L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

venerdì 4 aprile 2014

la velocità vuota di Renzi chi? per chi ha bisogno di credere che gli asini volano


Le riforme di Renzi? Ecco perché sono una schifezza

di Andrea Scanzi

Tutti vogliono il “cambiamento”, ma non tutti i cambiamenti sono positivi. Gran parte delle riforme di Renzi sono false quando non disastrose. Se gli italiani le conoscessero nel dettaglio, non sarebbero certo così entusiasti come sembrano. La fredda cronaca.
1) Abolizione delle Province. Falso. Il ddl Delrio ingarbuglia ulteriormente le cose, crea 25mila nuovi consiglieri e 5mila assessori in più. Non abolisce le Province, ma crea casomai nuove Città Metropolitane. Delrio parla di 2 miliardi di risparmio. Falso: la Corte dei Conti ha stimato il risparmio al massimo in 35 milioni di euro. 2) Lotta alla mafia. Renzi si è laureato in Giurisprudenza per tributo a Falcone e Borsellino, ma non sembra. Come ulteriore favore ad Alfano e dunque a Berlusconi, sta operando per annacquare il 416ter del codice penale, quello sul voto di scambio politico/mafia. Renzi intende eliminare la sanzione per il politico che si mette a disposizione delle cosche e lasciando unicamente la sanzione per lo scambio voto/denaro o voto/altra utilità. Renzi si sta così limitando a riproporre una norma che è risultata sinora del tutto inutile al contrasto degli accordi politica/mafia.
3) 80 euro in busta paga a chi prende meno di 25mila euro annui. Falso. Renzi lo aveva promesso nel corso della conferenza stampa con le slide dell’Esselunga, ma quell’aumento mensile da maggio sembra già diventato un bonus una-tantum.
 
4) Abolizione del reato di clandestinità. Falso. La Svuota Carceri è una legge delega che depenalizza molti reati indistintamente, anche contro la pubblica amministrazione (peculato e abuso d’ufficio). Sel aveva proposto un emendamento singolo che aboliva (e non si limitava a depenalizzare) il reato di clandestinità. Chi lo ha votato? Solo Sel e M5S. Il Pd ha votato contro. La Svuota Carceri è stata votata da tutti tranne che Fratelli d’Italia, Lega e M5S (che l’aveva votata al Senato turandosi il naso o così dicono, sperando che alla Camera potesse migliorare: una tattica che non convince). M5S non ha votato “contro l’abolizione del reato di clandestinità”, come vi raccontano, anzi è stata l’unica con Sel a votarla. La Svuota Carceri si limita a depenalizzare il reato, tramutandolo in illecito amministrativo. Non solo: è una legge delega, l’ennesima. Tramite questo emendamento-macedonia, che contiene tutto e il suo contrario come quelli su femminicidio o Imu-Bankitalia, il Parlamento rinuncia al suo ruolo un’altra volta e delega il Governo. Quindi? Quindi il governo ha otto mesi di tempo per depenalizzare quei reati. Al momento non ha depenalizzato un bel nulla (qualcuno lo dica a Salvini). E’  solo una promessa. Un’altra delle tante.
 
5) Le auto blu su Ebay. Per 100 vendute, Renzi ne riacquista 1300 o giù di lì.
 
6) Questione morale: inesistente. Barracciu è ancora sottosegretaria, Del Basso De Caro è ancora sottosegretario, l’autorizzazione a procedere per la Brambilla è stata negata anche dal Pd. E per decenza non parlo di Genovese. I renzini fanno a gara per andare a vedere il film su Berlinguer di Veltroni, ma dimostrano di non averci capito nulla.
 
7) Legge elettorale: è una schifezza, persino peggiore del Porcellum. Infatti l’ha scritta Verdini. Ci sono tre soglie di sbarramento (4.5, 8, 12%). Ci sono ancora i listini bloccati. Non ci sono le preferenze. Ci sono ancora le multicandidature (in 8 collegi). C’è uno spaventoso premio di maggioranza, che regala una maggioranza bulgara alla Camera se al primo turno prendi il 37% ma che non garantisce la governabilità se vinci al ballottaggio col 50% più uno. E’ una legge elettorale folle e scriteriata, praticamente incostituzionale, e infatti Renzi ne sta rallentando l’approvazione per poter usarla subito dopo la promulgazione definitiva con un voto anticipato (a metà 2016) che non dia il tempo alla Consulta di reputarla incostituzionale.
 
8) Titolo V della Costituzione: è vero che va cambiato, ancor più dopo la Bassanini del 2001, ma la riforma renzina ne ripete drammaticamente le storture. Il malfunzionamento riguarda il riparto di competenze tra Stato e regioni, ma la riforma ne reitera le patologie. Così il costituzionalista Gianluigi Pellegrino: “E loro (i renzini, NdR) cosa fanno? Prendono questo sistema fallimentare (del Titolo V, Ndr) e lo usano per decidere quali di questi complicati iter legislativi vada eseguito e se scatta o no il vincolo determinato dall’intervento del Senato“.
 
9) Snellimento del sistema di approvazione leggi. Falso. La nuova riforma prevede addirittura 12 modi diversi per approvare una legge e non snellisce nulla. Casomai incasina. Peraltro, quando il Parlamento ha voluto, è stato velocissimo anche con il bicameralismo. Il Lodo Alfano, una schifezza inaudita, è stato approvato in venti giorni.
 
10) Dicono: “Non volete le riforme, siete immobilisti”. Falso: le riforme servono, ma vanno fatte bene. E dunque vanno fatte da gente competente, mica dalle Madia. Per esempio: conferma di due camere elettive ma con due ruoli diversi tipo Stati Uniti. Dimezzamento del numero di deputati e senatori. Dimezzamento degli stipendi. Dimezzamento delle indennità. Miglioramento del riparto di competenze tra Stato e regioni. Limitazione al ricorso smodato alla decretazione d’urgenza. Così vorrebbe Civati, così vorrebbe Grasso (orrendamente “minacciato” dalla Serracchiani). Così vorrebbe Chiti, così vorrebbero i 5 Stelle. Ma Renzi e i suoi vanno in direzione opposta. 

11) Renzi sta spingendo per un monocameralismo spinto che si confà come una sorta di dittatura del premier. Il monocameralismo in sé non è un male, ma lo diventa con una legge elettorale vergognosa, la mancanza di una legge sul conflitto di interessi e la mancanza di una seria legge anticorruzione. Renzi sta concretizzando il sogno piduista di Gelli e Berlusconi.
 
12) Rodotà, uno dei firmatari del sacrosanto appello di Libertà e Giustizia, nel 1985 era d’accordo con il monocameralismo. 1) E chissenefrega? 2) Era un’Italia diversa, c’era il proporzionale e quella proposta aveva comunque dei seri contrappesi. 3) Anche Nicodemo ha cambiato idea: due anni fa diceva che Renzi era finito. Anche la Picierno ha cambiato idea: neanche un anno fa diceva che Bersani era Dio e Renzi un semi-bischero. Anche la Moretti ha cambiato idea (idem come la Picierno). Anche la Serracchiani ha cambiato idea: nell’ottobre del 2011 organizzava eventi con Civati a Bologna e il grido di battaglia era “Rottamiamo anche Renzi”. Devo continuare?
 
13) Le riforme di Berlusconi erano uguali o addirittura migliori di quelle di Renzi. Al tempo, giustamente, la sinistra scese in piazza per difendere la Costituzione. Ora no perché a mettere la firma sul progetto è uno che dice di essere quasi di sinistra. E allora stampa e tivù ci stanno. E’ la disinformazione, monnezza.
 
14) In quasi tutti i paesi c’è il monocameralismo. Sì, ma i padri costituenti italiani sapevano che da noi la democrazia è nata fragile. Abbiamo una pericolosissima propensione alla dittatura, all’infatuazione per l’uomo (bischero) della Provvidenza, alla fascinazione per il citrullo unto dal Signore. E allora hanno creato il bicameralismo e l’articolo 138 che ne costituisce l’architrave (quell’architrave che tutti, tranne M5S e qualche cane sciolto di Sel, volevano cancellare d’estate). Si torna lì: il problema sono i contrappesi. Che la riforma renzina elimina, aprendo la strada a una svolta palesemente autoritaria.
 
15) Però almeno con Renzi si risparmia. Falso. Perché il Senato rimane. Non viene cancellato ma reso inutile. Una “Camera delle autonomie” che costerà comunque tanto. Renzi ha parlato di 1 miliardo di risparmi, ma quello effettivo sarà inferiore ai 100 milioni.
 
