Realismo, 1989, utopia e pensiero unico
Risposta alle imprecise precisazioni di Roberto Fai.
L’articolo di Roberto Fai intitolato “Diego Fusaro e il ‘cortocircuito’ tra teoria e prassi” (
http://filosofiaenuovisentieri.it/2015/01/18/diego-fusaro-e-il-cortocircuito-tra-teoria-e-prassi/
) mi ha molto colpito. Mi ha colpito per varie ragioni, in primis
perché mi fa specie che una rivista filosofica mi dedichi così tanta
attenzione, manco fossi Heidegger o Adorno. In effetti, l’autore
dell’articolo mi ha dedicato ingiustificatamente le attenzioni che
andrebbero dedicate a pensatori di primo livello, ossia a quei pensatori
che segnano il dibattito in modo indelebile, come appunto Heidegger o
Adorno. Detto questo (e dunque espresso
apertis verbis il mio
stupore per le troppe attenzioni dedicatemi), mi permetto subito di
dire, con altrettanta franchezza, che trovo poco corretto e serio il
modo di procedere dell’articolo. Sono presi di mira i miei interventi
televisivi, le mie interviste ai quotidiani siciliani, i miei post su
facebook: non si fa mai un cenno, dico uno, ai miei studi monografici,
ai miei saggi scientifici, ciò su cui un pensatore – piccolo o grande
che sia – deve essere giudicato.
Non so se Fai agisca in tal maniera
perché non mi ha letto (e non vi è – sia chiaro – nulla di male: anche
se, per criticare un autore, grande o piccolo, sarebbe sempre opportuno
leggerlo) o perché, in effetti, è più facile decostruire un post di
Facebook o una sparata televisiva rispetto a 500 pagine scritte e
argomentate. Ad ogni modo, mi sia consentito dire che trovo
profondamente irrispettoso tal modo di procedere. Anche perché poi alle
mie battute televisive si contrappongono dotti passaggi di Roberto
Esposito, Remo Bodei, Carlo Galli, evidentemente ritenuti degni – a
differenza mia – di essere letti e citati. Ma tant’è.
Le sparate di Fai contro le trasmissioni
televisive mi paiono, peraltro, condivisibili. Rispondo all’ovvia
domanda “e perché ci vai, allora?” dicendo “per occupare uno spazio che,
altrimenti, sarebbe occupato dall’ennesima maschera del pensiero
unico”. Sarei curioso invece di sapere, piuttosto, perché Fai assista
come spettatore a tali trasmissioni. Ma sarebbe un altro discorso. Si
potrà dire finché si vuole che chi va a parlare in queste trasmissioni è
uno stolto, ma se ne dovrà more geometrico dedurre che lo è ancora di più chi passivamente le subisce come spettatore.
La tesi di Fai è – salvo errore – che la
filosofia politica non ha né debba avere funzione prescrittiva. Bene,
questo è il suo modello, e magari quello di Esposito, agiograficamente
citato una riga sì e l’altra pure nell’articolo di Fai. Non è il mio
modello, e non capisco perché debba esserlo. Sono, peraltro, in buona
compagnia: non è il modello di Marx, non è il modello di Gentile, non è
il modello di Gramsci, non è il modello di Lukács. Quindi, quand’anche
non avessi una mia idea, non mi si accuserebbe, spero, di seguire Marx e
Gentile in luogo di Fai ed Esposito! Ma una mia idea – giusta o
sbagliata – ce l’ho, e l’ho esposta ad abundantiam in “Minima
mercatalia” e “Il futuro è nostro”. Così la compendio: con il realismo
(politico e non solo), l’idea stessa – già destrutturata dal codice
postmoderno – di uno svolgimento dialettico, temporalmente mediato, si
dissolve e resta “il questi” (das Diese), come lo chiama la Fenomenologia dello Spirito,
la “certezza sensibile” della mera datità delle cose concepite nella
loro bruta oggettività realmente data. Il fanatismo dell’economia
calcola e non pensa. Esso aspira a pensarsi come il solo mondo
possibile, storicamente non determinato. Non ci chiede altro che di
essere realisti (la dotta evocazione di Fai del principio realtà), di
aderire supinamente alla realtà colonizzata dalla forma merce, senza
dissociare l’essere dal dover essere, senza far balenare la pericolosa
possibilità dell’essere altrimenti. È in questo senso che il new realism
si configura come la sovrastruttura dell’odierna fase speculativa del
capitalismo (cfr. “Minima mercatalia”) e della sua neutralizzazione del
pensiero dialettico come capacità di evocare la contraddizione e la
possibilità dell’essere altrimenti. Su questa base fioriscono le
esortazioni à la Fai ad attenersi al reale, a non prescrivere, ad
abbandonare Marx, ecc.
