull’imperialismo di
Gianfranco La Grassa, che fanno un bilancio storico critico di queste
cinque caratteristiche, e di fatto ne ritengono attuale solo una, mentre
le altre quattro in qualche modo sono state “smentite” o “assorbite”
nell’ultimo secolo. Qui però intendo svolgere il mio ragionamento in una
diversa prospettiva.
Prima di tutto,
una constatazione storica elementare. La differenza fra la
socialdemocrazia ed il comunismo dopo il 1917 non è stata quella della
vittoria o della sconfitta dei loro progetti (per ora, in questo 2004, entrambi
i progetti sono stati sconfitti totalmente, con la sola parziale
eccezione della benemerita socialdemocrazia radicale e coerente di
Chavez in Venezuela). La differenza fra socialdemocratici e comunisti si
è situata nel diverso atteggiamento verso il colonialismo
imperialistico e verso la legittimità o meno degli interventi militari
imperialistici, fino naturalmente alla Jugoslavia 1999
e l’Irak 2003. I socialdemocratici sono stati generalmente favorevoli
(con benemerite eccezioni) ed i comunisti generalmente contrari (con
spregevoli eccezioni). Tutto questo si deve anche a Lenin, e possiamo
anche dire, soprattutto a Lenin.
In questo modo
Lenin superava di fatto in modo positivo l’eurocentrismo che
inevitabilmente l’originario programma di Marx portava in se
(esemplarità del modello capitalistico inglese, eccetera). Lenin non è
stato il “secondo” a mondializzare il marxismo, ma è stato in un certo
senso il “primo”. Credo che questo impegnativo e prestigioso
riconoscimento gli debba essere dato, anche se ovviamente ogni
innovatore radicale si porta sempre con se anche residui della vecchia
concezione (meccanicismo, teoria dei cinque stadi, sostanziale
disconoscimento del modo di produzione asiatico, eccetera). Ma si tratta
di dettagli. Il punto essenziale sta nel superamento di fatto
dell’eurocentrismo, espresso bene dal titolo della sua opera “L’Europa
arretrata e l’Asia avanzata”.
La teoria
leniniana dell’imperialismo, che personalmente approvo integralmente
(con fisiologiche obiezioni di dettaglio frutto del bilancio dell’ultimo
secolo di storia, i cui ultimi ottanta anni non sono stati vissuti da
Lenin), fa di Lenin il più grande marxista del novecento. Per questo
egli è tanto odiato, nell’epoca dell’impazzimento interventistico dell’impero militare americano e dell’impunità vergognosa di cui gode il sionismo.
6. La teoria di Lenin delle alleanze di classe
“Gli a solo
della classe operaia si trasformano in cerimonie funebri”. Cito a
memoria, ma il lettore può darmi fiducia: la citazione è una citazione
originale di Marx.
E’ strano che su questa citazione, che non è che un bilancio storico
meditato di tutti i tentativi ottocenteschi della classe operaia e
proletaria di sollevarsi da sola senza alleanze sociali, si sia fatto un
grande silenzio per quasi un secolo.
Se
infatti questa posizione di Marx fosse stata adeguatamente conosciuta,
sarebbero cadute tutte le infondate mitologie minoritarie, bordighiste, trotzkiste,
operaiste, eccetera, sul fatto che sia il “marxismo” che il “leninismo”
consistono, in ultima istanza, nel punto di vista operaio, e cioè
nell’operaismo puro.
Naturalmente,
con questo non intendo dire che non esista un legittimo punto di vista
operaio puro. Esso esiste, e riguarda cose come il lavoro notturno, la
nocività in fabbrica, i ritmi insostenibili di lavoro, l’insufficienza
dei salari, eccetera. Qui esiste ovviamente il punto di vista operaio
“puro”, di cui chi scrive è sostenitore inveterato da almeno
quarant’anni, senza ripensamenti, senza se e senza ma.
Ma
che il punto di vista operaio puro sia l’essenza del marxismo lo hanno
potuto dire solo tipi alla Adriano Sofri prima di passare al servizio
dei bombardatori americani del Kosovo del 1999 e dei massacri sionisti fatti da Israele, definito da Sofri come “un paese che bisogna amare”.
