L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 1 marzo 2014

I droni sono strumenti per omicidi di stato usati abitualmente dagli Stati Uniti

NoMuos, in migliaia contro le antenne

Dal Pentagono: «Base operativa nel 2016»

Nonostante il divieto ricevuto dalla questura di Caltanissetta, trasformatosi poi in limitazioni sul percorso del corteo, i comitati No Muos sono in marcia in Contrada Ulmo nella riserva della Sughereta, per protestare contro il completamento delle tre parabole dell’impianto satellitare Usa. Intanto dal dipartimento della Difesa degli Stati Uniti fanno sapere che la base siciliana sarà operativa tra due anni e che «l’intera struttura, ovvero tutto e quattro le basi, si metterà in moto nel 2017». In aggiornamento
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I divieti degli scorsi giorni da parte della Questura di Caltanissetta non hanno fermato i comitati che si battono contro il completamento del sistema militare di antenne satellitari statunitense. A Niscemi è partito da contrada Apa, lungo la strada che porta al Cancello 1, il corteo dei NoMuos. La zona è circondata dalle forze dell’ordine, ma gli attivisti procedono verso la base, intonando cori contro il Muos e con in testa alla folla, che conterebbe circa 4mila persone, uno striscione: «Il nostro futuro è nella nostra terra: smilitarizziamo la Sughereta». Intanto, dagli Usa arrivano le dichiarazioni di Rachel Ellehuus, direttore per le politiche dell’Europa del dipartimento della Difesa statunitense, che annuncia: «Entro novembre di quest’anno saranno ultimati i test e l’intera struttura, ovvero tutto e quattro le basi, si metterà in moto nel 2017».
Secondo la tabella di marcia del Pentagono la base siciliana sarà pienamente operativa nel 2016. Mentre in Sicilia continuano le proteste, dagli Usa fanno sapere che «si apriranno grandi opportunità per le comunità locali. Vogliamo rassicurare i siciliani, sono pronti investimenti significativi», spiega Ellehuus.
Non commentano per il momento gli attivisti: «Adesso stiamo pensando al corteo e a come può andare, visti i problemi degli ultimi giorni», dichiara Fabio D’Alessandro del Comitato NoMuos.
Ore 18.16: Il gruppo che ha proseguito oltre il cancello 1 è arrivato sulla collina da dove si riescono a vedere le antenne.
Ore 18.03: Una parte dei manifestanti si è fermata davanti al cancello 1. Tra loro il legale Goffredo D’Antona, che afferma:«Il corteo autorizzato si può considerare concluso». Assieme ad altri ha soccorso, in seguito allo scontro con la polizia, un ragazzo ferito. Inoltre, una donna è stata portata via da un’autoambulanza dopo essere stata colpita da una pietra.
1654419_712463745488014_718216257_nOre 17.50: Il corteo sfonda il cordone di polizia. Continua la marcia verso il cancello 4 della base americana. «Ci avviamo verso il Muos in corteo non autorizzato», dicono gli attivisti.
Ore 17.06: «Vogliamo arrivare dentro la base», annunciano gli attivisti. Il lungo serpentone che forma il corteo ha superato il luogo del presidio permanente No Muos. Non si riesce a stabilire con certezza il numero dei partecipanti che lo formano. Circa 1200 sono i partecipanti arrivati con gli autobus, secondo la stima di un poliziotto presente alla manifestazione, ma dagli uffici della Questura non rispondono. «4000 in corteo, 5000 in corteo, migliaia in corteo … Oggi dei numeri non ci importa, oggi abbiamo dimostrato che la nostra lotta non si è mai fermata e non si fermerà! #nomuos ora sempre e ovunque!», scrivono sulla pagina Facebook NoMuos, i membri del comitato di Roma.
Ore 16.05: Il corteo comincia a muoversi lungo la strada che porta al cancello 1 della base militare.
[Foto di No Muos]

L'Italia non ha la Sovranità Territoriale

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Muos, il silenzio è d’oro: ecco perché i giornali tacciono

di Giorgio Cattaneo


Il silenzio è d’oro: meno si parla di missili, droni e Muos, più l’imprenditoria finanziaria italiana – collegata alla grande stampa – farà affari col Pentagono. Ecco perché «la Sicilia è diventata una capitale mondiale dei droni, ma questo non è assolutamente argomento all’ordine del giorno a livello politico e mediatico nel nostro paese», accusa Antonio Mazzeo, da sempre in prima linea contro gli abusi dell’industria degli armamenti. Il nuovo sistema bellico targato Usa di stanza in Italia è un progetto che va ben oltre la semplice trasmissione di informazioni: oltre agli effetti devastanti sul territorio, l’ambiente e la salute delle popolazioni, la stazione Muos sarà un punto di riferimento fondamentale per i droni, sempre più usati in Medio Oriente per la “lotta al terrorismo” e nel nel cuore del Mediterraneo per l’individuazione e il “respingimento” dei barconi coi migranti. Tutto questo nel silenzio quasi totale dei media, nonostante le proteste No-Muos per l’installazione definitiva delle tre enormi parabole a Niscemi.

L’ultimo libro di Mazzeo, “Il MUOStro di Niscemi. Per le guerre globali del XXI secolo”, offre un’analisi meticolosa e dettagliata su questo sistema di controllo e comunicazioni satellitare della Marina degli Stati Uniti. Il Muos, dice Mazzeo a Stefano Nanni e Anna Toro di “Osservatorio Iraq” in un’intervista ripresa da “Micromega”, sarà «uno strumento di guerra che a livello mondiale contribuirà a modificare radicalmente la gestione dei conflitti». Le tre antenne montate a Niscemi fanno parte dell’insieme di parabole di uno dei quattro terminali terrestri previsti a livello planetario. Il Mobile User Objective System installato in Sicilia sarà collegato con quelli dislocati alle Hawaii, in Virginia e in Australia, attraverso 5 satelliti orbitanti a 15.000 chilometri dalla Terra. L’architettura del sistema sarà pronta nel 2016, quando saranno mandati in orbita gli ultimi 3 satelliti. Compito del Muos: accelerare, anche di 10 volte, la velocità di invio di informazioni e comandi a tutti i dispositivi militari Usa nel mondo. Compresi i droni, che il ormai Pentagono impiega “a sciami” nella sua strategia di attacco: e Niscemi, a due passi da Sigonella, consentirà di “coprire” Africa, Mediterraneo e Medio Oriente.

Non secondario, dice Mazzeo, il ruolo del Muos per il controllo militare dei flussi di migranti, in linea con la missione dell’agenzia europea Frontex. La stessa operazione Mare Nostrum, lanciata dal governo Letta e presentata come un’operazione umanitaria per evitare che si ripetano stragi come quella di Lampedusa del 3 ottobre 2013, in realtà «sta diventando un laboratorio sperimentale per l’uso dei droni: non solo in una funzione di vigilanza e monitoraggio ma anche di vera e propria guerra ai migranti». Risale a fine novembre un accordo tra Italia e Libia per consentire ai droni Predator (di stanza ad Amendola in Puglia ma presto trasferiti a Sigonella e Trapani) di sorvegliare lo spazio aereo libico fino ai confini col Ciad e col Sudan. «Non solo per vigilare e informare le unità navali, ma di fatto anche per individuare eventuali flussi di migranti che provengono dall’Africa Sub-Sahariana, così da avvertire direttamente le autorità libiche: in questo modo, grazie all’operazione Mare Nostrum, si rende possibile dispiegare le operazioni di contenimento e di respingimento ben prima del Mediterraneo».

La Sicilia ha protestato con tutte le sue forze per l’impatto ambientale dell’installazione militare: le antenne del Muos sorgono all’interno della “Sughereta”, una delle riserve di sughero più antiche d’Europa, e lo sbancamento è avvenuto in violazione di tutte le leggi. Senza contare l’impatto sulla salute delle onde elettromagnetiche sprigionate dalle 3 maxi-antenne e dalle 46 antenne secondarie. Il governo ha demandato all’Istituto Superiore di Sanità l’ultima parola sul pericolo dell’elettromagnetismo, mentre per la decisione strategica su un impianto-mostro come il Muos il Parlamento è stato completamente scavalcato. Quasi zero anche le ricadute occupazionali: se su Vicenza piovvero 260 milioni di investimento per l’allargamento della base Dal Molin, a Niscemi ci si è limitati a meno di 15 milioni di dollari, cioè «neanche le briciole di questo enorme progetto», che è (chiavi in mano) di Lockheed Martin, «il primo complesso militare industriale a livello mondiale». Un progetto blindato dal silenzio, se non fosse per la tenace opposizione popolare del movimento No-Muos. Secondo Mazzeo, c’è stata «una enorme sottovalutazione della problematicità», come se si trattasse solo di inquinamento elettromagnetico, come ha finto di credere il presidente siciliano Rosario Crocetta.

Disinformazione interessata, accusa Mazzeo: «Bisogna guardare proprio agli intrecci del complesso militare industriale e finanziario italiano con quello statunitense, da cui ovviamente dipendono buona parte dei grandi organi della stampa cartacea o radiotelevisiva: qui c’è stata una scelta – in malafede – di cercare di non parlarne, perché questo avrebbe potuto mettere profondamente in discussione i grandi interessi, quelli che portano l’Italia a dover accettare strumenti di morte, Muos, droni, il raddoppio della base a Vicenza, gli F-35 e così via». Tutte operazioni «in cui l’Italia non ci guadagna niente ma di cui al contrario si assume gli oneri, il carico sociale, economico, finanziario e, nel caso del Muos, anche ambientale». L’Italia accetta quello che altri alleati Usa rifiutano: «C’è una logica di scambio tra il capitale finanziario italiano e quello statunitense: io ti consento di trasformare la Sicilia in una roccaforte delle operazioni più sporche a livello internazionale (come le armi chimiche siriane approdate a Gioia Tauro) e tu in cambio mi consenti di diventare un partner credibile per il Pentagono».

L’apparato militare Usa, infatti, è «la grande mucca da mungere a livello mondiale, in una guerra globale permanente dove proprio il Pentagono sarà certamente il principale finanziatore dei conflitti e quindi dell’acquisto di armi a livello planetario». Non è un caso che nell’ultima decade Finmeccanica si sia affermata come l’ottavo complesso a livello mondiale per giro di fatturato sulle armi. Ed ecco perché la grande stampa – collegata al capitale finanziario – evita di dire la verità sul Muos e sugli stessi droni, che invece negli Stati Uniti sono ormai un problema politico: il Congresso è spaccato e le stesse Nazioni Unite hanno dato vita a un comitato d’inchiesta sul loro uso a livello internazionale. La Sicilia è diventata «la capitale mondiale dei droni», con un’enorme concentrazione alla base di Sigonella, ma per in Italia non se ne parla. Un copione già visto, per esempio in Sardegna. «Il Muos è la punta dell’iceberg», conclude Mazzeo. Che confida però nella capacità di mobilitazione civile della protesta: le cose potrebbero cambiare, dice, se riuscissimo a spiegare agli insegnanti che si taglia l’università per finanziare la ricerca missilistica. «La crisi è strutturale perché c’è una guerra che va avanti eternamente e che noi paghiamo giorno per giorno».


