L'albero della storia è sempre verde

L'albero della storia è sempre verde

"Teniamo ben ferma la comprensione del fatto che, di regola, le classi dominanti vincono sempre perché sempre in possesso della comprensione della totalità concettuale della riproduzione sociale, e le classi dominate perdono sempre per la loro stupidità strategica, dovuta all’impossibilità materiale di accedere a questa comprensione intellettuale. Nella storia universale comparata non vi sono assolutamente eccezioni. La prima e l’unica eccezione è il 1917 russo. Per questo, sul piano storico-mondiale, Lenin è molto più grande di Marx. Marx è soltanto il coronamento del grande pensiero idealistico ed umanistico tedesco, ed il fondatore del metodo della comprensione della storia attraverso i modi di produzione. Ma Lenin è molto di più. Lenin è il primo esempio storico in assoluto in cui le classi dominate, sia pure purtroppo soltanto per pochi decenni, hanno potuto vincere contro le classi dominanti. Bisogna dunque studiare con attenzione sia le ragioni della vittoria che le ragioni della sconfitta. Ma esse stanno in un solo complesso di problemi, la natura del partito comunista ed il suo rovesciamento posteriore classistico, individualistico e soprattutto anti- comunitario" Costanzo Preve da "Il modo di produzione comunitario. Il problema del comunismo rimesso sui piedi"

sabato 11 ottobre 2014

Web, via le mani rapaci dei privati

Internet governance: modelli a confronto

La partita sulla governance di internet sta entrando nel vivo: si definiscono gli schieramenti e si chiariscono le posizioni. Dall’approccio multistakeholder degli Stati Uniti a quello intergovernativo della Cina, cerchiamo di comprendere gli obiettivi degli attori coinvolti.
DEFINIAMO L’INTERNET GOVERNANCE – La rilevanza politica, economica e strategica di internet sta crescendo esponenzialmente, tanto da rendere necessario un ripensamento della governance che regola questo complesso “network di networks“. Il concetto di internet governance, così come definito dal World Summit on the Information Society, riguarda sia la gestione delle risorse tecniche necessarie per la stabilità e il corretto funzionamento della rete, sia i principi, le norme e i comportamenti che emergono dall’uso di internet. Il controllo della parte tecnico-amministrativa, e di conseguenza politica ed economica, spetta all’ICANN (internet Corporation for Assigned Names and Numbers), associazione non lucrativa creata negli anni Novanta al fine di gestire il DNS (Domain Name System) e il meccanismo di connessione tra domini (per esempio ilcaffegeopolitico.org) e indirizzi IP (104.28.12.3-309) alla base di internet. I principi dell’internet governance sono invece a oggi definiti dall’outcome del meeting NET Mundial dello scorso aprile, che ha visto coinvolti gran parte degli stakeholder pubblici e privati di internet per definire linee guida comuni riguardo a tematiche come i diritti umani, la libertà di espressione e di accesso all’informazione, la privacy e la sicurezza.
GESTIONE DEI DOMINI: I DUE APPROCCI – La scorsa primavera ha portato con sé un caldo vento di cambiamenti nell’internet governance: se da una parte si è potuto assistere alla creazione di un documento condiviso, benché non vincolante, come l’Internet Governance Principles del NET Mundial, dall’altra si è annunciato un fondamentale cambiamento nella gestione della parte tecnico-amministrativa della rete. L’ICANN è stata creata come una realtà non governativa che al suo interno potesse rappresentare tutti gli stakeholder di internet, garantendone l’equilibrio, l’indipendenza e la libertà. In realtà l’ICANN ha spesso rappresentato gli interessi delle compagnie private americane e del Governo statunitense, essendo legata a questo tramite un contratto con il dipartimento del Commercio. Tale contratto, ha annunciato il dipartimento nel marzo scorso, sarà lasciato scadere nel settembre 2015, e l’ICANN, raggiunta la maturità, potrà iniziare a essere indipendente. Considerata la criticità politica, economica e strategica dell’infrastruttura internet, sono scaturiti vari dibattiti tra posizioni differenti, polarizzatesi su due approcci diversi alla governance della rete: quellointergovernativo e quello multistakeholder. Se da una parte vi è chi ritiene opportuno che la gestione di internet sia affidata agli Stati e a un ente internazionale come le Nazioni Unite, dall’altra vi è chi sostiene la necessità di garantire la libertà della rete e che la sua governance rispetti gli interessi tanto degli attori pubblici, quanto di quelli privati. Tale confronto procede da tempo: il documento finale del WCIT di Dubai, organizzato dalle Nazioni Unite nel 2012, ha definito un approccio intergovernativo ed è stato ratificato da paesi come Russia, Cina, Arabia Saudita, Iran e Brasile, ma è mancata la firma degli Stati Uniti, del Giappone, del Regno Unito e della maggior parte dei membri dell’Unione europea. I differenti approcci manifestano un diverso rapporto con la rete e la necessità di tutelare i propri specifici interessi.
http://www.ilcaffegeopolitico.org/23099/internet-governance-modelli-confrontohttp://www.ilcaffegeopolitico.org/23099/internet-governance-modelli-confronto

i soloni parlano di alternanza come se quella tra repubblicani e democratici negli Stati Uniti fosse vera

America latina, Presidenti per sempre?


