L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 17 maggio 2014

Terrorismo che non è terrorismo e Antonio Rinaudo è amico della 'ndrangheta?

Scibona: Rinaudo venga rimosso da PM incaricato delle indagini sui No Tav.

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Riceviamo e pubblichiamo
LA FALSA AGGRESSIONE ALL’AUTISTA DEL PM RINAUDO
Apprendiamo dagli organi di stampa che l’aggressione subita dall’autista del PM Rinaudo nell’aprile scorso era tutta una invenzione dell’autista stesso; oltre a rallegrarci per il lavoro svolto dagli organi inquirenti che ha portato in tempi relativamente brevi alla soluzione del caso sono d’obbligo due importanti riflessioni.
La prima riguarda quella che è diventata, secondo noi, l’impossibilità per il PM Rinaudo di mantenere il suo ruolo nelle indagini relative al Movimento No Tav, infatti le sue reiterate dichiarazioni nelle ore successive alla finta aggressione e riportate da La Stampa il 12 aprile scorso tra cui “il mio autista aggredito per intimidire i giudici”sono tali da palesare una ormai totale incompatibilità ed assenza di indipendenza ne il ruolo che attualmente occupa, per almeno due motivi.
 Il primo è che occupandosi del Movimento No Tav avrebbe dovuto mantenere una maggiore cautela e non rilasciare alcuna dichiarazione in tal senso non essendovi, al tempo delle sue dichiarazioni, alcun indizio del coinvolgimento di chicchessia apparente al movimento No Tav; il secondo perché affermando che si volevano intimidire i Giudici ed essendo in atto molteplici e controversi processi contro attivisti No Tav in cui egli è Pubblico Ministero, ha volutamente esercitato una forma di pressione, deontologicamente riprorevole, proprio su quei giudici che dovrebbero avallare o meno le sue tesi accusatorie, anche di terrorismo, influenzando quella serenità ed indipendenza di giudizio che deve essere propria della magistratura giudicante.
 Per tutti questi motivi chiediamo che il Dr Rinaudo venga rimosso dal ruolo che attualmente occupa come PM incaricato delle indagini sul Movimento No Tav.
 La seconda riflessione riguarda il fatto che dal giorno successivo alla falsa aggressione vi è stato un proliferare di dichiarazioni da parte di esponenti politici che hanno accusato esplicitamente il Movimento No Tav (o quella che loro amano definire la frangia violenta) di essere in qualche modo autore dell’aggressione, queste affermazioni erano fortemente supportate dal tenore degli articoli di stampa che relegavano a probabilità infinitesimali il fatto che i No Tav fossero del tutto estranei ed anzi in seguito interpretavano in modo del tutto irresponsabile una frase detta in radio come una specie di  “rivendicazione” del fatto.
 A consuntivo è innegabile che l’unico organo di informazione che aveva intuito sin da subito la realtà dei fatti è uno dei siti di riferimento del Movimento No Tav ovvero www.notav.info,  e questo dovrebbe far riflettere e spiegare parzialmente perché il nostro Paese è al 49° posto della classifica sulla “Libertà di stampa nel mondo 2014” di Reporter Senza Frontiere ovvero ben dopo Ghana, Uruguay, El Salvador e Romania.
 Il M5S, proprio perché conosce molto bene il Movimento No Tav, aveva espresso sin da subito forti dubbi su quella aggressione in quanto del tutto estranea ai comportamenti dei No Tav, i nostri dubbi sono stati oggi confermati.
 Infine sorge il dubbio che questa “bufala” sia stata smascherata in un tempo relativamente breve per l’imperizia del suo inventore, ma chissà quante altre “bufale” (minacce, buste con proiettili attribuite ai No Tav) realizzate con una perizia maggiore non sono ancora state smascherate dalla Magistratura?
 Chissà quante lettere sono state scritte, quanti fiammiferi sono stati accesi e quante bottiglie molotov sono state depositate, da mani che con il Movimento No Tav non hanno nulla a che fare?
 Marco Scibona

Ucraina votazioni sotto le armi come e peggio dell'Afganistan

Ucraina: Mosca domanda se elezioni via democratica ''nel tuono cannoni''

(ASCA) - Roma, 17 mag 2014 - Mosca si e' chiesta oggi se le elezioni presidenziali in Ucraina del prossimo 25 maggio possono essere ritenute una via democratica proseguendo i combattimenti nell'est del paese. ''Possono elezioni tenutesi nel tuono dei cannoni soddisfare davvero le norme democratiche del processo elettorale?'', ha affermato il ministero degli esteri russo in un comunicato, esortando le autorita' di Kiev a ''porre immediatamente fine alle operazioni militari''. (fonte AFP). red/gbt

speculano sulla pelle dei malati, sono queste case farmaceutiche

Sanità: l'Avastin ed il Lucentis sono equivalenti

A stabilire l'equivalenza dei due farmaci, è stato il Consiglio superiore della sanità
Nella foto, i due farmaci Avastin e Lucentis

Nella foto, i due farmaci Avastin e Lucentis


I farmaci Avastin e Lucentis sono equivalenti per efficacia e sicurezza nel trattamento della degenerazione maculare senile. Questa la conclusione cui è giunto il Consiglio Superiore di Sanità, cui era stato chiesto un parere dopo la sanzione di 180 milioni di euro comminata dall'Antitrust alle due società farmaceutiche Roche e Novartis per una intesa restrittiva della concorrenza diretta a favorire la commercializzazione del farmaco più caro, il Lucentis. Altroconsumo: "Abbiamo diffidato l'Aifa, Avastin deve essere reinserito nella lista dei farmaci a carico del Sistema Sanitario Nazionale". 

"Abbiamo inviato una diffida all'Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa) perché inserisca subito il farmaco Avastin nella lista dei farmaci a carico del sistema sanitario nazionale", afferma Altroconsumo dopo la pronuncia del Consiglio Superiore di Sanità, chiamato ad accertare se esistessero rischi per i malati trattati col farmaco Avastin nei paesi in cui tale medicinale è utilizzabile "off label". La conclusione del CSS, per cui i due farmaci sono del tutto equivalenti per efficacia e sicurezza, è stata annunciata da Adnkronos: "Secondo gli esperti del Css dai dati scientifici attualmente in possesso Avastin e Lucentis non presentano differenze statisticamente significative dal punto di vista dell'efficacia e della sicurezza, nella terapia della degenerazione maculare senile". 

Di fronte a questa pronuncia, Altroconsumo affila le armi: "Quanto esposto nella nostra diffida ad Aifa è stato confermato dal più alto organo scientifico in materia di salute, il Consiglio Superiore della Sanità, che ha certificato come i farmaci Avastin e Lucentis siano effettivamente equivalenti per efficacia e sicurezza. Chiediamo quindi che Aifa reinserisca immediatamente l'Avastin nella lista dei farmaci autorizzati (legge n. 648 del 1996) e ripristini, così, l'uso di questo farmaco nelle strutture ospedaliere, a vantaggio della salute dei pazienti e delle casse del Servizio Sanitario Nazionale. In assenza di tale decisione, procederemo nei confronti Aifa con una class action per difendere l'interesse dei cittadini". 