Ucraina la Nato si astenga a fare bombardamenti umanitari il mondo non ne ha bisogno

Considerazioni sugli sviluppi della situazione ucraina

 di Eugenio Orso


Ora che il blitz atlantista supportato dalla falsa Europa dell’unione si è consumato, destabilizzando i “Balcani profondi” in un’accelerazione del confronto con la Federazione Russa, si possono fare alcune considerazioni sui futuri sviluppi in quel “quadrante geostrategico”.
Le notizie di ieri e di oggi mostrano una Russia molto prudente e responsabile, che cerca di riprendere l’iniziativa senza alimentare venti di guerra. Le manovre militari annunciate da Putin, con cento e cinquanta mila uomini impiegati ai confini dell’Ucraina, altro non sono se non un monito rivolto all’aggressore occidentale, che gioca sempre più sporco, e ai suoi fantocci ucraini. In Crimea, dopo la minaccia della minoranza tatara pro Kiev, milizie locali di autodifesa hanno occupato, nel capoluogo Sinferopoli, i palazzi del governo e del parlamento locali, prendendo il controllo, a stretto giro di posta, anche degli aeroporti di Belbek (nei pressi di Sebastopoli) e di Sinferopoli, per bloccare sulle piste il possibile afflusso di mercenari atlantisti pro Kiev. Come ci si poteva aspettare, il nuovo ministro degli interni ucraino, Avakov, ha accusato Mosca d’invasione armata, deformando la realtà.
A questo punto, potrebbe esserci la possibilità che la crisi ucraina, ancora in pieno corso, si risolva non con una sanguinosissima guerra civile, ma con la concessione di un’ampia autonomia da Kiev – quasi l’indipendenza – alla Crimea russofona e a Sebastopoli, base navale della flotta russa nel Mar Nero. Il parlamento di Crimea, dopo aver “licenziato” il governo della repubblica autonoma, ha indetto per il 25 di maggio un referendum proprio su questo tema. In tal caso, si scongiurerebbe lo spettro di un’altra Jugoslavia, e forse lo scoppio di un conflitto ancor più esteso in Europa. Naturalmente ci dovrebbe essere un accordo, magari stipulato sottobanco, fra gli americani da una parte e la Federazione Russa dall’altra, con o senza qualche coinvolgimento dell’unione europea. Gli usa sono la nato, manovrano l’onu e l’unione europea può andare affanculo, come ha chiarito in una telefonata con l’ambasciatore usa in Ucraina, Pyatt, la sottosegretaria del dipartimento di stato americano, Victoria Nulan. Ciò comporterebbe, di riflesso, un accordo stabile fra i fantocci filo-occidentali di Kiev e i legittimi rappresentanti del popolo di Crimea.
L’ipotesi precedente allontana la prospettiva di una guerra civile in Ucraina, dagli esiti imprevedibili per l’Europa e il mondo intero. Ci sono, però, altre ipotesi che si possono “ragionevolmente” fare.
La seconda ipotesi è che in seguito ad una secessione della Crimea, confortata dalla presenza militare russa a Sebastopoli, altri Oblast orientali e meridionali, tipicamente russofoni, seguano la stessa strada. Pensiamo al Donbass, o bacino del Donec, pensiamo all’Oblast di Odessa. Con la Crimea e Sebastopoli, gli Oblast di Doneck e di Luhansk, confinanti con la Russia, e l’Oblast di Odessa, confinante con la Moldavia sono sicuramente “papabili” per la secessione dall’Ucraina. In tal caso, il territorio che manterrebbe un forte legame con la Federazione Russa si amplierebbe, e l’Ucraina mutilata perderebbe alcune delle sue regioni più ricche, o meno povere. La popolazione dei predetti territori, in buona parte russa o russofona, è di circa dodici milioni, cioè poco più di un quarto dell’intera popolazione ucraina. Ma potrebbe non finire qui, perché il sud russofono comprende anche l’Oblast di Cherson, quello di Zaporižžja e quello di Mykolaïv, per oltre quattro milioni di abitanti. Questo percorso, che potrebbe essere letteralmente “di guerra”, pare scontato poiché i russofoni vogliono la vicinanza con Mosca e, intelligentemente, l’aiuto concreto della Federazione Russa, in grado di fornire energia a prezzo scontato e prestiti (fino a 15 miliardi di dollari a tasso agevolato, offerti da Putin all’intera Ucraina) per far fronte alle esigenze della popolazione. Gli “occidentali” ucraini, invece, odiatori di Mosca e nazionalisti fanatizzati, si mettono nelle mani del vampiro, ossia del fondo monetario internazionale, che concede prestiti solo a fronte dei famigerati “aggiustamenti strutturali” per “l’apertura al mercato”, che implicano nuova disoccupazione, tagli allo stato sociale, ulteriore impoverimento del paese. Difficile che la secessione di tanti territori ucraini avvenga in modo totalmente pacifico, non producendo scontri, faide, morti, combattimenti fra gruppi secessionisti filo-russi e gruppi armati filo-atlantici e nazionalisti ucraini. La situazione potrebbe sfuggire di mano sia ai tagliagole americani-nato, sia ai più ragionevoli russi.
La terza ipotesi, che integra la seconda peggiorandola, è più terrificante, perché alla secessione dei territori ucraini sud-orientali, a maggioranza russofona, potrebbe aggiungersi una sanguinosa lotta fra ucraini e russofoni per il controllo di Oblast misti. Come ad esempio quello di Dnipropetrovs’k, che ha circa tre milioni e mezzo di abitanti, con l’omonima città capoluogo di ben un milione di abitanti. Si tratterebbe di una guerra civile in salsa libanese, perché il capoluogo dell’Oblast ha grossomodo la popolazione di Beirut. E’ chiaro che aumenterebbero i rischi anzitutto di una cronicizzazione della guerra civile, con maggiori probabilità che il conflitto superi i confini del paese. Ma non finisce qui, perché si possono formulare ulteriori ipotesi, in caso di conflitto interno all’Ucraina. Odessa è russofona e confina con la Moldavia, repubblica ex sovietica indipendente dall’agosto del 1991, con oltre tre milioni e mezzo di abitanti e dominata dai rumeni. Nel 1992 c’è stata la guerra innescata dalla secessione della Transnistria da Chişinău, fatta finire, poi, dai russi. La Transnistria, popolata da russi e da popolazioni ostili ai rumeni, è una repubblica di fatto indipendente non riconosciuta dall’onu. Una situazione di forte instabilità in Ucraina, la secessione degli Oblast russofoni come Odessa e cenni di guerra civile, potrebbero drammaticamente riaprire la questione della Transnistria, mai definitivamente risolta. In tal caso, si affronterebbero il nazionalismo ucraino, il nazionalismo russo e quello rumeno.
Come si nota, i possibili sviluppi della situazione ucraina potranno riservare nel prossimo futuro molte, sgradevoli soprese. Un eventuale conflitto intestino, soprattutto se prolungato, difficilmente esaurirà i suoi effetti all’interno di quel paese.

venerdì 28 febbraio 2014

tutti i socialisti europei, compresi i servi demagoghi del Pd hanno paura di non poter continuare a spolpare il popolo italiano

L'apocalittico Martin Schulz, il Dollaro risorto e l'Euro da liquidare
di Domenico Moro
Sull’inserto domenicale del Sole24ore del 16 febbraio è apparso un articolo di Martin Schultz sull’euro e sull’Europa, tratto da un suo libro recentemente tradotto in Italia. Schultz è uno dei massimi dirigenti socialdemocratici tedeschi ed è stato presidente del gruppo al Parlamento europeo dell’Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici, emanazione del Partito socialista europeo (Pse). Alle prossime elezioni europee sarà il candidato presidente della Commissione europea del Pse, al quale il Pd di Renzi ha chiesto di aderire a pieno titolo.

Secondo quanto dice Schultz nell’articolo in questione, siamo arrivati ad un bivio: o si prosegue con l’integrazione europea o si imbocca la strada della rinazionalizzazione ovvero dell’abbandono dell’Unione Europea. Schultz vede quest’ultima prospettiva come fumo negli occhi. In primo luogo, si tratterebbe di una prospettiva antistorica, in quanto “Nessuno Stato si può sottrarre alla storia mondiale”.
Per storia mondiale Schultz intende la globalizzazione ed i suoi processi. In secondo luogo, il socialdemocratico tedesco ritiene che i Paesi fuori dalla Ue e dall’euro non se la passino meglio di quelli che stanno all’interno.
L’esempio su cui si sofferma è quello della Gran Bretagna, che “Pur non avendo introdotto l’euro né approvato il Fiscal compact, versa in difficoltà più gravi di quelle della maggior parte degli stati Ue. Dal 2008 è tartassata dalla recessione, dall’eccessivo indebitamento e da alti tassi di disoccupazione.”

La prospettiva della fine della Ue e dell’abbandono dell’euro, infine, avrebbe per Schultz esiti apocalittici:
“Se l’Ue fallisse: l’euro si dissolverebbe, rendendo il nostro continente sempre più dipendente dal dollaro americano e dal renmimbi cinese e portando quindi la nostra economia al baratro. All’interno dell’Europa tornerebbero i fastidiosi controlli di dogana e di frontiere (…) che si tradurrebbero in meno scambi e meno crescita. (…) L’Europa diventerebbe marginale nel commercio e nella politica internazionale (…). L’Europa si congederebbe dal consesso delle potenze mondiali e in pochi decenni perderebbe il suo benessere e la sua sicurezza”.
La ragione di questi toni quasi terroristici nasce dal tentativo di porre un freno alla sfiducia nelle politiche e nelle istituzioni europee che sta dilagando in tutto il continente e che, secondo le previsioni, rischia di tradursi in un successo elettorale dei partiti cosiddetti euroscettici. Il punto, però, è che la prospettiva da cui Schultz guarda è rovesciata rispetto alla realtà effettiva. Non è l’euro che crollerà se salterà l’Europa. È esattamente il contrario: è l’Europa che sta collassando a causa dell’euro. Schultz confonde la questione della partecipazione all’Unione europea (Ue) con quella della partecipazione all’euro, come se fossero la stessa cosa o come se l’eventuale fuoriuscita dall’euro comportasse l’uscita anche dalla Ue. Si tratta, invece di due questioni distinte: si può far parte della Unione europea senza essere obbligati a far parte della Unione economica e monetaria (Uem), come nel caso della Gran Bretagna.