16) La “Camera delle autonomie” concepita da Renzi è un dopolavoro di inquisiti. 148 componenti. 42 membri di diritto (Presidenti di Regione e sindaci dei capoluoghi di regione). 80 cooptati (due sindaci per regione e due sindaci di capoluoghi). 21 nominati dal Quirinale (si presume gente alla Amato o Violante, se li sceglierà Re Giorgio). E 5 senatori a vita. Allo stato attuale, buona parte di questi potenziali non-senatori è inquisita. Gente tipo Cota, Formigoni, Scopelliti o Chiodi. Un bel gruppettino di anime candide, che andrebbero in Senato a svernare e bivaccare, potendo votare solo per materie quasi sempre marginali e dividendosi tra un impegno istituzionale e l’altro. Facendo male sia l’uno che l’altro. 17) Renzi dice che “il paese vuole riforme”. Sì, ma quali? Chi ha eletto Renzi? Chi gli ha dato mandato di sventrare la Costituzione? Può un parlamento di nominati, eletto con legge incostituzionale, modificare la Costituzione? Come può una Boschi arginare un Calamandrei? Come può un premier eletto da nessuno cambiare radicalmente le regole con un condannato in via definitiva, interdetto da tutto, che non può neanche votare ma può decidere come voteranno tutti gli italiani? Stiamo scherzando?
Non fatevi fregare da questa Brigata Supercazzola, composta da serial bugiardi e dilettanti allo sbaraglio, tanto arroganti quanto vuoti. Non spegnete il cervello: è quello che vogliono.

tagli e tasse, tasse e tagli e aumento della disoccupazione questo è il demagogo Pd


Tagli alla spesa pubblica? Una vecchia ricetta

Stefano Perri, Riccardo Realfonzo

1. Nella spesa pubblica italiana si annidano sprechi e intollerabili sacche di privilegi. Questa amara considerazione induce molti commentatori a dedurre che la spesa pubblica italiana sia eccessiva e in questo consisterebbe il principale problema della nostra finanza pubblica, secondo alcuni persino la causa originaria della montagna di debito pubblico. Per questa ragione, la spesa pubblica italiana andrebbe complessivamente ridotta. Ma si tratta di una vecchia ricetta che ha già dato pessima prova di sé. Infatti, la spesa pubblica è oggetto di tagli incisivi in Italia da oltre venti anni, senza che sprechi e privilegi siano stati cancellati. Per non parlare degli effetti macroeconomici dei tagli, e in generale delle politiche di austerità, che hanno arrestato la crescita della nostra economia.

A ben vedere, la spesa pubblica italiana non è affatto elevata e gli sprechi non devono essere combattuti tagliando la spesa, bensì riqualificandola. Infatti, come di seguito mostreremo, il volume complessivo della spesa pubblica italiana è in linea con la media dei Paesi europei, nonostante il volume ingombrante degli interessi sul debito. Ciò significa che la spesa pubblica primaria o “di scopo” – cioè la spesa diretta ad erogare servizi pubblici, con esclusione degli interessi sul debito – è largamente inferiore alla media europea.
L’analisi mostra inoltre che, dopo anni di politiche di austerità, il valore della spesa pubblica totale per cittadino espressa in termini reali è ormai largamente inferiore alla media europea. Da tutto ciò ne segue che bisogna guardare altrove per spiegare la formazione del debito e per affrontare i problemi atavici di competitività del Paese. La spesa pubblica di scopo italiana andrebbe incrementata e certamente riqualificata, non tagliata.

2. Cominciamo con l’esaminare la spesa di scopo prendendo come riferimento il 1981, l’anno in cui si consumò il fatidico “divorzio” tra il Tesoro e la Banca d’Italia, che da allora in poi non fu più tenuta ad acquistare i titoli del debito pubblico. Ebbene, nel 1981 la spesa di scopo italiana ammontava al 39% del Pil, a fronte del 45% della Germania e del 47% della Francia. Da allora – come mostra il Grafico 1, costruito sulla base dei dati AMECO forniti dalla Commissione Europea – la spesa pubblica italiana, espressa in percentuale del Pil, è stata sempre inferiore alla media dei paesi europei, Germania e Francia in testa. Solo nei quattro anni tra il 1987 e il 1991, e poi a partire dal 2005 la Germania ha sperimentato una percentuale di spesa inferiore a quella italiana, ma la quota della nostra spesa sul Pil si è mantenuta comunque ben inferiore alla media dell’eurozona.
Ancora più significativa risulta essere l’analisi della spesa pubblica di scopo per cittadino. Si tratta di un dato particolarmente significativo per valutare l’impegno finanziario pubblico per il welfare e per i servizi pubblici in generale. Ebbene, come evidenziato dal Grafico 2, la spesa italiana per cittadino risulta essere sensibilmente ben inferiore a quella di Francia e Germania, ma anche della media dei Paesi dell’eurozona. Nel 2013 il valore della spesa pubblica di scopo pro capite è stata stimata in Italia pari a 11.629 euro. Nell’eurozona è stata di 13.350 euro, in Germania 14.220 euro e in Francia 17.074 euro. In Svezia, la spesa di scopo pro capite è stata di 22.555 euro, quasi il doppio che in Italia.
Quanto appena osservato ci aiuta a capire che se i servizi pubblici italiani sono spesso inadeguati questo sarà pure dovuto a gravi sprechi e inefficienze, ma non si può escludere che vi sia per alcuni capitoli – quanto meno nel confronto con gli altri Paesi – un problema di insufficienza di spesa pubblica. Questa affermazione risulta difficilmente contestabile, anche alla luce della Tabella 1:
 
3. A fronte di una spesa pubblica primaria inferiore agli altri paesi europei, il nostro debito pubblico è però sempre stato maggiore della media europea[1]. Nel 1981 il debito pubblico italiano ammontava infatti già al 59% del Pil, contro una media europea intorno al 40%, con la Germania attestata al 33,70% e la Francia molto più in basso, appena al 22%. Nel 2013 il rapporto debito Pil risulta essere più che raddoppiato in tutti i Paesi. In Italia ha raggiunto il 131% del Pil, nell’Unione Europea il 90%, in Francia il 94% e in Germania l’81%.
Per spiegare il paradosso di un Paese che spende meno degli altri e si indebita di più bisogna guardare ad altri due fattori: la dinamica delle entrate pubbliche e il regime dei tassi di interesse.
Come mostra il Grafico 3, le entrate pubbliche in rapporto al Pil erano nel 1981 molto inferiori a quelle degli altri paesi europei. Infatti, le entrate italiane erano il 33,6% del Pil, mentre in Germania erano il 43,6% e in Francia addirittura il 46,1%. Dopo un decennio le entrate italiane raggiunsero finalmente quelle della Germania, ma nel frattempo il debito italiano aveva già superato il valore del suo prodotto nazionale annuo. Solo dalla metà del primo decennio del nuovo secolo le entrate italiane si sono portate leggermente al di sopra della media europea, restando però per tutto il periodo nettamente inferiori a quelle della Francia.
Tuttavia, per non essere tratti in inganno dalla più recente dinamica delle entrate occorre notare che il loro andamento rispetto al Pil è in grande misura il risultato della bassa crescita dell’economia italiana. Quanto appena affermato si evince dall’analisi dell’andamento delle entrate reali pro capite registrate in Italia dopo il 2000, alla luce delle statistiche dell’Ocse. Infatti, come mostra il Grafico 4, l’Italia è uno dei pochissimi Paesi nei quali la crescita delle entrate dello Stato, in termini reali pro capite, è stata negativa.
Ciò ci consente di spiegare un altro apparente paradosso della finanza pubblica italiana: le entrate totali rispetto al Pil aumentano mentre le entrate reali pro capite si riducono.
Sul primo aspetto non possono esserci dubbi: come sottolineato dopo la recente uscita del volume Noi Italia 2014 dell’ISTAT, l’Italia ha una pressione fiscale appena inferiore a quella della Svezia. In effetti - secondo i dati AMECO della Commissione Europea - il peso totale del carico fiscale in rapporto al Pil è stimato al 44,05%, superiore alla media europea e tanto vicino al dato svedese del 45,03%. Tuttavia, anche sul secondo aspetto non possono esserci dubbi. E infatti il carico fiscale pro capite italiano è considerevolmente inferiore a quello della Svezia, e a quello di tutti gli altri Paesi europei più sviluppati: nel 2013 il carico fiscale per cittadino italiano è stato di 11.338 euro per l’Italia, mentre in Svezia ha raggiunto la cifra di 19.819 euro. In Germania, sempre nel 2013, è stimato a 12.082 euro e in Francia a 15.075 euro. Si comprende facilmente che il paradosso di un Paese che ha una elevata pressione fiscale rispetto al Pil e un basso carico fiscale pro capite dipende proprio dal basso livello del reddito, e non dall’elevatezza assoluta delle entrate statali. Insomma, rispetto agli altri Paesi europei le tasse non sono elevate, è la crescita ad essere insufficiente.
Tutto ciò conferma che all’origine dell’alto debito pubblico italiano non c’è un “eccesso di spesa”, ma un difetto di entrate pubbliche, che nel 1981 erano, in rapporto al Pil, più di cinque punti inferiori alla spesa di scopo. In Germania questa differenza era di meno di due punti percentuali, e in Francia meno di un punto. La conseguenza era che l’Italia registrava livelli di disavanzo del bilancio pubblico, al netto degli interessi, sconosciuti agli altri Paesi. Più precisamente, il nostro peccato originale è stato quello di avere consentito una enorme evasione fiscale e forse anche di avere speso male, ma certo non di aver speso troppo in aggregato. La successiva crescita delle entrate, senza però che si sia risolto il problema dell’evasione, non è stata sufficiente ad invertire il trend del debito pubblico, principalmente a causa dell’andamento degli interessi sul debito.