Non è certo un caso che oggi si insista con tanta enfasi sulle due istanze della weberiana “avalutatività” (Wertfreiheit)
e del metodo scientifico. Decostruita la metafisica come sistema
scientifico della verità (conoscenza ontologica e valutazione
assiologica dell’Intero), la filosofia – se desidera continuare a
esistere – è costretta ad assimilare i metodi delle scienze empiriche e
l’avalutatività che le contraddistingue: attenersi al piano empirico,
rispecchiarlo gnoseologicamente e non formulare mai giudizi di valore.
Sono ammesse solo descrizioni, mai prescrizioni. Filosofia politica come
mera descrizione, appunto. Di più, mera descrizione come sola filosofia
politica possibile (se ne deduce che Platone, Fichte e Marx non
sarebbero filosofi politici e che le loro prescrizioni dovrebbero essere
segnate da Fai con la matita blu!).
Questo significa che, sul piano
dell’essere sociale, il poter-essere e il dover-essere si dissolvono
nell’essere fattuale assolutizzato, secondo l’oggi imperante legge di
Hume (abbracciata, mi pare, da Fai) che recita l’indeducibilità del
dover-essere dalle regioni ontologiche dell’essere. Il realismo ne è il
più coerente corollario. Il vero viene ritradotto come certezza, come
corretta rappresentazione dell’oggetto dato da parte del soggetto
conoscente, senza alcuna valutazione assiologica, in un gelido
rispecchiamento del mondo quale è allo stato attuale.
Del resto, l’odierna critica
dell’ideologia è essa stessa dirottata ad arte nel circuito del pensiero
unico, che la incorpora e la rideclina ad usum sui, facendo
valere un uso ideologico della critica delle ideologie. Come ideologico,
infatti, è oggi etichettato chiunque non accetti supinamente e in modo
irriflesso l’ordine delle cose, osando far valere prospettive non
allineate con l’esistente o, comunque, tali da eccederne gli angusti
perimetri.
In un rovesciamento integrale del suo
significato originario à la Marx, la critica delle ideologie finisce
allora per essere convertita in legittimazione dell’esistente, rispetto a
cui, appunto, ogni visione alternativa è immediatamente esorcizzata
come pericolosamente ideologica. Il solo pensiero non ideologico – così
recita il virtuoso coro dei cani da guardia del potere – è sempre e solo
quello che riproduce il reale nella sua effettiva configurazione,
facendo dell’immaginario il semplice raddoppiamento simbolico di ciò che
è. Niente prescrizioni, per favore! Se prescrivete, siete ideologici!
Limitatevi a rispecchiare realisticamente l’esistente! Ecco qui il noto
comandamento del monoteismo del mercato: “non avrai altra società
all’infuori di questa!”. Ecco perché – mi sia consentito – mi distacco
da questo modello dominante, che peraltro – Fai docet – pretende di
imporsi come il solo possibile.
Fai mi critica per le cose che ho detto
circa la caduta del Muro di Berlino. Le ripeto, per essere chiaro. Fai
ha dalla sua il fatto che le cose che dice sono accettate dal 90 % (e
forse più) della popolazione millimetricamente manipolata, quella
popolazione disoccupata e a tempo determinato che giubila per la
rievocazione della fine dell’Unione Sovietica senza capire che si è
trattato di una tragedia geopolitica di portata inaudita. Ma si sa: nel
desolante paesaggio del neoconformismo planetario e del pensiero unico
trionfa un finto pluralismo, in cui i plurali dicono sempre e solo la
stessa cosa, sia pure variamente declinata: quello in cui viviamo è il
solo mondo possibile! Lasciate ogni speranza, voi che non vi adattate!