Ora, il problema è che l’euro sta “eurizzando” anche i paesi che non l’hanno adottato. Ciò vuol dire che anche gli altri Paesi Ue, tranne la Gran Bretagna e la Repubblica Ceca, sono stati convinti ad aderire al Fiscal compact. Il Fiscal compact impone di non superare un deficit pubblico pari al 3% del Pil e obbliga a raggiungere il pareggio di bilancio. Inoltre, a partire dal 2016 e nell’arco di vent’anni, ogni Stato aderente dovrà ridurre il proprio debito a non più del 60 per cento del Pil, cosa che per l’Italia si tradurrà in un taglio aggiuntivo di oltre 50 miliardi all’anno della spesa pubblica (sanità, pensioni, ecc.). A questi vincoli, per i paesi della Uem, si deve aggiungere l’alienazione della propria sovranità monetaria alla Banca centrale europea, che è un’autorità indipendente e – a differenza di quelle di Usa, Gran Bretagna e Giappone - non interviene né per stimolare l’economia né come prestatore di ultima istanza. La Bce non può acquistare illimitatamente titoli di stato sul mercato primario. Cosa che, fra l’altro, consentirebbe di calmierare i tassi d’interesse sul debito pubblico. Questi vincoli avrebbero avuto effetti negativi sull’economia anche in una fase normale. Ma pensare di praticare il pareggio di bilancio e applicare l’austerity nel corso della crisi più grave dal ’29 appare pazzesco da qualunque punto di vista della teoria economica, come la realtà si è incaricata di dimostrare.

Se guardiamo le statistiche fornite dall’Ocse osserviamo che Usa e Gran Bretagna, pur afflitti da una forte deindustrializzazione, e persino il Giappone, che viene da un ventennio di stagnazione, si sono comportati durante la crisi meglio dell’eurozona, avendo applicato politiche economiche opposte a quelle europee. Nel periodo tra il secondo trimestre del 2011 ed il terzo trimestre 2013, ovvero durante il periodo di affermazione dell’austerity, l’area euro è calata mediamente del -0,1 per cento a trimestre, mentre gli Usa, sono cresciuti del +0,6, il Giappone del +0,4 e la Gran Bretagna del +0,3 per cento1. Tra i quaranta Paesi considerati dall’Ocse, i peggiori risultati sono quelli dei Paesi dell’Uem. In fondo alla lista, appena sopra i soliti reprobi come il Portogallo e l’Italia (-0,5), e la Spagna (-0,3), fanno misera mostra di sé anche presunti campioni dell’economia come i Paesi Bassi (-0,3) e la Finlandia -(0,2), mentre Francia e Belgio sono inchiodati allo 0,0 per cento. Crescono, ma comunque più modestamente di Usa, Giappone e Gran Bretagna, solamente Germania (+0,2), Irlanda (+0,2) e Austria (+0,1).

Se, poi, vogliamo rimanere al confronto con la Gran Bretagna, tanto caro a Schultz, va aggiunto che, mentre i britannici nell’ottobre 2013 avevano (ultimo dato comparabile dell’Ocse) il 7,3 per cento di disoccupati, l’area euro raggiungeva il10,8 per cento, ed in particolare l’Italia arriva al 12,5 e la Spagna al 26,3 per cento2. Inoltre, il debito pubblico delle due aree economiche risulta identico. Nel 2013 quello della Gran Bretagna era uguale al 107 per cento sul Pil e quello dell’area euro ammontava al 106,4 per cento3. Contrariamente a quello che dice Schultz, la Gran Bretagna è cresciuta più di tutti i Paesi della Uem e sul piano del debito pubblico e della disoccupazione sta messa meglio della stragrande maggioranza degli Stati che la compongono.

La realtà dei fatti, contrariamente a quello che pretende Schultz, ci dice che non è con la fine dell’euro che l’Europa diventerà marginale a livello internazionale e perderà benessere e sicurezza. È oggi, con l’euro, che sta divenendo marginale e perdendo benessere. L’introduzione dell’euro non sembra essere servita a fronteggiare i rischi della globalizzazione: la Uem tra 2007 e 2012 ha visto la sua quota delle esportazioni mondiali crollare dal 30,2 al 24,2 per cento4. Ma non basta. Quello che Schultz non rivela è che, a guadagnare dall’euro, sono le imprese e le banche del suo Paese. Vendendo merci in euro, svalutato rispetto al marco, la Germania ha accumulato il maggiore surplus mondiale delle partite correnti5, mentre le sue banche e imprese prendono a prestito denaro a tassi molto più bassi di quelli delle loro sorelle-nemiche italiane, spagnole, francesi, ecc. Il risultato è che le condizioni economiche degli Stati dell’Europa non sono mai state così divergenti come lo sono oggi. Tuttavia, le cause della divergenza non vanno attribuite esclusivamente all’egemonia tedesca. Infatti, la Germania non avrebbe potuto affermare le politiche di austerity in assenza del collaborazionismo delle élite capitalistiche degli altri Paesi, che, per caratteristiche e interessi economici e sociali, sono sempre meno nazionali e sempre più transnazionali. La maggior parte dei Paesi europei sono sempre più poveri, ma al loro interno il controllo dell’economia è sempre più centralizzato e le loro élite sono sempre più ricche e potenti.

Ugualmente campata per aria è la pretesa che l’euro garantisca all’Europa l’indipendenza da dollaro e renmimbi. L’euro ha fallito anche l’obiettivo, semmai lo avesse avuto, di porsi in alternativa al dollaro come valuta di riferimento internazionale. A dimostrarlo è la decisione di rendere permanenti gli swap in dollari che sono stati introdotti durante la crisi finanziaria dalla Fed, la banca centrale Usa. Secondo questi accordi, la Fed si impegna a fornire dollari alla Bce, e alle banche centrali di Canada, Gran Bretagna, Svizzera e Giappone. In questo modo, queste banche centrali potranno fornire dollari alle banche dei loro Paesi in situazioni d’emergenza, visto che le banche tendono ad indebitarsi in dollari. Ma, soprattutto, è la riaffermazione del sostegno degli Stati occidentali all’egemonia mondiale del dollaro e della Fed. Infatti, considerando anche che il Congresso Usa si è rifiutato di aumentare le quote del Fondo monetario internazionale, cosa che avrebbe permesso ai Paesi emergenti come la Cina, il Brasile e la Russia, di contare di più, gli Usa sono ora l’unico prestatore di ultima istanza mondiale rimasto.

Schultz può mettersi l’animo in pace, la gestione della crisi in chiave di austerity ha messo in seria discussione, insieme alla forza economica dell’Europa, anche il peso internazionale che l’euro si era conquistato prima e subito dopo lo scoppio della bolla dei mutui subprime nel 2007. Tra 2011 e 2012 le riserve mondiali denominate in euro e detenute dalle varie banche centrali sono calate dal 25,1 al 23,9 per cento del totale, mentre la quota di merci internazionalmente trattate in renmimbi è passata dallo zero al 10 per cento6. Eppure, proprio una politica di immissione di liquidità nell’economia europea, connessa con un ruolo della Bce di prestatore in ultima istanza, avrebbe favorito un processo di “eurizzazione” simile ai processi di “dollarizzazione”, a scapito di un dollaro che appariva irrimediabilmente logorato dalla crisi dei subprime.

Se l’euro, sotto il peso crescente delle sue contraddizioni interne, conflagrerà, ciò avverrà solamente dopo che avrà assolto alla funzione che gli è stata attribuita. L’euro è l’asse strategico attraverso il quale passa la ristrutturazione coatta del sistema industriale, sociale e politico dell’Europa in base alle necessità di questa fase storica del modo di produzione capitalistico. Non è un caso che il raggiungimento degli obiettivi di bilancio europei venga sempre collegato dalla Commissione europea, dalla Bce e dalle organizzazioni imprenditoriali alla realizzazione delle cosiddette “riforme strutturali” economiche e istituzionali e, in modo particolare, alla compressione del costo del lavoro, che significa la riduzione del salario diretto, del salario differito (pensioni) e del salario indiretto (servizi sociali).

L’euro è, di fatto, la pietra tombale sull’effettiva possibilità di costruire una Europa unita e dei popoli, e non perché sia stato gestito male, ma a causa della sue caratteristiche strutturali. Certo, possiamo batterci per la modificazione della sua architettura. Ma dobbiamo essere consapevoli di tre elementi. Il primo è che modificare l’architettura dell’euro vuol dire di fatto porre fine all’euro e fare un’altra cosa. Il secondo è che dietro l’euro non c’è soltanto la visione ingenua ed estremistica del mercato autoregolato, ma precisi interessi di forze sociali trasversali alle varie nazioni. Infine, una eventuale revisione dell’euro, realizzata sotto l’egemonia di queste forze, sarebbe un passo in avanti nella medesima direzione in cui stiamo andando da anni.

La dissoluzione o l’uscita dalla Uem non è un passaggio da prendere alla leggera, in quanto implica affrontare importanti problemi di carattere economico. Ma il problema dell’euro è solo in parte tecnico-economico. Il problema dell’euro è prima ed essenzialmente politico, riguardando le scelte economiche generali e i rapporti tra Stati, tra classi e tra settori di classi sociali. Oggi, la dannosità dell’euro è percepita da masse di cittadini europei sempre più ampie. La questione è che tale percezione sta trovando sbocco nel voto all’estrema destra, nella disaffezione verso la politica e nell’astensionismo. Quindi, per non consegnare questi settori all’apatia o alla reazione bisogna assumere una posizione chiara sull’euro e, di conseguenza, altrettanto chiara sul Pse, di cui l’Alleanza dei socialisti e dei democratici è emanazione. Le parole di Schultz e le posizioni assunte dal suo partito, la Spd tedesca, di nuovo in una grande coalizione con i democristiani della Merkel, non possono continuare a illudere nessuno. Nei fatti, nessun partito socialista o socialdemocratico europeo si è posto contro l’austerity. Al contrario, la volontà bipartisan di perseguire gli obiettivi europei ha generalizzato il modello della grande coalizione in tutta Europa. Oggi, appare veramente difficile distinguere il PSE dal Partito popolare europeo, il suo corrispettivo di centro-destra, sulle questioni veramente decisive, come il Fiscal compact, mentre le differenze si restringono ad aspetti sempre più secondari.

L’euro è la chiave di volta del processo di ristrutturazione generale in senso regressivo dei rapporti di produzione e sociali in Italia ed in Europa. Qualunque possibilità di difesa del welfare e della democrazia e di ripresa del movimento dei lavoratori e della sinistra, a livello nazionale e europeo, passa per la centralità programmatica dello scioglimento dell’Uem.