4. Ma anche sulla questione degli interessi c’è qualcosa da chiarire. Infatti, lo Stato italiano ha sempre pagato tassi sul debito più elevati dei partner europei. Questa circostanza si è particolarmente accentuata dopo il “divorzio” fra Tesoro e Banca d’Italia, allorché lo Stato doveva necessariamente collocare i titoli del debito sul mercato, con conseguente crescita dei tassi. Ma la dinamica degli interessi non si spiega solo con questioni di spese e entrate statali. Tutt’altro. Il fatto è che il nostro apparato produttivo si mostrava – già allora – non adeguatamente competitivo, dando vita a una tendenza strutturale all’eccesso delle importazioni sulle esportazioni. Una situazione aggravata da spinte inflazionistiche interne maggiori rispetto alla media degli altri paesi. Ne seguiva un disavanzo cronico della bilancia commerciale che doveva essere compensato con un avanzo della bilancia dei capitali, e dunque con afflussi di capitali attratti da tassi particolarmente remunerativi. Per queste ragioni, il peso sugli interessi del debito cominciò a salire rapidamente, raggiungendo addirittura il 12,6% del Pil nel 1993, mentre negli altri Paesi quel valore si attestava molto più in basso, mediamente intorno al 3%. Solo dopo il 1993 il peso degli interessi sul Pil cominciava a declinare, ma è sempre rimasto – come si evince dal Grafico 5 – significativamente più alto di quello degli altri paesi europei.
Tutto ciò significa che la montagna di debito pubblico che ci portiamo sul groppone non è dipesa tanto dalla presenza di uno Stato spendaccione, come spesso si ritiene, quanto dal fenomeno della evasione fiscale e dalla scarsa competitività delle nostro sistema produttivo.
5. Come conseguenza della crescita del debito e del lievitare degli interessi – e, lo ripetiamo, nonostante una componente di scopo contenuta - la spesa pubblica italiana totale espressa come quota del Pil si poneva sino ai primissimi anni ’90 al di sopra della media europea. Dopo di allora – come si evidenzia nel Grafico 6 – il valore della spesa totale italiana veniva superato dalla Francia nel 1993, dal 1995 si allineava a quello della Germania e della zona euro, per tornare ad essere superiore a quella della Germania ma in linea con quello della zona euro dal 2004 in poi. Soprattutto, risulta evidente all’esame del grafico che, come conseguenza delle politiche di austerità, il valore della spesa pubblica totale italiana rispetto al Pil si è già contratto di ben sei punti rispetto ai primi anni ’90.
Ciò permette di capire come mai l’Italia costituisca una eccezione nel quadro Ocse, in quanto mostra un valore della spesa pubblica complessiva reale per cittadino che non è cresciuto ma è rimasto sostanzialmente costante rispetto ai primi anni ’90. La spesa pubblica reale per cittadino si ottiene partendo dal valore della spesa pubblica totale – comprensiva quindi anche della rilevante quota di interessi – in termini reali e rapportando questo valore alla popolazione. Ebbene,  l’Italia, come mostra il Grafico 7, ha una spesa reale per cittadino largamente inferiore alla Francia e alla Germani, ma anche largamente inferiore alla media dei paesi dell’eurozona. Una differenza che si è ampliata sempre più con le politiche di austerità imposte principalmente ai Paesi periferici dell’Unione monetaria.
 
6. Quanto appena osservato dovrebbe aiutare a chiarire che le condizioni difficili della nostra finanza pubblica – anche per ciò che riguarda i rapporti deficit PIL e debito PIL – non stanno certo nella dimensione della spesa, che è stata oggetto di tagli che ne hanno ridotto consistentemente il peso sul Pil, congelandola dal punto di vista del valore reale.
A questo proposito, proviamo a capire cosa si è verificato con le politiche di austerità varate dai primissimi anni ’90, successivamente alla adesione al Trattato di Maastricht. Per apprezzare correttamente il peso di queste politiche bisogna concentrarsi sull’andamento del bilancio primario dello Stato, cioè la differenza tra entrate e spese al netto degli interessi sul debito. Come illustrato nel Grafico 8, dal 1992 l’Italia ha segnato il record europeo in fatto di avanzi primari di bilancio, tenendoli stabilmente in terreno positivo, con l’eccezione del 2009, mentre la virtuosa Germania sperimentava saldi negativi per ben sette anni in quello stesso periodo.
Anche la dimensione degli avanzi primari messi a segno dall’Italia dai primi anni ‘90 è risultata ben maggiore di quella registrata dalla Germania, dalla Francia e dalla media dei paesi dell’eurozona, come conferma il Grafico 9. Dunque, dal 1991 la politica fiscale italiana è stata restrittiva. Ma ciò – come era stato ampiamente previsto dalla letteratura di impostazione keynesiana – non ha generato gli effetti annunciati dai teorici dell’austerità espansiva. Infatti, l’austerity ha vistosamente compresso la domanda interna di merci e servizi, facendo rallentare la crescita del Pil e finendo per influenzare negativamente lo stesso rapporto tra debito e Pil. Rispetto ai primi anni ’90, infatti, il Pil italiano è cresciuto la metà del resto dell’eurozona, mentre il rapporto tra debito e Pil è aumentato di circa 35 punti.
7. In conclusione, diversamente da quanto spesso si afferma, i problemi delle finanza pubblica italiana e dell’economia italiana non stanno in un eccesso di spesa statale. Per ciò, continuare con la vecchia ricetta dei tagli alla spesa pubblica rischia di lasciare pericolosamente nell’ombra le cause di fondo dei problemi italiani, che riposano nelle distorsioni del meccanismo delle entrate, nella scarsa competitività del nostro apparato produttivo, nell’insufficienza della domanda aggregata.
Anche i recenti buoni propositi, di diminuire il cuneo fiscale sul lavoro al fine di rilanciare la domanda, rischiano di innescare ulteriori problemi, almeno se si pensa di finanziarli completamente attraverso tagli della spesa pubblica. Come mostrato infatti da diversi studi, almeno nel breve periodo, il moltiplicatore fiscale della spesa è ben maggiore rispetto al moltiplicatore delle tasse. E ciò significa che ulteriori tagli alla spesa pubblica rischiano di avere un effetto negativo sul Pil maggiore di quanto sia l’effetto espansivo dovuto all’abbassamento della pressione fiscale. Insomma, la spesa pubblica italiana non è elevata. In una grave crisi come quella che stiamo affrontando, bisognerebbe andare ben oltre i vincoli europei sulla finanza pubblica ed espandere la spesa. Essa andrebbe poi ampiamente riqualificata. Di certo, non tagliata.

[1] Per l’Europa si sono presi i dati dell’Unione Europea a 15, perché sono gli unici disponibili a partire dal 1981.
 http://www.sinistrainrete.info/spesa-pubblica/3560-stefano-perri-riccardo-realfonzo-tagli-alla-spesa-pubblica-una-vecchia-ricetta.html

