ripubblicare è d'obbligo, martelun
Euroexit e salari
Gennaro Zezza
Prosegue il dibattito suscitato dallo studio di Realfonzo e Viscione che ha messo in luce gli effetti positivi di una uscita dall’euro ma anche i rischi per il mondo del lavoro. Dopo gli interventi di Salvatore Biasco e del Keynes blog, secondo i quali è necessario permanere nell’euro per evitare conseguenze
a loro avviso molto gravi, pubblichiamo un intervento diametralmente
opposto di Gennaro Zezza. L’autore considera “apocalittiche” le
posizioni di Biasco e del Keynes blog, ma ritiene anche eccessive le
preoccupazioni di Realfonzo e Viscione sui rischi salariali e
occupazionali, sostenendo che l’euroexit sia necessaria per praticare
politiche di pieno impiego.
***
L’intervento di
Realfonzo e Viscione sulle possibili conseguenze di una uscita dell’Italia dall’eurozona sta suscitando un certo dibattito. Il commento di
Salvatore Biasco prefigura
scenari apocalittici, dati dalle ripercussioni sui bilanci bancari del
deprezzamento delle attività finanziarie in “nuove valute”. La redazione
di
Keynes blog sembra
concordare con Biasco sulle conseguenze catastrofiche, per il sistema
finanziario internazionale, di una rottura della eurozona, ed enfatizza
il modesto impatto che la svalutazione di una “nuova valuta” avrebbe
sulla crescita.
Uno dei motivi di maggiore
preoccupazione, per Realfonzo e Viscione, è dato dall’impatto che la
svalutazione conseguente all’uscita dall’eurozona avrebbe sui salari,
preoccupazione confortata dalla loro analisi storica di precedenti
episodi di crisi valutarie. Su questo punto c’è però da valutare quanto
il permanere nell’eurozona costituisca un beneficio per i lavoratori,
almeno in termini di salario. La risposta, come è evidente dal caso
greco, è senz’altro negativa, ma su questo torneremo nel seguito.
Un aspetto che accomuna le diverse
analisi citate è la convinzione per cui l’uscita di un Paese – in
particolare dell’Italia – dall’ eurozona implicherebbe certamente una
svalutazione della nuova lira, svalutazione di grandezza imprecisata, ma
che molti indicano del trenta per cento rispetto all’euro (nel caso in
cui l’Italia sia l’unico Paese ad uscire) o alla nuova valuta della
Germania. Non c’è dubbio che vi siano dei differenziali di competitività
di prezzo tra i Paesi dell’eurozona, ma questi sono dovuti in larga
parte alla politica di compressione dei salari attuata in Germania nei
primi anni dell’euro, mentre i divari di competitività tra Italia e
Francia, o Italia e Spagna, sono molto più contenuti. Nel caso in cui
l’eurozona si dissolva, è quindi altamente probabile che il nuovo marco
tedesco si rivaluterebbe in modo consistente rispetto alla nuova lira,
ma che la lira debba perdere valore rispetto al nuovo franco, o la nuova
peseta, o al dollaro statunitense, è tutto da dimostrare.
Il tasso di cambio di una valuta dipende
dalla sua domanda sui mercati internazionali rispetto all’offerta, e
queste a loro volta dipendono dal saldo commerciale, da un lato, e dagli
investimenti di portafoglio dall’altro. Per quanto riguarda il saldo
commerciale italiano, non è affatto evidente che questo spingerebbe
verso il deprezzamento della lira. Il saldo delle partite correnti
italiane è migliorato sia per gli effetti della crisi – che deprime le
importazioni – ma anche per la buona tenuta delle imprese italiani sui
mercati internazionali, soprattutto quelli esterni alla zona euro. Ad
esempio, in una ricerca recente[i] del Fondo Monetario
Internazionale si nota che – nonostante gli indicatori di competitività
basati sul costo del lavoro per unità di prodotto dovrebbero suggerire
un tracollo dell’export italiano – la performance delle nostre imprese è
stata di tutto rispetto, relativamente a quella di Paesi simili. La
domanda di lire connessa alle nostre esportazioni potrebbe dunque più
che compensare l’offerta di lire contro valuta necessaria per le
importazioni.
La nuova lira potrebbe invece svalutarsi –
dopo l’euroexit – se si consentono operazioni speculative sui mercati
finanziari. E’ noto come questo tipo di scommesse speculative possano
autorealizzarsi: se i mercati si aspettano una svalutazione della lira
rispetto al nuovo marco tedesco, venderanno titoli in lire per
acquistare titoli in marchi, aumentando quindi l’offerta di lire contro
marchi e spingendo verso la svalutazione. A mio avviso, è questo il
motivo per cui di recente il governo tedesco è riuscito a collocare
titoli a tassi di interesse negativi: se l’acquirente americano si
aspetta una rottura dell’euro, e una rivalutazione del nuovo marco del
trenta per cento, il guadagno in conto capitale è elevato anche in
presenza di tassi di interesse nulli.
Nella prima fase successiva all’euroexit,
queste operazioni devono quindi essere regolamentate. Una volta
stabilizzati i mercati finanziari, e mostrata la possibile stabilità
della nuova lira rispetto al dollaro e alle altre valute (e ad un nuovo
marco tedesco rivalutato), le regolamentazioni dei mercati finanziari
possono essere riviste.