Dal
momento che Lenin non era solo un allievo di Marx, ma era anche una
persona intelligente e dotata di buon senso realistico, la sua
concezione della politica si basava sulla teoria e sulla pratica delle
alleanze di classe, e nella fattispecie di tre classi, gli operai, i
contadini e gli intellettuali (categoria grande-magazzino in cui finiva
con il mettere tutti quelli che non facevano lavori manuali, e dunque
dagli impiegati agli artisti).
Possiamo
discutere se e fino a che punto questa tripartizione fosse adeguata
oppure no. Ma la grandezza di questa concezione risalta ancora di più se
la paragoniamo a vertici della confusione a lui contemporanea, come la
teoria operaistica delle “masse” di Rosa Luxemburg, per cui ci sono solo
i proletari, ed i contadini, gli intellettuali, la questione nazionale,
eccetera, non esistono neppure. Non dimentichiamoci mai che
l’attenzione di Lenin alle alleanze di classe lo faceva situare
addirittura a “destra” dei puri dell’epoca, sognatori di una impossibile
“rivoluzione proletaria pura”.
Eppure,
anche nella teoria di Lenin delle alleanze di classe c’era una
contraddizione insanabile, che alla fine poi è esplosa. In poche parole,
Lenin chiedeva alle altre classi “progressiste” di allearsi alla classe
operaia e di accettarne l’egemonia, ma solo in via provvisoria e
temporanea, in attesa della loro progressiva sparizione, in vista della
finale “proletarizzazione universale”. Ora, c’è qualcosa di
contraddittorio nel chiedere alla gente il suicidio o meglio
l’eutanasia. Da un lato, si propone l’alleanza di classe. Dall’altro, si
tiene fermo che alla fine del processo ci sarà una sorta di inevitabile
globalizzazione proletaria universale in una società nuova senza classi
caratterizzata dalla omogeneizzazione proletaria.
Siamo
talmente abituati da una scolastica marxista secolare ad identificare
la possibilità di una società senza classi con l’avvenuta
proletarizzazione unica ed omogenea universale che non ci viene
generalmente in mente che ci potrebbe essere in futuro in via di
principio una società senza classi senza che questa si identifichi con
una società proletarizzata omogenea globalizzata. O meglio, non viene in
mente a quasi nessuno, ma rivendico il fatto che a me questa idea è
almeno venuta in mente. La “proletarizzazione forzata” implica
necessariamente resistenza, e questo non soltanto da parte degli egoisti
borghesi sfruttatori del sangue proletario.
Possiamo
allora chiederci in questo paragrafo il perché del fatto che Lenin da
un lato sostenesse le alleanze di classe e dall’altro annunciasse la
proletarizzazione universale incitando all’eutanasia di tutti i gruppi
sociali non ancora “proletarizzati”. In proposito il discorso sarebbe
lungo, perché dovrebbe investire il nucleo delle filosofie messianiche
della fine della storia (da Stalin
a Fukuyama), e la teoria della proletarizzazione finale della storia
mondiale è una variante economicistica delle teorie della fine della
storia. Per il momento mi limito a due soli ordini di osservazioni.
La
teoria della proletarizzazione universale come coronamento sociologico
della fine comunista della storia, dato e non concesso che risalga a
Marx e/o a Lenin (su questo non posso discutere qui per ragioni di
spazio), è un mito monistico-sociologico,
o se vogliamo un mito ispirato al monismo sociologico, che rivela una
mancata assimilazione della dialettica, ed in particolare della
dialettica di Hegel. Proletariato e Borghesia, infatti, sono concetti e
realtà unicamente relazionali e complementari, e non esistono e non
possono esistere indipendentemente ed isolatamente. L’unità storica e
dialettica consiste esclusivamente nella loro relazione. Il mito della
cosiddetta “proletarizzazione” è solo l’altra faccia del mito opposto
del cosiddetto “imborghesimento”. In particolare oggi, almeno in molti
paesi cosiddetti “avanzati” i processi complementari di
proletarizzazione e di imborghesimento hanno portato ad una sorta di
capitalismo post-borghese e post-proletario, e continuano a non capirlo
solo quelli che pensano che Berlusconi con la bandana da pirata sulla
testa sia ancora un “borghese” e che Bertinotti rappresenti i
“proletari”.