la pagliacciata della procura di Brescia, scambia un trattore per un carroarmato


Secessione e repressione di Eugenio Orso


Sembra che il pericolo “anarco-insurrezionalista”, sbandierato da anni a scopo propagandistico, e la “sovversione” dei politicamente scorretti No-Tav non bastino più al potere vigente come nemici da crocifiggere.
Quando la situazione sociale si fa di ora in ora più pesante, la mano ideologico-propagandistica del sistema, ma soprattutto il tradizionale pugno di ferro repressivo si spostano su obiettivi nuovi, giudicati maggiormente paganti. Se l’intontimento mediatico di massa, da solo, potrebbe non bastare per garantire la stabilità del sistema, ecco che, allora, si ricorre ai corpi di uomini in armi posti alla sua difesa. E si fa un abbondante uso della magistratura e dei suoi uffici, come, ad esempio, quelli della procura di Brescia. La repressione poliziesca vecchio stile non è un semplice ripiego, in condizioni di emergenza, ma “la continuazione della propaganda sistemica con altri mezzi”, parafrasando il prussiano Carl von Clausewitz.
Veneto Stato, Brescia Patria e l’indipendentismo disobbediente sardo, con una spruzzata di piemontesi, cadono proprio a fagiolo, consentendo di additare a un’opinione pubblica che definire idiotizzata è poco, il nuovo nemico interno. Si contribuisce, così, a porre in ombra i veri problemi, quelli che minacciano la stessa sopravvivenza quotidiana di fasce sempre più ampie del popolo italiano. Del popolo italiano tutto, bene inteso, da nord a sud.
Non bastano più gli show di Renzi, per ammansire il volgo e illuderlo che la sua condizione futura migliorerà, che si lotterà strenuamente per cambiare l’”Europa delle banche”? E’ del tutto evidente che queste comparsate possono non bastare, perché la “realtà parallela”, creata nell’interazione fra i media e una politica euroserva, non elimina gli alti tassi di disoccupazione, gli effetti concreti della spremitura fiscale e quelli delle crescenti insufficienze di reddito. Anzi, li amplifica nonostante gli annunci di salvifiche riforme del venditore di fumo fiorentino. Ecco che si affaccia il pericolo secessionista/ indipendentista, alimentato da pochi, presunti facinorosi e violenti. Il meccanismo è un classico della repressione sistemica e dell’inganno di massa. Da un lato, si lancia sul mercato del consenso il prodotto sub-politico Matteo Renzi, con il suo governo da operetta (tutti i membri, esclusi il pericoloso ministro Padoan e il viscido sottosegretario Del Rio). Dall’altro lato, si indica un pericolo interno più inquietante degli abusati “anarco-insurrezionalisti” (ma veramente sono mai esistiti?), per distrarre, impaurire e dividere il popolino vessato.
Se veramente Renzi avesse in mente di applicare politiche sostanzialmente diverse da quelle applicate, con una certa continuità, dai suoi predecessori non eletti, cioè Monti e Letta, non sarebbero stati necessari gli arresti di ventiquattro “pericolosi indipendentisti” e l’ondata di perquisizioni a danno soprattutto dei veneti. Non si sarebbe data tanta importanza al ridicolo “tanko”–pala meccanica, custodito in un capannone industriale desolatamente vuoto a Casale di Scodosia, in provincia di Padova. Ma Renzi deve rispettare fino in fondo le “regole europee”, imposte dal grande capitale finanziario, così come fecero Monti e Letta, e non può venire incontro in alcun modo ai veri bisogni del popolo italiano. Può solo produrre un’altra legge elettorale in odor di truffa (e incostituzionalità) e precarizzare ancor di più il lavoro, come ha fatto con il recente decreto lavoro 134/2014, e come si appresta a fare con il contratto d’ingresso “a tutele crescenti” (ma inizialmente mancanti), oggetto di disegno di legge con tempi più lunghi.
Se i conati “secessionisti”, alimentati dalla crisi produttiva e occupazionale, cadono a fagiolo per riattivare la repressione e continuare così con altri mezzi la propaganda sistemica, ciò potrebbe porgere il destro per infliggere, da qui alla scadenza elettorale europea di fine maggio, un colpo in testa alla lega di Salvini, oggi in rimonta di consensi. Sì, proprio alla lega non più separatista, che però è il gruppo di “euroscettici” legali più vicino alle istanze indipendentiste dei veneti, dei bresciani, dei piemontesi e financo dei sardi. Sarebbe sufficiente, a tale scopo, che qualche procura trovi, o costruisca abilmente, un collegamento con rilievo penale fra esponenti leghisti (magari candidati alle europee) e i gruppi contro i quali si è scatenata la repressione. Si può cogliere l’occasione per inguaiare qualche altro capo dei Forconi, com’è accaduto con Luigi Chiavegato, onde prevenire in alcune regioni la ricomparsa di questo (effimero) movimento di popolo.
Non è quindi il “tanko” di Casale di Scodosia, fra il paramilitare e il carnascialesco, non sono Rocchetta e le sue presunte milizie della Liga Veneta che devono spaventarci, ma la repressione sistemica che è in arrivo e che domani potrà colpire anche chi si oppone, senza tanki e senza armi, al progetto criminale dell’euro e al potere assoluto degli euroservi locali.

giovedì 3 aprile 2014

non ci stancheremo mai di dire e ribadire, rivogliamo la Sovranità Nazionale, Politica, Montetaria e Territoriale

FASSINA LA SA LUNGA MA... di Rodolfo Monacelli

3 aprile. MILANO: EURISTI E ANTIEURISTI A CONFRONTO.

Giovedì 27 marzo, a Milano, presso la Cattolica di Milano, si è svolto un incontro intitolato “Euro: quali scenari per il futuro?”, [nella foto] con la presenza del Professor Claudio Borghi (docente di Economia degli intermediari finanziari presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano), dell’On. Stefano Fassina (parlamentare del Partito Democratico ed ex viceministro dell’economia e delle finanze), del Dott. Diego Fusaro (ricercatore di Storia della Filosofia presso l’Università Vita – Salute San Raffaele di Milano) e del Professor Giacomo Vaciago (docente di Economia Monetaria presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano).

L’incontro è stato estremamente interessante, non soltanto per i temi trattati e per le posizioni dei vari relatori, più o meno conosciute, ma per meglio comprendere come le forze euriste ed antieuriste si stiano schierando in campo.

I temi trattati durante l’incontro sono quelli di cui chi ci legge ha sentito e letto da anni: le cause della crisi dell’eurozona, la crisi dei debiti sovrani, gli squilibri delle bilance commerciali, le politiche di austerità e di svalutazione interna, il ruolo della moneta unica nelle politiche europee.

In questo articolo, come abbiamo anticipato, cercheremo di individuare non tanto le soluzioni economiche alla crisi, ma come il campo eurista ed antieurista si sta muovendo.

Per fare questo inizieremo proprio dal più “piddino” di tutti, il professor Giacomo Vaciago, di cui Alberto Bagnai ci aveva parlato tempo fa. Risparmieremo ai nostri lettori, pazienti ma anche deboli di stomaco, i soliti luogocomunismi: “le cariole”, “l’invasione delle cavallette”, “uscendo dall’euro torniamo al baratto”, “la guerra”. Ci vorremmo, invece, soffermare sugli elementi più interessanti. E quali sono questi elementi interessanti? Che anche un eurista duro e puro come il professorVaciago è costretto ormai ad ammettere alcune “criticità” della moneta unica:

- l’euro non era e non è il paradiso terrestre
- l’austerità, che intende salvare i debitori e non i creditori, è stata sbagliata
- soltanto il settore manufatturiero ha beneficiato dell’euro
- l’euro non è una moneta unica perché le economie europee non sono unificate

Come i nostri lettori certamente sapranno anche in questa lettura critica del Professor Vaciago ci sono delle “lievi imprecisioni”. Una su tutte non comprendere come l’austerità non è stata una scelta sbagliata, ma necessaria in regime di moneta unica. Gli squilibri che rendono necessaria l’austerità sono infatti squilibri determinati dai rapporti di debito e credito estero, che si possono risolvere soltanto rimettendo a posto il saldo delle partite correnti, cioè riducendo il debito estero dei paesi del sud. Di conseguenza, con l’euro (che ha il cambio fisso) l’unica possibilità per ridurre l’indebitamento estero di un paese del sud è quella di un taglio del reddito dei lavoratori. Certo, l’alternativa sarebbe quella di chiedere al resto del mondo di crescere il triplo per poter esportare di più. Ma ci sembra altamente improbabile.

Come avevamo promesso questo articolo, però, non tratterà di argomenti tecnico-economici, quindi ci fermiamo qui e ribadiamo l’elemento importante dell’intervento del professor Vaciago. Nonostante le sue “lievi imprecisioni” e la sua fede eurista, si comincia a dire che l’euro non è “il paradiso terrestre”.

Passiamo ora all’intervento dell’On. Stefano Fassina. Anche in questo caso l’ex responsabile economico del Partito Democratico e sottosegretario al ministero dell’economia del governo Letta afferma che “La ricetta economica che abbiamo seguito anche in Italia non ha funzionato e non funziona”. Ammette inoltre che “Era noto a tutti che l’Eurozona non sarebbe mai stata un’Area Valutaria Ottimale”.

Dunque, ci chiediamo, come mai il partito dell’On. Fassina si è fatto promotore di un progetto destinato al fallimento? L’On.Fassina lo ammette candidamente: “L’Euro non è stata una scelta economica, ma politica, perché la dimensione nazionale era una condanna alla marginalità”.

Tralasciando la stupidaggine della “marginalità della dimensione nazionale” l’On. Fassina confessa, dunque, ciò che noi “populisti antieuropeisti” abbiamo sempre affermato: il progetto europeista è stato un progetto autoritario, che nulla aveva a che fare con l’Europa dei popoli né con la razionalità economica, per la concentrazione dei capitali in un momento di crisi del vecchio modello capitalistico. Sorprende, e un po’ sconcerta, che il promotore di questo progetto sia stato però un partito che ancora si definisce di “sinistra” e che ha avuto come unico effetto quello della svalutazione dei salari.