Rinunciate a ogni spirito di scissione! Mentre nel 1989 i condannati al
supplizio del capitalismo assoluto festeggiavano la fine del
totalitarismo rosso, gli ultimi diritti sociali di cui ancora
disponevano stavano per essere spazzati via da un capitalismo che, dopo
il 1989, si liberava finalmente del freno sovietico e poteva celebrare
indisturbatamente le sue orge. E così anche ieri: non parlo dei
prezzolatissimi intellettuali che, nel libro paga dei dominanti,
celebravano la fine del Muro e del Weltdualismus a piè sospinto su
giornali e canali televisivi; alludo, invece, a quanti – disoccupati o
schiavi a tempo determinato – pendevano scioccamente parte ai
festeggiamenti, di fatto entusiasmandosi per le loro stesse catene e
svolgendo ancora una volte la parte dei cultori ignari della loro stessa
schiavitù. Giova ricordarlo, a beneficio degli smemorati e degli
ideologi di professione: nel 1989 non ha vinto la libertà; hanno,
invece, trionfato il libero mercato e il capitale, con tutte le
conseguenze che ne sono scaturite e che stiamo quotidianamente scontando
sulla nostra pelle (non da ultimo, sul piano ideologico, l’automatica e
irriflessa identificazione tra libertà e libero mercato).
D’altro canto, nell’ex Unione
Sovietica e nei suoi satelliti finalmente divenuti “liberi” non soltanto
il dislivello tra ricchi e poveri ha raggiunto picchi mai sperimentati
prima. In maniera convergente, le aspettative di vita sono tragicamente
crollate (si parla di 7 anni circa), in forza dell’eclissi delle
garanzie sociali di cui il principio della “valorizzazione del valore”
non può farsi carico. Al danno della miseria, dello sfruttamento e della
privazione di ogni garanzia sociale, si è aggiunta la beffa, per gli
abitatori del regime sovietico nel frattempo imploso, di sentire
disinvoltamente qualificare come “liberazione” il loro transito dal
dispotismo orientale a una nuova e non meno opprimente forma di
asservimento che ha trasformato in mendicanti e in schiavi del salario
gli uomini, in prostitute e in badanti le donne. Tutto questo non sia
preso per un elogio dell’Unione Sovietica: infatti, non lo è. È, invece,
una condanna di un mondo – il nostro – che, se mai è possibile, è anche
peggiore di quello dei tempi del cuius regio eius oeconomia. Ricordo,
allora, quell’aneddoto dell’esule giunto in Occidente varcando il Muro
di Berlino. Interrogato dagli Occidentali sulla vita nel regime
comunista al di là del Muro, così rispose: “tutto ciò che dicevano su di
noi era falso; ma era vero tutto ciò che ci dicevano su di voi”.