Prendendo spunto dalle elezioni presidenziali che in Bolivia incoroneranno – salvo improbabili sorprese – ancora Evo Morales, analizziamo un fenomeno particolare del Sudamerica, i ‘Presidenti di lungo corso’.
Proiezioni sulle presidenziali in Brasile - fonte Folha de Sao Paulo
Proiezioni  presidenziali in Brasile, sorprendentemente disattese: Neves ha battuto Marina Silva | Folha de Sao Paulo
LE ELEZIONI IN AMERICA LATINA – L’anno dei Presidenti: così sarà ricordato questo 2014 in America latina. È cominciato a febbraio con il voto in Costarica e nel vicino El Salvador e si concluderà con il turno di ballottaggio in Uruguay il prossimo novembre. In tutto saranno eletti sette Presidenti in un anno solo. Il giorno più importante sarà il 26 ottobre, quando in Brasile si svolgerà l’imprevedibile ballottaggio tra Dilma Rousseff e Aécio Neves.
Il 12 ottobre, in Bolivia, Evo Morales con ogni probabilità potrebbe vincere di nuovo. Presidente in carica dal 2006, figura controversa del socialismo nazionalista sudamericano, eletto già due volte, la possibilità di candidarsi per la terza presidenza gli sarebbe stata preclusa per legge, ma solo in teoria. Nel 2009 ha reso possibile la promulgazione di un’altra Costituzione, definita “indigenista”, che proclama lo Stato plurinazionale di Bolivia e seppellisce la precedente Repubblica. Così è riuscito a far sentenziare al Tribunale costituzionale che il suo primo mandato (2006-2010) in realtà non era da annoverare nel computo, in quanto svolto con una Costituzione diversa.
EVO MORALES E LA SITUAZIONE GENERALE IN AMERICA LATINA – «Evo Cumple» era il grido di battaglia dei suoi (tanti) sostenitori. Ora ne ha persi parecchi per strada, ma grazie alle divisioni dei suoi avversari sarà rieletto. L’esempio richiama subito alla mente la “carriera” dei barbuti fratelli Castro, che dal 1959 detengono il potere a Cuba. Fidel ha di fatto “incoronato” il fratello solo nel 2008 e solo per motivi contingenti (soprattutto di salute). La “tradizione” del perpetuarsi del potere nelle medesime mani, tipica dei Paesi socialisti, ha così avuto effetto. Non molto diverso da quello cui assistevamo nell’Europa dell’Est. Evidentemente, socialismo non fa rima con alternanza neanche in America latina.
Hugo Chávez ha fatto più o meno lo stesso con Nicolás Maduro, vincitore delle elezioni del 2012 in Venezuela. Gli ha consegnato il Paese, i giornali, la tv. E lui ha vinto le elezioni, davanti ad avversari, ancora una volta, divisi. In Argentina Néstor Kirchner, eletto nel 2003, nel 2007 non si ripresentò per far posto alla moglie Cristina (tuttora in carica). Ma prima, da Presidente della regione patagonica di Rio Gallegos, modificò le regole elettorali assicurandosi così una rielezione illimitata. Anche l’Ecuador ha un capo dello Stato “esperto”: Rafael Correa infatti è in carica dal 2007.
Morales parla in sede Onu (fonte: Pagina12)
Morales parla in sede Onu | Pagina12
È vero che l’America Latina ha avuto nell’ultimo decennio la stabilità politica che forse prima non aveva conosciuto così approfonditamente. Ed è innegabile che i frutti ci sono: complessivamente la povertà è diminuita (anche se non ovunque), le condizioni di vita generalmente migliorate e l’influenza politica sulla scena mondiale è certamente accresciuta, anche per il graduale disimpegno di Washington nella zona. Questo blocco di potere ha portato negli ultimi due lustri stabilità, che a sua volta ha prodotto crescita.
IL PREZZO DELLA MANCATA ALTERNANZA – Ma questo è avvenuto a che prezzo? A Cuba c’è stata qualche timidissima apertura, ma si rimane sostanzialmente in un regime illiberale. Il Venezuela, Paese ricchissimo di petrolio, è perennemente sull’orlo della guerra civile. L’informazione è ostaggio del partito che continua nell’opera di congiunzione tra socialismo e nazionalismo. L’iperinflazione erode i salari e vanifica gli espropri e la limitazione all’iniziativa (e alla libertà) privata. L’Argentina è nel pieno di un vortice finanziario internazionale e Cristina Kirchner sembra aver esaurito la propria spinta propulsiva socialdemocratica. Insomma, i tempi sarebbero maturi anche da un punto di vista economico e sociale per salutare in America latina la fine di un’era politica e accoglierne un’altra.
In un’epoca di precariato la figura del “Presidente a tempo indeterminato” si pone spesso come poco democratica e ricorda le tipizzazioni dei fazenderos d’antan descritti da Jorge Amado.
Una democrazia matura deve favorire il ricorso all’alternanza e creare le condizioni perché essa sia realizzabile. Aveva ragione Machiavelli nell’affermare che il “principe” deve essere temuto più che amato e i presidenti latinos hanno di fatto usato tutte le armi a loro disposizione, tra cui il controllo della stampa, per rimanere ancorati in sella. La tendenza comune è quella di perseguire programmi di ispirazione socialdemocratica con una forte componente di liderismo, personificazione e grande longevità (aveva probabilmente ragione Giulio Andreotti quando diceva che «il potere logora chi non ce l’ha»).
Questa ostinazione nel continuare l’azione di governo direttamente e in prima persona ha il suo lato debole nella continuità. Il non trovare né allevare un delfino in seno al proprio partito politico è una debolezza che rischia poi di compromettere quanto di buono portato a compimento.
Le società coinvolte avrebbero potuto confrontarsi in maniera più libera e più ampia e produrre novità ancor più significative se avessero potuto contare su una discontinuità della figura presidenziale. È giusto riconoscere ai lider, Morales in primis, di aver portato una condizione totalmente diversa rispetta al passato, ma il percorso avrebbe potuto essere più fruttuoso se poi queste figure bolivariane si fossero fatte da parte dopo un po’. Ora sembrano aver perduto la spinta propulsiva e concorrere solo per la conservazione del potere.
Andrea Martire

NoTav, cosa si inventano per andare contro la volontà dei cittadini


Il leader No Tav Alberto Perino prosciolto per invasione di terreni



Alberto Perino, lo storico leader del movimento No Tav, è stato prosciolto dal reato di invasione di terreni che sarebbe avvenuto in una manifestazione di gennaio 2010 a Susa. Non luogo a procedere arrivato dal giudice Paolo Gallo anche per altri tre attivisti, tutti e quattro giudicati in un altro procedimento per lo stesso fatto. Perino e gli altri tre, infatti, erano stati multati per dal tribunale per un presidio che si era svolto nella frazione di Susa Traduerivi, con l’intento per ostacolare i sondaggi preliminari per la costruzione della ferrovia Torino – Lione. La sentenza era stata pronunciata dal giudice Giorgio Giannetti. 
Altri quattro attivisti, tra cui Luigi Casel (uno dei leader del movimento) sono invece stati multati dai 200 ai 400 euro.

http://www.nuovasocieta.it/cronaca/il-leader-no-tav-alberto-perino-prosciolto-per-invasione-di-terreni/

Aria Fritta Italia, distruzione dei territori, e si chiama Renzi il nuovo che avanza