Se questo scenario di stabilità del
valore della nuova lira è realistico, le argomentazioni di Biasco ed
altri sui cataclismi nei bilanci bancari sono prive di fondamento. Come
anche sono poco motivate le preoccupazioni di Realfonzo e Viscione sulla
perdita di potere d’acquisto dei salari che seguirebbe la svalutazione
della nuova lira.
Poiché alcuni argomentano a favore
dell’euroexit perché ritengono indispensabile un riallineamento dei
cambi, lo scenario che ho prospettato potrebbe deludere: se non si
svaluta, perché abbandonare l’euro?
Perché un governo che intenda perseguire
la piena occupazione (a salari dignitosi) come obiettivo primario non
può farlo nell’ambito dei Trattati.
Nonostante gli sforzi per adeguarsi ai
vincoli del Trattato di Maastricht, le economie periferiche
dell’eurozona, al momento dell’adozione dell’euro, facevano registrare
dei differenziali di inflazione con la Germania. In aggiunta, la
Germania ha adottato – nei primi anni di vita dell’euro – una
compressione dei salari e una precarizzazione del lavoro che ha
comportato un periodo di bassa crescita, e ha ampliato i divari di
competitività di prezzo. Nel mentre, la periferia dell’eurozona, che
poteva beneficiare di tassi di interesse reali più bassi, ha fatto
registrare tassi di crescita più elevati. Le differenze nei tassi di
crescita e, in misura minore, nei divari di competitività, hanno
implicato crescenti squilibri commerciali tra il “centro” (la Germania) e
la “periferia”, che hanno retto fin quando il sistema finanziario del
centro era disponibile a finanziare i crescenti debiti del settore
privato greco, spagnolo, ecc. In assenza di meccanismi automatici di
trasferimento fiscale nell’eurozona, e in mancanza di una seria politica
di investimenti mirata a ridurre la dipendenza dall’estero di economie
come quella greca, questi processi avrebbero portato ad una crisi anche
in assenza di shocks esterni come la Grande recessione del 2007/8.
In aggiunta, la proibizione alla BCE del
suo potenziale ruolo di prestatore di ultima istanza nei confronti dei
governi costringe all’adozione di politiche di austerità fiscale come
unico strumento per ridurre il rapporto tra debito e PIL dove questo è
elevato, come in Italia.
Come fa notare Jan Kregel[ii], se consideriamo la nota identità contabile data dai saldi settoriali
S-I = DEF+CA
Dove S-I è il saldo tra risparmi ed
investimenti del settore privato, uguale all’acquisizione netta di
attività finanziarie; DEF è il deficit pubblico, e CA il saldo delle
partite correnti, una politica di austerità fiscale che riesca ad
annullare il deficit – a parità di saldo con l’estero – implica una
caduta dei risparmi rispetto agli investimenti. Se questi ultimi si
riducono, rafforzano l’effetto recessivo dell’austerità fiscale. Se
viceversa a cadere sono solo i risparmi, la differenza investimenti e
risparmi va inevitabilmente finanziata da parte del settore estero. Ma
il settore privato sta oggi cercando di ridurre il suo livello di
indebitamento, e cioè sta cercando di aumentare il saldo tra risparmi e
investimenti. L’austerità fiscale può quindi funzionare solo se il saldo
dei conti con l’estero migliora in modo da più che compensare
l’austerità fiscale e il deleveraging del settore privato.
Queste compatibilità macroeconomiche sono
ben chiare, e da qui l’enfasi sulle “riforme” che dovrebbero portare ad
un aumento della competitività tramite la caduta dei salari e lo
smantellamento del sistema del welfare. L’adesione all’euro non ha
comportato solo la cessione della sovranità monetaria, ma anche la
rinuncia all’utilizzo della politica fiscale (su questo punto sarà
interessante verificare gli esiti delle trattative del nuovo governo
greco) e l’adozione di politiche dei redditi che deprimono il salario,
come dimostrato in modo eclatante dalla
lettera di Trichet e Ordones a Zapatero
nel 2011, da poco resa pubblica, in cui venivano elencati gli
interventi da implementare con urgenza sul mercato del lavoro spagnolo.
Ma la contestuale riduzione dei salari
nominali – e dei salari reali – in tutte le regioni di un’area
commerciale integrata come l’eurozona lascia invariata la competitività
di ogni Paese rispetto ai partners dell’area: l’unico impatto potenziale
sull’export è dato quindi dal miglioramento nella competitività di
prezzo rispetto ai Paesi extra-EZ.
La riduzione nei salari nominali è
probabilmente più efficace nell’aumentare i margini di profittabilità,
ma che questo implichi un aumento negli investimenti e nella crescita è
tutto da dimostrare.
Un governo “di sinistra” che voglia
rovesciare le priorità di policy non può quindi sopravvivere nelle
regole dei Trattati: l’uscita dall’euro è condizione necessaria, anche
se non sufficiente, per ipotizzare politiche che ripristinino la
centralità del lavoro.
[i] Andrew Tiffin, ‘European
Productivity, Innovation and Competitiveness: The Case of Italy’, IMF
Working paper, WP/14/79, May 2014. Diverte notare che l’articolo del FMI
si chiude con una raccomandazione ad implementare riforme strutturali,
senza aver mostrato alcun nesso logico tra queste e la performance
dell’export italiano.
[ii] Jan Kregel, ‘Europe at the
crossroad: financial fragility and the survival of the single currency’,
Levy Economics Institute, Policy Note 2015/1.
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