Di fronte a queste affermazioni di esponenti della sinistra politica e universitaria è arrivato l’intervento del Professor Claudio Borghi (di cui si vocifera una candidatura per la Lega Nord alle prossime elezioni europee) che, paradossalmente, a un certo punto, è sembrata la voce più di “sinistra” in quel consesso. Attenzione però: Borghi non ha detto nulla di rivoluzionario o di sovversivo, ma soltanto ciò che è sotto gli occhi di tutti, evidenziando come i cambi valutari non sono un accidente della storia, ma lo strumento per avere le diverse economie in armonia. Inoltre, ha aggiunto, l’idea che tutti i paesi dovrebbero essere eccellenti è “produttivi”, non solo è sbagliata ma è anche una mentalità “imperialistica”. Non solo perché la “produttività tedesca” è derivata da deflazione salariale e da un aumento della spesa pubblica (a causa della riforma del lavoro Hartz), ma anche perché non è possibile far sì che tutti i paesi che adottano l’euro si trasformino in delle piccole “Germanie”.

Tutto condivisibile? Non proprio. Nell’analisi di Borghi, infatti, oltre la giusta e condivisibile critica della moneta unica e del cambio fisso manca quella nei confronti del mercato unico e degli strumenti di difesa dei lavoratori in un’eventuale uscita dall’euro (controllo sui movimenti di capitali, indicizzazione dei salari, eccetera). Ma per dire questo sarebbe necessaria una “sinistra”.

Vi è stato, infine, l’intervento di Diego Fusaro che, più di tutti, non limitandosi a un’analisi economicistica, ha compreso come la dittatura dell’euro sia parte di una più complessiva dittatura capitalistica, che egli ha definito “Globalitarismo”: un nuovo paradigma totalitario in cui tutto diventa merce e in cui, sciolto da ogni vincolo, vige il monoteismo del mercatocapitalistico. Per questo l’unica via d’uscita è la sovranità nazionale, il ritorno allo Stato Nazione: l’unico luogo in cui la politica riesce a disciplinare l’economia.

Tutto giusto e condivisibile. Proprio per questo non si può, però, ritenere l’uscita dall’euro (e dall’Unione Europea) “apolitica” e non considerare i rischi di un’uscita “gattopardesca” dalla crisi. In altre parole non si può non considerare il rischio che le classi dominanti decidano di “cambiare tutto senza cambiare nulla”: uscire dalla moneta unica senza mettere in discussione il mercato unico, la Globalizzazione, il monoteismo del mercato e della forma merce, il modello mercantilista, la dittatura capitalistica.

Per questo è necessaria la costituzione di una “Sinistra Noeuro” che possa farci uscire dalla crisi dell’euro difendendo i lavoratori e mettendo in campo un'alternativa al mercato unico, all’ideologia liberoscambista e liberista di questi anni, mettendo in primo piano gli interessi del lavoro e dando una nuova centralità all’intervento pubblico nell’economia.

La sinistra, compresa quella a parole antisistema, lo capirà o continuerà a porsi come ormai unico difensore del totemeurista?

Visco non dire bugie ti cresce il naso

TIC TAC FISCAL COMPACT TIC TAC FISCAL COMPACT! 

Scritto il alle 10:40  

da icebergfinanza


Mentre in Italia sembra prepararsi il Vietnam parlamentare di Renzi e in Ucraina la dolce Tymoschenko ucciderebbe volentieri con un mitra Putin e bombarderebbe con l’atomica tutti i russi che vivono in Ucraina, andiamo ad occuparci per un attimo delle parole di un altro pifferaio magico italiano, il governatore della Banca d’Italia Visco il quale incomincia seriamente ad occuparsi di
“Per rispettare gli obiettivi del Fiscal compact europeo non sono necessarie maxi-manovre di riduzione del debito pubblico, perchè basterebbe mantenere il bilancio in pareggio con una crescita vicina al 3%. La regola sul debito pubblico, ha sottolineato Visco, «richiede una riduzione media annua del suo rapporto rispetto al Pil pari a circa un ventesimo della parte che eccede il limite del 60%. Per rispettarla non è necessario ridurre il valore nominale del debito. In condizioni di crescita ‘normale’, vicina al 3% nominale, sarebbe infatti sufficiente mantenere il pareggio strutturale del bilancio”.
Visco, per taglio debito no a manovre da 40-50 miliardi… e ci mancherebbe dove li troviamo 40/50 miliardi se si stanno scannando per trovarne 10 per regalare 80 euro il biglietto per partecipare alle elezioni europee?
Ma certo è così semplice, perchè non ci abbiamo pensato prima, una crescita nominale del 3 % !!!!

  
Per PIL nominale si intende il PIL reale aumentato dell’inflazione.
Basta il grafico per capire quanto sia irrealistico oggi ottenere una crescita nominale del 3 % o serve anche l’inflazione, ci facciamo aiutare dall’inflazione, mentre va a passeggio con la deflazione ?
Con una crescita reale prevista dello 0,6% quest’anno e dell’1,1% il prossimo. Queste le stime del Fondo Monetario Internazionale contenute nella bozza del World Economic Outlook secondo quanto anticipato dall’agenzia stampa Ansa ma tanto non ne azzeccano una a morire, servirebbe un’inflazione rispettivamente del 2,4 e 1,9 per giungere a quel risultato, mentre ora stiamo per andare a far visita a nonna deflazione…  In Italia, precisa Eurostat, l’inflazione annuale a febbraio è stata dello 0,4%, in calo rispetto allo 0,6% di gennaio. Un anno prima, nel febbraio 2013, il tasso annuale era al 2,0%. Sempre per l’Italia, l’inflazione mensile è -0,3%.
Ma dai Andrea non farla tanto difficile, basta aumentare l’IVA al 30 % e vedrai che risolviamo tutto! A parte il fatto che l’abbiamo recentemente aumentata e continuamo a disinflazionarci, vogliamo veramente perdere ulteriormente potere di acquisto ascoltando i paranoici dell’inflazione e impoverire il Paese?
Alla fine dell’intervista mi sono commosso perchè tutti i giornalisti economici circondavano Visco e lo assillavano con i loro dubbi e le loro perplessità, riempiendolo di domande. In realtà come sempre in questo Paese nessuno si fa domande, tutti bevono le balle che quotidianamente a turno qualcuno racconta.
Non solo non si fanno domande ma si fanno anche interrogazioni alla vigilanza RAI sul sesso degli angeli La bufala del MoVimento 5 Stelle sul fiscal compact Consiglio alla deputata grillina Dalila Nesci di informarsi prima di fare brutte figure con Claudio Borghi.
Un consiglio al M5S! Si occupi di smontare pezzo per pezzo la casta politica, come sa ben fare ma lasci perdere l’economia, rischia di farsi male e cambi consiglieri economici che mi viene da piangere.
Mica vi raccontano che sarebbe meglio rinegoziare una fesseria come quella del fiscal compact o del pareggio in bilancio in piena depressione no, vi dicono che in fondo basta crescere del 3 % e magari farsi aiutare dall’inflazione che non esiste.
Povera Italia, davvero, i pifferai magici che frequentano i talkshow sono fantastici!
Ieri a Ballarò visto da milioni e milioni di rimbambiti in Italia hanno fatto un servizio sulle riforme inglesi e hanno detto che la ripresina in è dovuta anche al fatto che loro hanno tagliato la spesa pubblica…
 
Si hanno tagliato la spesa PUBBLICA, ma è mai possibile che basti un grafico per smontare le balle che il servizio pubblico ci proprina quotidianamente, ne volete un’altro della tendenza primaria del debito, prima dell’inizio della crisi?



Se volete divertirvi a scoprire le dinamiche della nazione più indebitata al mondo dopo il Giappone, una nazione di carta straccia, fondata solo sul nulla della finanza…