Il caso Avastin - Lucentis è finito al centro della cronaca dopo che l'Antitrust ha multato Roche e Novartis a causa di un accordo anticoncorrenziale tra le due. Un cartello peggiorato dalla decisione dell'Aifa di escludere dal 2012 l'Avastin dalla lista dei farmaci utilizzabili anche al di fuori delle indicazioni ufficiali (off-label). Secondo l'Antitrust, l'accordo illecito ha ostacolato la diffusione dell'uso di Avastin (farmaco più economico), nella cura della più diffusa patologia della vista tra gli anziani e di altre gravi malattie oculistiche, a vantaggio di Lucentis (quasi 50 volte più costoso), differenziando artificiosamente i due prodotti. Per il Sistema Sanitario Nazionale l'intesa ha comportato un esborso aggiuntivo stimato in oltre 45 milioni di euro soltanto nel 2012, con possibili maggiori costi futuri fino a oltre 600 milioni di euro l'anno. A Novartis e Roche sono state imposte sanzioni rispettivamente di 92 e 90,5 milioni di euro. Tra le malattie interessate dall'istruttoria c'è appunto la degenerazione maculare senile, prima causa di cecità nei paesi industrializzati e di cui solo in Italia sono a rischio un milione di persone. 

Secondo l'Antitrust l'intesa ha avuto quale possibile conseguenza, tra l'altro, una maggior difficoltà nelle possibilità di cura per molti pazienti. Dalla documentazione acquisita dall'Antitrust è emerso che Roche e Novartis, anche attraverso le filiali italiane, hanno concertato sin dal 2011 una differenziazione artificiosa dei farmaci Avastin e Lucentis, presentando il primo come più pericoloso del secondo, condizionando così le scelte di medici e servizi sanitari. Avastin è un prodotto che è stato registrato per la cura del cancro ma dalla metà degli anni 2000 è stato utilizzato in tutto il mondo anche per la cura di patologie vascolari oculari molto diffuse; Lucentis è un farmaco basato su una molecola in tutto simile a quella di Avastin ma è stato appositamente registrato (da Genentech negli USA e da Novartis nel resto del mondo) per le patologie della vista fino a quel momento curate con Avastin.


Per il governo Pd il lavoro è solo precario



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Studiare in Erasmus per lavorare in un call center

Uno sguardo all'integrazione europea

Pubblichiamo un interessante contributo di uno studente lavoratore italiano in Erasmus a Lisbona. Ci pare che l’esperienza che racconta e le riflessioni che faccia siano decisive per capire, a pochi giorni dalle elezioni europee, qual è il vero volto dell’Unione e dell’integrazione di cui padroni e politici del continente parlano tanto…
00026388Durante la mia esperienza di studente Erasmus a Lisbona ho avuto l'opportunità o, sarebbe meglio dire, la necessità, di lavorare in una delle grandi multinazionali di servizi: la Sitel, azienda che ha seminato di call center diverse città d'Europa e non solo, accaparrandosi commissioni da varie compagnie, marchi e imprese. Nel mio caso specifico si è trattato di fare per tre mesi l'assistenza clienti per il mercato italiano delle carte di credito della Barclays Bank. Cioè, ricevere chiamate dall'Italia, parlando in italiano, per conto della Barclays Bank, ma senza essere in Italia e senza lavorare direttamente per la Barclays Bank.

Fare lo stesso lavoro ma avere un lavoro peggiore.
Come è noto, sono molte le cose che si possono denunciare rispetto a questo modello di gestione dei servizi. Nulla mancava a questa azienda delle varie forme di controllo asfissiante di tempi e spazi di lavoro che si possono mettere in campo, attraverso telecamere, monitoraggio costante delle telefonate, porte che per mezzo dell'apertura con l'impronta digitale sono in grado di identificare in quale stanza si trovi un lavoratore, discrezionalità su tempi di pausa, di uscita e giorni liberi, e tutte quelle cose che oramai nell'immaginario di molti lavoratori identificano il sistema dei call center, nonostante non siano certo pratiche esclusive di questo comparto.
Il corso di formazione che ha preceduto l'inizio del lavoro vero e proprio rispecchiava completamente la volontà aziendale di “allenarci” a questo tipo di contesto fatto di controllo, velocità nei tempi e standardizzazione delle strategie comunicative, all'interno delle quali l'assistenza clienti effettivamente fornita e il servizio realmente offerto risultavano essere solo un fattore (numericamente calcolato) tra i tanti e non certo quello principale, se paragonato al rispetto delle tempistiche, ai criteri di efficienza stabiliti dal committente, e allo smaltimento delle telefonate il quale ha come “stella polare” non la reale risoluzione del problema del cliente, ma l'abbassamento dei tempi di chiamata e la vendita (teoricamente accessoria, ma preponderante nell'economia generale della telefonata) di servizi aggiuntivi e opzioni di pagamento, rese allettanti per il cliente con meccanismi retorici ben studiati e omologati, convenienti però per la sola banca.
A volte le coincidenze non sono poi tali se viste a un livello più profondo, ed è quello che è capitato a pochi giorni dall'inizio del corso di formazione, quando, si inizia a diffondere sui giornali la notizia che la Barclays Bank ha annunciato il licenziamento di 10 mila – 12 mila persone nelle sue varie filiali per il mondo. Con la sfacciataggine e la totale assenza di decenza che di certo non ci sorprende in una banca (meno che mai in una banca che ha nel suo curriculum, più o meno recente, dagli interessi economici nella tratta degli schiavi, ai legami con il Sud Africa dell'Apartheid, al ruolo nell'attuale crisi economica, fino alle più recenti sanzioni per aver applicato tassi di interesse da usura) contemporaneamente, la stessa Barclays aumenterà del 10% il bonus per i suoi manager: niente male come “presentazione” del nostro nuovo datore di lavoro.
All'interno di questo quadro, il corso di formazione e il lavoro che successivamente andremo a svolgere sembra perfettamente in linea con quel processo di dequalificazione del lavoro degli impiegati di banca al quale stiamo assistendo negli ultimi anni. In questo contesto le trasformazioni più recenti del settore bancario sembrano procedere a tappe forzate verso un feroce attacco ai diritti dei lavoratori delle filiali e a una progressiva esternalizzazioni delle mansioni ad aziende di call center dove altri lavoratori sono generalmente meno tutelati, più facilmente sfruttabili e flessibili, quindi maggiormente utilizzabili al fine di aumentare i profitti dei grandi banchieri.
Detto ancora più sinteticamente: chi farà il lavoro che prima era fatto dagli sportelli bancari e dai lavoratori che sono stai mandati a casa? Gli operatori dei call center, che via telefono forniranno, nominalmente, lo stesso servizio (anche se in realtà evidentemente peggiore) ma molto più conveniente per il committente che potrà usufruire di dinamiche sul controllo dei tempi più serrate, un abbattimento del salario, una deresponsabilizzazione estrema e un trapianto di mansioni in un contesto lavorativo dove i diritti acquisiti e tutele dei lavoratori si situano a un livello generalmente più basso. Questo processo non inizia certo oggi e non riguarda ovviamente solo la Barclays Bank, configurandosi come tendenza generale che, da un lato, distrugge i diritti dei lavoratori in un comparto e, dall'altro, scarica le medesime mansioni verso settori attualmente più sfruttabili e dequalificati. Almeno fino a quando non si riuscirà a rendere così “flessibili” anche i classici lavoratori dietro lo sportello.
Ma chi sono questi lavoratori dei call center, sottopagati e sfruttati, che sono utilizzati per fare concorrenza a chi prima lavorava o lavora in una filiale? Per quanto riguarda la mia esperienza la domanda si trasforma in: chi sono i lavoratori che hanno lavorato alla Sitel per la campagna Barclays Bank? Anche nel rispondere a questa domanda emergono una serie di elementi interessanti su quello che succede oggi nel mondo del lavoro in Europa e non solo.