Questa
è la prima osservazione, ma la seconda è ancora più importante. Da dove
tira fuori Lenin l’idea che una proletarizzazione universale sia una
cosa buona da favorire in tutti i modi? Bisogna distinguere, a mio
avviso, due aspetti del problema, uno in negativo e uno in positivo. In
negativo, lo sorregge la profonda convinzione della cosiddetta
“decadenza” della borghesia come classe sociale, decadenza che a sua
volta comprenderebbe due aspetti, un aspetto di “stagnazione” e
putrefazione delle forze produttive e un aspetto di “imbarbarimento” nei
rapporti sociali, politici e militari. Da questo punto di vista
“negativo” Verdun e il Carso, Hiroshima e Auschwitz,
Palestina e Bagdad sono lì per ricordarci che la diagnosi di
imbarbarimento era semmai fin troppo ottimistica, laddove la diagnosi di
“stagnazione” era invece errata, dal momento che il capitalismo si è
rivelato capacissimo di sviluppare continue innovazioni di processo e
soprattutto di prodotto fino a sbaragliare sul campo lo stagnante ed
inefficiente socialismo reale (e la Cina è solo l’eccezione che conferma
la regola, avendo prima fatto una sorta di accumulazione industriale
primitiva in forma “socialista” ed avendo poi intrapreso in un secondo
momento un decollo capitalistico in piena regola).
In
positivo, la teoria della proletarizzazione positiva di Lenin si basa
su di un presupposto umano oggi dimenticato, il lavoratore consapevole
erede della filosofia tedesca, detto in lingua tedesca bewusste Arbeiter.
Questa figura, a mio avviso, è una pura costruzione mitologica, ed in
realtà non è mai veramente esistita, al di là di alcune migliaia di
lavoratori manuali di fabbrica che nel tempo libero leggevano Kant,
Darwin, Marx ed addirittura Hegel, oltre ovviamente ai grandi
romanzieri classici (Balzac, Tolstoj, eccetera). Questo mito fu creato
da Engels attraverso la figura del proletariato erede della filosofia
classica tedesca. Questo proletario era del tutto inesistente, mentre
invece erano esistenti, anche se non molto numerosi, proletari
(soprattutto tedeschi e scandinavi) che si informavano invece su sintesi
positivistiche elementari.
Questo bewusste Arbeiter socialista è una figura ultraminoritaria, ma esistente nel trentennio 1880-1910, mentre il suo successore, il bewusste Arbeiter comunista,
è anch’esso una figura ultraminoritaria, ma esistente, del trentennio
1920-1950. Io stesso, ad esempio, ne ho incontrati alcuni esemplari a
Torino, a Parigi, ed a Atene, le sole città in cui abbia vissuto.
Soprattutto a Torino, questo bewusste Arbeiter univa
genuino interesse per la cultura con penosi riduzionismi collaterali
della cultura a ideologia ed a forma di lotta per la cosiddetta
gramsciana “egemonia”, che nessuna persona lucidamente consapevole può
veramente proporre come modello culturale ed umano realmente
riproponibile oggi.
In
questo modo, Lenin poteva realmente conciliare l’accettazione piena e
sincera delle alleanze di classe con il monismo sociologico proletario, o
più esattamente con il mito della omogeneizzazione proletaria finale
dell’intera popolazione mondiale. In proposito, lascerò parlare al mio
posto il benemerito presidente venezuelano Hugo Chavez (cfr. “Il
Manifesto”, 18-8-04): “Non credo ai dogmi della rivoluzione marxista.
Non penso affatto che stiamo vivendo in un’epoca di rivoluzioni
proletarie. Tutto questo deve essere ripensato. La realtà ce lo dice
ogni giorno”.
Ci
vuole un creolo mezzo indio e mezzo nero per dire certe ovvietà che
tutti i marxisti sofisticati non hanno ancora capito. Lenin, se fosse
vivo, lo avrebbe certamente approvato, ed avrebbe parlato di “Europa
arretrata e di Venezuela avanzato”. Ma i leninisti senza Lenin sono come
gli aristotelici senza Aristotele ai tempi di Galileo. Da tempo ho
smesso di sperare che comincino a capire qualcosa.