Sblocca Italia, la rivolta degli enti locali contro l'assist ai petrolieri

Nello Sblocca Italia c'è un grosso assist per le compagnie petrolifere che operano in Basilicata, che richiedono carta bianca per poter raddoppiare le estrazioni. Si toglie potere alle comunità locali per aiutare i petrolieri su diversi fronti, dai procedimenti autorizzativi alla delicata questione della gestione delle acque di strato. E gli enti locali insorgono.
Craco è un paese di 766 abitanti, in provincia di Matera. Conosciuto come il borgo fantasma dei Calanchi lucani - in cui nel 1979 Francesco Rosi e Gian Maria Volonté fecero rivivere Carlo Levi nel suo “Cristo si è fermato a Eboli”. Da qualche giorno è anche il primo comune italiano ad aver espresso ufficialmente la sua contrarietà al decreto “Sblocca Italia”. Il primo cittadino Giuseppe Lacicerchia - sulla spinta di alcune associazioni di cittadini - con la delibera n.40 del 7 ottobre 2014 ha impegnato il presidente della Regione Basilicata, Marcello Pittella, “ad impugnare la legittimità del Decreto legislativo n.133 del 12 settembre 2014, davanti alla Corte Costituzionale”. E lo stesso potrebbero fare altri sindaci lucani, presenti sabato 11 ottobre ad un incontro organizzato proprio a Craco, nella Sala consiliare di località Peschiera.
Un'iniziativa forte con l'obiettivo di scardinare l'immobilismo del massimo ente regionale e rimarcare la necessità di “tutelare il territorio della Basilicata dall'assalto delle compagnie petrolifere, contare nelle scelte di pianificazione e gestione del territorio e delle risorse naturali e difendere la salute e i diritti ad uno sviluppo eco-sostenibile delle popolazioni lucane”. Perché la Basilicata è finita nell'occhio del ciclone fossile e se c'è un decreto che incentiva lo sfruttamento di gas e greggio in Italia, e lo fa a scapito delle Regioni italiane, questo è lo “Sblocca Italia”.
Infatti, in materia energetica - attribuendo “carattere di interesse strategico […] di pubblica utilità, urgenti e indifferibili” a tutte le opere di rigassificazione e trasporto del gas in Italia e in Europa e a quelle di prospezione, ricerca ed estrazione di idrocarburi e stoccaggio sotterraneo del gas - gli enti regionali non avranno alcun potere decisorio. Ancor meno lo avrà la Basilicata (vedi anche altro articolo su Qualenergia.it), che sembrerebbe essere il territorio più colpito dallo “Sblocca Italia” e dagli articoli 36, 37 e 38 del capo IX riguardante “Misure urgenti in materia di energia”. Ai quali si è arrivati, anche e soprattutto, a seguito di un accesso dibattito interno tra tutte le forze politiche regionali.
Dalla Risoluzione petrolifera al Patto di Stabilità interno
Ad aprile 2014 il ministro allo Sviluppo economico, Federica Guidi, dopo aver rilanciato il tema del raddoppio delle estrazioni petrolifere lungo tutta la Penisola, organizza dei tavoli di trattativa con il presidente della Regione Basilicata. Sul piatto c'è la richiesta da parte di Eni di ottenere nuove autorizzazioni in Val d'Agri e ilpossibile aumento delle royalties da conferire nelle casse della Regione e dei Comuni interessati dalle attività di estrazione.
Il governatore lucano arriva a queste trattative con in mano una risoluzione votata a maggioranza dal Consiglio regionale. Un documento che - come è possibile leggere in un comunicato stampa ufficiale - “dà mandato al Presidente della Giunta, perché si faccia portavoce con i vertici istituzionali dello Stato di quanto emerso nel corso del Consiglio regionale della Basilicata dedicato al tema delle riforme costituzionali, in particolare in relazione alla materia ambientale”. In realtà, tra la Guidi e Pittella si è parlato dei proventi del petrolio, quelli che la Regione avrebbe voluto svincolare dal Patto di Stabilità interno per poterne usufruire liberamente, anche per la spesa corrente.
Ma l'accordo non arriva. La Guidi si tira fuori sminuendo il confronto e lanciando nel dibattito il sottosegretario allo Sviluppo economico, Simona Vicari, mentre il governatore lucano l'11 luglio 2014 vara la Legge Regionale n.17 recante “Misure urgenti concernenti il Patto di Stabilità interno”, cercando di escludere le royalties petrolifere dai vincoli stringenti del Patto di Stabilità, senza tutele. Un braccio di ferroche lo Stato risolve il 10 settembre 2014 decidendo di impugnare la legge regionale e che il governo Renzi seppellisce definitivamente riportando la questione “Royalties-Patto di Stabilità” nell’impianto dello “Sblocca Italia”, regolamentandola con l’articolo 36 e a proprio vantaggio.
Infatti nell'articolo in questione è prevista l’esclusione dal Patto di Stabilità delle sole “spese sostenute dalle regioni per la realizzazione degli interventi di sviluppo dell’occupazione e delle attività economiche, di sviluppo industriale e di miglioramento ambientale, nonché per il finanziamento di strumenti della programmazione negoziata nelle aree in cui si svolgono le ricerche e le coltivazioni di idrocarburi, per gli importi stabiliti con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze da emanare entro il 31 luglio di ciascuno anno”. In poche parole un impegno economico deducibile dalle somme del Patto di Stabilità - vincolati a successivi decreti dei ministeri competenti da emanare entro il 31 luglio di ogni anno - strettamente legato a trasferimenti in royalties riguardanti l’aumento delle produzioni di idrocarburi, solo per gli anni 2015, 2016, 2017 e 2018 e da investire anche nel settore petrolifero.
Così come configurato, l'articolo 36 ha fatto esplodere una vera e propria guerra interna al Partito Democratico, innescata dalla corrente legata all'ex governatore Vito De Filippo - oggi sottosegretario alla Sanità - capeggiata dal deputato Vincenzo Folino, uscito volontariamente dal partito. Il tentativo è quello di intavolare nuove trattative petrolifere sulla base dell'articolo 16 del Decreto Liberalizzazioni (n.1/2012), che di fatto mira allo sviluppo degli investimenti infrastrutturali e occupazionali nei territori interessati da attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi in cambio delle autorizzazioni e allo sviluppo di nuovi permessi di ricerca e concessioni.
Ancora una volta emerge l'aumento degli introiti regionali a fronte dell'aumento delle attività petrolifere. Quelle royalties che la Corte dei Conti ha messo al centro di una specifica indagine avviata nel 2009 e conclusa con una relazione nell'aprile di quest'anno, tracciando un quadro significativo e desolante. Dal 2001 al 2012 i fondi derivanti dall’estrazione del petrolio in Basilicata, e assegnati ai Comuni ammontano a circa un miliardo di euro. L’80% circa delle amministrazioni comuni ha utilizzato questi fondi per spese correnti e “non per sviluppo e lavoro”, comprese le erogazioni che la Regione Basilicata ha trasferito al Programma Operativo Val d’Agri. Una storia di spreco ed incapacità amministrativa che fa passare in secondo piano il dibattito sui rischi ambientali legati all'aumento delle estrazioni.
Come superare gli ostacoli delle comunità locali
Lo “Sblocca Italia” non è solo articolo 36, ma è anche e soprattutto l'articolo 38, in merito al quale sono stati presentati 191 emendamenti che ne chiedono l'abolizione o la modifica radicale, al centro della discussione in Aula prevista per lunedì 13 ottobre. L'articolo 38 fa paura, perché riporta in capo ai ministeri dell'Ambiente e dello Sviluppo economico il potere decisorio sulle autorizzazioni ambientali per concessioni di coltivazione in mare, e vincola quelle in terra a generiche intese con le Regioni interessate, il cui parere non sarà vincolante. Il tutto avverrà in presenza di un titolo concessorio unico che salterà diversi passaggi autorizzati imposti dalla normativa attuale, riducendo i tempi di esecuzione e limitando le opposizioni.
Un assist per le compagnie petrolifere che operano in Basilicata, che richiedono carta bianca per poter raddoppiare il numero di barili estraibili nelle valli dell'Agri e del Sauro, compresa la difficile gestione delle acque di strato derivanti dallo sfruttamento dei giacimenti. Infatti, il comma 11 riporta le autorizzazioni per “la reiniezione delle acque di strato o della frazione gassosa estratta in giacimento” in capo al Ministero dello Sviluppo economico, cercando di superare alcuni blocchi autorizzativi.
Dal 2012, il Comune di Grumento Nova - che ospita il pozzo di reiniezione 'Monte Alpi 9OR', ubicato in area sismica - nega “il permesso a costruire”, applicando il Principio di Precauzione. “Questi pozzi di reiniezione - come sottolineato dalla Ola (Organizzazione lucana ambientalista) - sono necessari a smaltire il notevole incremento delle acque di strato dal giacimento incrementatosi a partire dal 2006. Ufficialmente le acque di strato smaltite presso il pozzo 'Costa Molina 2' sarebbero, secondo il Local Report 2013 redatto dall'Eni, pari a 2.500 metri cubi al giorno, per un totale annuo di 90 milioni di metri cubi. Miliardi i metri cubi di reflui reiniettati in 12 anni di attività del pozzo”. Anche per questo, i prossimi 15 e 16 ottobre si ritroveranno ai piazza Montecitorio a Roma, centinaia di associazioni, comitati e cittadini in una grande manifestazione contro lo “Sblocca Italia”, che toglie legittimità alle comunità.