Gli studenti veri e propri si contano sulla punta delle dita. Varie persone che si sono ritrovate fianco a fianco nelle postazioni telefoniche risultano in realtà proprio ex-lavoratori di banca letteralmente “mandati in mezzo alla strada” a seguito di tagli del personale, filiali chiuse o accorpamenti tra istituti. Dopo anni a lavorare dietro uno sportello si sono così ritrovati costretti a cambiare paese, cambiare lavoro e ad essere pagati molto molto meno, non di rado con famiglie a carico.

Altrettanti sono però gli ex studenti universitari che, dopo la laurea, hanno cercato a lungo lavoro in Italia facendo saltuariamente i lavori più svariati e essendo spesso già entrati in contatto con call center non di rado “peggiori” di quello dove si trovano adesso. Molti di loro avevano avuto già qualche contatto con il Portogallo, qualcuno aveva studiato portoghese, altri era la prima volta che ci venivano, ma molti avevano fatto all'epoca degli studi l'Erasmus in questo paese.

In pratica, estendendo lo sguardo all'intera zona di Lisbona dove si concentrano la maggior parte dei call center della città, migliaia di giovani e meno giovani italiani, che non hanno trovato lavoro in Italia dopo gli studi o che lo hanno perso dopo anni, sono costretti a spostarsi in un altro paese per fare il lavoro che potrebbero fare tranquillamente in Italia,dato che si tratta di parlare in italiano, ricevere chiamate dall'Italia e servire il mercato italiano. Ma il paesaggio fuori dalla finestra è portoghese, perché?

Beh, ovviamente perché anche lo stipendio che ricevono è “portoghese”. Cioè, per un lavoro di call center medio\alto (come livello di corso di formazione, essendo un servizio inbound e lavorando per una banca) i proprietari della Sitel possono pagare, la stessa gente che dovrebbero pagare una certa cifra in Italia, molto meno, a volte meno che la metà, utilizzando, inoltre, tutte quelle vergognose leggi contro i lavoratori che il Governo portoghese sta applicando a tappe forzate in nome della santa trinità della Troika e che, se paragonate ai progetti di controriforma del mercato del lavoro che sogna Renzi, sono sempre più indistinguibili le une dalle altre.

Integrazione europea e Erasmus. Formarsi allo sfruttamento
E questa la tanto sbandierata integrazione europea? Permettere ad aziende di chiudere in un paese ed assumere in un altro a prezzi stracciati? Permettere alle banche di licenziare i propri lavoratori e affidare gli stessi servizi a lavoratori del call center sottopagati? Permettere a una banca di utilizzare questo processo come ricatto per rendere chi lavora in banca sfruttabile come un lavoratore di un call center? L'integrazione alla quale vogliono che in maniera unanime si faccia il tifo sembra quindi rivelarsi come l'essere costretti a spostarci dove è più facile sfruttarci per i padroni. Magari non noi, magari qualcun'altro sarà costretto a inseguire il lavoro che a noi hanno tolto. Magari noi saremo costretti a fare il lavoro che prima era di qualcun'altro. Ma come classe, ci vogliono abituare a piegarci alle esigenze delle varie aziende, che spingono per una integrazione europea che gli permetta di metterci più facilmente l'uno contro l'altro e di farci concorrenza a vicenda.

E non è un caso come il premier Renzi presenterà il suo “europeissimo” esecutivo: “Siamo la generazione Erasmus”. Al di là della retorica giovanilistica, c'è qualcosa di profondamente ideologico in questa frase di Renzi. Ma cosa centra con tutto questo l'Erasmus? Beh, per capirlo è forse necessario fare un piccolo inciso.

Uno dei passi avanti più importanti che sono stati fatti dal movimento studentesco nel corso delle sue ultime mobilitazioni è stato certamente riuscire a troncare in maniera decisa, almeno nella sua parte più rilevante, con l'idea che quello che succedeva all'interno delle quattro mura della facoltà fosse il centro di tutte le battaglie e l'unico orizzonte possibile per l'agire politico degli studenti.

Da anni cerchiamo di portare avanti le nostre lotte dimostrando come ogni piccolo aggiustamento all'interno del mondo della formazione sia propedeutico, determinato, influenzato, elaborato a seconda di ciò che accade nel luogo dove con maggior purezza,forza, brutalità e immediatezza si esprime il comando del capitale: il mondo del lavoro.

Nonostante i meccanismi di trasmissione tra le due sfere non siano affatto meccanici e siano spesso diluiti tra le mille specificità dei due settori, questa dialettica tra università e posti di lavoro, formazione e sfruttamento, deve sempre essere la nostra griglia di lettura per le ristrutturazioni che investono le nostre facoltà e nell'analisi di ciò che sempre più l'università e la scuola ci offrono o (oramai sempre più) non ci offrono.

