Abbiamo ridotto la donna a utero, i figli a prodotto,
la nascita a fabbricazione. Quello che non vogliamo vedere
marzo 16, 2015
Emanuele Boffi
Ecco
cosa ha portato la fantasia tecnologica. Ma questo non è il futuro, è l’Occidente
di oggi, guidato da una grande illusione: “All you need is love”
«La
civiltà è sterilizzazione». Aldous Huxley, Il mondo nuovo,
1932.
Ci
sono cose che non vogliamo vedere. Ad esempio che «il mondo nuovo è già qui»,
come scrive Eugenia Roccella nel libro in uscita la settimana prossima per
Cantagalli (Fine della maternità). A descriverci scenari che per Aldous
Huxley erano solo figli di fantasie distopiche è la cronaca. Settimana scorsa i
giornali inglesi hanno raccontato la vicenda di una famiglia in cui una madre si è
fatta impiantare nell’utero un embrione prodotto con lo sperma del figlio. Il
bambino, che ora ha già sette mesi, può a ragione affermare di essere figlio di
suo fratello e di sua nonna. Non è che l’ultimo caso in ordine di tempo e basta
stare un po’ attenti alle notizie che ci arrivano da ogni parte del mondo per
accorgersi che ciò che fino a ieri ci pareva certo e inconfutabile perché
inscritto nel perimetro della maternità e della filiazione è oggi confuso,
labile e interpretabile. Una slavina (o un progresso, a seconda dei punti di
vista) che pare inevitabile. Dunque, perché opporsi?
Intanto,
però, accadono cose che non vogliamo vedere. Dieci giorni fa, ad esempio, è
apparsa un’altra notizia cui si è dato poco peso, facendola scomparire
rapidamente dalle pagine dei quotidiani: la Thailandia ha vietato l’utero in
affitto. Il paese che per trent’anni ha tollerato la pratica della maternità
surrogata ha detto basta: «Vogliamo impedire che la Thailandia diventi l’utero
del mondo», ha spiegato un parlamentare. La nuova legge impedisce agli
stranieri di usare le donne thai per partorire i figli. Non possono più
presentarsi, pagare, ritirare il bambino come fossero in un supermercato. Sono
previste pene severe, fino a dieci anni di carcere.
Ci
sono cose che non vogliamo vedere, appunto. Ma i thailandesi, invece, hanno
smesso di chiudere gli occhi dopo che il paese è stato scosso dalla vicenda di Pattaramon Chanbua, una ragazza di 21 anni,
che, dietro il compenso di 12 mila euro, aveva affittato l’utero a una coppia
australiana per poi essere abbandonata quando aveva scoperto di attendere un
figlio down. O quella di Mitsutoki Shigeta, un giapponese che aveva messo in
piedi una sorta di catena di montaggio di pargoli, producendone in serie e
rivendendoli all’estero.
Le
cose che non vogliamo vedere tornano a galla caparbiamente. Occorre una
raffinata strategia per lasciarle nel cono d’ombra o ai margini
dell’inquadratura. Ricordate l’immagine dei due uomini omosessuali in sala
parto con un bambino in braccio? Lo scatto fece il giro del mondo. I due,
avvinghiati e in lacrime, tenevano stretta al petto la testolina ancora bagnata
del liquido amniotico materno. Si abbracciavano tra loro e abbracciavano
commossi il piccolo. Su un lato di una delle immagini scattate in sala parto
appariva un profilo femminile. Era quello della donna che di quel bambino era
stata l’incubatrice per nove mesi. Espressione stravolta, occhi stanchi. Tanto
che, in un’immagine pubblicata successivamente, fu tagliata, fatta sparire,
tolta. Una comparsa. Lei era “solo” la madre. Lei aveva “solo” prestato
l’indispensabile utero. Non era una mamma, era un utero. La madre di quel
bambino non era più sua madre. Rileggete questa frase senza senso: la madre non
è più la madre. È una prestatrice d’opera, e il fatto che lo faccia dietro
compenso o gratuitamente è quasi un corollario rispetto al grande inganno
antropologico di cui stiamo cercando di autoconvincerci.

Ambizioni
superomistiche
Ci sono cose che non vogliamo più vedere perché, come scrive
Roccella, «una volta accettato che l’embrione possa essere non il frutto di un
rapporto d’amore tra un uomo e una donna, ma il prodotto di una manipolazione
in laboratorio, una tecnica vale l’altra». Ammantando tutto di un amore
rimpicciolito a contraccolpo emotivo, abbiamo permesso di declassare a
questioni burocratico-giuridiche tutti i limiti che la natura ha posto alle
nostre ambizioni superomistiche. Se io voglio avere un figlio perché non posso
averlo? Che siano gli ingegneri a renderlo possibile tecnicamente e i giuristi
a giustificarlo legalmente. È ciò che sta accadendo in tutto il Mondo Nuovo
occidentale che ha trasformato i figli in prodotti da scaffale, la famiglia in
un’azienda, la nascita in una fabbricazione. Come ha detto Fabrice Hadjadj a Tempi,
«non è più questione di teoria, ma di pratica, di mezzi efficaci per produrre
al di fuori dei rapporti sessuali degli individui più adatti, più performanti».