NOTE

1 Nostra elaborazione su dati Ocse. Economics Key tables from Oecd. Quarterly gross domestic product change over previous quarter. http://www.oecd-ilibrary.org/economics/quarterly-gross-domestic-product-change-over-previous-quarter_2074384x-table13
2 Economics Key tables from Oecd. http://www.oecd-ilibrary.org/economics/harmonised-unemployment-rates_2074384x-table6
3 Economics Key tables from Oecd. http://www.oecd-ilibrary.org/economics/government-debt_gov-debt-table-en
4 Sistema Statistico Nazionale, L’Italia nell’economia internazionalesintesi del rapporto Ice 2012-2013.
5 Il surplus delle partite correnti è costituito essenzialmente dall’avanzo nel commercio di beni e servizi con l’estero. Il surplus del 2013 della Germania ammontava a 254 miliardi di euro, mentre quello della Cina ammontava appena a 14 miliardi. The Economist, Economic and financial indicators, December 21st 2013.
6 “Debt crisis shrinks use of euro as international currency”, The Whashington Times.http://www.washingtontimes.com/news/2013/jul/2/debt-crisis-shrinks-international-use-euro-reserve/

Venezuela gli Stati Uniti vogliono fortemente vogliono rovesciare il governo legittimo

Venezuela: democratico e bolivariano


 febbraio 28, 2014

Il Venezuela è minacciato da tentativi golpisti da parte della destra latinoamericana e del governo degli Stati Uniti. Fin qui nulla di nuovo, su questo non ci sono dubbi. Tutti i paesi dell’America Latina, attraverso Celac, Unasur, Mercosur e Alba, hanno rilasciato dichiarazioni congiunte in cui riconoscono il tentativo di destabilizzare la democrazia venezuelana, ed esprimono la loro solidarietà ribadendo la necessità di dialogo. La solidarietà con il popolo venezuelano e il suo governo è una grande sfida per tutto il nostro continente. Preoccupante e dolorosa è l‘intensità della violenza che provoca morti, feriti e danni materiali. L’ex presidente Hugo Chávez ha vinto alle ultime elezioni con un vantaggio di più del 10%. Dato che purtroppo non ha fatto in tempo a entrare in carica, sono state fatte nuove elezioni a cui hanno presenziato osservatori internazionali, e sulla legittimità del nuovo presidente non ci sono dubbi. Ha vinto Maduro, e ancora una volta ha vinto il progetto bolivariano avviato da Chávez, perché la maggior parte dei venezuelani capiscono che il loro paese è migliorato ed è più egualitario. Infatti, grazie a questo processo, il Venezuela per la prima volta nella sua storia è riuscito a essere padrone delle proprie risorse petrolifere e a metterle al servizio del popolo, del continente, e anche degli Stati Uniti quando sono stati devastati dall’uragano Katrina. Durante l’ultimo decennio, il governo ha aumentato la spesa sociale di oltre il 60,6% e oggi è il paese della regione con il più basso livello di diseguaglianza, che è stata ridotta del 54%, e di povertà, ridotta del 44%. Per quanto riguarda l’Istruzione, si colloca al secondo posto in America Latina e al quinto nel mondo, con la più alta percentuale di studenti universitari. Ha costruito più di 13.721 cliniche in quartieri in cui lo Stato prima non c’era e il sistema sanitario pubblico annovera circa 95.000 medici. Ha costruito più di 500.000 abitazioni, e tra le altre realizzazioni ha finanziato lo sport. Tuttavia, alcuni settori dell’opposizione (non tutti), animati da intenzioni golpiste, non si rassegnano alla sconfitta elettorale e cercano di ottenere con la violenza ciò che non sono riusciti a ottenere in elezioni libere.  Il presidente Nicolás Maduro, nei suoi 10 mesi al governo, ha affrontato continue azioni di destabilizzazione finalizzate a destituirlo. La violenza e gli attacchi contro il Venezuela sono un attacco a tutti i governi democratici del continente. Non è un fatto isolato, i tentativi di colpi di Stato stanno avanzando con nuove metodologie in America Latina. Hanno provato e fallito in Ecuador, Bolivia, Argentina e nello stesso Venezuela nel 2002, ma hanno trionfato in Paraguay e Honduras, dove gli Stati Uniti hanno ampliato le loro basi militari. I mezzi di comunicazione corporativi e multinazionali come CNN, FOX e quelli europei, manipolano l’informazione e diffondono propaganda di guerra in nome della pace, e l’odio in nome della libertà. Il loro scopo è dimostrare che sono essenziali per poter destituire qualsiasi presidente, ricevendo così ingenti somme dal Dipartimento di Stato nordamericano. Ma noi latinoamericani sappiamo perfettamente che sono anche questi degli attori politici, che difendono gli interessi privati ​​e delle grandi potenze, ricorrendo a tutta una serie di menzogne che servono ad assopire le coscienze. Dobbiamo imparare dalla storia, perché nel fallito colpo di stato del 2002 è successa la stessa cosa, e per questo è considerato il primo golpe mediatico della storia. Questo è dimostrato nel documentario “La rivoluzione non sarà trasmessa”, che vi consiglio. La Pace è una dinamica nei rapporti tra gli individui e i popoli che non è gratuita, ma si conquista attraverso la Verità, la Giustizia e il rispetto dei diritti umani nella costruzione democratica. Da un lato si deve indagare sulle morti di studenti provocate da incappucciati perché alle vittime sia resa giustizia. Dall’altro lato sostenere il Piano di pace e convivenza nazionale lanciato dal Venezuela, con una massiccia marcia popolare finalizzata alla costruzione della pace civile e alla lotta alla criminalità, promuovendo il disarmo della popolazione e delle coscienze armate. Nel suo discorso Maduro si è espresso con molta chiarezza: “Chi si mette una camicia rossa con il viso di Chávez e tira fuori una pistola e aggredisce un altro venezuelano, quello non è né chavista né rivoluzionario e andrà comunque in prigione”. Non risulta che l’opposizione stia facendo la stessa cosa. In realtà è veramente vergognosa la campagna che ha lo scopo di chiamare dittatura il Venezuela, considerando che è stato il primo paese nella storia degli stati-nazione a introdurre e applicare il sistema di referendum abrogativo a metà del mandato presidenziale per rafforzare la democrazia. Infatti, quando è stato fatto nel 2004, Chávez ha vinto ancora una volta, come è accaduto in altre 13 elezioni dal 1998. Se un giorno a questo governo toccherà perdere le elezioni, lo accetterà come ha fatto nel suo secondo tentativo di riformare la costituzione, ma nessuna bandiera cadrà mai, perché i bolivariani continueranno a lavorare per un Venezuela e una Patria Grande migliore. La Rivoluzione bolivariana, rivoluzione delle urne e delle piazze, ha sempre vinto secondo la legge e la democrazia, e continuerà a farlo; è questo che la rende così pericolosa per alcuni e così necessaria per altri. Per questo inviamo la nostra solidarietà e il nostro sostegno al popolo e al governo venezuelano per la difesa delle istituzioni democratiche, delle politiche sociali, economiche e culturali conseguite attraverso la partecipazione popolare.

Ucraina, gli Stati Uniti hanno voluto fortemente voluto il rovesciamento di un governo legittimo