Su euro ed Europa: vera e propria “rivoluzione passiva” in senso gramsciano, il progetto eurocratico si rivela organico alla dinamica post-1989 a) di destrutturazione degli Stati nazionali come centri politici autonomi, b) di spoliticizzazione integrale dell’economia e c)
di imposizione forzata ai popoli delle riforme neoliberali. Dal
Trattato di Maastricht (1993) a quello di Lisbona (2007), la creazione
del regime eurocratico ha provveduto a esautorare l’egemonia del
politico, aprendo la strada all’irresistibile ciclo delle
privatizzazioni e dei tagli alla spesa pubblica, della precarizzazione
forzata del lavoro e della riduzione sempre più netta dei diritti
sociali. Si è trattato di un vero e proprio colpo di stato finanziario,
in forza del quale – tramite l’imposizione di una moneta unica che non
ha tenuto conto delle diverse economie nazionali – la finanza
transnazionale ha preso a dettare indisturbatamente le regole, imponendo
agli Stati non più sovrani di aderire supinamente. Per questa via, il
continente europeo sta sempre più assumendo le sembianze
concentrazionarie di un lager economico, in cui – complici le
politiche depressive dell’austerità e della delocalizzazione forzata –
si consumano sempre nuove tragedie nell’etico e veri e propri genocidi
finanziari come quello greco. In quanto compimento del capitalismo
assoluto, l’Unione Europea segna la provvisoria vittoria del
neoliberismo e dei dominanti nella lotta di classe, come peraltro
limpidamente emerge da quelle che, con diritto, possono essere
considerate le sue tre principali tendenze economico-politiche: a)
l’abbassamento del debito tramite drastiche privatizzazioni e continui
tagli alla spesa pubblica; b) la lotta in nome della competitività
esterna, in senso globalista e mercatista, con annesso abbassamento dei
costi del lavoro e dei salari per poter reggere il confronto con le
altre realtà e con i paesi emergenti; c) l’incessante ricorso a
“manovre”, “aggiustamenti strutturali” e “riforme”, praticate sulla
carne viva della popolazione agonizzante e sempre a vantaggio del
finanzcapitalismo. Il costituirsi dell’odierna Unione Europea
corrisponde a un momento ulteriore della dialettica di sviluppo del
capitalismo absolutus. Dopo essersi liberato prima della cultura
borghese e della coscienza infelice (Sessantotto), poi della potenza
katechontica comunista (1989), il capitale doveva affrancarsi
dall’ultimo limite, ossia dalla forza statale e dal potere politico.
ancora in grado di limitare l’economico. Questo obiettivo è stato
raggiunto tramite l’Unione Europea, tempio vuoto che occulta il volto
del finanzcapitalismo e della dittatura dell’economia spoliticizzata. Il
capitale abbatte, nel ritmo del suo sviluppo, ogni barriera (politica,
culturale, nazionale, religiosa, linguistica), per imporre ovunque il
linguaggio del prezzo e la comunità del denaro.
Fai mi accusa di essere meramente
“reattivo”, di voler resistere alla globalizzazione e ai processi in
corso. Mi accusa di “utopismo”. Verissimo! E lo rivendico, con buona
pace di Fai e della sua mal celata apologetica di ciò che già è
(camuffata dietro il nobile nome di “realismo politico” e di “filosofia
politica”). Nello scenario del disincantamento globale, occorre tornare a
reincantare il mondo e a conferire un senso alle fantasie politiche
oggi mutilate. È la sola possibilità per non continuare ad agonizzare
impotenti nel tempo della morte di Dio, magari giustificandosi dietro la
“vuota profondità” (Hegel) del realismo politico, che meglio andrebbe
inteso come cinismo politico. Il vero realismo è quello à la Machiavelli
e à la Gramsci, cioè quello che conosce il reale e i rapporti di forza
per trasformarli, non per lasciarli essere! L’utopia non soltanto non
corrisponde al volto demoniaco del potere, ma non si lascia neppure
ridurre alla sterile rinuncia a occuparsi della realtà presente,
mediante fughe in avanti o verso l’altrove. Al contrario, se
correttamente intesa, essa non ha altro oggetto se non la realtà
presente, nel tentativo di prefigurare, all’interno dell’oggi, una
condizione alternativa. In termini blochiani, la docta spes
dell’utopia rende visibile il domani dell’oggi. In quanto espressione –
con la sintassi gramsciana – di una “fantasia concreta”, il pensiero
utopico si rifiuta di esaurire il possibile nell’effettuale. Fa balenare
possibilità alternative e, per ciò stesso, pone in essere nuove
immagini del mondo da contrapporre operativamente all’esistente. Nessuna
fuga in avanti futuristica, dunque: ma solo una onesta e, se si vuole,
realistica considerazione del presente come storia e come possibilità.
Il realismo di Fai si mostra altamente irrealistico, perché trascura
appunto possibilità e storia: dimentica il fatto che l’essente è
dinamico e sporgente sull’avvenire, non è un “solido cristallo” (Marx)
che fieri nequit (Gentile). E con questo il discorso sarebbe appena cominciato. Ma mi fermo qui. Ad maiora.
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