7. La teoria di Lenin sul materialismo dialettico, sulla filosofia e sull’ideologia
Ho
cercato fino ad ora nei tre precedenti paragrafi di dare una lettura
“aporetica” di Lenin, di mostrare cioè le contraddizioni interne di
teorie che i nemici e gli amici presentano in generale come
semplicemente “tetiche”, cioè organicamente compiute, per i nemici
completamente cattive e per gli amici completamente buone. A mio avviso,
però, i “veri amici” sono quelli che segnalano i difetti, ed in questo
caso non ho certamente paura a definirmi un vero amico di Lenin.
A proposito della teoria dell’imperialismo,
ho detto che essa è buonissima e pienamente valida anche oggi (sia pure
con ovvie correzioni di bilancio storico), ma bisogna pure aggiungere
che essa non risolve e non può risolvere il problema cruciale
dell’individuazione delle forze sociali e storiche strategiche capaci di
un superamento della produzione capitalistica, che invece la teoria marxiana originaria
in qualche modo segnalava, sia pure in base ad ipotesi scientifiche
errate (classe operaia e proletaria, lavoratore collettivo cooperativo
associato, general intellect, eccetera).
A
proposito della teoria del partito politico, ho affermato che a mio
avviso la sua contraddizione principale sta in ciò, che da un lato
afferma che il partito è titolare della scienza sociale marxista della
rivoluzione, e dall’altro lato questa presunta “scienza” è affidata al
gioco delle maggioranze e delle minoranze di un comitato centrale, il
cosiddetto “centralismo democratico”, laddove ovviamente la scienza, se è
veramente scienza, non procede mediante il gioco casuale delle
maggioranze e delle minoranze che vi si sottomettono.
Io posso proceduralmente sottomettermi come cittadino italiano a Berlusconi, Prodi o D’Alema,
per me tutti “alieni” e nemici, ma questa sottomissione è integralmente
“procedurale” e dovuta alla mia accettazione del principio democratico
delle maggioranze elettorali, ma non posso certo “sottomettermi” alle
opinioni di Armando Cossutta o Fausto Bertinotti,
se le ritengo scientificamente errate e talvolta (come nel caso di
Bertinotti) addirittura demenziali. A proposito infine della teoria
delle alleanze di classe, ho sostenuto che esse sono molto sagge, e che
lo stesso Marx lo aveva a suo tempo capito quando aveva sostenuto che
“gli a solo della classe operaia si trasformano in cerimonie funebri”
(verità autoevidente per tutti, al di là delle scolastiche settarie di
vario tipo), ma che questo riconoscimento poteva entrare in rotta di
collisione con quel monismo sociologico largamente mitico definito “proletarizzazione” universale e globale.
Toccando
ora il quarto tema della cultura e della filosofia mi soffermo in
quello che è di fatto il mio “specialismo”, il che non significa
ovviamente che io abbia ragione, ma semplicemente che si tratta di
questioni cui ho dedicato maggiore studio ed attenzione da almeno
quaranta anni. Anche qui siamo di fronte a mio avviso ad una
contraddizione. Da un lato, apprezzo molto il fatto che Lenin, mostrando
qui un saldo orientamento culturale, abbia sempre esplicitamente
rifiutato le teorie dicotomiche sulla contrapposizione di una scienza
borghese ad una scienza proletaria, di un’arte borghese e di un’arte
proletaria, ed infine di una letteratura borghese e di una letteratura
proletaria.
Con
sicura e sostanzialmente corretta intuizione, pur non avendo mai
studiato sistematicamente il problema, Lenin capisce l’essenziale, e
cioè che la scienza, l’arte e la letteratura non sono né borghesi né
proletarie, ma semplicemente sono o non sono. O meglio, è ovvio che la loro genesi psicologica e sociale ed anche il loro consumo sono fortemente influenzati dal classismo antagonistico, ma la loro validità
scientifica, artistica e letteraria produce alla fine un risultato
universale. E’ vero che Lenin non ha incertezze solo sulla scienza,
mentre per quel che riguarda l’arte e la letteratura a volte ha
oscillazioni. Ma in generale egli tiene fermo su questa corretta
impostazione.