Ucraina: L’argomento contro la Rivoluzione

Di Andrea Benetton, il  
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Il presidente ucraino Viktor Yanukovich era un criminale e un truffatore, come Saddam Hussein!” ha esclamato il giornalista sullo schermo del televisore mentre mangiavo la mia zuppa al pollo e cercavo di mantenere il controllo.
Questo è avvenuto durante un programma di finanza e business su una rete televisiva pubblica polacca, ma non sembrava che le notizie economiche fossero all’ordine del giorno. “Possedeva una grande casa ei suoi due figli erano milionari che possedevano un sacco di auto!” Ho cercato di non guardare lo schermo, ma non potevo farne a meno. Ho osservato un paio d’auto d’epoca, Ford d’anteguerra.
Come Saddam Hussein, Gheddafi e l’ex presidente della Tunisia, Yanukovich ha prosperato mentre la nazione soffriva di estrema povertà!” Mi sono chiesto a quel punto se fosse una coincidenza che il presidente dell’Ucraina sia stato improvvisamente messo in compagnia di uomini uccisi da un’invasione americana o di una sanguinosa rivoluzione di ispirazione americana nel mondo arabo.
Il giornalista andava avanti, citando un sito dell’opposizione anti-Yanukovich come sua fonte. “L’Ucraina è sull’orlo della bancarotta, il suo governo in debito e la sua gente povera, ma Yanukovich viveva nel lusso! Guardate questo lampadario!
Nessuna menzione del fatto che poiché i partiti di opposizione hanno violato l’accordo mediato dalla Polonia e dalla Germania deponendo illegalmente il presidente ucraino, la Russia ha interrotto i pagamenti in precedenza concordati di assistenza finanziaria con lo scopo di contribuire a salvare l’Ucraina dalla bancarotta, denaro che la Polonia e la Germania non hanno e comunque non pagherebbero.
Mentre le immagini della casa di Yanukovich passavano sullo schermo, ho pensato all’intervista di Barbara Walters con Ronald Reagan nel suo spettacolare ranch. Ho pensato alla lucrativa carriera post-presidenziale del Presidente Clinton. Ho pensato a Tony Blair e alle fortune di Gerhard Schroeder. Ho pensato al maggiordomo elegante che ho visto in giro al Ministero della Difesa polacco mentre chiedeva se qualcuno volesse una bottiglia di acqua portata su un vassoio.
Mi sono ricordato che i leader occidentali hanno anche loro soldi e beni e non c’è bisogno di guardare lontano in Occidente per trovare la disuguaglianza nella ricchezza.
Questo programma di “finanza” che mi è capitato di guardare è la definizione esatta di Psy-Ops, guerra psicologica. Era propaganda grossolana.
Il suo scopo non era quello di convincermi che l’ex presidente dell’Ucraina sia un uomo corrotto, il suo scopo era di addormentare la mia coscienza morale, di riempirmi con la più oscura delle emozioni, per assicurarsi che quando Yanukovich sarà catturato e impiccato dalla rivoluzione, che quando la rivoluzione divorerà i suoi figli sparandogli nella testa, io starò con le pecore, come in 1984 di Orwell, urlando “Morte a Goldstein!” e dicendo a me stesso che il male Yanukovich e i suoi figli malvagi hanno infine ottenuto la sorte che meritavano.
Non potevo credere che il contenuto di questo servizio televisivo fosse stato prodotto da polacchi. Era troppo familiare, troppo ovvio, sembrava essere stato scritto per loro, uscito dal loro passato.
Questo è stato il momento in cui la mia mente ha rievocato i fatti, giusto un attimo prima di essere consumato dal diluvio dell’odio dei due minuti precedenti.
Il giorno prima, avevo sentito paragonare Yanukovich a Hitler. Ora, era come Saddam Hussein e Gheddafi. Divertente, il mio cervello mi ha detto, perché a differenza di Hitler, Saddam Hussein, o Gheddafi, Yanukovich ha vinto elezioni certificate come eque dall’Unione Europea.
Prima di quell’elezione, aveva vinto le elezioni precedenti nel 2004, ma aveva accettato di tenerle di nuovo quando i suoi avversari hanno messo in discussione i risultati. Quando ha perso, si fece da parte e ha rispettato la vittoria del suo avversario. Non ricordo Hitler, Saddam Hussein, o Gheddafi comportarsi così.
Mi ricordo invece persone come Thomas Jefferson e John Adams, o Andrew Jackson, o anche Al Gore comportarsi così. Persone che, per tutte le loro differenze, hanno capito l’importanza del rispetto dello Stato di diritto e dei risultati delle elezioni libere ed eque. Ho anche ricordato che Thomas Jefferson e George Washington avevano schiavi e grandi tenute, un fatto che non ci impedisce di riconoscere in loro degli statisti.
Infatti, a differenza di Hitler e Saddam Hussein, secondo le informazioni che ho trovato nel recesso della mia memoria, datata solo due giorni prima di quest’articolo, il cattivo Yanukovich ha accettato tutte le richieste delle opposizioni; elezioni anticipate, l’amnistia, ha ribaltato la costituzione esistente a favore di quella precedente, e dopo tutto questo, l’opposizione l’ha cacciato illegalmente, e ora lui e la sua famiglia sono dei ricercati. Nel frattempo, anche se il cattivo Yanukovich se né andato, i rivoluzionari a Kiev mantengono le loro posizioni. Le barricate sono ancora in piedi. Potrebbe essere che qualcuno trova utile questa situazione per avere una folla di rivoluzionari violenti eternamente piantati a Kiev, che impedisca alla voce della maggioranza silenziosa che ha votato di essere ascoltata e che si aspetta il rispetto dei risultati?
Risposte da propagandisti rivoluzionari vengono alla ribalta nella mia mente: Yanukovich è un ex comunista, il suo partito era legato ai russi, tutti loro sono ex collaboratori e agenti sovietici, e il comunismo è il male.
E’ così dalla mia memoria riemergono altri fatti.
Ad esempio su come il segreto per il successo della democrazia polacca sia stato sostenere il diritto di tutte le persone, tra cui i comunisti, di partecipare alla vita politica, alla campagna per una carica politica, e di votare. Ricordi del 1993 mi balzano alla mente, solo tre anni dopo le prime elezioni libere in Polonia, quando l’ex comunista ha vinto le elezioni e gli è stato restituito il potere. Senza che ne seguì una rivoluzione, i loro avversari li combatterono con la retorica, una campagna dura, e tornarono al potere alle elezioni successive.
E così andò, tutti i problemi, come le controversie nelle democrazie occidentali, furono affrontati attraverso le urne, attraverso elezioni pacifiche, non per le strade del paese.
Infatti, il proprietario di una delle stazioni televisive che oggi fanno propaganda su Yanukovich è lui stesso un ex comunista, poiché tutti nella vita politica e degli affari della Polonia lo furono. E’ difficile, dopo 50 anni di comunismo, trovare persone che non furono comunisti a un certo punto della loro vita.
Ancora più difficile, però, è oggi trovare persone che siano di mentalità indipendente riguardo al sostenere i risultati di libere elezioni, anche quando è il cattivo Yanukovich che le vince.
Il mio cervello però scava ancora più a fondo, a notizie più vecchie, quando la Polonia e l’Ucraina hanno ospitato insieme il Campionato Europeo di calcio Euro 2012.
Questo è accaduto solo due anni fa. Se il presidente Yanukovich era “come Saddam Hussein“, allora perché la Polonia ha lavorato a stretto contatto con lui per organizzare l’Euro 2012? Perché elite politiche e commerciali polacche hanno condiviso gli utili di questa impresa?
La televisione mi ha detto oggi che il cattivo Yanukovich stava facendo soldi, mentre il suo popolo soffriva di estrema povertà. Era quindi un bene per i polacchi fare quei soldi con lui nel 2012?
Forse, nel nostro mondo moderno, due anni sono come 20 anni nel secolo precedente. Questo è il tempo impiegato dagli americani per dimenticare che Saddam Hussein era un alleato americano nel 1980, nella lotta contro la rivoluzione islamica in Iran, per garantire un Iraq moderno e laico. Nessuno lo ricorda oggi, ora è lui l’uomo con le armi di distruzione di massa, che in realtà non ha mai avuto. L’uomo responsabile dell’11 settembre, di cui non era responsabile.
L’uomo con i grandi del palazzo e ricchi figli che è stato impiccato, dopo un processo farsa stalinista, per l’audacia di continuare ad esistere dopo il più catastrofico errore di politica estera nella storia americana costato lo spargimento di sangue e l’espansione del debito pubblico americano.
Il confronto è agghiacciante, non a causa di chi fosse Saddam Hussein veramente, ma a causa di ciò che è venuto dopo di lui, e perché gli anni di spargimento di sangue che hanno spazzato il Medio Oriente potrebbero essere solo sul punto di spazzare l’Europa orientale. Perché in ultima analisi, la vera scelta è questa: ogni paese infettato dal virus rivoluzionario del nostro tempo, le rivoluzioni colorate, le primavere arabe, la “rivoluzione democratica mondiale”, tutte, ogni singolo paese è andato in fiamme. Nessuno di loro ha visto lo sviluppo di qualcosa di simile a istituzioni democratiche stabili, a una società civile, o allo Stato di diritto, perché queste cose non si possono sviluppare in seguito a colpi di stato sanguinosi. Tutti questi paesi hanno visto il caos e sangue. Ora, l’Ucraina segue questa strada. Eppure i polacchi, che vivono proprio accanto a quello che potrebbe diventare presto la vista di una terribile e sanguinosa guerra civile, sono giubilanti. Sono giubilanti a causa della propaganda che sgorga dai loro schermi televisivi, e del loro senso gonfio di orgoglio ipocrita. Pensano che ciò che sta accadendo in Ucraina oggi è simile al movimento Solidarnosc in Polonia nel 1989. Si sbagliano di grosso.
Solidarnosc fu un movimento pacifico che si è sviluppato all’interno della struttura della comunione cattolica polacca nel corso di decenni, e che si oppose a un governo stabilito da Stalin, che non aveva mai affrontato una volta una libera elezione. Il presidente ucraino Yanukovich ha vinto le libere elezioni in un’Ucraina sovrana che aveva un sistema politico pluralistico. Il presidente dell’Ucraina è stato estromesso da un relativamente piccolo gruppo di rivoluzionari molto violenti che sono ben finanziati e ben organizzati. Nonostante queste evidenti, differenze fondamentali, il confronto tra Solidarnosc e l’attuale rivoluzione in Ucraina persiste. Ancora prima che il colpo finale contro Yanukovich fosse completato, i polacchi sollecitarono l’Ucraina ad avviare una “tavola rotonda” di negoziati, un metodo che Solidarnosc ha utilizzato per mediare un accordo con i precedenti governanti comunisti della Polonia.
Ancora una volta, i polacchi sembrano aver spento il cervello quando danno questo suggerimento: i negoziati in Polonia si sono svolti tra Solidarnosc e un governo non eletto comunista che non aveva mai tenuto una vera elezione fin dalla sua istituzione nel 1945. Il presidente Yanukovich è stato democraticamente eletto e come tale non aveva l’obbligo di sedersi a negoziare con i manifestanti. Se non altro, il presidente Yanukovich ha dimostrato estrema disponibilità al compromesso da parte sua invitando i manifestanti a negoziati, giacché tali negoziati non erano in alcun modo rappresentanti della maggior parte delle persone che avevano votato per lui.
In ogni caso, ogni singola democrazia occidentale matura riconosce che anche in tempi di estrema discordia sociale, è illegale e immorale rovesciare governi democraticamente eletti per mezzo di una rivoluzione violenta.
Il presidente Richard Nixon capì questo e la maggioranza silenziosa che l’ha sostenuto lo aveva capito pure. Il presidente Yanukovich non ha avuto la saggezza del presidente Nixon, né erano i suoi consiglieri abbastanza saggi da suggerire un appello alla maggioranza silenziosa che l’ha votato. In realtà, tale azione è probabilmente estranea alla mentalità ucraina, in quel paese di breve e tumultuosa storia democratica.
Tuttavia, un secondo colpo di stato nel giro di un decennio, non porterà la gente più vicina a imparare le abitudini democratiche, anzi sarà solo soffiare sul fuoco dell’illegalità, del disordine, e della convinzione che i proiettili, non le schede elettorali, decidono gli affari politici.
Questo ci porta a un punto che nessuno degli appassionati irragionevoli della rivoluzione “democratica” ucraina in Occidente sembra comprendere: l’ordine è l’elemento fondamentale e necessario della libertà. Nessuno sano di mente afferma che il presidente Yanukovich fosse ideale. Ma la prudenza impone che le rivoluzioni violente non solo non siano ideali, ma sono la definizione di tirannia.
La rivoluzione violenta è il cadere di tutti i limiti ai mali della natura umana in una comunità politica. Ovunque sia accaduta una rivoluzione violenta c’è dolore e sangue. Una rivoluzione violenta volta a negare il risultato di un’elezione democratica è il più grande dei peccati in una repubblica. In caso di conflitto o guerra civile, statisti responsabili hanno sempre tentato di riconciliare il proprio paese. Abraham Lincoln la definì per “malizia verso nessuno” nel suo secondo discorso inaugurale. Yulia Timoshenko invece ha chiesto la testa di Yanukovich e si è appellata ai rivoluzionari di rimanere per le strade di Kiev per “continuare” la rivoluzione. Non è un replay della rivoluzione americana quello che stiamo assistendo a Kiev. Né quello della rivoluzione pacifica di Solidarnosc. Non è anti-comunista. Non è nulla anche vicino alla legittima rivoluzione in conformità con i principi della Dichiarazione di Indipendenza o con qualsiasi livello di senso comune.
Quello che sta accadendo oggi a Kiev è la tragica distruzione dello stato e della nazione ucraina, uno stato che ha ormai attraversato la sua seconda rivoluzione violenta del XXI secolo, uno stato che ha annullato tre volte la sua Costituzione in questo secolo. E’uno stato impoverito, diviso, manipolato da Oriente e in Occidente, e cui è stato tolto ogni spazio per la società civile e pacifica per il proprio sviluppo.
La parte più nauseante di tutto è che migliaia di giovani ucraini sono stati manipolati a rischiare la vita nella lotta per entrare in un’Unione europea che è governata da un organismo composto commissari non eletti e che è stato istituito da trattative spinte attraverso i parlamenti nazionali, nonostante l’impossibilità di ottenere il sostegno popolare nei referendum in Irlanda, Francia e Danimarca.
Il presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, non è mai stato votato in una qualsiasi elezione a differenza signor Yanukovich che ne ha vinte due. Eppure, un centinaio di ucraini sono morti in una rivoluzione per l’adozione di “standard europei ” in Ucraina. Quali standard? L’IVA obbligatoria ad almeno il 15%? Regolamenti che stabiliscono la dimensione corretta di sottaceti e la corretta etichettatura delle vacche? Standard bancari forse occidentali, come quelli che hanno portato alla crisi finanziaria in Europa e in America? Un codice fiscale EORI per gli importatori che si deve applicare nel corso di un mese solo per scoprire che è il numero nazionale d’identificazione d’imposta seguito da sei zeri per tutti? Quale di questi ottimi esempi della moderna civiltà europea è così importante da giustificare le morti dei giovani che sono stati manipolati dalla propaganda per morire in un cinico colpo di stato?
Mentre guardo i due minuti di odio alla televisione polacca che preparano i polacchi per il giorno in cui Yanukovich sarà trovato e ucciso o gettato in prigione, penso al secondo discorso inaugurale di Lincoln, o al martire beato padre Jerzy Popieluszko, che, nei giorni bui della legge marziale comunista, diceva ai suoi parrocchiani di prendere zuppa calda e tè per i soldati che li opprimevano e non vedo niente di quello spirito in Ucraina o in Polonia. Mi chiedo: come possono i polacchi essere cambiati così tanto?
Come potrebbe il popolo polacco sostenere la sanguinosa rivoluzione in Ucraina, dopo aver dato al mondo un così nobile esempio di cambiamento pacifico ed equilibrio cristiano tra i dettami della morale e del rispetto della legge e dell’ordine?
Come hanno potuto andare contro le parole del proprio Papa Giovanni Paolo II e marciare alla cieca in Iraq? Come possono ignorare gli sforzi di Papa Francesco per lavorare con la Russia per la pace in Medio Oriente e invece persistere nella russofobia piuttosto che lavorare con la Russia per la pace nel loro comune vicino, l’Ucraina?
Temo che la risposta sia semplice: il potere della cultura popolare occidentale e del materialismo occidentale è superiore alla potenza dei gulag e della propaganda di Stalin. Infatti, quando gli uomini sono schiavi della sofferenza e della paura fisica, le loro menti sono libere, sobrie, fresche, e affamate di verità. Tuttavia, quando gli uomini sono ignoranti, quando la saggezza e l’istruzione non sono premiate da una cultura materiale che favorisce la fama, la popolarità e il denaro, quando il corpo è fatto paffuto ed è soddisfatto, allora la mente diventa schiava, marcia, e impantanata in menzogna. Che tempi terribili quelli in cui viviamo.