Global debt guide: The debtors' merry-go-round/ The Economist

Il problema è che sono anche ignoranti, vanno a prendere il peggior esempio possibile per farvi bere la balla del mostro della spesa pubblica da abbattere, utilizzando uno zombie come l’Inghilterra…
Quale altra balla volete che vi smonti oggi?
Mentre il mondo con il naso all’insù attende il rialzo dei tassi dell’immaginario collettivo e tutti fuggono dai treasuries americani perchè il lupo cattivo ha trasferito 105 miliardi in Svizzera presso UBS, gli stranieri si strappano di mano la carta americana…
… La domanda è stata 3,2 volte superiore all’offerta, meno della media pari a 3,5 volte. Gli acquirenti indiretti, che comprendono banche centrali straniere, si sono aggiudicati il 40,9% del totale contro il 26,6% visto recentemente in aste simili e pari ai massimi di almeno due anni. Il decennale vede rendimenti in calo al 2,7281%. Quello a tre mesi è fermo allo 0,0507%.
Questo l’andamento delle altre scadenze:
Titoli a 2 anni, rendimento in ribasso allo 0,425%
Titoli a 5 anni, rendimento in decrescita all’1,709%
Titoli a 30 anni, rendimento in calo al 3,5812%
C’è addirittura quel mattacchione di Plosser, della Fed di Philadelphia che è sette anni che vede inflazione dappertutto e che prospetta i FED FUND addirittura al 4 % nel 2016…infermieraaaaaa!
Ieri la signorina del Conference Board ha telefonato a mister Smith per chiedergli come stava la sua fiducia. Smith ha risposto che è contento perchè ha smesso di nevicare nel suo piatto che piange  poco ottimista sulla crescita del suo salario. Poco importa la signorina ha messo una crocetta sull’ottimismo e ne è venuto fuori un aumento della fiducia di tutta l’America, un pò come fanno a Ballarò a fare i sondaggi dove il 99.9 % degli italiani vuole più Europa.
In febbraio le vendite di case nuove negli Stati Uniti sono calate bruscamente, al minimo da settembre, segno delle continue incertezze del americano. Secondo quanto riportato dal dipartimento del Commercio americano, il dato è sceso del 3,3%, a 440.000 unità, sotto le 455.000 di gennaio (dato rivisto al ribasso dalle 468.000 unità della prima stima).
Il dato è stato al di sotto delle 445.000 unità attese dagli analisti.Su base annuale il dato è in ribasso dell’1,1% rispetto a febbraio 2013. Le case disponibili per la vendita sono aumentate e per esaurirle completamente servirebbero 5,2 mesi, contro i 5 di gennaio. In rialzo dello 0,4% rispetto al mese precedente il prezzo mediano delle case nuove, cresciuto a 261.800 dollari.(America24)
Anche questo dato torna al minimo del settembre dello scorso anno, quindi sono sei o sette mesi che non si muove più nulla, probabilmente è tutta colpa della neve caduta ad agosto lo scorso anno.
Si lo so ormai vi ho abituati troppo bene, non vi emozionate neanche più, quando i dati escono pessimi, previsti e condivisi dal Vostro umile analista, tanto c’è Draghi, cìè Weidmann, c’è nonna Yellen che ci frega!
Per tutti coloro che hanno liberamente sostenuto il nostro viaggio o vorranno semplicemente farlo è in arrivo l’ultima analisi dal titolo…” Machiavelli un uomo tutto d’oro.”

http://icebergfinanza.finanza.com/2014/03/26/tic-tac-fiscal-compact-tic-tac-fiscal-compact/ 

Abolizioni delle Province che ... non sono abolite. Cialtroni, buffoni





Azzurra Cancelleri (M5S)
Ecco alcune utili e semplici info sul ddl sulla FINTA abolizione delle Province, é tanta roba da leggere, ma l'informazione, la verità, richiedono un po' di sacrifici:
1. Le province non sono abolite. È la prima illusione della propaganda: la legge non elimina affatto le province, che restano operanti; un po’ ammaccate, ma tutte le 110 province italiane rimangono in vita, tranne quelle che assumono le vesti di città metropolitane.
Infatti, le province si estinguono solo dove si prevede subentrino le famigerate città metropolitane; ma, di fatto, finiscono sostanzialmente solo per cambiare nome, poiché le città metropolitane acquisiranno tutte le funzioni oggi di competenza delle province, aggiungendone poche altre.
E come sono state istituite queste nove città metropolitane (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria)? Sulla base di criteri interamente politici. Nessun riferimento alla struttura urbana, come dimostra il caso di Reggio Calabria. A queste si aggiungono Roma capitale e le cinque già istituite dalle Regioni a statuto autonomo (Palermo, Messina, Catania, Cagliari e Trieste).
Il problema – uno dei tanti, a dire il vero - è che regna grande la confusione su quali saranno le competenze dei nuovi enti locali, dunque forte il rischio di creare sovrapposizioni (o conflitti) di competenze, come anche quello di dare nuove funzioni senza risorse adeguate.

2. Cambierà solo la leadership, in quanto il sindaco metropolitano coinciderà con quello del capoluogo. Con evidente espropriazione per i cittadini della provincia della rappresentatività elettorale, perché gli elettori non potranno scegliere i loro amministratori. Il presidente di provincia (perchè le province non vengono abolite) invece sarà eletto dagli e tra gli amministratori dei comuni della provincia (elezione di secondo livello).

3. Si infrangono principi giuridici consolidati nel nostro ordinamento di incompatibilità e di divieto di cumulo di cariche pubbliche. Sindaci dei comuni fino a 15.000 abitanti potranno candidarsi al Parlamento Europeo e Parlamento nazionale.

4. La vulgata diffusa dopo che Renzi ha silurato Letta è stata che il provvedimento “svuota province” sarebbe stato una fonte inesauribile di risparmi.
Peccato che nè la legge, né le relazioni illustrativa e tecnica quantifichino anche un solo centesimo di risparmio.
a) Innanzitutto, né dipendenti – Cottarelli permettendo - né funzioni delle province 2.0 scompaiono e, di conseguenza, non scompaiono neanche i costi relativi, la stragrande maggioranza delle spese di questo livello di governo. E siccome le province rimangono in vita, anche se la dirigenza politica è espressa in modo indiretto, i cosiddetti costi di funzione, cioè strutture, scrivanie, telefoni, rimangono altissimi.
b) Quello che si risparmia è solo il finanziamento degli organi istituzionali (le indennità del presidente, assessori e consiglieri e i vari rimborsi connessi alle loro attività), che vengono aboliti, insieme alle spese delle relative consultazioni elettorali.
In realtà, l’unica rilevazione realmente ufficiale è quella della Corte dei conti (inspiegabilmente ignorata da Delrio), secondo la quale i risparmi sono molto dubbi, mentre certi sono, anche se non quantificati, i costi di un simile stravolgimento.
Il risparmio sugli organi di governo, per altro, sarebbe di soli 35 milioni: a tanto, infatti, ammonterebbe l’onere per consiglieri, assessori e presidenti provinciali, per effetto delle riforme dell’estate del 2011, che avevano previsto la drastica riduzione del numero degli amministratori provinciali.

5. La vera chicca, però, è che la legge aumenta il numero di consiglieri comunali (fino a 26.000 in più) e degli assessori (fino a 5.000 in più); il Governo si è impegnato a rendere questa operazione a costo zero, ma come si possono aumentare le cariche senza aumentare le spese?
Consiglieri e assessori lavoreranno gratis o ci saranno circa 31.000 stipendi in più da pagare? e se pure lavorassero gratis, si avranno 31.000 persone che faranno aumentare i cosiddetti costi di funzione, cioè strutture, scrivanie, telefoni.

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Scardinamento della Costituzione, oggi questa è la politica mentecatta 2

OLTRE IL “BUSILLIS” DEI SISTEMI ELETTORALI
Quali caratteristiche di fondo dovrebbe avere un sistema elettorale fatto per i cittadini e per la democrazia e non in base agli interessi di casta del ceto politico?
Un approfondimento con un’appendice sull’ineludibile incostituzionalità dell’Italicum e sull’odierna antidemocraticità di un progetto di Senato non elettivo in Italia
di Luca Benedini