Dall’altro
lato, e non posso nasconderlo, e desidero anzi “denunciarlo” con
particolare veemenza, il giusto atteggiamento “universalistico” che
Lenin riconosce alla letteratura, all’arte e alla scienza non
viene sciaguratamente riconosciuto alla filosofia, che Lenin considera
una forma di “ideologia”, ed a cui non è pertanto disposto a riconoscere
uno statuto “universalistico” concesso giustamente alla letteratura,
all’arte ed alla scienza. Su questo punto cruciale il mio dissenso con
Lenin è massimo ed incomponibile. Non si tratta però solo di una
questione di “gusto personale”. Penso invece che, l’identificazione di
fatto dello spazio filosofico con lo spazio ideologico, con la
successiva nefasta definizione del “materialismo dialettico” come
filosofia identitaria del partito comunista, eccetera, sia stata una
delle malattie inguaribili ed incurabili del movimento comunista
novecentesco nel frattempo defunto (1917-1991).
Occorre
partire dall’inizio, anche a costo di ripetermi e di essere noioso,
perché qui si gioca una partita culturale decisiva. Lo statuto
filosofico originario di Karl Marx era una variante dell’idealismo
classico tedesco, e più esattamente una libera reinterpretazione di temi
tratti da Fichte e da Hegel, mentre invece non era per nulla un
“materialismo” nel senso di Feuerbach o un “criticismo” nel senso di Kant.
Il fatto che fosse indubbiamente una filosofia dell’attività, della
prassi e della trasformazione non ne fa affatto un “materialismo”,
perchè tipico del materialismo è semmai il sopportare la situazione
presente (Epicuro, Leopardi, eccetera).
E’
semmai tipico dell’idealismo, che cerca di conciliare il “reale” con
“l’ideale”, spingere ad una filosofia della prassi. L’unico sensato
significato di “materialismo” che può essere dato alla filosofia di Marx
è quello di ateismo o se vogliamo di critica della “alienazione
religiosa”, ma il dire che al mondo c’è solo la “materia” come oggetto
di conoscenza è una tesi scientifica, non filosofica, e meno si
confondono i due piani e meglio è.
L’appartenenza
integrale di Marx (o almeno del Marx filosofo) alla tradizione
idealistica (Platone, Proclo, Fichte, Hegel, con tutte le differenze che
qui devo ovviamente trascurare) è stato riconosciuto in Italia da
almeno due notevoli filosofi, Giovanni Gentile e mezzo secolo dopo Lucio Colletti.
Il fatto che uno sia diventato fascista e l’altro berlusconiano non
cambia di un grammo l’esattezza della diagnosi, e non cambia nulla il
fatto che ciò che per Colletti è un male e la prova provata della
non-scientificità di Marx, per me invece è un bene e la prova provata
della discendenza di Marx dalla grande tradizione filosofica greca
(Platone e Aristotele) e tedesca (Fichte e Hegel). Inoltre chi scrive
non è né fascista né berlusconiano ma si considera un comunista critico
indipendente, e sarebbe lieto che questo gli fosse anche riconosciuto.
Ritorniamo a noi. Marx dopo un certo periodo non si occupa più di filosofia.
Sarebbero
bastate due settimane nel 1875 per scrivere cento pagine per chiarire
le sue posizioni, ma non lo ha fatto. Non è certamente perché “gli
mancava il tempo” (ho dovuto leggere anche questa idiozia), ma
probabilmente perché non lo riteneva più necessario. Egli credeva,
ritengo, che la sua filosofia fosse stata ormai interamente
“metabolizzata” nella sua ipotesi scientifica anticapitalistica, e non
ci fosse allora bisogno di “raddoppiare” l’oggetto già studiato e
scandagliato. Ma questa posizione, per cui la filosofia è inutile perché
ormai “assorbita” nella scienza, in filosofia ha un nome, e si chiama
positivismo. L’ultimo Marx, al di là di fatue frasi sul “rovesciare
Hegel dalla testa sui piedi”, frasi che non significano assolutamente
niente e vengono ripetute da tutti i dilettanti del mondo che le
ripetono solo perché non sanno neppure cosa significano, è un filosofo
positivista implicito.
Proseguiamo.