Cgil, Cisl, Uil strumenti per far soldi e carriera sociale

Cgil, a Bari spariti i soldi dalle casse dei pensionati: via il segretario e la tesoriera

Furto di quote di iscrizione allo Spi pugliese per decine di migliaia di euro: i vertici presentano una denuncia in Procura. Il precedente delle false iscrizioni a Piacenza, dove furono tutti assolti anche perché furono ritirate 78 querele, mentre ad altre 22 persone fu restituito il denaro


di Thomas Mackinson
Non è un bel periodo per i sindacati, ma stavolta non è colpa della sufficienza che gli riserva il governo Renzi. La notizia arriva dalla Puglia ed è di quelle che fanno male. Un altro caso di furtodelle quote di iscrizione dei pensionati. L’importo non è ancora chiaro ma c’è chi ipotizza un ammanco a sei zeri. La vicenda ha investito la segreteria regionale Spi Cgil a Bari a luglio dell’anno scorso come ipotesi di irregolarità contabili, ora però emergono le sue reali proporzioni. Il sindacato ha cercato di circoscrivere il problema, preso poi atto della gravità della situazione ha assunto le contromisure del caso disponendo il licenziamento della responsabile amministrativa e l’allontanamento del segretario regionale e dei suoi tre collaboratori che nella sede barese avevano speso gran parte dell’attività professionale. Le loro posizioni sono ora al vaglio degli inquirenti perché lo Spi ha depositato anche una denuncia alla Procura di Bari che, in collaborazione con la Guardia di Finanza, sta portando avanti indagini, perquisizioni e interrogatori.
Non è la prima volta che sul Sindacato pensionati italiani (Spi Cgil) si abbatte un fulmine che brucia la fiducia degli iscritti e contribuisce ad alimentare la diffidenza verso le organizzazioni del lavoro in genere. Un analogo scandalo ha investito proprio l’anno scorso la sede di Piacenza. Quattro dirigenti e un dipendente sono stati accusati di aver manipolato il software per iscrivere indebitamente al sindacato degli ignari anziani. Addirittura di prelevare la quota di iscrizione direttamente dalle loro pensioni. L’indagine era scattata nel 2009 su segnalazione dei pensionati stessi che si erano ritrovati iscritti a loro insaputa, senza averne mai manifestato l’intenzione. A giudizio sono finiti Franco Sdraiati, ex segretario provinciale Spi, Nicola Gasbarro, già segretario organizzativo del sindacato pensionati Cgil; Anna Maria Nicocia, componente della segreteria dello Spi; Loredana Riva, ex direttrice del patronato Inca; Edgardo Musselli, operatore della Lega Spi-Farnesiana.L’epilogo è stato scritto proprio il mese scorso con una sentenza di assoluzione che ha sorpreso ma non rasserenato gli animi o diradato le ombre. Nel corso delle indagini i carabinieri avevano infatti accertato che effettivamente 129 persone erano state iscritte a loro insaputa al sindacato che mensilmente tratteneva le loro quote. Ma durante le udienze del dibattimento era emerso che non era possibile stabilire con “precisione e certezza” chi fra loro avesse materialmente effettuato le false iscrizioni a causa delle complicate procedure informatiche. Così il 25 settembre scorso il giudice Maurizio Boselli ha accolto la richiesta di assoluzione formulata dal pm per tutti e cinque gli imputati. Decisivo anche il fatto che 78 persone durante il processo avessero ritirato la querela, cui se ne sono aggiunte altre 22 cui lo Spi ha restituito il denaro.
Per questo c’è stata anche una coda polemica. La Cgil regionale e nazionale sono state accusate pubblicamente di coprire lo scandalo proponendo un “accordo indecente” ai danneggiati. A denunciarlo l’ex segretario della Camera del Lavoro di Piacenza, Gian Franco Dragoni, che ha scritto una lettera aperta a Susanna Camusso in cui invitava gli organi nazionali del sindacato a prendere contromisure e alzare il velo di omertà calato sulla vicenda. Dragoni puntava il dito contro le decisioni di non costituirsi parte civile, di non allontanare neppure temporaneamente i quattro sindacalisti e l’impiegato e di proporre un risarcimento “o meglio la restituzione del maltolto” agli anziani truffati in cambio del ritiro della querela.
Epilogo incerto anche per il caso barese che è altrettanto scottante, ma in parte diverso. Intanto perché ad accorgersi dell’ammanco sono stati gli organi di controllo dello stesso sindacato. E poi per la reazione energica contro i presunti truffatori, alcuni licenziati in tronco, altri espulsi dalla commissione nazionale di garanzia e poi denunciati all’autorità giudiziaria. Certo l’imbarazzo è palpabile. Il segretario regionale Giovanni Forte al telefono si mostra ancora reticente: “C’è un’indagine penale in corso”. Ammette che c’è stato un problema ma non fornisce dettagli, non fa nomi, non accenna ad importi, si rifiuta anche di fornire i nominativi dei legali del sindacato che stanno seguendo la vicenda. Del resto quando trapelarono le prime indiscrezioni sui quotidiani locali, a luglio dello scorso anno, si limitò a dire che “non c’è nulla di strano, da quello che mi risulta c’è un’ispezione, ma è un’attività normale per la Cgil”. In realtà la magagna internamente era già esplosa, tanto che il lunedì successivo lo Spi Cgil avrebbe provveduto alla nomina del nuovo segretario.
Comunque sia è toccato a Giuseppe Spadaro, già segretario generale Spi Puglia prendere il posto che fu di Vincenzo Valentino, espulso dal comitato garanti della Cgil nazionale insieme all’amministratrice e alla responsabile dell’organizzazione. Spiega che sulle prime gli ispettori si erano concentrati su un ammanco di 25-30mila euro dal conto corrente dell’organizzazione riferibile alla contabilità dell’anno prima. “Dalle ulteriori verifiche si è poi capito che il problema era ben più grave e che le irregolarità si protraevano da diversi anni”. Addirittura dal 2006-2007. Quindi per almeno 5 anni, magari più, i responsabili del conto corrente su cui vengono girate le quote degli iscritti avrebbero prelevato somme a piacere, del tutto indisturbati. Ancora oggi non è stata definita la sostanza dell’ammanco che sarebbe però rilevante. Lo Spi in Puglia conta infatti più di 160mila iscritti ed è una delle categorie che sviluppa più movimento contabile e di liquidità. In cassa, tramite la convenzione di rimessa dell’Inps, arrivano mediamente 580-600mila euro l’anno. Un tesoretto che dovrebbe servire per le attività del livello provinciale, dei territori e delle “leghe” e che pare sia stato svuotato di somme che ora si dovranno quantificare al centesimo.