Tra rappresentatività e governabilità
Delle incongruità del Porcellum e dell’opportunità di sostituirlo con un’altra legge elettorale si cominciò a parlare ampiamente già subito dopo la sua approvazione nel 2005, e tanto più dopo la sconfitta del
centro-destra alle elezioni del 2006. I partiti italiani – soprattutto i maggiori, ma anche gli altri non si sono discostati di molto da essi – hanno però affrontato sempre la questione dal punto di vista dei propri
specifici interessi di partito molto più che dal punto di vista della democrazia e dei cittadini.
In questi anni, cioè, il tema per i politici italiani è sempre stato, in pratica, “qual è il sistema elettorale più vantaggioso per il mio partito e in particolare per i suoi leader?”, e nessuna delle maggiori forze politiche italiane si è mai schiodata nemmeno di un millimetro da questa posizione. Il Pdl, ad esempi  continuato a considerare il Porcellum il sistema più efficace per i propri interessi e in sostanza si è sempre rifiutato di cambiarlo. Dal canto suo, il Pd ha sempre proposto di sostituirlo con dei sistemi ancora più premianti per i partiti maggiori e ancora più penalizzanti per i partiti piccoli. Addirittura, i vertici di Pdl e Pd hanno sempre respinto con estrema durezza persino tutte le proposte miranti a correggere in minima parte il Porcellum semplicemente ripristinando le preferenze, proposte che nel corso degli anni si sono moltiplicate anche tra i parlamentari man mano che si diffondeva in Italia la consapevolezza della pressoché certa incostituzionalità della cancellazione delle preferenze operata nel Porcellum. I partiti piccoli, a loro volta, hanno tipicamente oscillato tra il rivendicare sistemi che tutelassero i loro specifici interessi e l’appoggiare il punto di vista di qualche partito grosso accucciandosi al suo fianco e sperando così di ricavarne qualche osso come farebbe col suo padrone un cane fedele.... E anche dopo la caduta del Porcellum il tema dei politici italiani di spicco è rimasto lo stesso: “qual è il sistema elettorale più vantaggioso per il mio partito e in particolare per i suoi leader ?”.... L’unica parziale
eccezione è stato il Movimento 5 stelle, che per lo meno ha lanciato un referendum online sulla legge elettorale tra i propri aderenti.
In tutto ciò, nessuno dei partiti italiani – e, del resto, neanche nessuno dei “politologi” che ogni tanto intervengono sui fatti della politica italiana dalle colonne di qualche giornale – ha analizzato con puntiglio e lucidità quali sono le esigenze e gli interessi dei cittadini nel campo in discussione. Eppure, i concetti di fondo sono non solamente molto semplici, ma anche molto noti a livello giuridico: la loro essenza è stata espressa con chiarezza, ad esempio, dalla Corte Costituzionale tedesca in una sentenza commentata il 14 febbraio 2008 sulla stampa italiana (ad esempio, sulla Repubblica e sul Manifesto ) ed è entrata anche a far considerevolmente parte della sentenza con cui il 4 dicembre scorso la corrispondente Corte italiana ha cancellato i principali aspetti del
Porcellum(3).
Il nòcciolo della questione sta nel fatto che i cittadini in quanto cittadini – e il processo democratico – hanno fondamentalmente un’esigenza sia di
rappresentatività che di governabilità: in sostanza, la prima tutela la presenza di una consistente corrispondenza di idee tra gli elettori e i loro rappresentanti eletti e si esprime, praticamente, nel principio che salvaguarda il più possibile l’“eguaglianza di peso” di ciascun voto espresso nelle elezioni; la seconda, a sua volta, tutela l’esistenza di una relativa solidità e di una tendenziale stabilità nell’operare dei governi. Entrambe le cose sono profondamente necessarie per la democrazia: senza la governabilità si finisce tipicamente nel caos e nell’incapacità di affrontare tempestivamente le problematiche che si sviluppano nella vita sociale nel corso del tempo; ma senza la rappresentatività si rompe il “rapporto di rappresentanza” che dovrebbe esserci tra gli organismi elettivi e l’intero insieme dell’elettorato, si scava tipicamente un profondo fossato tra i “cittadini comuni” e i governanti e, in particolare, questi ultimi tendono a diventare sempre più una sorta di oligarchia che ha
ben poco a che fare con un’effettiva vita democratica.
In altre parole, una delle caratteristiche di fondo della democrazia elettiva è il suo fondarsi in primo luogo sulla polarità “rappresentatività governabilità” e sulla necessità di un efficace e funzionale equilibrio dinamico tra questi due aspetti nodali, che sono in grado – quando operano entrambi con forza e corposità – di mettere in ampia connessione tra loro la vita sociale e quella istituzionale
Note
(3) Solo negli ultimissimi mesi, di fronte alle preoccupanti e incalzanti proposte legislative avanzate assieme dal leader del Pd Renzi e da quello di FI Berlusconi (si veda a questo proposito l’appendice conclusiva), si sono levate pubblicamente delle voci che dal mondo accademico hanno cominciato a mettere in evidenza quali potrebbero essere i passi iniziali di una legge elettorale fatta per la democrazia e non per gli interessi di qualche personaggio politico: ad esempio, un articolo di Piero Ignazi sulla Repubblica del 24 gennaio, l’appello di numerosi giuristi sul Manifesto del 26 gennaio, qualche intervista che ha fatto seguito a tale appello come quella a Lorenza Carlassare sulla Stampa del 27 gennaio, un articolo di Gianpasquale Santomassimo sul Manifesto del 29 gennaio

http://www.sinistrainrete.info/pdf/Busillis_elettorale.pdf

mercoledì 2 aprile 2014

Napolitano pesca nel torbido della peggiore ideologia

Napolitano e l’Unione Europea

Scritto da Diego Fusaro
Pubblicato Lunedì 31 Marzo 2014, ore 6,59
“Bisogna sempre saper ricordare che la pace non è un regalo o addirittura un dato scontato e per quel che riguarda il nostro e gli altri paesi europei è una conquista dovuta a quella unità europea, a quel progetto europeo che oggi da varie parti si cerca di screditare”: così si è espresso Giorgio Napolitano, la settimana scorsa, in occasione della celebrazione per i 70 anni dell’eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma. L’ideologia, in questo caso, non ha più alcuna maschera, si mostra apertamente per quello che è. Nella sua forma più crassa e volgare. In modo terroristico, cioè tramite una delegittimazione integrale di ogni possibile idea non allineata con il pensiero unico dominante (subito liquidata come potenzialmente nazista, appunto).

L’operazione di Napolitano è doppiamente ideologica: 1) delegittima a priori ogni voce critica rispetto all’odierna Europa, subito accostandola, in modo neppure troppo obliquo, alla rinascita delle peggiori tragedie del Novecento; 2) ipocritamente presenta l’odierna Europa come se fosse la realizzazione del nobile progetto per cui morirono coloro che fecero la Resistenza. Le parole di Napolitano sono vergognose, soprattutto se si considera la carica istituzionale da lui rivestita. E come tali debbono essere criticate da chi si rifiuta di accettare il dominio totalitario del pensiero unico globale.

Alcune telegrafiche precisazioni. Se proprio si vuole impiegare, con Napolitano, il riferimento al nazismo, ebbene esso si rinviene non certo in chi mette in discussione l’odierna Europa, bensì nella struttura stessa di questa Europa, che nulla ha a che vedere con il nobile progetto di Kant di un’Europa di popoli liberi e fratelli. O forse che oggi tra Germania e Grecia si dà un rapporto tra parti uguali e libere?

Con buona pace di Napolitano e del suo dogma dell’irreversibilità dell’euro, il nazismo non è l’uscita dall’Europa, ma la permanenza in questa Europa: il continente europeo sta, infatti, sempre più assumendo le sembianze concentrazionarie di un lager economico, in cui si consumano sempre nuove “tragedie nell’etico” (Hegel) e veri e propri genocidi finanziari come quello greco. I popoli sono soggiogati in nome del debito, i lavoratori – così nel Trattato di Lisbona – non hanno più il diritto di scioperare se le aziende vengono delocalizzate e – sempre secondo il Trattato del 2007 – si è rimosso il diritto di veto al parlamento italiano in molteplici ambiti. Dov’è, allora, il nazismo? In chi vuole operativamente porre rimedio a questa follia organizzata o in coloro che la accettano supinamente come un destino irreversibile? Forse, tuttavia, porre questa semplicissima domanda è chiedere troppo a chi, in vita sua, non è mai stato libero, obbedendo ciecamente prima alle leggi della Storia, ora a quelle dell’Economia.

http://www.lospiffero.com/cronache-marxiane/napolitano-e-lunione-europea-15760.html

Scardinamento della Costituzione, oggi questa è la politica mentecatta 1

OLTRE IL “BUSILLIS” DEI SISTEMI ELETTORALI

Quali caratteristiche di fondo dovrebbe avere un sistema elettorale fatto per i cittadini e per la democrazia e non in base agli interessi di casta del ceto politico?
Un approfondimento con un’appendice sull’ineludibile incostituzionalità dell’Italicum e sull’odierna antidemocraticità di un progetto di Senato non elettivo in Italia

di Luca Benedini

Dopo quasi un decennio di diffuse proteste per l’inadeguatezza del
Porcellum – la legge elettorale classificata appunto come “porcata” dal suo stesso principale estensore, il leghista Calderoli – finalmente
i vari ostacoli che la legislazione italiana pone alla possibilità che la Corte Costituzionale giudichi la costituzionalità o incostituzionalità di una legge sono stati, in questo caso, tutti superati.
Dopo l’udienza del 3 dicembre 2013, già il giorno successivo – come tutti ormai sanno – la Corte ha deciso e reso noto i punti-chiave della sentenza, pubblicata poi il 13 gennaio 2014: incostituzionali sia
l’indiscriminato “premio di maggioranza” (tanto alla Camera su scala nazionale quanto al Senato su scala regionale), sia le “liste bloccate” che non permettevano agli elettori di esprimere preferenze. Con ciò la
famigerata legge 270/2005, istituita poco prima delle elezioni del 2006 (e senza alcun consenso dell’opposizione) dalla coalizione berlusconiana allora al governo, non potrà più fare nuovi danni alla democrazia italiana, anche se i suoi vecchi danni – a partire dalla ripetuta formazione di un Parlamento di nominati dalle segreterie dei partiti, anziché di eletti – prolungheranno in vari modi nel tempo i loro nefasti effetti.
Poiché da tempo a un’analisi accurata risultavano esservi ben pochi dubbi sull’incostituzionalità del Porcellum(1), già nelle settimane che hanno preceduto l’udienza il mondo politico italiano era entrato in
fibrillazione: addirittura il presidente della Repubblica Napolitano ha sferzato più volte Parlamento e governo incitandoli ad approvare una nuova legge elettorale prima di subire l’onta di un giudizio
negativo della Corte Costituzionale. Non si poteva ignorare, in effetti, che un tale giudizio istituzionale “ufficiale” avrebbe messo ineludibilmente in evidenza il fatto che in Italia gli ultimi tre Parlamenti sono stati tutti eletti in modo incostituzionale, illegittimo e contrario alla democrazia: una situazione decisamente problematica che a sua volta coinvolge pure tutti gli ultimi quattro governi e in una certa misura anche le varie figure istituzionali nominate a livello parlamentare o governativo a partire dal 2006 (incluso appunto il presidente Napolitano in entrambi i suoi mandati)....
Ma neanche le sferzate di Napolitano hanno ottenuto l’effetto da lui desiderato e si è arrivati al 3 dicembre non solo senza una nuova legge elettorale, ma addirittura senza nemmeno l’ombra di un possibile accordo in Parlamento su di essa.... La parola l’ha presa quindi la Corte Costituzionale, che in un giorno ha posto termine agli otto anni di dominio di una legge facente parte dell’ormai “classica” serie di approcci legislativi berlusconiani palesemente incostituzionali (2).