L’amico Engels, in questo sostanzialmente fedele a Marx, decise di
occuparsi sistematicamente di filosofia con un volenteroso dilettantismo
degno di miglior causa. Egli fu il “traghettatore” dal positivismo
implicito al positivismo esplicito. Come tutti i dilettanti, iniziò con
una confusione fra ontologia e gnoseologia, cioè fra teoria dell’essere e
teoria della conoscenza, e definì allora il materialismo e l’idealismo
(che sono posizioni ontologiche) in termini gnoseologici, cioè nei
termini della teoria gnoseologica del “riflesso” (Wiederspiegelung), per
cui il materialista era colui che “rifletteva”, o meglio rispecchiava,
la realtà, mentre l’idealista era quello che la costruiva
arbitrariamente. Il generoso dilettante metteva così le basi di una
confusione destinata a durare almeno un secolo.
E
siamo allora giunti finalmente al nostro Lenin. Lenin era convinto che
il “materialista” è colui che rispecchia scientificamente la realtà che
esiste indipendentemente da noi, e che per esempio non può rispecchiare
Dio, perché Dio non esiste, e solo la “materia” (metafora per indicare
sia la natura che la società) esiste. Egli si imbestialiva in modo
indecente, ed assai poco filosofico, nei confronti degli oppositori (in
proposito, tristi ed esilaranti sono soprattutto le memorie di
Valentinov, un intelligente empiriocriticista con cui Lenin ruppe una
vecchia amicizia per esclusive ragioni “filosofiche”), per un fatto non
difficile da segnalare. La parola chiave è “realtà indipendente dalla
nostra coscienza”. Lenin pensava infatti che la tesi fondamentale del
marxismo fosse appunto che il passaggio dal capitalismo al socialismo
fosse qualcosa di indipendente dalla nostra coscienza, e cioè
necessaria, oggettiva, scientifica, simile alle leggi delle scienze
naturali (naturmässig). Questa è la ragione per cui si
imbestialiva tanto con gli “idealisti”, e vedeva il diavolo “idealista”
in tutto, perfino nella fisica di Mach e Poincarè.
Si
tratta di una sciocchezza. Anche le aquile a volte volano più in basso
delle galline. Lenin era un’aquila, ma in filosofia volava più in basso
delle galline. Il passaggio dal capitalismo al socialismo, ammesso che
in futuro possa compiersi (e lasciando comunque in sospeso per ragioni
di spazio il problema di che cosa significhi), non è assolutamente qualcosa di oggettivo, necessario, scientifico e conforme alle leggi naturali (naturmässig).
Il carattere omogeneo delle leggi della natura e delle leggi sociali è
una stupidaggine condivisa dai positivisti e dall’idealista meno
intelligente, e cioè da Schelling, e poi dai suoi seguaci
utopico-messianici-confusionari, come il pur simpatico Ernst Bloch. Il
pensiero non può allora “rispecchiare” questo processo, dal momento che
questo processo senza intervento umano cosciente semplicemente non esiste.
Parlare
di cose che non esistono ha un nome, e si chiama religione. La
concezione del passaggio necessario e “rispecchiato” dal pensiero dal
capitalismo al socialismo è una religione pura. Più esattamente, è una
pseudo-scienza ed una quasi-religione. Le religioni normali sono
tuttavia molto migliori (e prego il lettore di interpretare
letteralmente), perché sono immensamente più comprensive della totalità
dell’esperienza umana, prendono in considerazione anche l’amore
coniugale, la malattia, la morte, eccetera. Qui Lenin prende un abbaglio
grande come la catena degli Urali.
Questo
errore se ne porta dietro anche un altro, quello imperdonabile della
riduzione della filosofia a ideologia. Ora, è chiaro che qualcosa
chiamato “ideologia” esiste, e non solo esiste ma non è neppure
eliminabile, a meno di prospettarsi una impossibile “trasparenza” della
capacità umana di conoscenza. Solo Dio, infatti, se esistesse, sarebbe
del tutto non-ideologico (cosa per altro già genialmente anticipata da
Aristotele con la sua teoria dell’Atto Puro e del Pensiero del
Pensiero). Nello stesso tempo, però, la riduzione della filosofia ad
ideologia, più esattamente dello spazio filosofico pubblico a spazio
ideologico di partito, ha conseguenze fatali e catastrofiche, ed è
questa la ragione della mia insistenza. Se infatti pensassi che la cosa
non è poi così decisiva, non insisterei tanto.