Di Peter Strzelecki Rieth
Traduzione: Andrea Benetton
Articolo originale: http://www.theimaginativeconservative.org/2014/02/ukraine-case-revolution.html

giovedì 27 febbraio 2014

"oggi l'impero degli Stati Uniti chiede sottomissione assoluta minacciano l'annientamento atomico a chi gli la consente, e poi chiama terroristi coloro che gli la rifiutano"

Come si abbattono i regimi


di Giulietto Chiesa


Raramente scrivo recensioni. In genere, quando non sono costretto a farlo da ragioni di convenienza, o per soddisfare le pretese di autori molto insistenti, scrivo di libri che mi piacciono, o che intendo proporre ad altri lettori perchè li ritengo utili, o perchè offrono angoli visuali originali.
In questo caso il libro in questione non mi è piaciuto per niente. Anzi l’ho trovato irritante. Il suo autore è sostanzialmente un poveraccio (intellettualmente parlando s’intende), che esce come un pulcino inzuppato di ideologia – intesa come falsa coscienza – dalla lavatrice del pensiero unico. Un esegeta, dunque, della Matrix in cui ha vissuto, del tutto incapace di vedere i suoi confini. Una specie di protagonista da “Truman show”, ma privato di ogni possibilità di redenzione.
Perchè ne scrivo, dunque? Perchè – come avrebbe detto Leonardo Sciascia – ilcontesto che rappresenta è straordinariamente interessante, ricco di informazioni su come si pensa, cosa si pensa, come si agisce nei centri della sovversione, quei posti dove vengono elaborate le vere strategie e tattiche rivoluzionarie dei tempi moderni. Tempi in cui, per essere precisi, le rivoluzioni le fa il Potere, non i rivoluzionari d’un tempo, non i mitici anarchici, non i popoli, non i partiti, non i soviet, o comunque si siano chiamati in passato, fino al secolo XX incluso.
E qui è subito opportuna una serie di notazioni non a margine. Forse utile per quei lettori che ancora pensano, appunto, con le categorie dei tempi andati; di quelli che, non essendosi aggiornati, non avendo fatto alcuno sforzo per capire quali cambiamenti sono intervenuti nei rapporti di forza, nelle dinamiche economiche e sociali, nei sistemi di informazione e comunicazione, nelle tecnologie della manipolazione, continuano ad applicare le teorie rivoluzionarie dell’epoca delle lotte di classe così come fu descritta, e creata, a partire dalla rivoluzione francese.
Ma queste note a margine, che sono la ragione vera per cui scrivo queste righe, potrebbero forse servire anche per coloro che rivoluzionari non sono, e non intendono essere, ma che semplicemente non hanno mai provato a cimentarsi intellettualmente con il problema del Potere. E, essendo totalmente impreparati a farlo, non sono capaci di capire come il Potere agisce per mantenere se stesso. Con quale ferocia, un Potere – ferocia tanto più grande quanto più grande è questo potere – usa gli strumenti dei quali dispone. Il Potere non è mai “dilettante”. E’ un mestiere. E agisce sempre per la vita o per la morte.
Ora gl’intellettuali sono spesso inclini a ragionare proiettando sugli altri la loro visione del mondo. Quando lo fanno sulle persone prive di potere commettono sempre dei guai, ma talvolta questi guai sono di secondaria importanza, perchè  le persone normali non hanno potere. Ma quando questa proiezione si esercita nei confronti del Potere, essa può divenire esiziale, sia per chi la fa (cioè per gl’intellettuali stessi), sia per chi ci crede, cioè per i lettori dei loro libri, dei loro scritti, dei loro articoli, delle loro conferenze.
Se dunque tu cercherai di descrivere una lotta politica del Potere contro i suoi antagonisti come se fosse una partita di scopone, probabilmente finirai male (soprattutto se sei dalla parte degli oppositori al Potere). Il quale non gioca a carte, se si sente in pericolo: liquida, squalifica, esclude, se necessario uccide. Questo dettaglio sfugge alla gran parte degl’intellettuali e a quasi tutti i giornalisti. Quelli, tra questi ultimi, cui non sfugge, di regola si mettono dalla parte del Potere e così smettono di giocare a carte anche loro. Gli altri, i maggiormente stupidi, continuano a giocare a carte, essendo spesso utili a impedire a tutti gli altri di capire cosa fa il Potere. Questo spiega perfettamente perchè il libro di Gene Sharpè stato scritto: per loro.
Ovvio che con quelle categorie interpretative autoreferenti, non solo non si può vincere niente, ma non è più nemmeno possibile capire chi attacca e chi si difende, dov’è il campo di battaglia, chi sono i contendenti. Quando si discute con questiorfani della ragion politica non è difficile rendersi conto, per esempio, che questo vacuum quasi assoluto di analisi porta spesso costoro a pensare di essere all’offensiva su inesistenti tenzoni, mentre stanno subendo sconfitte clamorose nei campi reali dove la battaglia è in corso, ma dove loro non ci sono. Appunto perché sono altrove. I mulini a vento sono ciò che vedono questi Don Chisciotte modernissimi. La differenza tra loro e il loro prototipo consiste in un solo, enorme dettaglio. Quello della Mancia sognava per conto proprio. Questi sono stati ipnotizzati dal Potere, e vengono condotti per mano dove questo vuole.
Il libro è, in sostanza, la descrizione di come l’Impero, morente, diventa sovversivo per difendersi. E’ un manuale della “rivoluzione regressiva”: l’unica rivoluzione esistente, che segnerà gli ultimi decenni che precedono il crash finale di questo sistema. Il quale, non avendo più futuro, è costretto a pensare a ritroso. E lo fa utilizzando l’ultimo strumento che ha a disposizione: le tecnologie. E’ per questo che riesce ad apparire moderno agli occhi di milioni di giovani, che – immersi come sono nella Grande Piscina dei Sogni e delle Menzogne  – non riescono a guardare “fuori” e a vedere la complessità della manipolazione cui sono soggetti.
L’autore si chiama Gene Sharp e non è un ragazzino, visto che è classe 1928. Come abbia vissuto fino ai giorni nostri è faccenda non misteriosa. Bastaguardare su Wikipedia la sua modesta carriera di sovversivo.
In questa specialità emerge al termine di una lunga vita nell’ombra, pubblicando un libro il cui titolo originale – “From Dictatorship to Democracy” – richiama subito alla memoria Francis Fukuyama, quello della “fine della storia”. L’editore italiano è Chiarelettere, per altri aspetti benemerito, ma in questo caso completamente abbacinato anch’esso dall’ideologia imperiale.
I confini di Matrix, come sappiamo, sono vasti e appiccicosi. Nell’ultima di copertina l’editore italiano ci informa che Sharp “è ritenuto tra i principali ispiratori delle rivoluzioni che stanno sconvolgendo il mondo arabo”. Definizione riduttiva. In realtà Gene Sharp (diciamo la sua scuola di pensiero, sebbene chiamarla in questo modo faccia correre qualche brivido nella schiena) è l’ispiratore di tutte le esportazioni della democrazia americano-occidentale dell’ultimo trentennio. Di quelle innescate e vinte, come di quelle tentate e perse. E’ bene ricordarlo, perchè nonostante il Potere sia l’unico rivoluzionario esistente, non è detto che le rivoluzioni che tenta le vinca tutte. Qualche volta le perde. Comunque Sharp è  il profeta, appunto, delle “rivoluzioni regressive”. Per questo merita tutta l’attenzione da parte nostra, di noi che siamo le sue vittime, i suoi bersagli.
Lui, di sè, dice: “Ero a Tien an men quando i carri armati ci sono venuti addosso” (La Repubblica, 17 febbraio 2011). Capito dove stava? Forse era lui quel giovanotto che fermò la colonna dei carri armati sotto l’Hotel Pechino. A quanto pare fu dappertutto. C’era lui dovunque sorgessero le rivoluzioni , come i funghi, specie dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Sicuramente Gene Sharp era anche quel rude picconatore che sgretolava a martellate il famoso Muro di Berlino. E’ stata la sua tavolozza a fornire i colori delle varie rivoluzioni del ventennio passato, da Belgrado a Tirana, a Pristina a Kiev, a Tbilisi. Quando Gene Sharp non era presente di persona, sembra di capire che “ispirava” da lontano.
Il libro risulta tradotto in quasi trenta lingue, sicuramente in arabo, in russo e in cinese. E si capisce il perché, leggendolo. Perché le centrali sovversive guardano già a Mosca e  San Pietroburgo, a Pechino e Shanghai. Si capisce anche che contenga qualche contraddizione, come accade a tutti i bestsellers. La tesi centrale  del libro è che ogni dittatura può essere abbattuta, “purchè la ribellione nasca dall’interno”. Ovvero: purchè sembri che essa nasca dall’interno.
Viene in mente subito la Libia. E, ai giorni nostri, la Siria, o anche la Russia.
Infatti Gene Sharp spiega subito che, per nascere dall’interno, se non ci arriva da sola, la ribellione, deve “essere ispirata” da qualcuno. Ecco: il libro di Sharp è un manuale per formare gli “ispiratori”. Per questo – ma Sharp non lo dice – è sufficiente avere molti soldi, a decine e centinaia di milioni. Infatti, queste ribellioni avvengono di regola – così è stato fino ad ora – nei luoghi dove i redditi sono bassi, più bassi, e dove il denaro è l’arma principale per “ispirare”. Senza questo “differenziale” di ricchezza, non c’è ispirazione che tenga. E il primo suggerimento da dare agl’ingenui che non conoscono il Potere è proprio quello di chiedersi: come mai gl’«ispirati» che Gene Sharp cerca sono tutti nei paesi che soffrono di quel differenziale?