Questo sindacato (Cgil-Cisl-Uil) è divenuto strumento per arricchirsi e fare scalate sociali

Soldi dopo le trattative, bufera sulla Fit Cisl

Genova - Armatori versavano “contributi” mentre si discutevano i licenziamenti, il sindacalista dei trasporti li prelevava cash. Ex segretario ligure citato a giudizio per appropriazione indebita.

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Genova - Per due anni, un’azienda privata che stava trattando con i sindacalisti una delicatissima ristrutturazione aziendale fra ipotesi di licenziamento e abbondante cassa integrazione, ha versato somme sui conti del sindacato stesso. E quelle cifre sono state prelevate in contanti da uno dei “big” della rappresentanza dei lavoratori, che aveva coordinato le trattative e ha utilizzato il denaro non si sa come. Poi, dopo che è scoppiato il polverone, è stato assunto da un’altra azienda privata. È successo a Genova, e quell’andazzo si è trasformato in un’inchiesta giudiziaria, che imbarazza pesantemente la Cisl e potrebbe avere vari strascichi nei prossimi giorni. Per capire di cosa si sta parlando è necessario partire dal dato giudiziario. Nelle scorse settimane la Procura del capoluogo ligure ha concluso l’indagine su Renato Causa, ex segretario regionale per la Liguria della Fit-Cisl, branca che si occupa di trasporti e in particolare del lavoro marittimo. La medesima Fit, in questo settore e soprattutto a Genova, è storicamente una sigla di grande peso e adesione. Causa è accusato di appropriazione indebita poiché, con cinque prelevamenti fra il 7 gennaio 2008 e il 19 ottobre 2009,«si appropriava di 152 mila euro complessivi versati da Coscon Italy srl e Hapag Lloyd, a titolo di contributo sindacale alla Fit Cisl, di cui all’epoca era segretario regionale». E proprio Causa «era delegato a operare sul conto corrente aperto» presso una filiale di Unicredit. 
Il lavoro degli inquirenti ricostruisce sostanzialmente questo: le aziende con le quali un ramo della Cisl sedeva al tavolo (Hapag Lloyd affrontò fra 2008 e 2009 una riorganizzazione corposa, con riflessi pesanti sui lavoratori) versavano ad ogni passaggio cruciale della vertenza somme fra i 10 e i 40 mila euro sul conto della medesima Fit Cisl. Quelle stesse somme, a distanza in media d’una settimana e come certificano le carte in mano alla Finanza, venivano ritirate in contante dal segretario.Il sindacalista (vedi intervista sotto) allontana con sdegno l’ipotesi che si trattasse d’un “riconoscimento” per la posizione tenuta da lui, o dai suoi collaboratori, nel corso del confronto. E rimarca come fosse un sistema «a tutela» dei lavoratori: «Il trasferimento di quelle somme faceva parte di accordi complessivi con le società private. E i soldi prelevati cash erano poi consegnato a marittimi in difficoltà». In pratica, dice Causa, le aziende aiutavano chi sbarcava periodicamente dalle navi per interposto sindacato, sebbene fonti di Assagenti spieghino che la mediazione dovrebbe essere propria delle associazioni di categoria. Non solo. 
Uno dei manager di Hapag Lloyd (compagnia di navigazione internazionale, che ha versato sui conti della Fit-Cisl 139 mila dei 152 mila euro sospetti) ha fornito una versione molto più generica del fatto: «Poiché la Cisl era la formazione che ci ha fornito la maggiore assistenza nel corso delle trattative, abbiano fissato quel contributo. Con gli altri sindacati non lo abbiamo fatto». Al momento non sono stati forniti agli inquirenti documenti che provino dettagliatamente e per iscritto l’accordo, e non ci sono carte che traccino l’uso del contante poi acquisito da Renato Causa. Cosa c’era, davvero, dietro quel meccanismo? L’indagine era partita perché proprio Hapag Lloyd voleva “scaricare” dalle tasse i misteriosi contributi. La Finanza si è opposta ed è scattato il procedimento, nel quale Cisl non si è mai costituita parte offesa. Il Secolo XIX ha interpellato ieri Sergio Migliorini, segretario generale Cisl dal 2006, quindi anche all’epoca dei fatti contestati: «Apprendo queste cose per la prima volta. Il conto corrente era di competenza esclusiva di Fit-Csil e non di Cisl confederazione. Il sistema che viene descritto dall’indagine non è nel nostro costume e valuteremo nei prossimi giorni se costituirci parte offesa».

