28 feb 2015
di Timoteo Rinesi
L’indicatore della variazione dei costi del
trasporto marittimo delle materie prime non si è mai ripreso dopo la
caduta libera nel 2008. Ma proprio alle porte del 2015 ha raggiunto il
minimo storico in trent’anni. E se aveva anticipato il crack che ci ha
fatto sprofondare nella recessione, oggi rischia di mostrarci qualcosa
di nuovo

Il Baltic Dry Index è un indicatore economico
che monitora la salute dell’economia globale tenendo conto del costo
medio del trasporto navale delle materie prime non liquide (dry),
escudendo quindi il petrolio ad esempio. Malgrado il nome indichi
diversamente, esso raccoglie i dati delle principali rotte mondiali e non è ristretto a quelle del Mar Baltico. Prima ancora che la nave salpi, un mediatore (shipbroker)
telefona alle compagnie di navigazione e chiede quanto costi
trasportare un determinato carico, verso una determinata destinazione.
Alcuni di questi mediatori non lavorano davvero per un cliente che
intende spedire merci attraverso gli oceani, essi lavorano infatti per
la Baltic Exchange, azienda londinese che si occupa di
raccogliere questi dati. Il mediatore segna il prezzo che gli viene
comunicato dalla compagnia di navigazione, per un carico di materie
prime. Dalla molteplicità di dati per le varie rotte si giunge così a un
indice sintetico: il Baltic Dry Index.
Perchè un indice del genere è considerato affidabile?
Perché, semplificando, costruire nuove navi richiede anni di lavoro: il
lato dell’offerta quindi non subisce improvvise variazioni. In modo
simile, rispetto agli altri il mercato delle spedizioni (la domanda) non è soggetto alla speculazione:
se prenoto una nave e una spedizione, considerati i costi, è perché ho
davvero necessità di inviare una merce da un’altra parte del globo. Al momento il Baltic Dry Index si attesta sui 511 punti, il minimo storico
raggiunto dalla sua nascita avvenuta nel gennaio dell’1985. A
coronamento di una discesa che va avanti da almeno un anno e che lo ha
visto perdere il 60% negli ultimi tre mesi.

Un brutto segno per l’economia globale, come suggeriscono gli esperti,
perchè una ridotta domanda per le materie prime denota una minore
fiducia delle aziende sulle loro prospettive economiche. Se la tendenza
non dovesse invertirsi nel prossimo futuro, potrebbe indicare
l’avvicinarsi di un’altra crisi. E questo segnale si inserisce in un quadro già pessimistico sul futuro, a cui contribuiscono il rallentamento dell’economia asiatica
e il rischio di una bolla sui mercati azionari americani, generata
dalle operazioni di Quantitative easing della Federal Reserve. Se il Baltic Dry Index ha gia anticipato con successo la crisi del 2008, il timore è che possa ripetersi una situazione analoga aleggia fra gli operatori.
Per ora gli impatti maggiori si dispiegano sugli armatori, come la Hyundai Heavy Industries, azienda sudcoreana leader nel segmento della costruzioni di navi cargo, che ha annunciato una maxiperdita di 1.84 miliardi di euro
nel bilancio del 2014. Per capire l’intensità della discesa dell’indice
basta prendere come esempio pratico il costo dell’affitto di una nave Capesize,
ovvero quelle navi con dislocamento superiore a 150.000 tonnellate
metriche, utilizzate in via esclusiva per il trasporto di materie prime.
Queste navi sono talmente grandi da non poter passare ne per il canale
di Panama nè per quello di Suez. Mentre il prezzo del loro affitto nel
periodo antecedente alla crisi, nel 2008, si attestava ad oltre 200 mila dollari al giorno,
oggi è possibile affittarle ad un prezzo compreso tra i 7 mila dollari e
i 12 mila dollari. Dopo il fallimento della danese Copenship e della
cinese Winland Ocean Shipping Corp, si attendono pesanti perdite per tutte le aziende del settore
che, spinte dalla redditività manifestata in periodi pre-crisi, hanno
deciso di lanciarsi a capofitto nella produzione di navi cargo.
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