Non sarà che, ad essere «ispirati», sono gl’intellettuali dei paesi più poveri? Con i proventi di quel differenziale  si possono finanziare centinaia e migliaia di borse di studio, di grants per professori universitari, che accorreranno nelle università britanniche, americane, francesi, tedesche, nei think-tankoccidentali, dove verranno educati in piena libertà ad amare solo i valori occidentali, e dove vedranno aprirsi autostrade per le loro carriere future. In patria dopo la vittoria, all’estero in caso di sconfitta. E’ così che si delinea il provvidenziale aiuto dall’esterno. C’è, per questo, e opera da decenni, una possente rete di istituzioni specificamente ad esso destinate, costruite, finanziate. Da “Giornalisti senza frontiere”, solo per fare qualche esempio, ai vari Carnegie Endowment for International Peace, agli Avaaz che raccolgono firme a tutto spiano, e che a volte sembrano davvero delle centrali missionarie, moralizzatrici, libertarie, ecologiche, verdi, comunque molto colorate. Ci sono, per questa bisogna, radio come Free EuropeRadio LibertyDeutsche Welle e via elencando. Ci sono televisioni satellitari, una marea di siti web, che sono impinguate di piccoli eserciti di “ispiratori” dall’esterno, che trasmettono incessantemente, foraggiano, spingono, descrivono le lotte per i diritti umani, per la democrazia; che fissano le scadenze delle rivoluzioni, delle “primavere”, degli aneliti alla libertà d’impresa, al mercato.
Se, per esempio – com’è accaduto recentemente – il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite deve votare una risoluzione di condanna del governo siriano che troverà il veto di Russia e Cina, ecco che l’”ispirazione” giungerà puntuale a muovere tutti i media occidentali perchè annuncino stragi in diverse città siriane.Mancheranno fonti attendibili e conferme, ma basterà per questo pubblicare i dati forniti da Avaaz, non si sa come raccolti, oppure quelli di Al Jazeera e di Al Arabiya, la cui attendibilità è ormai pari a quella della CNN, cioè uguale a zero. Non insisterei su tutti questi noiosi dettagli se non avessi assistito di persona alle modalità con cui sono state finanziate e organizzate le rivoluzioni colorate in Jugoslavia, in Ucraina, in Georgia, in Cecoslovacchia, e prima ancora con il meraviglioso prototipo di Solidarność in Polonia, che ebbe come “ispiratore” principale, sotto il profilo ideologico e finanziario, niente meno che il Vaticano del – per questo – beatificato Karol Wojtyła.
Operazioni che, nel centro d’Europa, continuano tutt’ora attorno all’”ultima dittatura”, quella di Aleksandr Lukašenko in Bielorussia, accerchiata dalle radio e dalle televisioni che, pagate dall’Unione Europea, trasmettono dai territori appena conquistati del Prebaltico e della Polonia.
Naturalmente – sarà opportuno ricordarlo per prevenire le geremiadi di coloro che mi accuseranno di sostenere i dittatori  più o meno sanguinari – in molti di questi casi le repressioni sono esistite ed esistono. Naturalmente la corruzione e la palese assenza di democrazia di alcuni di quei regimi esistono e sono esistite. Naturalmente esistono e sono esistite forme di resistenza dei diritti umani che meritano tutta la nostra solidarietà. Esse esistono, combattono in condizioni impari contro un Potere che è più forte di loro. Ed è appunto su di esse che si esercita l’”ispirazione” di cui scrive Gene Sharp. Ed essa può fare conto sulla potenza sterminata del denaro, quando è sterminato; ma anche sull’ingenuità dei destinatari. I quali, costretti come sono sulla difensiva, sono straordinariamente penetrabili alle forme più sottili, più innocenti, più “giustificabili”, di corruzione. E’  appunto maneggiando questa trappola che agiscono gl’”ispiratori” come Gene Sharp e i finanziatori che sono appollaiati sulle sue spalle.
Dunque la prima cosa che occorre fare, per capire cosa è successo e succede in tutti i paesi che si trovano dalla parte bassa del differenziale di ricchezza, è osservare l’evoluzione che si verifica proprio nei movimenti di ribellione: cioè come essi sono prima della cura cui vengono sen’altro sottoposti dagl’”ispiratori”, e poi dopo. Questa analisi rivelerebbe curiose somiglianze tra la trasformazione che fu subita, per esempio, da movimenti come “Otpor”, a Belgrado e nella ex Jugoslavia, e la  rinomata e ormai defunta “Rivoluzione Arancione” in Ucraina. Si parte da qualche vecchio ciclostile, e si arriva con un contratto di insegnamento magari a Harvard. Resistere è difficile, per non dire impossibile. All’inizio sono “ispirazioni”, poi diventano ordini, ai quali è impossibile resistere. E più il differenziale è alto, più è facile trovare decine, poi centinaia, poi migliaia di sinceri, sincerissimi “ispirati”.
Hic Rhodus, hic salta. E’ qui che bisogna avere il coraggio e la forza di distinguere i diritti sacrosanti che vengono violati, dai profittatori politici esterni (o anche interni) che li utilizzano per fini di conquista. C’è un criterio abbastanza semplice per distinguere. Basta conoscere chi finanzia. Se, per esempio, ci sono buone ragioni per pensare che sia l’Arabia Saudita a comprare armi e a assoldare eserciti, ecco che si può stare certi che, appoggiando una data rivolta, non si lavora al servizio della democrazia e dei diritti, bensì si sostiene la barbarie e l’oppressione.
Ti mostreranno il contrario, naturalmente. E’ il loro mestiere. Lavorano per questo, ben pagati, 24 ore al giorno, tutti i giorni. Esempi preclari di questa circostanza sono l’UCK del Kosovo  e la rivolta siriana. Nel primo caso fu un intero esercito a essere organizzato, finanziato, istruito, appoggiato da  fiumi di denaro provenienti da Riyād, da Washington, da Berlino, dalla Nato. E non è un caso se il governo di Pristina che ne è emerso è un covo di criminali, le cui mani insanguinate vengono strette ora con calore a Bruxelles, in pieno ludibrio di ogni diritto umano e di ogni principio europeo di libertà e di rispetto dei diritti umani.
L’altro esempio è ora sotto i nostri occhi in Siria, dove l’evidenza mostra un intreccio complesso ma trasparente di aiuti esterni, ai ribelli provenienti da Israele, dalla Turchia, dall’Arabia Saudita, dagli Stati Uniti d’America. Non sono singole unità, sono centinaia, e poi migliaia di stipendi, di prebende, di consiglieri, di esperti. E poi, quando non bastassero i consigli e si dovesse fare ricorso alla forza, è la volta degli eserciti mercenari. E, quando essi vanno al potere e vincono, segue una lunga scia di sangue, di violenze, di vendette, di illegalità e di soprusi.  E, dunque, si può essere certi che, in caso di caduta del regime di Bashar el-Assad, quello che verrà dopo non sarà certamente il trionfo della libertà e dei diritti umani. Si veda il caso, di nuovo, della Libia appena liberata dal “sanguinario” dittatore Gheddafi e in preda a masnade criminali che erano già tali prima che il conflitto cominciasse e che ora sono divenute padrone.
Insomma basta applicare l’antica regola del cui prodest. Che non è criterio certo al 100%, ma che funziona, in politica, quasi sempre. Ovviamente usando norme di cautela elementari, come quella di stare sempre attenti che gli organizzatori delle provocazioni le costruiscono sempre utilizzando alla rovescia proprio il principio del cui prodest. Così, quando vi capiterà di trovarvi di fronte a un attentato terroristico qualunque, basterà che analizziate bene – per disinnescarlo - il cui prodest che vi viene offerto su un piatto d’argento. Per esempio quando qualcuno assassinasse  Vittorio Arrigoni, e voi sentiste da tutti i mass media, all’unisono, la rivendicazione di un non meglio identificato “gruppo salafita”, con tanto di sito internet e musichetta rivoluzionaria araba, dovreste immediatamente pensare che gl’ispiratori sono stati – faccio un esempio a caso -  i servizi segreti israeliani.
L’edizione italiana di Gene Sharp mette in caratteri minori il titolo inglese e offre una nuova titolazione: “Come abbattere un regime”, e come sottotitolo offre un condensato ideologico da cento tonnellate di peso: “Manuale di liberazione non violenta”. Come non applaudire? Qui, sommersi nella melassa libertaria, si possono intravvedere diversi contenuti complementari. Il primo è chiarissimo: noi siamo la democrazia, la libertà e la verità. Dunque abbiamo il diritto, se non addirittura il dovere, si insufflarla sugli altri. Meglio se negli altri. Chiunque si opponga al trionfo dei nostri ideali è parte del “Male”.
I dittatori sono tutti brutti e cattivi, e sono tutti gli altri: quelli che contrastano il Bene. Chi non li combatte con sufficiente convinzione è un alleato del Male.
Perchè esistano i dittatori, da dove vengano, come si siano formati, se abbiano qualche legittimità, se siano stati un prodotto della storia, chi li ha portati al potere, se siano stati nostri amici e alleati, se siano capi di stato o di governo riconosciuti dalle Nazioni Unite, se abbiano quindi diritti riconosciuti dalla comunità internazionale, se abbiano ragioni da rivendicare, di carattere storico o di emergenza, tutte queste sono questioni che non meritano di essere neppure prese in considerazione. Essi infatti sono “oppressori di popoli”. I quali popoli, ipso facto, vengono sussunti all’interno del nostro sistema di valori. Essi, cioè, hanno i nostri desideri, i nostri impulsi, i nostri bisogni, le nostre aspirazioni. La storia, le diverse storie dei popoli vengono, come per incanto, cancellate. E, come passo successivo immediato, occorre immaginare per loro conto quale dovrà essere la forma di governo che essi devono avere.
Il secondo contenuto implicito è questo: loro, i dittatori, sono violenti; noi, i democratici, dobbiamo essere non violenti. Purchè, naturalmente, il dittatore non riesca a mantenere soggetto il suo popolo. Nel caso ci riesca, poichè noi abbiamo deciso che può farlo solo grazie alla violenza, allora saremo autorizzati a esercitare a nostra volta la violenza. O, per meglio dire, saremo autorizzati a “ispirare” l’uso della violenza da parte degli oppressi contro il “dittatore” che, nel frattempo avremo già definito “sanguinario”, autore di “massacri indiscriminati”. E, giovandoci del differenziale a nostro favore, incluso quello mediatico, saremo riusciti a far diventare dominante la nostra narrazione degli eventi in tutto il mondo esterno. 