È questo, quindi, ciò che dobbiamo tenere in mente quando analizziamo la funzione dell'università e ciò che realmente si cerca di ottenere con progetti di internazionalizzazione come l'Erasmus, l'Erasmus placement, il nuovo l'Erasmus plus e via dicendo. Certo, possono essere esperienze formative e interessanti per chi ha l'opportunità di farle (cosa davvero non scontata vista la scarsità di fondi erogati per il diritto allo studio e l'inserimento, anche per quando riguarda le opportunità di mobilità internazionale, della discriminante formula del “prestito d'onore” al posto delle borse di studio) ma ciò dipende soprattutto dalle persone e da come si utilizza questa “opportunità” sempre più esclusiva e elitaria (come si fa a vivere all'estero con soli 230 euro al mese?) e rispetto alla quale la crescita formativa sembra solo accessoria rispetto alla volontà di abituarci a lavorare all'estero, cioè, tendenzialmente, a spostarci dove il capitale ci può sfruttare più facilmente a livello continentale.
Non si vuole in queste righe certo dipingere qui l'Erasmus come uno strumento di oppressione, e sarebbe offensivo farlo a fronte delle cose ben più gravi e portatrici di discriminazioni di classe ben più profonde che avvengono nelle università, ma è necessario ribadire come anche questi progetti dall'apparenza “culturale” e dipinti come moderne opportunità per i giovani, siano elaborati all'interno di un piano di opportunità esclusivo per il capitale che fa, della possibilità di delocalizzare il lavoro e delocalizzare noi stessi che lavoriamo, una delle risorse più importanti per mantenere alti i propri profitti. In questo senso bisogna inquadrare, senza dimenticarne tutto il portato ideologico che l'accompagna, la frase di Renzi.

Di queste stesse finalità è indice il questionario che si chiede di compilare al termine del periodo di permanenza all'estero. Dopo una serie di domande al limite del “sei stato bene in Erasmus?” che chiedono informazioni su come e dove hai conosciuto il progetto Erasmus, perché ha deciso il tal paese ecc... le domande verso la fine si fanno più interessanti e articolate arrivando fino alle ultime tre, che guarda caso chiedono:
  • “a seguito della tua esperienza Erasmus, sei più propenso a lavorare in uno stato membro dopo la laurea?”
  • “pensi che il periodo Erasmus ti sarà d'aiuto nella tua carriera lavorativa?”
  • “pensi che il periodo Erasmus ti sarà d'aiuto nella ricerca di un lavoro?”
È questa la funzione più strutturale dell'Erasmus al di là delle belle parole sugli scambi culturali e l'apertura mentale, ed è di questo che i ministri dei vari paesi parlano quando si riuniscono nei loro vertici sull'integrazione europea, le strategie di omologazione del sistema universitario, la disoccupazione giovanile, ecc...
La risposta alle tre domande qui sopra è sicuramente SI se si premette che per la maggior parte degli ex-studenti e futuri lavoratori si tratterà di cercare lavoro nel paese che più degli altri gli offre la possibilità di essere maggiormente sfruttato e che ci si dovrà spostare dove le aziende sono riuscite a demolire con maggiore radicalità i diritti e le tutele dei lavoratori. E se ciò vuol dire essere costretti a emigrare per fare lo stesso lavoro che si potrebbe fare nella propria città, se ciò vuol dire andare all'estero per inseguire le varie aperture e chiusure di aziende che delocalizzano e rilocalizzano a seconda di dove riescono maggiormente a fare profitti sulla pelle e i diritti dei lavoratori, poco male. Tutto sarà fatto in nome dell'integrazione europea e della mobilità internazionale.
Come neutralizzare uno sciopero giocando a risiko
Ma è “solo” questo? No, c'è anche qualcosa che è forse anche peggio, che proprio alla Sitel è stato possibile toccare con mano. Non basta ai nostri padroni chiudere le aziende e licenziarci per aprire all'estero. O costringere a emigrare per fare lo stesso lavoro che potremmo fare in Italia ma pagati la metà. Vogliono anche eliminare uno dei diritti fondamentali dei lavoratori, lo sciopero, neutralizzandolo con strategie a livello continentale utilizzando le possibilità offerte dai reparti ad alta informatizzazione come sono i call center.

Come? Facciamo un esempio; durante i mesi di lavoro alla Sitel, mi sono ritrovato affianco nel  posto di lavoro tanti giovani e meno giovani che provenivano da un'altra delle campagne comprate dalla Sitel: Hp, la multinazionale di prodotti tecnologici. In cosa consisteva il lavoro che nella sede di Lisbona dovevano svolgere decine di operatori fino a un mese prima? Sveliamo subito la sorpresa che poi spiegheremo meglio: era crumiraggio organizzato a livello europeo.
Facendo un ulteriore salto tra i paesi, ci ritroviamo in Italia, e precisamente a Milano, dove la sede Sitel che fornisce servizi per il mercato italiano di Hp, chiude per decisione aziendale e decide di spostarsi in Serbia dove pagherà un terzo i lavoratori nonostante le proteste degli ormai ex dipendenti.
E come tutto questo arriva in Portogallo? É semplice, all'interno di un risiko tra i diritti dei lavoratori nei vari paesi, vengono assunti per tre mesi operatori per rispondere alle telefonate dirette al servizio clienti italiano nel caso i lavoratori di Milano, freschi di comunicazione del loro licenziamento, facciano sciopero. Risultato: chi lavorerà alla sede portoghese, non riceverà mai una sola telefonata ma la sua funzione sarà quella di garantire alla Sitel la possibilità di neutralizzare l'efficacia di eventuali lotte nella sede milanese, chiusa per pagar meno altri lavoratori in Serbia!
Come si vede, una pratica illegale come quella di assumere gente per sostituire chi sciopera, diventa facilmente realizzabile per una multinazionale grazie alla tanto decantata integrazione europea. Completato il processo di trasferimento della sede, i lavoratori della sede di Lisbona saranno spostati a lavorare in altre campagne dopo aver completato la loro funzione di “crumiri internazionali” inconsapevoli.

Un inciso lo si potrebbe fare sulla “razionalità irrazionale” del capitale, in questo caso dell'azienda di call center, che in nome della salvaguardia del profitto, e del togliere efficacia alle lotte, è disposto a tenere una quantità di lavoratori pagata per non fare nulla, se non essere teoricamente pronta a tappare i buchi degli eventuali scioperi, al fine di avere l'agibilità più completa possibile di perseguire l'obbiettivo di spostare il lavoro dove riesce a sfruttare di più i lavoratori senza subire nessun tipo di ripercussione.

Tutto questo ovviamente non è solo farina del sacco della Sitel, della Hp o della Barclays, maci sono luoghi preposti a discutere di tutto questo e a fornire al padrone di turno la possibilità di fare il più facilmente possibile il bello e il cattivo tempo a scapito dei diritti più elementari della classe lavoratrice.
Anche attraverso queste griglie di lettura bisogna leggere i provvedimenti sull'università dei vari governi di destra e di “sinistra”, il Job Act e l'attacco al mondo del lavoro del governo Renzi e inserire in questo quadro il prossimo vertice europeo sull'occupazione giovanile dell’11 luglio a Torino, riuscendo a costruire una opposizione a tutto ciò che riesca a creare e mettere in campo una conflittualità che tanto nei luoghi di lavoro che nei luoghi della formazione riesca ad accrescere la nostra forza, continuando a contrastare colpo su colpo, lotta dopo lotta, sciopero dopo sciopero, un’integrazione europea fatta a scapito dei lavoratori di tutto il continente.