Auto ad idrogeno, la tecnologia c'è è la politica che latita, Renzi se ci sei batti un colpo

La prima auto totalmente a idrogeno, non emetterà neanche un grammo di CO2

È la prima auto a idrogeno prodotta in serie, la Hyundai ix35. Il veicolo non emetterà neanche un grammo di CO2 direttamente. L’auto avrà un’autonomia di circa 500 chilometri e un’accelerazione da 0 a 100 Km/h in dieci secondi. Il tempo per la ricarica delle celle è stimato tra i tre e i cinque minuti.
L’autostrada dell’idrogeno italiana è quella del Brennero, che collega Modena a Monaco di Baviera. Ed è proprio la Germania, il Paese che sta investendo maggiormente nelle tecnologie dell’idrogeno: sono già in funzione più di trenta distributori del carburante ecologico.
Il progetto H2-Sudtirolo prevede la realizzazione a Bolzano di un impianto per la produzione e la distribuzione dell’idrogeno da energia rinnovabile. L’idrogeno verrà ricavato da fonti rinnovabili mediante processo di elettrolisi e successivamente purificato, compresso e temporaneamente stoccato in serbatoi sotto pressione. Da questi ultimi sarà possibile utilizzare l’idrogeno per alimentare numerose applicazioni.
La prospettiva a medio termine è quella di rifornire gli autobus pubblici regolarmente in servizio nella città di Bolzano. La sfida più grande è sicuramente rappresentata dall’approvvigionamento delle automobili private. Per questo motivo Bolzano, posta strategicamente sull’asse Monaco-Modena, sarà sede di un’importante stazione intermedia di approvvigionamento.
All’inizio del 2015, se tutto va secondo i programmi, sarà inaugurata una stazione di rifornimento a Trento e poi si concluderà l’autostrada con Rosenheim, Verona e Modena. Ogni cento chilometri lungo la A22, le auto a idrogeno avranno una stazione di rifornimento. E il pieno di idrogeno costa quanto quello di diesel.
Alla luce del fabbisogno energetico mondiale, dei mutamenti climatici e del costo dell’energia, si tratta di una decisione condivisibile e legittima, se non addirittura doverosa. Partnership solide e aperte alla cooperazione costituiscono la premessa per la concretizzazione di idee e la loro trasformazione in traguardi raggiungibili.
La volontà di puntare all’indipendenza energetica ha dato vita al progetto per la realizzazione in Alto Adige di un impianto pilota per la produzione e distribuzione di idrogeno da energia rinnovabile.

Def mancano 80 miliardi, governo pagliaccio

Debito pubblico, per il Fondo Monetario i conti del DEF non tornano
Il rapporto sull'Italia presentato dal Fondo Monetario Internazionale amplifica la sensazione che con l'attuale governo si moltiplichino le sensazioni di dejà vu, del già vissuto. In particolare sui conti, soprattutto quelli pubblici, che non tornano mai.
La nota di aggiornamento sul DEF, che ha dovuto correggere le aspettative del governo (da una crescita dello 0.8 del PIL al segno meno, con relativo aggiustamento del rapporto con il deficit), ha appena una settimana di vita e già c'è qualcosa che non quadra. Se c'è una cosa su cui l'attuale esecutivo non si è lasciato andare ad annunci eccessivamente mirabolanti, almeno nelle dichiarazioni a mezzo stampa, è l'immediata riduzione del debito pubblico. Infatti, da febbraio ad oggi, ad ogni aggiornamento ci siamo trovati davanti a nuovi record negativi. Mentre il premier annuncia, ma difficilmente mette in pratica, rivoluzioni in Europa sui vincoli imposti da Bruxelles (ancora deve incassare l'ulteriore rinvio di un anno del pareggio di bilancio), si avvicina il momento in cui dovremmo fare seriamente i conti con il Fiscal Compact, ovvero la riduzione del rapporto debito/PIL fino al raggiungimento della quota fissata: il 60 per cento.
E per poter fare i conti, dovremmo come minimo avere la certezza sui numeri di cui si parla. Ed ecco il problema: secondo l'aggiornamento sul DEF il debito pubblico a fine anno toccherà la quota, in rapporto al PIL, del 131.6%. Il Fondo Monetario Internazionale vede molto più nero: 136.4%. Una differenza di qualche decimo di punto rientrerebbe nella logica delle parti, ma qui si parla di un cinque per cento, circa 80 miliardi di euro. 
Da dove nasce questa enorme discrepanza? Entrambi, la nota di aggiornamento e il rapporto FMI, considerano l'aggiustamento causato dal sistema SEC 2010, vale a dire la discussa introduzione nel calcolo del Prodotto Interno Lordo dei proventi derivanti da traffico di stupefacenti, contrabbando, prostituzione e spese militari, un impatto sul PIL di circa 60 miliardi. Nel primo DEF (aprile 2014, senza il sistema SEC) veniva ipotizzato un debito pubblico a fine anno pari al 134.9% del PIL. Sei mesi dopo, la stima è scesa di tre punti percentuali. Merito dell'entrata in vigore del SEC.
Ma quello che non torna sono i miliardi 'bruciati' dalle previsioni di aprile alla realtà di oggi. Manca un punto percentuale di crescita del PIL, l'aumento del deficit, le mancate privatizzazioni , l'assenza di inflazione. Inoltre la prevista spending review da almeno 15-20 miliardi di euro non è presente nel DEF, che si limita a prevedere tagli pari ad un misero 0.5 per cento su oltre 800 miliardi di spesa pubblica. Fatti i conti sono poco più di 4 miliardi, meno di un terzo degli annunci.  Proprio ieri il commissaro alla spending review ha in pratica salutato la 'compagnia': "Nessuno a Roma è indispensabile. Il lavoro sulla spesa non è uno sprint né una maratona, ma una staffetta. E io l'ho passata a qualcun altro". E non sembra affatto una bella notizia.


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Salvini sta facendo quello che Renzi non ha fatto

Salvini in missione russa. Domenica sbarca in Crimea per la Lega


Per ribadire il "no" padano alle sanzioni occidentali

Mosca, 10 ott. (TMNews) - Il segretario della Lega Nord Matteo Salvini è a Mosca e si recherà in Crimea nel week end per ribadire il "no" padano alle sanzioni occidentali contro la Russia. Secondo quanto si apprende il programma di visita - iniziata ieri e destinata a proseguire sino a martedì - comprenderà anche una tappa a Simferopoli con una conferenza stampa e non è escluso neppure un salto a Yalta.

Salvini è il primo politico italiano a recarsi nella penisola dopo l'annessione alla Russia di marzo, che comportò un netto peggioramento nei rapporti tra l'Ovest e Mosca. L'annessione non è stata riconosciuta né dall'Italia, né dall'Ue.

L'agenda di Salvini prevedeva oggi incontri alla Duma, camera bassa del Parlamento russo, con il presidente del comitato della Duma di Stato per gli affari esteri Aleksej Pushkov. E con il ministro russo per gli Affari della Crimea Oleg Saveljev.