Poi succedono i pasticci, gli errori, i casini. Roccella si sofferma sul famoso episodio accaduto all’ospedale Pertini
di Roma dove ci fu uno scambio di embrioni e una donna portò in grembo e
partorì il figlio di un’altra coppia. Una vicenda che, sebbene accaduta prima,
fu raccontata solo dopo che la Corte Costituzionale aveva cancellato il divieto
all’eterologa contenuto nella Legge 40. Eccola lì la “cosa” che non volevamo
vedere: «Chissà cosa sarebbe successo – scrive Roccella – se la notizia fosse
stata resa nota quando effettivamente avrebbe dovuto esserlo, cioè alla fine di
marzo, quando il Centro di procreazione del Pertini avrebbe dovuto comunicare
al Centro nazionale trapianti e al ministero della Salute il grave evento
avverso». Già, chissà.
Però,
intanto, proprio quel caso di «eterologa involontaria» spiega assai bene cosa
accada nel mondo dove «la fantasia tecnologica è al potere». Accade che nel
mondo fatato da cui è stata espunta la maternità, in mancanza di un contratto,
«non c’è più un criterio per capire chi sia la vera madre del bambino». Chi
sono i genitori? Quelli che hanno messo a disposizione il patrimonio genetico o
colei che ha nelle viscere il “prodotto”? È un rebus irrisolvibile, un
labirinto senza uscite. Per determinare chi è la madre non possiamo più
affidarci alla vecchia idea che è colei che partorisce, ma dobbiamo andare a
vedere cosa è stabilito nel contratto. In ciò che è stato pattuito tra i due
omosessuali e la gestante, tra la coppia e la madre surrogata, tra il single e
la donatrice di ovulo, tra il donatore di sperma e… eccetera eccetera. In un
proliferare di figure genitoriali, in cui ognuno mette il suo pezzetto, si
finisce col dover mettere sotto contratto tutte le possibili ipotesi per
evitare danni, recriminazioni, cause, risarcimenti. Altro che amore. Come
scrive giustamente Roccella, «la natura della nuova genitorialità è la
contrattualità, casistiche dettagliate, obblighi legali e, infine, sanzioni
penali in caso di violazione del contratto». Poi succede come al Pertini e
tutto quel che abbiamo nascosto sotto cavilli e procedure esplode
fragorosamente: chi è la madre di questo bambino? Per paradosso, nota Roccella,
nel rompicapo romano si è reso manifesto che «il padre è l’unico genitore
naturale individuabile univocamente. Adesso dobbiamo dire pater semper certus
est, la madre… qualche volta».
La
grande offerta delle biobanche
«Non basta che le formule siano buone; dovrebbe essere buono
anche ciò che se ne ricava», scriveva Huxley. Ciò che oggi non si vuol vedere è
che il mantra del «love is love» ha conseguenze nefaste innanzitutto per i
soggetti che dovrebbero essere i destinatari di quell’amore: i bambini. I figli
sono proprio i grandi dimenticati di tutta questa storia. Sebbene sia nel loro
nome che tutto viene fatto, sebbene si giuri che ciò che conta è che siano
amati, poi è proprio la loro figura a essere tagliata fuori dalla fotografia.
Oppure a essere modellata in modo che non rovini la scena. Perché non basta più
che il bimbo sia sano. Le biobanche dei gameti offrono veri e propri cataloghi
con le caratteristiche dei donatori. E le richieste sono per quelli alti,
biondi, con gli occhi azzurri e due master a Princeton, non certo per diplomati
tarchiati e con calvizie precoci.
Il
volume di Roccella è ricco di esempi e storie che non vogliamo vedere. Dalla
vicenda del donatore di sperma belga 7042, che ha trasmesso ai suoi indefiniti
figli una patologia rara e devastante, a quella del trio di lesbiche (throuple)
in cui ognuna vuole il “suo” bambino. Dai siti di co-genitorialità che spiegano
come regolare i rapporti tra persone che non vogliono formare una coppia ma
sono disposti a unirsi per “fare” un figlio, alle storie dei figli
dell’eterologa che rivelano la grande «opera di mistificazione» con cui sono
stati “prodotti”. Come racconta nel suo blog Lindsay, giovane americana nata
nel 1985 da una madre single e da un donatore di sperma: «Paul McCartney disse
una volta “All you need is love”, “tutto ciò di cui hai bisogno è l’amore”;
però non è vero, malgrado ci siano tanti, tra coloro che hanno concepito grazie
a un donatore, che vorrebbero crederlo. Sembra che ci sia una soverchiante
maggioranza di madri gestazionali sinceramente convinte che finché amano il
proprio figlio, a lui non mancherà il padre biologico. Vorrei alzare la mano e
dire che è un’insensatezza».
Perché
l’amore, a partire dal sesso, ha sempre delle conseguenze che chiedono di
essere affrontate, non eluse. Nasconderle si può, ma solo momentaneamente. Poi,
cresciute e diventate grandi, quelle “conseguenze” inizieranno a rivolgere ai
genitori domande ancestrali sulla loro origine per avere qualche suggerimento
sul cammino che sono chiamati a intraprendere in questa valle di lacrime. E
sono questioni di sangue cui non si può rispondere indicando il numero di un
barattolo o di una siringa.
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