Thailandia

Thailandia
13 maggio 2014 - Tempo di lettura stimato: 4 min. -
Rivolta nelle strade di Bankok.
Rivolta nelle strade di Bankok.
Con un bilancio provvisorio di circa 23 morti ed oltre 700 feriti, la Thailandia sta vivendo una nuova crisi politica che non accenna a risolversi. Cinque punti per capire cosa sta succedendo nella penisola da Novembre 2013


1. Da dove nasce l’attuale crisi politica thailandese? 

Dalla metà del Novecento sino ai giorni nostri, il panorama politico thailandese è stato costellato da continue crisi di potere e colpi di stato. Uno dei più recenti, in ordine cronologico, fu quello che nel 2006 depose l’allora primo ministro Thaksin Shinawatra, leader del partito populista del Puea Thai.
Shinawatra, imprenditore e magnate delle comunicazioni, era stato portato al potere dalle elezioni del 2001 e rieletto nel 2005 ma nel giro di tre anni ben due condanne si abbatterono sulla sua carriera politica e sulla sua famiglia. Ritenuto colpevole di corruzione, sfuggì alla propria pena abbandonando il Paese e rifugiandosi, in una sorta di esilio autoimposto, a Dubai.
Dopo un periodo di transazione terminato nel sangue, durante il quale il paese venne retto dalle gerarchie militari, nuove elezioni (3 Luglio 2011) sancirono la vittoria Puea Thai Party, guidato dalla sorella minore di Thaksin: Yingluck Shinawatra.
Nonostante l’appoggio di un’ingente fetta della popolazione, proveniente soprattutto dalle aeree rurali del paese, l’impressione che l’ex premier in esilio continuasse ad esercitare la propria influenza politica attraverso la sorella, cominciò ad instillarsi nell’opinione pubblica locale.
Il malcontento generale sfocio in una vera e propria crisi politica nell’Ottobre del 2013, quando il Puea Thai Party modificò una proposta di legge finalizzata a concedere l’amnistia a manifestanti ed oppositori civili, per estenderla “a chiunque ne fosse interessato”, compresi leader governativi quali, appunto, lo stesso Thaksin. L’11 Novembre 2013 il Senato rifiutò tale proposta di legge ma ciò non bastò a sedare le proteste; la premier Yingluck Shinawatra venne infatti accusata di utilizzare il proprio potere per riabilitare il fratello. Per le strade di Bangkok le manifestazioni anti-governative andarono infiammandosi: in Thailandia si apriva una nuova crisi di potere.

2. Chi sono i principali protagonisti della crisi e cosa chiedono?

Dallo scoppio delle proteste, nel Novembre del 2013, il Paese è andato dividendosi tra sostenitori ed oppositori del governo in carica.
I principali detrattori della politica della famiglia Shinawatra sono i membri del partito d’opposizione: ilDemocrat Party. Ad essi si sono aggiunti gli appartenenti al movimento delle cosiddette “Camice Gialle”, sostenitori della monarchia e favorevoli ad un maggiore coinvolgimento del re Bhumibol Adulyadej nella vita politica del Paese.
Alla testa degli anti-governativi vi é Suthep Thaugsubanex segretario del Partito Democratico ed ex vicepremier, sulla cui testa pende l’accusa di omicidio per aver represso nel sangue una manifestazione di sostenitori pro-Thaksin nel 2010. Quest’ultimi, meglio conosciuti come “Camicie Rosse”, sono l’espressione della Thailandia rurale, lontana dai grandi centri di potere della capitale.
Sedotti dalla politica populista dei Shinawatra, i membri delle “Camicie Rosse” costituiscono attualmente iprincipali sostenitori del governo del Puea Thai Party. Essi, infatti, si oppongono alla richiesta degli anti-governativi di riformare il sistema politico attraverso un governo di transizione, nominato dal re Bhumibol Adulyadej, che conduca il Paese verso nuove elezioni.
Dal Novembre 2013 al Febbraio 2014, gli scontri tra le due fazioni hanno prodotto una progressiva escalation di violenza che ha obbligato il governo, lo scorso Gennaio, a dichiarare per 60 giorni lo stato d’emergenza a Bangkok e nelle province limitrofe.

Tempi duri per Thaksin Shinawatra
Tempi duri per Thaksin Shinawatra
3. A cosa hanno condotto le elezioni del Febbraio 2014?

Il 9 Dicembre del 2013, in risposta alle proteste che stavano infiammando il Paese, la premier Yingluck Shinawatra ha sciolto il parlamento invitando il popolo thailandese a tornare alle urne il successivo 2 Febbraio. La giornata elettorale, pur svolgendosi in un clima relativamente pacifico, si é conclusa, tuttavia, con un nulla di fatto.L’opposizione ha infatti boicottato le elezioni, e le manifestazioni di dissenso hanno costretto ben 28 distretti elettorali a rimandare le operazionidi voto. Delle elezioni parziali sono state così organizzate per sopperire ai disagi della giornata del 2 Febbraio. Ciononostante, lo scorso 21 Marzo la Corte Costituzionale thailandese ha dichiarato non valido lo scrutinio di Febbraio che aveva visto la vittoria (scontata) del Puea Thai Party. Le differenti parti politiche sono state così chiamate ad organizzare una nuova tornata elettorale.

4. L’instabilità politica sta pesando sull’economia del Paese?

Come accennato in precedenza, una crisi politica di tale portata non é nuova nella storia della Thailandia. Sopravvissuta a colpi di stato, catastrofi naturali e manifestazione represse nel sangue, l’economia asiatica ha sempre mostrato una solidità rassicurante. La maggioranza degli esperti sono quindi concordi nell’affermare che l’attuale impasse politico del paese non rischia di penalizzare in maniera significativa gli investimenti, soprattutto stranieri, nel regno. Tuttavia, le nuove dinamiche economiche che stanno interessando la regione del Sud-est Asiatico hanno condotto il Thailand Development Research Institute(TDRI) a parlare di un probabile rallentamento della crescita economica del paese.
Come spiega l’economista Ammar Siamwalla, ciò é dovuto soprattutto all’apertura di nuovi mercati concorrenti: “Siamo cresciuti molto rapidamente dal 1997 e poi siamo andati stabilizzandoci. Non siamo più così attraenti e gli investitori cominciano ad interessarsi al resto della regione come, per esempio, alla Birmania che ha aperto le sue porte dopo ben cinque decenni di dittatura.”
L’impatto della crisi politica sul mercato del turismo, che costituisce circa l’8% del PIL della Thailandia, é però ben più preoccupante: il forte calo registrato alla fine del 2013 sembra infatti destinato a proseguire per tutto il primo semestre del 2014. Ad aver rinunciato a raggiungere la penisola sono soprattutto i turisti asiatici, sconsigliati dalle rispettive ambasciate che temono uno sfociare della crisi politica in un nuovo colpo di stato.