Domani un giro in Piazza Rossa e successivamente incontri con la comunità imprenditoriale italiana e russa. Poi il viaggio in Crimea. Salvini è accompagnato dai leghisti Paolo Grimoldi, Claudio D'Amico e Alessandro Morelli.

http://www.tmnews.it/web/sezioni/nuovaeuropa/PN_20141010_00599_NE.shtml

venerdì 10 ottobre 2014

TTIP, la Sovranità di uno stato è soppiantata dalle multinazionali

Il negoziato tra Europa e Stati Uniti sul libero scambio ora non è più segreto

Era una delle grandi richieste delle associazioni e Ong che accusano il “famigerato” Ttip di essere condotto in gran segreto. Ora sono state accontentate: i contenuti dell'accordo di libero scambio che Unione Europea e Stati Uniti stanno negoziando saranno resi pubblici. 
Documento pubblico 
La Ue ha deciso infatti di diffondere il documento di 18 pagine che contiene il suo mandato a negoziare. All'interno ci sono una serie di informazioni importanti: innanzitutto viene affermato che la Ue non è disposta a includere nell'accordo il settore audiovisivo, una battaglia della Francia per difendere la sua industria culturale. Tra gli obiettivi cruciali dell'intesa viene invece inclusa l'apertura del mercato statunitense degli appalti pubblici.
Iniziativa italiana 
La decisione di declassificare le direttive negoziali è stata presa su iniziative del Governo italiano. «Quello di oggi - ha commentato Carlo Calenda, vice ministro dello sviluppo economico, presidente di turno del consiglio dei ministri del commercio europeo - è un passo fondamentale verso una maggiore trasparenza del negoziato, obiettivo al cui
perseguimento la presidenza italiana continuerà a contribuire nella convinzione che è decisiva per sconfiggere le tante paure ingiustificate che agitano una parte della pubblica opinione».
Un accordo che divide 
In effetti il Ttip (Transatlantic Trade and Investment Partnership) è stato contestato sin dall'inizio dei negoziati nel giugno 2013 . Oltre alla mancanza di trasparenza, alcune organizzazioni non governative lo accusano di abbassare gli standard di lavoro, ambiente e alimentare in vigore nella Ue. I suoi promotori, invece, tra cui tutti i Governi europei e le organizzazioni imprenditoriali, lo ritengono un tassello fondamentale per rilanciare la crescita in Europa attraverso l'abbattimento delle barriere tariffarie (e non) e la riduzione delle procedure burocratiche. Si stima un impatto economico di 100 miliardi all'anno per entrambe le parti.
Il tema «caldo» dell'arbitrato internazionale 
Il documento include anche l'arbitrato internazionale Stato-imprese (il cosiddetto Isds, Investor-to-State Dispute Settlement), un meccanismo che consente agli investitori di citare in giudizio i Governi presso corti arbitrali internazionali. L'Isds ha subìto molte critiche, soprattutto in Germania, perché viene accusato di dare troppo potere alle multinazionali contro i Governi. Lo stesso Esecutivo tedesco si è schierato contro la sua introduzione all'interno del Ttip, ma la Commissione europea ha replicato che il mandato negoziale glielo consente. Meccanismi simili all'Isds sono stati inclusi in molti accordi commerciali del passato, inclusi quelli negoziati dalla Ue. Il tema è diventato molto sensibile dopo che il gruppo svedese Vattenfall ha citato in giudizio il Governo tedesco davanti all'Icsid (il Centro internazionale per la regolazione delle controversie) contro la sua decisione di abbandonare l'energia nucleare.