Indipendentemente
dalla questione della riduzione indebita della filosofia ad ideologia,
la “filosofia” di Lenin era comunque cattiva. Il discorso sarebbe lungo e
specialistico, ma possiamo compendiarlo qui in tre punti.
Primo,
di tutte le filosofie possibili entro le quali può essere pensata
l’espressività del materialismo storico di Marx, il cosiddetto
“materialismo dialettico” è indubbiamente la peggiore. Ed è la peggiore
per una ragione semplicissima. Chi prende la via della omogeneizzazione
categoriale, logica ed ontologica, delle cosiddette “leggi” della natura
e della società, commette un errore fatale, perché fa pensare che la
società si muova o si possa muovere secondo “regolarità” estratte dal
modello delle scienze della natura moderne. Ora, tutto questo è falso, e
non è falso solo in parte, ma è completamente falso. Se proprio si
vuole una filosofia adatta al materialismo storico, si elabori allora
una ontologia dell’essere sociale integrata da una critica delle
ideologie, e soprattutto delle ideologie grandi-narrative.
Secondo,
il prendersela tanto con Dio e con la religione, come fa Lenin, è del
tutto fuori tempo e fuori misura. Sono le società precapitalistiche che
utilizzano la religione come ideologia di legittimazione delle
disuguaglianze sociali (che si pretende volute da Dio), mentre nel
capitalismo tutto questo tende a sparire. Se osserviamo come stanno le
cose oggi, vediamo che persino un’organizzazione corrotta, integrata e
burocratizzata come la chiesa cattolica romana
è mille volte meglio del laicismo alla Pannella-Bonino, in quanto non è
disposta a mercificare integralmente la “vita” ed a ridurre la stessa
“natura” ad opinione sociale elettiva (come fa il femminismo
anglosassone detto di “genere”). In base alla filosofia di Lenin tutto
questo è letteralmente inconcepibile, e questo significa che la
filosofia di Lenin non è più una bussola adeguata per muoversi nella
post-modernità.
Terzo,
ed ultimo, indubbiamente Lenin ha di buono che cerca di capire Hegel ed
ammette addirittura che un idealismo intelligente è meglio di un
materialismo stupido. Ma la sua interpretazione di Hegel è del tutto
fuori bersaglio. Per Lenin Hegel è una sorta di seguace di Eraclito, per
cui tutto si muove, tutto scorre e niente rimane uguale perché si
rovescia nel suo contrario. Ma Hegel non è Eraclito. Per Hegel la
filosofia si occupa di ciò che è, ed è eternamente. In questo Essere,
evidentemente, esiste una dialettica fra Permanenza e Mutamento. Ma chi
pensa che la dialettica sia solo mutamento fa diventare Hegel un
nichilista, e questo è sbagliato.
Il
discorso sarebbe lungo, e non è questa la sede per condurlo
analiticamente. Ciò che conta è ribadire il punto essenziale: la
filosofia è come la scienza, l’arte e la letteratura. Indubbiamente, la
sua genesi è storicamente determinata anche da una struttura classista
della società, ma non può essere ridotta ad essa, come invece è il caso
della ideologia. Il corollario storico e giuridico di questa
comprensione comporta, ovviamente, la sua integrale libertà di pratica,
di dialogo e di esecuzione.
8. Brevi considerazioni conclusive su Lenin
A
Lenin bisogna perdonare molto, perché senza il suo decisivo intervento
la rivoluzione del 1917 ce la saremmo sognata. Chi pensa che il 1917 sia
stato una sorta di miracoloso prodotto delle “masse in movimento” ha
completamente perduto il senno. Le masse in movimento hanno come
caratteristica quella di produrre una situazione caotica destinata ad
implodere ed a crollare su se stessa senza l’intervento di una volontà
politica strutturata in azione politica coerente. E qui da un lato
abbiamo i confusionari, e dall’altro Lenin, espressione della vittoria
eterna della forma sul caos.