5. E adesso…cosa succede?

L’azione di boicottaggio dell’opposizione non sembra destinata a rientrare: il leader del Partito Democratico, Abhisit Vejjajiva, non ha infatti preso parte (ufficialmente per ragioni di sicurezza) all’incontro organizzato il 22 Aprile scorso con la finalità di stabilire una nuovo calendario elettorale. Una settimana dopo, la premier Shinawatra ha dichiarato che la Thailandia tornerà ai seggi il prossimo 20 Luglio creando nuove reazioni da parte dell’opposizione che ha annunciato, per i prossimi giorni, la presentazione di un piano ufficiale per salvare il paese dall’immobilismo politico. Mentre l’attuale premier si trova così a dover fronteggiare l’accusa di dolo e negligenza rivoltale dall’opposizione, la Thailandia, sprovvista di un regolare parlamento, rischia infatti la paralisi totale.
L’inquietudine della comunità internazionale, intanto, comincia a farsi sentire: gli Stati Uniti, particolarmente legati alla penisola da interessi economici e strategici, hanno fatto sapere, attraverso Jennifer Psaki, portavoce del Dipartimento di Stato, di voler scongiurare in qualsiasi modo lo spettro di un nuovo golpe e hanno invitato le differenti parti politiche “ad appianare le differenze attraverso mezzi democratici”. In attesa di nuove elezioni, la situazione all’interno del paese non sembra però destinata ad evolvere in tempi brevi.
 Benedetta Cutolo


Prodromi per l'uscita di scena del dollaro

Russia e Cina firmeranno 43 accordi durante visita Putin

Il Cremlino evidenzia crescente cooperazione con Paesi Asia


      AFP
Mosca, 16 mag. (TMNews) - Un "pacchetto record di documenti", ben 43 tra accordi, contratti, intese, sarà firmato durante la visita del presidente russo Vladimir Putin in Cina. Lo ha annunciato oggi alla stampa il consigliere diplomatico del Cremlino, Yuri Ushakov, anticipando alcuni punti del programma dell'attesissima due giorni cinese di Putin, il 20-21 maggio.

Tra questi documenti potrebbe esserci il tanto discusso e negoziato contratto per le forniture di gas russo a Pechino, dossier aperto da anni e rilanciato con forza nei piani di Mosca dalle tensioni con i partner europei sulla scia della crisi ucraina.

A suggerire la crescente attenzione di Putin per la collaborazione sul "fronte Est", con i Paesi dell'Asia, anche la notizia che il capo di stato russo incontrerà durante la visita il premier iracheno Nouri al-Maliki, il presidente afgano uscente Hamid Kazrazia e il presidente della Mongolia, Tsakhiagiin Elbegdorj.


Thailandia la corruzione è parte integrante del Capitalismo

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Thailandia 

La scorso 7 maggio, la Corte Costituzionale thailandese ha reso nota la sentenza che decreta la destituzione del Primo Ministro ad interim Yingluck Shinawatra, leader del movimento politico “Pheu Thai” (“Per i Thailandesi”), risultato essere il primo partito nelle elezioni generali del 2011. L’accusa è quella di abuso di potere, in relazione alla rimozione illegittima di un impiegato statale, fatto risalente a tre anni fa. La decisione si inserisce nel quadro di un conflitto istituzionale che negli ultimi anni ha visto numerose volte la Suprema Corte entrare in conflitto con l’esecutivo in carica. Già in altre occasioni, infatti, la massima autorità giudiziaria del Paese si era pronunciata in contrasto con le direttive politiche del governo. Tuttavia, il recente verdetto non sembra essere sostenuto da una chiara previsione costituzionale ed è stato oggetto di forti contestazioni da parte dei sostenitori di Shinawatra.
Da diversi mesi la Thailandia è un Paese politicamente paralizzato, sin da quando, lo scorso dicembre, il Parlamento è stato sciolto in seguito a un’ondata di tumulti popolari antigovernativi che hanno colpito principalmente Bangkok. Lo scontro politico-isituzionale in atto fa da cornice, in realtà, a un generale malcontento per gli scandali di corruzione e malgoverno che hanno costellato il decennio di dominio politico della famiglia Shinawatra.
La decisione del governo, lo scorso dicembre, di convocare le elezioni politiche per febbraio si è rivelata un flop, a causa del riuscito boicottaggio dell’opposizione e della dichiarazione di invalidità del voto emessa dalla Corte Costituzionale. La situazione è precipitata ulteriormente nelle ultime settimane, duranti le quali gli scontri di piazza tra le “Red Shirts”, i sostenitori di Shinawatra, per lo più provenienti dalle aree rurali del Paese, e le “Yellow Shirts”, gli oppositori, riuniti nel “Comitato per le riforme Popolari” (PDRC), hanno fatto scivolare pericolosamente la Thailandia nel caos e minacciano seriamente di far slittare la nuova convocazione elettorale prevista per il mese di luglio.
Ciò che ad oggi appare l’unico esito probabile della disputa in atto è la progressiva perdita di legittimazione delle già fragili istituzioni democratiche, in una realtà statuale che ha conosciuto 10 colpi di stato negli ultimi 60 anni di storia del Paese.