Gli Stati Uniti sono fuorilegge, fuori da qualsiasi etica e morale

Affinità

Usa-ISIS, stessa metodologia

Così lontani, così vicini. Il parere degli esperti

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Quando il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, durante il suo discorso alla Nazione dello scorso Settembre, ha inizialmente annunciato che i militari avrebbero agito contemporaneamente in Siria e Iraq nell'ottica della sempre mutevole strategia di contrasto al 'terroredel Governo di Washingtonlo ha fatto in modo unilaterale, ovvero senza alcun mandato da parte delle Nazioni Unite o dal Congresso Usa.
Se l’ennesimo intervento militare americano in Medio Oriente non è certo una notizia sorprendente, l’idea che il Presidente degli Stat Uniti possa bypassare l'organo legislativo nazionale attraverso un gioco di semantica legale, solleva nuovi dubbi sul tema dell’anti terrorismo, dell'autodifesa e sulla giustificazione morale della guerra stessa. L'approccio del Governo di Washington dell'ultimo decennio nell'affrontare i radicalismi in Medio Oriente, ha sempre poggiato le sue basi sull'idea che la stessa sopravvivenza dell'America fosse messa a repentaglio da queste forze estremiste, però mai prima d’ora un Presidente degli Stati Uniti aveva agito in modo così nettamente in contrasto con la tradizione costituzionale statunitenselasciando il Congresso del tutto fuori dalla narrazione.
Giustificando la sua decisione, Obama ha sostenuto che ISIL  -Stato Islamico dell'Iraq e del Levante- rappresenta una minaccia tale per gli Stati Uniti che a questi non resterebbe altra scelta, se non quella di intervenire direttamente nei territori dove questa nuova formazione estremista ha messo radici (in questo caso, nei territori di Siria e Iraq) e, comunque, prima che questi terroristi possano ulteriormente espandere la loro influenza e arrivare a minacciare sul serio gli interessi nazionali degli Stati Uniti nella regione. Dopo lo schieramento di Usa e di ISIL delle rispettive forze sul campo di battaglia, (l'esercito del terrore contro la ‘Coalizione dei volenterosi’) analisti politici ed esperti di diritto hanno teorizzato che, seppur animati da motivazioni e credenze antitetiche, la Casa Bianca e ISIL hanno seguito modelli comportamentali simili, spesso utilizzando la stessa metodologia per far rispettare e supportare la loro rispettiva ideologia.
E’ stato Hashem Mokhtar, ricercatore del centro per studi sul Medio Oriente di Beirut nel giugno 2014 a teorizzare la 'Guerra dell'America all'algoritmo del terrore', riuscendo ad individuare una certa tendenza del Governo USA ad operare al di fuori dei limiti della legge, in molti casi in cui lo scopo era quello di sconfiggere un avversario posizionato, dalla retorica politica interna, al di fuori di ogni struttura o framework giuridico-morale.
Lo studioso, infatti, ha affermato che «quando entrambe le entità (USA ed ISIL, ndr) si sono trovate in reciproco contrasto, hanno assunto un comportamento sul campo piuttosto simmetrico. Infatti, le leadership hanno rispettivamente ignorato la sovranità dello Stato nel quale intervenivano direttamente, oltrepassandone i confini politici ed entrambe le formazioni hanno creato vittime tra la popolazione civile, senza mai offrirsi di rispondere a qualsiasi autorità legale, giustificando le loro azioni sulla base del perseguimento di un bene superiore». Mokhtar, inoltre, aggiunge che se Stati Uniti e ISIL non si possono distinguere in termini di ideologie e obiettivi finali (con Washington che, da un lato, fonda il suo intervento sull'idea di promuovere e difendere la libertà e i valori democratici, mentre dall’altro lato l’ISIL con l’obiettivo di imporre la supremazia di un’interpretazione molto radicale e discutibilmente perversa dell'Islam) entrambe le Potenze hanno dimostrato di essere radicali nel loro approccio all’uso della forza.
Guardando al passato e alla decennale guerra statunitense al terrore, è possibile far emergere un modello. Fin da quando l'ex Presidente americano George W. Bush riuscì, nel 2001 a ottenere l’autorizzazione dal Congresso a dichiarare guerra all'Iraq, centinaia di migliaia vite sono andate perdute, tra le quali molte sono state vittime civili. All'epoca dei fatti, nessun conteggio approfondito è mai stato fatto, tuttavia i risultati emersi da studi più recenti hanno impresso una fotografia piuttosto triste, un'immagine di estrema violenza e distruzione.
Secondo il Ministero della sanità dell'Iraq, ammonta a 87.215 la stima degli iracheni morti tra gennaio 2005 e febbraio 2009, un dato basato su relazioni rese disponibili da moschee e ospedali. Un’indagine Lancet, inoltre, ha valutato che l’intervento militare degli Usa è costato oltre 601.027 vite in tutto il Paese nel periodo compreso tra marzo 2003 e giugno 2006, numeri che l'ex Presidente Bush ha rigettato e giudicato come inesatti.
A questa equazione si aggiungono le perdite umane registrate in Afghanistan e, adesso, anche in Siria, morti avvenute sempre per cause violente.
Se nessuna guerra è mai stata vinta senza spargimenti di sangue, è proprio l’approccio statunitense all’uso della forza militare e il suo atteggiamento insensibile nei confronti dei danni collaterali e (più precisamente) verso le vittime civili, che ha portato gli analisti a tracciare un parallelismo sgradevole tra Stati Uniti e ISIL. Tra questi, Michel Chossudovsky ha affermato che «se una Potenza potesse pretendere di agire al di fuori della legge, allora questa Potenza potrebbe non essere diversa dal male al quale sostiene di volersi opporre». Agendo spesso ai margini della legalità, come ha fatto il Presidente Obama e affrontando «questa minaccia (terrore) con forza e determinazione», gli Stati Uniti hanno seguito, secondo alcuni, le stesse regole di ingaggio usate dagli stessi terroristi che gli Usa vorrebbero vedere annientati.
Lo scrittore Dave Lefcourt è andato addirittura oltre, analizzando le tecniche della guerra al terrore messe in campo dagli Usa e confrontando quello che lui descrive come 'l'approccio unitario esecutivo alla Presidenza' con la legalizzazione di Stato operata durante il Terzo Reich tedesco dei comportamenti criminali della polizia segreta, la Gestapo, allineando così le azioni di Washington con quelle proprie della Germania di Hitler. Nella sua opera ‘Truth-Out’, dal canto suo Peter Certo ha sostenuto che la nuova guerra di Obama in Siria è intrinsecamente e «inconfondibilmente illegale», corroborando la sua tesi mettendo sia ISIL che Washington sullo stesso piano, in termini di violazioni giuridiche e ingiustificate aggressioni contro il popolo siriano e il suo Governo. «Nell’ambito del diritto internazionale» scrive, «come definito dalla Carta ONU, della quale gli Stati Uniti sono firmatari e fondatori, un Paese può lanciare legalmente attacchi verso un altro solo in tre condizioni: se l'intervento è autorizzato dal Consiglio di sicurezza dell'ONU, se si tratta di un caso 'cut-and-dry' di autodifesa o se l'assistenza è richiesta direttamente dal Governo del Paese».
Mentre l'Amministrazione statunitense continua a dissentire su tale interpretazione del diritto internazionale, il dibattito rimane aperto, così come sulle questioni della legalità degli attacchi lanciati mediante l'utilizzo di droni contro Paesi stranieri e la tortura di soggetti sospettati terrorismo. Mary Ellen O'Connell, professoressa americana di diritto internazionale e di risoluzione dei conflitti, da parte sua ha rincarato la dose, condannando ulteriormente le tecniche utilizzate dal Governo di Washington nell’ambito della Guerra al terrore paragonando tali violazioni a «crimini di guerra».
Ma se l’ISIL e Stati Uniti innegabilmente non possono essere paragonati in termini di ideologie, principalmente in relazione al fatto che questi ultimi hanno basato il loro asse intorno a democrazia e libertà civili mentre gli estremisti iracheni predicano l'annientamento di tutti coloro che non si conformano con al loro interpretazione dell'Islam, entrambi, però, giustificano l'uso della forza definendo ‘barbaro’ il proprio contendente e ‘giusta’ la loro rispettiva crociata.
Se il Presidente Obama, quindi, ha bollato ISIL come organizzazione terroristica, allo stesso modo la leadership ISIL ha definito gli Stati Uniti come tiranni. Entrambe le Potenze vedono nell’altra, cioè, quello che più detestano e, rispettivamente, usano qualunque risorsa e metodo disponibile per imporre il loro punto di vista e la loro visione della guerra, anche ricorrendo ad azioni violente e che provocano spargimenti di sangue.
In una relazione per ‘Chatham House’, Alex J Bellamy ha osservato la ‘Guerra al terrore’ americana dal punto di vista puramente etico, sostenendo che, nonostante le dichiarazioni di funzionari abbiano affermato che torture e abusi sono stati sempre sanzionati da parte dello Stato, nei casi in cui sono state riscontrate «richieste irragionevolmente alte di chiarimenti sugli interrogatori» la realtà ha dimostrato che la tortura era divenuta la regola piuttosto che l'eccezione, sollevando dubbi permanenti sul tipo di morale che muove l'operato degli Stati Uniti.
Osservando come la ‘Guerra al terrore’ statunitense si è mutata e si è evoluta dal 2001 ad oggi, è difficile non ricordare le dichiarazioni di Michael Ignatieff, riguardo ‘l’etica meno malvagia’, ovvero quel tipo di politica fondata sul concetto che, in situazioni di emergenza, i leader siano costretti a scegliere il 'male minore'.
Mentre gli esperti continuano a parlare, ad analizzare e discutere di semantica sulle tecniche di contrasto portate avanti dal Presidente Obama e dall’ISIL, mettendo in relazione orrori e terrori, una domanda rimane: fino a che punto, se ce ne è uno, la minaccia potenziale, rappresentata dal terrorismo, è così seria da riuscire a provocare l’erosione dei diritti fondamentali degli individui?

Traduzione di Fabio Castiglione
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