Note

(1) Si vedano ad esempio l’articolo La palese incostituzionalità del Porcellum, apparso nel febbraio 2011 sul mensile lombardo La Civetta (i cui vari numeri sono disponibili su Internet attraverso il sito “www.civetta.info”), e le precedenti riflessioni dell’ottobre 2009 – dal titolo L’attuale Parlamento? Incostituzionale – richiamate in tale articolo. Non a caso entrambi questi scritti vertevano in sostanza sui medesimi punti-chiave su cui si è imperniata la decisione presa dalla Corte Costituzionale nel dicembre 2013 e su cui, del resto, si incentrava anche il
procedimento giudiziario che ha dato origine a tale decisione e che è stato intentato nel 2008 dall’avv. Aldo Bozzi e da altri 25 singoli cittadini. Si tratta di un procedimento che ha percorso gran parte del suo iter in un estremo silenzio mediatico, al punto che tranne i firmatari quasi nessuno ne è stato a conoscenza fino all’ordinanza emessa il 17 maggio 2013 dalla Corte di Cassazione, che ribaltando i due precedenti gradi di giudizio (rispettivamente dell’aprile 2011 e dell’aprile 2012) ha sostanzialmente condiviso gli argomenti dei firmatari e – in accordo con leprocedure previste dalla legislazione italiana – ha trasmesso ufficialmente la questione alla Corte Costituzionale.
(2) Oltre a diverse leggi effettivamente entrate in vigore e poi bocciate dalla Corte Costituzionale, come il “lodo Schifani” (L. 140/2003), la “legge Pecorella” (L. 46/2006), il “lodo Alfano” (L. 124/2008) e appunto il “ Porcellum” (L. 270/2005), le varie coalizioni berlusconiane hanno avviato numerosi progetti di legge che erano
chiaramente incompatibili con la Costituzione e che non sono mai arrivati ad essere convertiti in legge, scatenando però nel frattempo vaste discussioni nel paese. Per un esempio di queste ultime si può vedere l’articolo Ecco perché la “prescrizione breve” è incostituzionale, sulla Civetta del maggio 2011 (riguardo alla quale cfr. nota 1). Una riflessione sugli atteggiamenti di fondo dominanti nelle coalizioni berlusconiane la si può trovare sulla stessa rivista nell’articolo
La scomparsa del federalismo inteso come progresso sociale: la deriva leghista-
berlusconiana, apparso in due parti sui numeri di giugno e di luglio-agosto del 2011.

giornalisti servi mestano nel fango, non ci incantano

I corifei del liberismo

di Carlo Formenti

Con la resistibile (ancorché debolmente contrastata) ascesa di Renzi alla guida del Pd, si è fatto assordante il coro dei media (di destra e sinistra, benché la distinzione sia ormai solo nominale) a sostegno della grande narrazione liberal liberista sulla crisi e sulle ricette per uscirne (Lyotard non poteva immaginare che la sua profezia sulla fine dei “grand récit” di legittimazione sarebbe stata smentita in tempi così rapidi).

Il lettore disincantato ha avuto modo di misurare intensità e potenza del coro leggendo la pagina “Idee& opinioni” (per cogliere la “linea” del giornale conviene partire da lì) del “Corriere della Sera” di sabato 29 marzo. In quella circostanza quattro firme “pesanti” dell’organo storico della borghesia italiana hanno cantato infatti altrettante canzoni che, pur proponendo testi diversi, si sono fuse in un'unica melodia. Mi permetto di rititolarne così i pezzi: “Largo ai giovani”, di Giovanni Belardelli, “Ancora più flessibilità” di Maurizio Ferrera, “Si sciolgano lacci e lacciuoli”, di Dario Di Vico, “Evviva il merito” di Sergio Rizzo. Titolo generale della sinfonia: “Bastonare il cane che affoga”.

Si chiede Belardelli: come è possibile che un Paese governato da una gerontocrazia qual è il nostro (basti vedere l’età media di insegnanti e dipendenti pubblici) abbia plaudito all’ascesa del giovin rottamatore Matteo Renzi? Risposta: quel consenso certifica il senso di colpa collettivo di una generazione che, trovandosi a godere di un inopinato benessere ne ha goduto più di quanto fosse lecito, senza pensare al futuro di figli e nipoti. Pare di sognare: l’Italia è notoriamente il Paese più “risparmioso” dell’Occidente (tanto è vero che ci è stato spesso rimproverato di avere frenato la crescita non consumando abbastanza), e se oggi i giovani riescono a campare in barba a un mostruoso tasso di disoccupazione giovanile è perché godono del “welfare famigliare” garantito dai pensionati, cui Belardelli rimprovera di guadagnare di più di figli e nipoti. Neppure una parola sul ruolo del capitale finanziario che è il vero responsabile della crisi, e di cui noi tutti stiamo pagando le colpe con livelli insostenibili di tassazione. Non se ne parla perché occorre puntare il dito contro il solito finto bersaglio, ovvero l’eccesso di spesa pubblica.

Passiamo al fustigatore della casta; Sergio Rizzo. Sorpresa: Rizzo difende i manager pubblici dalla minaccia di fissare un tetto troppo rigido ai loro emolumenti; ha cambiato idea sugli sprechi del pubblico? No, ma pur ammettendo che è giusto porre freno a certi picchi retributivi, sostiene che il criterio dovrebbe essere il merito, in modo che i manager non vengano pagati né troppo né troppo poco, ma in base a una misurazione “rigorosa” dei risultati ottenuti. Cioè, aggiunge, applicando i criteri in vigore nelle imprese private. Anche qui pare di sognare: stimati economisti (non marxisti) hanno denunciato i mostruosi bonus che manager di banche e corporation (soprattutto in Inghilterra e Stati Uniti) si sono auto attribuiti e continuano ad attribuirsi (sono loro stessi a decidere quanto “meritano”!) in barba ai disastri di una gestione delle imprese che guarda solo ai profitti di brevissimo peridio e agli interessi degli azionisti, e non alla salute delle imprese stesse (tanto, visto che “sono troppo grandi per fallire” ci sono i cittadini che le salvano pagando più tasse).

Maurizio Ferrera si preoccupa invece delle resistenze interne al Pd che Renzi incontra nel portare avanti il suo Jobs Act: se “la montagna partorirà un topolino”, se Renzi non riuscirà cioè a portare a casa “almeno” contratti a termine meno liberi in cambio di più libertà di licenziamento per i contratti a tempo indeterminato, ammonisce Ferrera, perderemo l’occasione di ottenere più posti di lavoro. Silenzio totale su una ripresa che, laddove è già in atto (nel Paese dove il lavoro è il più flessibile del mondo, gli Stati Uniti), non si accompagna a un aumento significativo dell’occupazione e che, se e quando offre posti di lavoro, li offre in un terziario arretrato dove regnano paghe da fame, sfruttamento feroce e totale insicurezza del lavoro.

Infine Di Vico: attingendo alle parole pronunciate da Ignazio Visco in occasione della commemorazione di Guido Carli, Di Vico rispolvera la tesi di uno sviluppo italiano frenato dai “lacci e lacciuoli” imposti dalla rigidità sindacale (rigidi i sindacati italiani, che da anni si distinguono per la rapidità con cui calano le brache di fronte ai diktat dei Marchionne di turno!?). Dopodiché, visto che l’uscita di Visco ha provocato dure reazioni verbali (di duro gli è rimasto solo quello) da parte degli imputati, Di Vico bacchetta quelle parole “villane” e ammonisce che un simile “imbarbarimento” del dibattito pubblico favorisce il diffondersi del populismo.

E qui siamo al vero senso della sinfonia, quella che, rubando una nota massima di Mao ho intitolato “Bastonare il cane che affoga”. L’obiettivo del coro a quattro è trasparente: mistificare le cause della crisi spostandone le responsabilità dai carnefici alle vittime, prospettare “cure” che provochino un ulteriore peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita della classi subordinate, garantire che il potere resti saldamente nelle mani del “mercato” (leggi delle classi dominanti che da decenni conducono quella che Luciano Gallino ha definito una feroce “guerra di classe dall’alto”) e distruggere ogni residua resistenza politica e sindacale. Mao ormai lo leggono solo gli intellettuali di destra, forse dovrebbero tornare a leggerlo anche quelli di sinistra.

http://www.sinistrainrete.info/neoliberismo/3553-carlo-formenti-i-corifei-del-liberismo.html