Dunque, se vi sarà violenza, questa sarà interamente da attribuire alla “sacrosanta” reazione popolare alla “repressione” del dittatore. S’intende che questa “sacrosanta” reazione popolare sarà armata e organizzata mediante il differenziale di armi, munizioni, organizzazione, informazione, tecnologia. Ma saranno comunque i pacifici manifestanti per la libertà a usare le armi contro il sanguinario dittatore e i suoi scherani. E i morti saranno tutti, indistintamente pacifici cittadini, la popolazione civile innocente. Va da sé, inutile ricordarlo, che effettivamente la popolazione civile morirà in grande quantità. L’essenziale è che i racconti e i filmati assegnino la responsabilità degli eccidi esclusivamente al dittatore sanguinario e ai suoi scherani. Che magari sono effettivamente scherani e sanguinari, ma che avranno la malasorte di essere considerati gli unici criminali che agiscono sul terreno.

Sarà utile non dimenticare che, mentre noi - che stiamo sulla parte alta del differenziale, e che leggiamo le cronache dalle nostre alture - applaudiremo alla rivolta pacifica dei popoli oppressi presi di mira dai dittatori efferati che abbiamo preso di mira, altri dittatori, proprio lì a fianco, insieme ai loro scherani sanguinari, saranno lasciati in piena tranquillità a opprimere i rispettivi popoli, godendo, nel fare ciò, del nostro più cordiale appoggio e sostegno. Questo dettaglio – lo ricordo di passaggio – viene sempre dimenticato dagl’intellettuali amanti dei diritti umani che ci stanno intorno e a fianco. E, se glielo fai ricordare, si irritano accusandoti di cambiare discorso. Infatti uscire dalla narrazione delmainstream significa, per loro “cambiare discorso”. E, a pensarci bene, per chi conosce solo la narrazione del mainstream, uscirne anche solo per un attimo significa cambiare discorso.
Ma procediamo oltre. A questo punto il paese astratto che stiamo considerando si trova già in piena guerra civile. Il movimento di protesta ha già ricevuto le necessarie istruzioni per l’uso per colpire i “talloni d’Achille” di quel determinato regime. Perchè Gene Sharp sa perfettamente che ogni regime ha i suoi talloni d’Achille che, se bene individuati e colpiti, potranno farlo crollare di schianto.  Da qualche parte, possibilmente in un paese confinante, si trova già un’avanguardia bene organizzata, bene collegata con l’interno, bene integrata con il sistema informativo occidentale, capace di usare al meglio i social networks (tutti sotto il controllo e la guida dei centri di analisi occidentali). Non sarà mica stato casuale se,all’inizio del 2011, poco dopo l’avvio della cosiddetta “primavera araba”, Obama e Hillary Clinton convocarono proprio i chief executive officers dei principali social network, di Google, Facebook, Yahoo and companies?  Per la verità quest’ultima è una evoluzione tecnologica che Gene Sharp non include nel suo manuale. Il libro è stato scritto prima che essa diventasse utilizzabile su larga scala e, sotto questo profilo, appare datato.
Ma il manuale di Sharp ha un pregio indubbio, quello di aiutarci a capire bene i meccanismi tradizionali, quelli che sono stati usati negli ultimi decenni e che – si può essere certi - non usciranno di moda. Adesso in Siria, superata la fase dell’innesco della guerra civile, non c’è più nemmeno bisogno di fingere che, a combattere, siano solo i pacifici dimostranti armati oppositori del regime di Bashar el-Assad. Ora si dice apertamente che centinaia di agenti americani, sotto la guida di David Petraeus, attuale direttore della Cia, sono impegnati a reclutare, in Iraq, miliziani delle tribù di confine perchè vadano a combattere in Siria. La stessa cosa avviene attraverso la frontiera turca, dove agiscono i contingenti militari provenienti da Bengasi di Libia, comandati dai leader fondamentalisti islamici che, con l’aiuto della Nato, hanno abbattuto il regime libico. E, dalla frontiera libanese, agiscono le bande del deputato di Beirut Jamal Jarrah, reclutatore di mercenari per conto dell’Arabia Saudita, uomo che fa da cerniera tra il pincipe Bandar, da un lato, e dall’altro – attraverso il nipote Ali Jarah – i servizi segreti israeliani.
Come dire: da un lato i dollari a camionate, dall’altro i migliori consiglieri militari e i più evoluti sistemi di  intelligence di tutto il Medio Oriente. Si aggiungano le bande di commandos che già da mesi operano dentro i confini siriani, con l’obiettivo specifico di uccidere Bashar e i suoi più stretti collaboratori, di collocare bombe, di far saltare gli oleodotti.
Sarebbe evidente, il tutto, se i pubblici occidentali lo sapessero. Ma non lo sanno, perchè la cronaca è scritta all’incontrario. E i “diritti umani” della popolazione siriana sono giù stati avvolti nello stesso sudario in cui è imbavagliata ogni verità. Ma gl’intellettuali occidentali, insieme ai giornalisti, e assieme a una certa dose omeopatica di pacifisti, credono di sapere. L’esistenza del sudario non riescono nemmeno a immaginarla. Sentenziano con l’aria di farci sapere che “a loro non la si fa”. Pensano di essere più intelligenti – avendo letto qualche romanzo giallo, o perfino avendolo scritto – dei professionisti che lavorano a tempo pieno per conto di un Potere che non sta giocando a carte.
Così, m’è venuto in mente, usando un altro gioco, di provare una mossa del cavallo. Cioè di andare a vedere, in retrospettiva, cosa avvenne, una ventina d’anni fa, in Lituania. Anche lassù, molto lontano dal Medio Oriente, ci fu un inizio di guerra civile, quando l’Unione Sovietica stava per crollare. I lituani volevano l’indipendenza, e avevano diritto di chiederla. C’era un genuino movimento popolare che si batteva per questo. Fu sufficiente un inizio. Poi tutto si concluse con la sconfitta dell’Impero del Male. Ci furono una ventina di morti a Vilnius, quando le truppe russe e il KGB occuparono la torre della televisione. L’accusa cadde su Gorbaciov, sui russi, i cattivi di turno, che furono accusati di avere sparato a sangue freddo sulla folla.
Quell’episodio è diventato il momento fondante della Repubblica indipendente di Lituania, ora uno dei 27 paesi dell’Unione Europea. Ma adesso sappiamo che tutta quella storia fu scritta da altre mani, ben diverse da quelle del “popolo lituano”.
Lo racconta ora Audrius Butkevičius, che divenne poi ministro della difesa della repubblica, e che, quel 15 gennaio 1991, organizzò la sparatoria.
Fu una operazione da servizi segreti, predisposta, a sangue freddo, con l’obiettivo di sollevare la popolazione contro gli occupanti.
Chiedo al lettore di sopportare la lunga citazione dell’intervista che venne pubblicata nel maggio-giugno 2000 dalla rivista “Obzor” e che è stata recentemente ripubblicata sul giornale lituano “Pensioner”. Sarà una fatica non inutile, perchè coronata da una preziosa scoperta, che ci aiuterà a capire diverse cose del libro di cui stiamo parlando.
«Non posso giustificare il mio operato di fronte ai familiari delle vittime – diceButkevičius, che allora aveva 31 anni – ma davanti alla storia io posso. Perchè quei morti inflissero un doppio colpo violento contro due cruciali bastioni del potere sovietico, l’esercito e il KGB. Fu così che li screditammo. Lo dico chiaramente: sì, sono stato io a progettare tutto ciò che avvenne. Avevo lavorato a lungo all’Istituto Einstein, insieme al professor Gene Sharp, che allora si occupava di quella che veniva definita la difesa civile. In altri termini si occupava di guerra psicologica. Sì, io progettai il modo con cui porre in situazione difficile l’esercito russo, in una situazione così scomoda da costringere ogni ufficiale russo a vergognarsi. Fu guerra psicologica. In quel conflitto noi non avremmo potuto vincere con l’uso della forza. Questo lo avevamo molto chiaro. Per questo io feci in modo di trasferire la battaglia su un altro piano, quello del confronto psicologico. E vinsi».
Spararono dai tetti vicini, con fucili da caccia, sulla folla inerme. Come hanno fatto in Libia, come hanno fatto in Egitto, come stanno facendo in Siria.
Adesso avete capito. Gene Sharp era là, in spirito. Fu lui che insegnò aButkevičius come vincere, “trasferendo la lotta sul piano psicologico”. Peccato che, lungo la strada, morirono 22 persone innocenti. Ma, “di fronte alla storia”, cosa pretenderanno i nostri difensori dei diritti umani?
Il libro di Sharp va dunque letto sotto un’altra luce. Ed è, sotto questa luce, un’opera geniale. E’ stato scritto proprio per le giovani generazioni, che sono ormai totalmente prive di ogni memoria storica, già omologate dalle televisioni, ora intrappolate nei social network, che non hanno mai fatto politica, che sono digiune di ogni forma di organizzazione. Per questo è scritto con sconcertante semplicità, per essere compreso da un ragazzo o una ragazza della scuola media: per introdurli nella lotta politica e psicologica rese possibili dai tempi moderni, ma in modo tale che siano strumenti non in grado di capire ciò che fanno e per chi lavoreranno. E’ un manuale per organizzare la “sovversione dall’interno”, di tutti i paesi “altri” rispetto all’America e all’Europa; per armare, con la “non violenza” le quinte colonne che devono far cadere tutti i regimi che sono esterni al “consenso washingtoniano”.
Questa operazione ha un solo “tallone d’Achille”. Che si potrebbe vedere, come fosse fosforescente, non appena si strappasse il tendaggio principale: l’assioma indiscutibile che “noi siamo la democrazia”. Perché capiremmo tutti che la ribellione “non violenta”, che suggerisce Sharp, può essere diretta contro i nostri oppressori “democratici”, che hanno trasformato la democrazia in una cerimonia manipolatoria e senza senso. Potremmo anche noi attuare tutti i suggerimenti di Sharp: dileggiare i funzionari del regime, fare marce, boicottare certi consumi, esercitare la non collaborazione generalizzata, attuare la disobbedienza civile.
In realtà, a ben pensarci, grazie professor Sharp, lo stiamo già facendo. Solo che non abbiamo, a sostenerci, i mercenari pagati con i denari dell’America. E possiamo anche noi citare, come fa Sharp, il deputato irlandese Charles Stewart Parnell (1846-1891) : “Unitevi, rafforzate i deboli tra voi, organizzatevi in gruppi. E vincerete”.
Solo che questa nostra democrazia è molto più subdola delle dittature. E dobbiamo sapere che, quando cominceremo ad abbatterla, per costruirne una vera, magari tornando alla nostra Costituzione, non avremo nessun aiuto dall’esterno.