Governo pagliaccio per i nostri giovani solo precariato



economiaepolitica

Gli insuccessi nella liberalizzazione del lavoro a termine

Riccardo Realfonzo e Guido Tortorella Esposito

GRANDE-FRATELLOL’effetto sociale più grave della crisi economica scoppiata alla fine del 2007 è l’impennata della disoccupazione. In Italia i senza lavoro sono più che raddoppiati rispetto al 2007 e oggi superano i 3,2 milioni. Anche nel 2014 la disoccupazione continuerà ad aumentare: secondo le previsioni del governo il tasso di disoccupazione a fine anno giungerà al 12,8%, contro il 6,1% del 2007. Non si tratta di uno scenario solo italiano, dal momento che nell’Eurozona si muovono oggi 19 milioni di disoccupati, ben 7 milioni in più rispetto al 2007, e alcuni paesi - come la Grecia e la Spagna - hanno visto addirittura triplicare la disoccupazione.
In questo contesto, gli interventi espansivi di politica fiscale vengono ostacolati dai vincoli sul deficit e sul debito pubblico previsti nei trattati europei. Insomma, in Europa continua a prevalere l’austerità, benché il suo insuccesso sia ormai sempre più spesso riconosciuto anche dai principali istituti di ricerca internazionali (ad esempio il FMI). L’attenzione si sposta allora sulle politiche del lavoro e in particolare sulla possibilità, sostenuta dalla letteratura economica più conservatrice, la stessa che difende l’austerity, che una sempre maggiore flessibilità del mercato del lavoro possa favorire la crescita occupazionale. In Italia, dopo la riforma Fornero, si prova con il decreto Poletti ad agire ancora sui contratti a termine, nella convinzione che una ulteriore liberalizzazione di questo tipo contrattuale possa fornire un contributo alla riduzione della disoccupazione. Per questa ragione, si interviene prevedendo, tra l’altro, l’eliminazione dell’obbligo di indicazione della causale economico-organizzativa, l’aumento del numero delle proroghe possibili,  la trasformazione di obblighi ad assumere in sanzioni amministrative.
Si intende dunque procedere in continuità con il recente passato, inserendo dosi di maggiore flessibilità del mercato del lavoro italiano. Ma occorre chiedersi: le politiche di deregolamentazione e di riduzione delle protezione del lavoro che risultati hanno conseguito in questi anni in Europa e in Italia? E in particolare, la liberalizzazione dei rapporti di lavoro a termine ha avuto successo nel favorire la crescita occupazionale? Ebbene, l’esperienza storica a nostra disposizione, così come registrata dai dati ufficiali, ci permette oggi di affermare che queste politiche non hanno avuto alcun successo in Europa negli ultimi 25 anni. Pertanto, non vi sono ragioni per ritenere che l’inserimento di ulteriori dosi di flessibilità possa in qualche modo contribuire alla ripresa dell’occupazione in Italia e in Europa.
Per dimostrare quanto appena affermato, facciamo ricorso al database sulla flessibilità del mercato del lavoro messo a disposizione dall’OCSE. Il riferimento è all’Employment Protection Legislation Index (EPL), l’indice che misura il grado di protezione dell’occupazione previsto dalla legislazione di un Paese. L’EPL, utilizzato in tutta la letteratura scientifica su questi temi, è oggi il migliore indicatore esistente sul grado di rigidità del mercato del lavoro. Dopo una serie continua di affinamenti e aggiornamenti, oggi l’EPL viene elaborato dall’OCSE sulla base di 21 indici sintetici che, con una serie di pesi, consentono di stimare i due sottoindicatori che contribuiscono a comporre l’EPL: l’indicatore di protezione per i contratti a tempo indeterminato (EPRC) e l’indicatore di protezione per i contratti a tempo determinato (EPT)[1]. Complessivamente, tanto più la legislazione accentua la flessibilità del mercato del lavoro – eliminando protezioni, vincoli e costi per le imprese, intervenendo sulla disciplina dei contratti a tempo indeterminato e su quella dei contratti a tempo determinato – tanto minore è l’indicatore EPL. Dunque: più flessibilità significa meno EPL.
Ecco di seguito l’andamento dell’EPL nell’Eurozona[2], come stimato dall’OCSE, dal 1990 al 2013:
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Come si osserva, con eccezione di Francia, Austria e Irlanda, tutti i paesi dell’Eurozona hanno ridotto in questi anni la protezione del lavoro, rendendo complessivamente più flessibili i loro mercati. L’Italia è tra i paesi che si è maggiormente impegnata in tal senso, portando l’indicatore di protezione del lavoro dal valore 3,82 del 1990 al 2,26 del 2013 (riducendolo quindi di oltre il 40%). Si tratta di un dato appena superiore a quelli registrati da Olanda, Finlandia, Germania, Belgio e Grecia (per non parlare di Irlanda e Austria, che hanno mercati fortemente deregolamentati), ma inferiore a quelli di Spagna, Portogallo e Francia.
Per valutare se politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro e incremento della flessibilità adottate dall’Eurozona abbiano avuto un qualche successo nel favore la crescita occupazionale, occorre porre la variazione dell’EPL in correlazione con i tassi di disoccupazione ufficiali. Per ciò che concerne la disoccupazione utilizziamo i dati ufficiali Eurostat riportati nella Tabella 1.
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In particolare, per valutare se esista un qualche nesso di causalità tra le politiche di riduzione della protezione dell’occupazione e la disoccupazione si procede con alcune elaborazioni seguendo una consolidata metodologia. In sostanza, si calcola la variazione assoluta dell’EPL riscontrata tra il 2013 e il 1990 ponendola in correlazione con la media delle variazioni, anno dopo anno, del tasso di disoccupazione, registrate nei singoli paesi (tecnicamente si opera una regressione semplice bivariata).
Procedendo in questo modo e considerando tutti i paesi dell’Eurozona si ottiene il seguente risultato:
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Come si osserva, la retta di regressione appare inclinata negativamente. Il che significa che al ridursi dell’EPL, e quindi all’aumentare della flessibilità, la disoccupazione nell’Eurozona tende generalmente ad aumentare.
Si tratta di un risultato che evidentemente nega la tesi tradizionale secondo cui la flessibilità determina più occupazione. Certo, la correlazione non è particolarmente marcata (con R-quadro pari a 0,35) ma la sua dimensione e il segno negativo della correlazione quanto meno smentiscono l’idea che le politiche di flessibilità abbiano avuto successo nel ridurre la disoccupazione all’interno dell’eurozona. D’altronde, come si osserva, tutti i paesi mostrano incrementi del tasso di disoccupazione (UNMP), ma essi tendono ad essere più spiccati proprio in quelle realtà nelle quali più forti sono state le deregolamentazioni, come in Grecia, Portogallo e Spagna (ma anche la stessa Italia). L’esatto contrario di quanto ci si aspetterebbe alla luce della teoria economica standard. Si può notare ancora che i tre paesi che hanno aumentato la protezione del lavoro – Francia, Irlanda e Austria – hanno registrato aumenti del tasso medio di disoccupazione particolarmente bassi, quando non addirittura una diminuzione della disoccupazione (nel caso dell’Irlanda).
Per approfondire la riflessione con specifico riferimento alla liberalizzazione dei rapporti di lavoro a termine, abbiamo replicato l’analisi considerando il sottoindicatore EPT, che misura la protezione dell’occupazione relativamente al lavoro a termine.
Il sottoindicatore EPT (che pesa ½ nel calcolo complessivo dell’EPL) viene stimato come segue dall’OCSE:
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Come si osserva, risulta confermato che la maggioranza dei paesi dell’Eurozona hanno condotto dal 1990 ad oggi politiche di liberalizzazione del lavoro a termine. Le eccezioni sono Francia, Austria, Finlandia e Irlanda. È anche evidente il particolare impegno con il quale l’Italia ha proceduto dal 1990 ad oggi a liberalizzare il lavoro a termine: l’indicatore EPT si riduce infatti da 4,88 a 2.
Procedendo con la metodologia precedentemente indicata, abbiamo allora provato a verificare se queste specifiche politiche di flessibilità abbiano avuto un qualche impatto positivo in termini di riduzione della disoccupazione. Il risultato ottenuto è sintetizzato dalla Figura 3:
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Anche in questo caso, la retta di regressione è inclinata negativamente, e ciò significa che in generale nei paesi dell’Eurozona, dal 1990 ad oggi, la liberalizzazione dei rapporti di lavoro a termine si è accompagnata con l’aumento della disoccupazione. Si noti che in questo caso il valore della correlazione è ancora meno significativo (R-quadro qui è 0,15). Occorre quindi prudentemente escludere di essere di fronte a una prova che la flessibilità aumenti la disoccupazione. Ma certamente si può concludere che le politiche di liberalizzazione del lavoro a termine non hanno determinato alcuna crescita occupazionale.
Si noti che l’Italia è il Paese che, dal 1990 ad oggi, ha fatto i maggiori sforzi nella liberalizzazione del lavoro a termine. È infatti il Paese collocato nella Figura 3 più vicino all’asse delle ordinate, e nonostante ciò registra una sensibile crescita della disoccupazione.
L’analisi sin qui condotta riguardavano il periodo 1990-2013, e dunque anche il periodo della crisi scoppiata a fine 2007. E ciò potrebbe indurre a pensare che in qualche modo l’analisi possa essere viziata da eventuali “distorsioni” provocate dalla crisi stessa nella “normale” connessione tra le variabili economiche. Abbiamo allora ritenuto opportuno testare la presenza di una correlazione tra liberalizzazione del lavoro a termine e occupazione anche limitatamente al periodo pre-crisi (1990-2007).
L’analisi dell’esperienza storica del periodo pre-crisi, condotta sempre con la medesima metodologia, porta al seguente risultato:

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Qui l’analisi perde sostanzialmente ogni significatività statistica, dal momento che la retta di regressione appare piatta (solo lievemente inclinata come nei casi precedenti, con R-quadro pari appena a 0,001). Ciò significa che tra il 1990 e il 2007 le politiche di deregolamentazione sono del tutto incorrelate con le variazioni dell’indice protezione dell’occupazione a termine. Va da sé che l’assenza di una qualunque correlazione conferma che anche limitatamente al periodo pre-crisi le politiche di liberalizzazione non hanno avuto alcun successo nel ridurre la disoccupazione sulla scena europea.
D’altra parte, anche un esame specifico delle principali riforme del lavoro a termine conferma le conclusioni sopra osservate. L’unico caso di un possibile successo di queste politiche potrebbe essere quello del Belgio, dove nel 1997 si intervenne massicciamente riducendo i vincoli alle agenzie interinali e permettendo una più ampia reiterazione dei contratti a termine. In quel caso, il tasso di disoccupazione si portò stabilmente al di sotto del livello del ’97 (il 9,2% e oggi oscilla intorno all’8,5%). Ma gli altri esempi sono tutti in controtendenza. Si pensi al caso esattamente opposto della Finlandia dove un piccolo aumento delle protezioni sul lavoro ha coinciso con il calo stabile del tasso di disoccupazione registrato prima di questa riforma. Si consideri anche il caso del Portogallo, dove si è intervenuto ripetutamente aumentando la flessibilità del ricorso ai contratti a tempo determinato senza alcun risultato occupazionale. O si pensi al più noto caso della Grecia, dove si è intervenuti sui contratti a termine nel 2003 e nel 2011, senza che ciò abbia in alcun modo arginato la crescita della disoccupazione. Infine, c’è il caso italiano, dove – a seguito di un percorso passato principalmente per il Pacchetto Treu, il decreto legislativo 368 del 2001, la legge 30 del 2003 (riforma Biagi) e la legge Fornero  la liberalizzazione dei rapporti di lavoro a termine ha comportato il più che dimezzamento dell’indicatore rispetto al valore del 1990, e nonostante ciò oggi il tasso di disoccupazione è di quattro punti percentuali più elevato di allora.
D’altra parte, le conclusioni di questo studio non possono stupire chi segue la letteratura internazionale. La stessa OCSE ha a più riprese negato l’esistenza di una correlazione tra flessibilità e occupazione[3]. Per di più l’attuale capo economista del FMI, in uno studio del 2006, sostenne che “le differenze nei regimi di protezione dell’impiego appaiono largamente incorrelate alle differenze tra i tassi di disoccupazione dei vari Paesi”[4]. Questi risultati sono stati recentemente ribaditi anche dalla letteratura italiana[5].
In conclusione, lo studio della relazione tra normative sul lavoro e occupazione mostra che l’aumento della flessibilità del mercato del lavoro non favorisce la riduzione della disoccupazione. E altrettanto dicasi per gli interventi normativi specifici che riguardano i contratti a tempo determinato. Insomma, vi è evidenza empirica a sufficienza per chiarire che le riforme del mercato del lavoro nel senso della flessibilità abbiano fallito nel perseguire la crescita occupazionale. Non si comprende, quindi perché l’Italia e l’Europa dovrebbero continuare lungo una strada che ha ampi costi sociali.

[1] In questo lavoro abbiamo utilizzato la prima versione dell’indice EPL esaminata dall’OCSE, per la quale si dispone dei dati dal 1985 al 2013. L’ultima versione – la 3 – non consente ancora una analisi soddisfacente perché i dati disponibili si limitano al periodo 2008-2013. Desta molta curiosità la circostanza che l’OCSE abbia improvvisamente deciso di non rendere più pubblico l’indice EPL, ma solo le sue componenti principali, mettendo comunque a disposizione i dati per effettuare il calcolo. Le ragioni di questa decisione non sono del tutto chiare.
[2] L’intera analisi qui condotta considera tutti i paesi dell’Unione Monetaria, con esclusione di quelli per i quali l’OCSE offre solo dati parziali. I Paesi esclusi dall’analisi sono pertanto: Lussemburgo, Cipro, Estonia, Lettonia, Slovacchia e Slovenia. In Appendice pubblichiamo i valori dell’EPL che, come specificato in nota 1, non vengono più direttamente resi noti dall’OCSE.
[3] Si rinvia a riguardo ai diversi Employment Outlook pubblicati dall’OCSE, ad esempio quello del 2004.
[4] O. Blanchard, “European Unemployment: the Evolution of Facts and Ideas”, Economic Policy, 2006.
[5] Si rinvia ad esempio a E. Brancaccio, Anti-Blanchard. Un approccio comparato allo studio della macroeconomia (Franco Angeli, Milano, 2012) e A. Stirati, “La flessibilità del mercato del lavoro e il mito del conflitto tra generazioni” (in P. Leon e R. Realfonzo, L’economia della precarietà, 2008). Più recentemente si veda R. Realfonzo, “Deregolamentare per crescere? EPL, quota salari e occupazione”, Rivista giuridica del lavoro, 2013, n. 3, pp. 487-502. Per una riflessione sul dibattito italiano si rinvia ad A.Pacella, R. Realfonzo e G. Tortorella Esposito, “La flessibilità del lavoro come fattore di competitività. Una analisi critica delle politiche di riforma in Italia” in corso di pubblicazione in Diritti, Lavori, Mercati
 
 Appendice
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