Il lato oscuro, “darkness”
In questo incisivo articolo, pubblicato nel CdT, l’imprenditore Alberto Siccardi ci dà la sua personale interpretazione del “too big to fail”. Attenzione, stiamo parlando di stati e non dell’UBS!
Purtroppo quello che io chiamo il
“liberalismo integrale” di Siccardi, vice presidente di Area Liberale e
candidato al Gran Consiglio, risulta indigesto a molti, troppi stomaci.
Non c’è solo il “fascino discreto della borghesia” (Bunuel). C’è ancor
più il fascino discreto dello Stato, del privilegio corporativo, del
clientelismo, del parassitismo, dell’immobilismo.
Morisoli, Pamini e Siccardi, coraggiosi moschettieri liberali, vi aspetta una dura battaglia.

Si
parla molto del debito pubblico, c’è chi lo teme per principio e chi è
più possibilistico verso un suo utilizzo calcolato e limitato nel tempo,
come un investimento intelligente che darà i suoi frutti. Bello! E
accattivante. Questo però non succede agli Stati, ma solo alle aziende
ben amministrate, che riescono poi così a restituirlo a chi lo ha
erogato. Le aziende male amministrate, invece, si indebitano troppo e
falliscono, con conseguenze gravi per la società e l’occupazione.
Peggiori sono le conseguenze dei debiti degli Stati, che durano e
crescono nel tempo.
In presenza di un disavanzo annuale
cronico, cioè quando lo Stato spende più di quanto incassa, esso non
fallisce. Diversi motivi, tutti portatori di conseguenze sottovalutate e
difficilmente rimediabili, fanno sì che uno Stato di solito possa
continuare ad aumentare il suo indebitamento. E gli Stati lo fanno da
decenni. Le banche infatti, a differenza che con le aziende, non negano
credito agli Stati. Molti Stati hanno cumulato debiti enormi, senza
fallire. Oltre a farsi finanziare dalle banche, essi fanno anche cassa
aumentando le tasse ai cittadini, prendendo dalle loro tasche parte del
frutto del loro lavoro e dei loro averi. E lo possono fare con una
semplice legge. Quando poi il prelievo fiscale supera certi livelli, la
gente spende meno, i consumi diminuiscono, rallenta l’economia e mancano
le risorse per gli investimenti, anche perché la gente ha paura e
risparmia. Ed è crisi economica.
Ma c’è di peggio. Oltre alla
disoccupazione, più dolorosa se giovanile, la depressione della società,
la delocalizzazione delle imprese e l’emigrazione dei cervelli, uno
Stato indebitato e ad alta tassazione crea dei disequilibri anche nel
mondo del lavoro e nel funzionamento stesso della democrazia.
La disoccupazione, per esempio, non
tocca i dipendenti pubblici, ma solo i privati (solo in Grecia si è
avuto il coraggio di diminuire drasticamente i salari pubblici). Di
solito non si toccano neanche le carriere, né i privilegi della casta
pubblica, né si limitano seriamente le assunzioni e si cade nel
clientelismo con facilità.
Il motivo è banale (ma ampiamente
sfruttato da chi ha il potere decisionale): più si assume, più si avrà
una base elettorale solida al momento delle elezioni, costituita da un
apparato statale interessato a mantenere lo stato di cose inalterato. E
la stessa base elettorale si amplia con favoritismi economici a terzi,
che si allineeranno sempre al volere di chi governa.
Vi è inoltre un aspetto sociale
deteriore in tutto questo: chi viene assunto in questa situazione, non è
motivato e matura una mentalità parassitaria, dannosa nel tempo a tutta
la società. Si calcola che in Ticino il 20% degli elettori sia
influenzato dai rapporti, di lavoro e no, con lo Stato e non abbia
interesse a cambiare l’assetto politico del Cantone. Se poi pensiamo
che, proprio a causa di questa situazione, il 40% dei cittadini non vota
perché convinto che sia inutile (il famoso «tanto non cambia niente»),
comprendiamo facilmente come un 20% di voti interessati incida per il
33% sul rimanente 60% di votanti, fino a rendere il cambio politico
praticamente impossibile. Il Paese è democraticamente e lavorativamente
azzoppato? Forse è giusto dire, con un eufemismo, che non funziona come
dovrebbe. Ma è grave, socialmente ingiusto.
Vi è anche un altro aspetto del debito
pubblico, molto preoccupante: il rapporto fra governi e banche. Teniamo
presente che i governi (non il nostro per ora) finanziano sì il loro
debito con le tasse, ma anche e molto con i prestiti dalle banche e che
con queste risorse mantengono il loro potere politico pagando il
clientelismo.
Si comprende così che questi governi non
abbiano né la voglia né il coraggio di fare riforme che riportino le
banche alla loro missione primaria, a prestare cioè soldi alle imprese e
alle famiglie. Esse preferiscono impegnare tempo e risorse in
speculazioni finanziarie, rischiando il fallimento, e i governi devono
lasciarle fare, essendo da esse finanziati. Banche e governi a
braccetto, insieme a falsare sia il gioco democratico che l’attività
lavorativa nella nostra società, in un’alleanza perfetta. Ecco cosa si
può nascondere dietro una nazione indebitata. Essa è una struttura
economicamente e socialmente malata, dove poco spazio è lasciato ad
un’economia reale giusta e a un gioco democratico libero da interessi.
Alberto Siccardi
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