La teoria e la pratica di Lenin contenevano allora “in potenza” Stalin e lo stalinismo?
Ecco un problema non solo insolubile, ma addirittura insensato, in
quanto la storia non è un gomitolo che si srotola partendo da un
rocchetto, ma un insieme di atti specifici sempre nuovi, e sempre
indeducibili dal cosiddetto anello iniziale della catena. Dopo la morte
di Lenin (1924), e fino all’implosione dissolutiva dell’Urss (1991), si
ebbero migliaia di atti politici “originali” che non potevano
assolutamente dedursi meccanicamente da un “ismo originario” (magari
diabolico, vedi Furet, Revelli, ed altri confusionari alla moda),
chiamato “leninismo”.
Essendo
il presunto “leninismo” non un corpo dottrinario formalizzato, ma un
insieme di scelte ispirate alla saggezza pratica del caso per caso
(boulesis), dopo il 1924 avremmo potuto avere sia una pianificazione
imperativa sia una pianificazione orientativa, sia un’economia
statalizzata sia un’economia mista (NEP prolungata), eccetera. Nessuna
delle scelte fatte poi da Stalin, Trotzky, Bucharin, Krusciov, Breznev, Gorbaciov, eccetera, possono essere dedotte da un corpus
chiamato “leninismo”. Ognuno è responsabile integralmente solo per le
scelte che fa, o che contribuisce a fare avallandole. Si può sempre
decidere di bruciare gli eretici sul rogo, ma Gesù di Nazareth non
c’entra. Ed è particolarmente vergognoso che gente che ha alle spalle un
passato di roghi di eretici, dica poi che nel “leninismo” era già
compreso in potenza lo stalinismo. Vergogna, e nello stesso tempo,
ridicolo.
A
proposito dell’attività storica e politica di Stalin (1924-1953) si può
avere un’ampia gamma di posizioni, che vanno dall’incondizionatamente
negativo all’incondizionatamente positivo. La mia personale posizione
che ho maturato in proposito è fortemente negativa, anche se non è
motivata dallo stesso apparato argomentativo dei sostenitori della
teoria del “totalitarimo”, che in genere retrodatano a Lenin il loro
orrore metafisico per Stalin. Certo, conosco abbastanza bene tutte le
motivazioni (in massima parte di tipo storicistico, emergenzialistico e
congiunturalistico) dei difensori di Stalin, e sarebbe strano se non le
conoscessi, dal momento che sono ormai decenni che mi capita di essere
invischiato in discussioni su Stalin, in cui per forza di cose il
repertorio è ormai fisso, ed i dialoganti potrebbero limitarsi ad alzare
cartelli numerati che segnalano argomentazioni collaudate (ad esempio
18, accerchiamento imperialistico, e 23, degenerazione burocratica,
eccetera). La sola opinione stabile e sicura che ho maturato in
proposito è che la cosa migliore è parlare pro e contro Stalin iuxta propria principia,
cioè limitandosi all’arco storico dell’attività di Stalin (1924-1953), e
lasciar invece completamente perdere non solo Marx, ma anche Lenin.
Questo vale ovviamente per grandi come Stalin, ed anche per piccoli come Togliatti.
Esiste, naturalmente, un bilancio storico, ed esiste anche un bilancio
teorico. Gli storicisti incalliti hanno difficoltà enormi a contare fino
a due, e generalmente pensano che un bilancio storico sia anche
automaticamente di per se un bilancio teorico. Non è così. Ad esempio,
la questione teorica della natura sociale dell’Unione
Sovietica e della Cina (a meno che la si consideri risolta dalle
dichiarazioni ufficiali emesse dai loro governi, metodo che Marx non
avrebbe certamente approvato) non è la stessa cosa della questione storica dell’adeguata comprensione dei grandi eventi via via succedutisi.
Lenin
era capace sia di fare bilanci teorici sia di fare bilanci storici.
Un’arte, oggi, largamente perduta. Un’arte che può però forse essere in
parte recuperata, se eviteremo facili bilanci tetici o anti-tetici
(leninismo “in positivo” o critica del leninismo), e ci abitueremo per
un intero periodo storico a bilanci “aporetici”, come quello che ho
cercato di proporvi qui.